venerdì 27 gennaio 2023

UNA SFIDA POLITICO-CULTURALE, NON SOLO GEOPOLITICA

Il secolo scorso ha insegnato che senza Stato di diritto non c’è alcun socialismo ma solo collettivismo, autocrazia, totalitarismo e via dicendo. Ed è indubbio che lo Stato di diritto sia una forma di Stato di matrice liberale, necessaria per impedire l’arbitrio del potere. Ma una lezione fondamentale del secolo scorso è pure che senza una economia di mercato non si produce quella ricchezza necessaria per difendere e rafforzare i diritti sociali ed economici. Pertanto, è necessario riconoscere che il socialismo (ovviamente inteso non più nel senso marxista, che com’è noto prescinde pressoché del tutto dalla questione decisiva della dottrina dello Stato e della difesa del pluralismo, ma appunto inteso come sinonimo di democrazia sociale) presuppone alcuni tratti essenziali del liberalismo. 

Tuttavia, è pure evidente che il socialismo è incompatibile sia con il liberismo (giacché, ad esempio, in un’ottica socialista la stessa produzione di ricchezza è in funzione di una democrazia sociale, che presuppone che il lavoro  - ma pure l’ambiente - non possa essere trattato come una mera merce e in cui praticamente il mercato, benché sia anche “matrice di pluralismo”, è soprattutto uno “strumento” del Politico per produrre ricchezza)*, sia con l’atomismo sociale, ossia quella forma di individualismo secondo cui l’individuo non è in primo luogo un individuo sociale o, se si preferisce, una persona, nel senso forte del termine (quindi non solo in senso morale ma anche, almeno sotto certi aspetti, “ontologico”, come ritiene la stessa dottrina sociale del cattolicesimo)

Sotto questo profilo è però essenziale anche il rapporto del socialismo con il comunitarismo. Benché si tratti di una categoria politica “vischiosa” e ambigua, in quanto può designare pure una concezione totalitaria e/o organicistica” tipica di concezioni politiche illiberali, non è un caso che il comunitarismo sia una categoria politica al centro del dibattitto della filosofia politica da decenni anche e soprattutto nel mondo di lingua inglese. Vale a dire che, anche ammesso che il comunitarismo sia una categoria politica da “maneggiare con cautela”, una concezione non illiberale del comunitarismo è necessaria proprio per evitare di scindere la questione dei diritti sociali ed economici da quella dei diritti civili (una scissione che fa apparire la stessa democrazia liberale come una sorta di ossimoro). 

Il comunitarismo, inteso in questo senso, dovrebbe pertanto funzionare come un “collante” tra libertà e giustizia sociale (e quindi anche tra libertà e democrazia), rafforzando le “forme di diaframma umano tra individuo e Stato”, per usare il lessico di Adriano Olivetti. In questa prospettiva - ossia in una prospettiva socialista non illiberale o, se si preferisce, democratica – è lecito affermare che il comunitarismo è necessario per ridefinire e rafforzare la relazione tra  giustizia sociale - senza la quale nell’età tecnoscienza non è possibile alcuna autentica “fioritura umana” (che, del resto, era la caratteristica essenziale del liberalismo antico ossia quello dei Greci) - e libertà individuale (pure l'uguaglianza dei singoli individui di fronte alla legge presuppone comunque che l'individuo conti anche in quanto tale; perciò  non si può nemmeno condividere la distinzione tra libertas maior e libertas minor, nella misura in cui sminuisce l'importanza dei diritti individuali fondamentali).

D’altronde, una concezione comunitarista non illiberale è anche necessaria per contrastare con successo quella ideologia del progresso (da non confondere, si badi, con la nozione di progresso) in base a cui lo sviluppo “illimitato” delle forze tecnico-produttive dovrebbe generare pressoché necessariamente un progresso politico, sociale, economico e culturale, mentre non solo una tale ideologia ha trasformato o perlomeno contribuito  a trasformare la stessa socialdemocrazia in una forma di neoliberalismo e di neoliberismo ma ha reso possibile anche un “distorto” e perfino disastroso rapporto dell’uomo con l’ambiente, in cui e grazie a cui è possibile la vita, inclusa ovviamente quella degli esseri umani.

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Ciò nonostante, il fallimento del marxismo (un fallimento “sostanziale”, si intende, dato che comunque il pensiero di Marx e lo stesso marxismo offrono alcune utili “chiavi di lettura” della realtà sociale contemporanea) sembra avere aperto una sorta di “falla pericolosa” nella cultura politica europea che favorisce (a prescindere da patetici, anche se non affatto innocui, “esercizi di nostalgia”) nuove e diverse concezioni politiche che, benché siano difficili da definire, dato che non raramente si caratterizzano per una mescolanza di categorie politiche e culturali non solo differenti ma perfino opposte, hanno però in comune l’avversione nei confronti dell’Occidente e in particolare nei confronti della potenza egemone occidentale. Facile dunque essere sedotti dal “fascino geopolitico” di autocrazie che si contrappongono al liberal-capitalismo occidentale o ai cosiddetti “valori occidentali”, sebbene, di fatto, condividano gli stessi obiettivi del capitalismo predatore occidentale e non siano neppure costrette a fare i conti con un sistema di contropoteri, giacché la loro azione politica non è  limitata da “vincoli” liberali o democratici.

Al riguardo, si dovrebbe tener conto che già nella prima metà del secolo scorso vi erano ottime ragioni per opporsi all’imperialismo occidentale e alle storture del liberal-capitalismo. Legittima e necessaria era cioè la critica dell'imperialismo anglo-americano e francese. Nondimeno, riconoscere la legittimità e necessità di questa critica non equivale certo a giustificare la politica delle potenze dell'Asse o lo stalinismo. Insomma, vi erano mille ragioni per opporsi all’imperialismo occidentale e al sistema di potere liberal-capitalista ma non ve n’era nessuna per difendere il cosiddetto “socialismo reale” (nel senso che non costituiva una alternativa valida all'Occidente liberal-democratico, benché non sia possibile mettere sullo stesso piano il comunismo o l'Unione Sovietica - la cui storia non è neppure solo la storia dello stalinismo - e il nazismo, che, del resto, venne sconfitto grazie anche al contributo e al sacrificio dei popoli dell'Unione Sovietica) o la politica di prepotenza delle potenze “have not”, che miravano a rovesciare la scacchiera geopolitica al fine di istituire un nuovo ordine mondiale di gran lunga peggiore e più feroce di quello liberal-capitalista*. 

Peraltro, anche oggi anzi oggi più che mai è necessario opporsi alla prepotenza del capitalismo predatore e alla tracotanza dell'Occidente neoliberale. Mai come ai nostri giorni, infatti, il processo di civilizzazione rischia di degenerare in una terrificante forma di barbarie, che solo una politica capace di difendere libertà e giustizia sociale e che non ignori il diritto dei popoli può impedire. Ma la storia del secolo scorso sembra non avere insegnato nulla. Si ripetono così gli ignominiosi e grotteschi luoghi comuni contro le cosiddette "demoplutocrazie", quasi che libertà, Stato di diritto e democrazia (democrazia sociale inclusa, si intende) non si dovessero difendere e rafforzare ma abolire del tutto, e come se gli orrori dello stalinismo e il fallimento dell’Unione Sovietica e in generale dei regimi comunisti non fossero mai esistiti. (La Cina rappresenta, in effetti, un caso a sé ma, benché sia discutibile - come ha insegnato Giovanni Arrighi - definire il cosiddetto “socialismo di mercato” con caratteristiche cinesi un sistema capitalista, è innegabile che, nonostante i notevoli successi sotto il profilo economico, il regime politico cinese sia anche nazionalista e presenti marcati tratti illiberali, tanto che attualmente è difficile capire se anche il gigante cinese si lascerà tentare da una politica di potenza e, in sostanza, imperialista). 

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In questo senso, la guerra che si combatte in Ucraina è una tragedia che impone scelte difficili e dolorose. Difatti, è palese ormai che la Russia di Putin mira a creare un impero in grado di contrapporsi alla Nato e perfino alla civiltà europeo-occidentale nella misura in cui è caratterizzata da una concezione non illiberale della vita. L'Ucraina non può quindi, per il Cremlino, che essere una "regione" della Grande Russia, ovverosia dovrebbe rassegnarsi ad essere inglobata nello spazio geopolitico della Russia e sottomettersi alla volontà del nuovo “zar russo”.

Invero, il regime di Putin (che non si deve assolutamente confondere con la Russia o il popolo russo, giacché la russofobia è un veleno che non deve scorrere nelle vene dell'Occidente) non è stalinista e nemmeno fascista. Il cosiddetto “putinismo” - che manda in solluchero non pochi nazional-populisti, neofascisti o neocomunisti occidentali - è una sorta di mescolanza di tradizionalismo, stalinismo, militarismo e nazional-populismo, ovverosia un’ideologia mortifera che esige che le madri russe siano fiere che i loro figli muoiano “per la patria”, ossia per le ambizioni imperiali del regime di Putin, anziché condure una vita di stenti o annegare nella vodka. 

Che fare allora? Non è forse l’idea stessa di un'Europa come ponte necessario tra Occidente e Oriente che proprio lo “zar russo” ha distrutto con la sua improvvida e scellerata decisione di aggredire l’Ucraina nello scorso febbraio? Naturalmente non si possono ignorare, come invece fanno i neoliberali, nemmeno le responsabilità dell’America, della Nato, dell’Unione europea e dello stesso regime nazionalista ucraino. Il mondo, si sa, non si divide tra buoni e cattivi, anche se talvolta si divide tra amici e nemici, e dunque vi è chi sostiene che anche questa volta deve prevalere la logica secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico. Ma chi sarebbe il nemico?

Nel secolo scorso si seppe rispondere a questa domanda, anche se forse allora era meno difficile decidere chi fosse se non il nemico almeno il nemico principale. Tuttavia, è indubbio che gli ucraini adesso stiano combattendo una guerra di liberazione nazionale (indipendentemente dal fatto che si combatta anche una guerra civile e vi sia pure un  “braccio di ferro” tra la Nato o l'America e la Russia)**. D'altra parte, perfino più che la presenza di estremisti nazionalisti e banderisti nelle file ucraine (si pensi, ad esempio, all’Azov, ma come ignorare la presenza nelle file russe del Gruppo Wagner?)***, è il fatto che al fianco degli ucraini vi sia la Nato (e in specie l’America) che impedisce a molti di riconoscere le ragioni del popolo ucraino. Questo è certo un problema serio, sebbene sia ignorato dagli euro-atlantisti, ma chi si batte per liberare il proprio Paese dall’invasore si batte comunque per la libertà (una lotta di liberazione nazionale è comunque una lotta per la libertà, anche se sotto il profilo ideologico il conflitto tra la Russia e l'Occidente si può configurare come un conflitto tra autocrazia e oligarchia neoliberale), tanto è vero che si sono sostenuti anche regimi assai peggiori di quello di Kiev solo perché si battevano contro l’invasore.

Alla domanda “Che fare?”, quindi, chi condivide una concezione politica non illiberale del socialismo e del comunitarismo non può che rispondere che bisogna battersi sì per la pace, ma per una pace “giusta”. E “giusto” in politica è in primo luogo fare ciò che è necessario per tutelare il “ben-essere” della propria comunità, non solo materiale ma anche “morale”. In altri termini, si deve difendere la vita contro la morte ma senza dimenticare che la vita è “più che vita”. D’altronde, nonostante che la “pulsione di morte” sembri avere preso il sopravvento nelle relazioni internazionali, una pace “giusta” non è impossibile, giacché pure in Occidente non mancano coloro che in questi terribili undici mesi di guerra hanno dimostrato di sapere che la necessità di aiutare l’Ucraina a difendersi (certo con la diplomazia ma anche, nella misura in cui è necessario, con le armi) non significa che si debba superare quel “confine” oltre il quale nessuna pace sarebbe più possibile.


*Meglio usare questo termine piuttosto che quello di Stato, a meno che per Stato si intenda uno Stato di diritto che garantisca una forma di autentico pluralismo. In altri termini il Politico, ossia la funzione politica, deve essere tale da garantire tanto i diritti individuali quanto quelli economici e sociali. 

**Si deve anche riconoscere che la posta in gioco in questa guerra concerne la ridefinizione sia delle relazioni tra l'America e l'Ue sia quelle tra l'Europa (continentale) occidentale e l'Europa orientale, nonché i rapporti tra l'Ue e la Russia, poiché pure la Russia è parte costitutiva dell'Europa. Ma è proprio l'aggressione russa contro l'Ucraina che ha creato le condizioni per ridefinire certi rapporti secondo una prospettiva che non è vantaggiosa per Paesi come la Germania, la Francia e l'Italia.

***Si ritiene che il Gruppo Wagner (che è una sorta di braccio armato “privato” del Cremlino) sia stato costituito nel maggio del 2014 proprio per combattere contro l’esercito di Kiev nel Donbas, ma oggi è presente, oltre che in Ucraina, in Siria e anche in Africa, grazie all’ostilità (più che motivata) degli africani nei confronti degli occidentali e in particolare nei confronti dei francesi. Il Gruppo Wagner garantisce a diversi governi africani, che combattono contro il terrorismo islamista, “ordine e sicurezza”, impiegando però metodi brutali (eccidi, omicidi extragiudiziali, torture ecc.), in cambio di denaro o di concessioni per lo sfruttamento di miniere di uranio, oro e diamanti. Il fallimento dell’Occidente in Africa ha quindi nuovamente “aperto le porte” ai mercenari e reso possibile un “differente” modo di depredare le risorse del continente africano.


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