mercoledì 19 ottobre 2011

INDIPENDENZA DELL'EUROPA, SOVRANITA' NAZIONALE E CRISI GLOBALE

Più volte nei nostri articoli si è evidenziato che la difesa della sovranità di uno Stato è necessaria per opporsi al “mondialismo” dell’oligarchia finanziaria occidentale. Tuttavia, non si dovrebbe equivocare, dacché “necessaria” non significa “sufficiente”. Perciò si è sempre anche sottolineato che la nostra epoca è quella dei “grandi spazi”, in cui i singoli Stati nazionali sono troppo piccoli per potersi opporre al ”mondialismo” del Leviatano, ovvero che è della massima importanza capire che uno Stato europeo dovrebbe esercitare la propria sovranità “nei limiti e nelle forme” di uno “blocco geopolitico continentale”, ammesso che l’Europa non voglia rassegnarsi ad essere una provincia degli Stati Uniti. Del resto, il tratto distintivo dell’America è di essere uno Stato che, in quanto tale, è “de-limitato” da un determinato territorio, ma il cui “raggio d’azione”, politico ed economico, non può non travalicare ogni “con-fine”, dato che è espressione di una volontà di potenza che è la medesima volontà di potenza che “in-forma” l’agire del “turbocapitalismo” occidentale e dell’alta finanza. Sicché, è l’esigenza stessa di combattere un nemico comune, che richiede (e offre l’occasione) di dare vita, su fondamenti geopolitici, storici e culturali, ad un ordinamento istituzionale autenticamente “sovra-nazionale”.
Nondimeno, parrebbe che la questione di una Europa “sovrana” sia una sorta di “circolo vizioso” e che l’Ue, con tutti i suoi difetti, rimanga l’unica soluzione politica possibile, poiché, se da un lato si manifestano la debolezza e la miopia politica di chi non sa definire l’interesse nazionale secondo un ordine geopolitico che sia super partes, dall’altro è la mancanza di un siffatto ordine che favorisce comportamenti politici che tendono a dividere ancora di più non solo i Paesi europei ma addirittura i Paesi del continente eurasiatico. (Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, si pensi, ad esempio, alla Turchia di Erdogan, che ha il merito di prendere posizione contro l’entità sionista, ma che al tempo stesso si adopera contro la Siria di Assad, il quale deve difendersi da una rivolta supportata anche dagli americani e dagli israeliani; oppure all’Iran, che ha appoggiato i “cirenaici” e i tagliagole della Nato contro la “Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista”. E gli esempi, purtroppo, si potrebbero moltiplicare. Si assiste così a scelte che si vorrebbero giustificare come indispensabili per proteggere i propri interessi o per svolgere una politica di potenza regionale, ma che invece sembrano essere conseguenza del fatto che non ci si è ancora resi conto che la complessità del “sistema” internazionale non ammette che vi siano spazi geopolitici “isolati” dai rapporti di potenza che strutturano gli equilibri mondiali e “decidono” il livello e l’area del “confronto”). In realtà, non vi è alcun “circolo vizioso”, dato che è l’Ue medesima che si dovrebbe concepire come un campo di forze in lotta tra di loro, per stabilire quale deve essere il destino dell’Europa, alla luce di quella scelta fondamentale tra amico e nemico che si configura come opposizione tra “terra” e “mare” (per usare il lessico di Carl Schmitt, benché sia inevitabile che i due termini di questa opposizione possano cambiare di significato con il mutare dei tempi). Ed è il fatto che la caratteristica essenziale della talassocrazia americana consista nell’imporre la propria volontà con ogni mezzo a qualunque altro “soggetto politico”, a rendere necessario, per tutelare gli interessi delle differenti “patrie” (nazionali, locali o “ideali”che siano), che le diverse spinte nazionali concorrano alla costruzione di una struttura politica di “livello più alto” rispetto a quello nazionale, alla quale affidare il delicato e vitale compito della difesa dell’indipendenza continentale. Pertanto, una volta che sia riconosciuta l’origine (geo)politica dell’attuale crisi finanziaria – che è certo da mettere anche in relazione con la ridefinizione in chiave liberista del sistema sociale occidentale – non ci si dovrebbe stupire che l’obiettivo che i “mercati” perseguono sia, in primo luogo, quello di impedire che l’Europa possa smarcarsi dal dominio americano, profittando di una situazione internazionale che, con l’emergere di nuove potenze, “indica” nuove corsie geostrategiche e geoeconomiche, che dovrebbero “indirizzare” la politica europea verso Est e verso Sud. Non a caso gli Usa, dopo l’intervento nei Balcani (anche per non permettere alla Germania di svolgere un ‘azione politica autonoma nell’Europa orientale), hanno rivolto la loro attenzione all’area mediterranea, coinvolgendo il più possibile i Paesi europei in una aberrante e criminale politica neocolonialista, e non si fanno nemmeno scrupolo di usare – rischiando di evocare, come l’apprendista stregone, forze che non possono controllare – l’islamismo più radicale (fratellanza musulmana inclusa) per conservare e rafforzare la loro testa di ponte occidentale, tanto più necessaria e preziosa ora che la “sfida globale” riduce i margini di manovra delle “forze occidentali”, lasciando apparire le gravissime “contraddizioni” del gigantesco Warfare State americano. (Al riguardo, non si deve trascurare l’azione delle lobbies sioniste, che, oltre ad essere funzionali alla politica di Israele, sono parte costitutiva dell’oligarchia atlantista, che ha una delle armi più potenti e pericolose proprio nella “cultura” dell’intolleranza, della discriminazione, dell’arroganza, dell’intimidazione e della mistificazione che contraddistingue i circoli sionisti, i quali hanno tutto l’interesse a ricattare l’Europa. E ciò a prescindere dal fatto che Israele non può essere considerato un semplice spettatore degli eventi che stanno cambiando la mappa politica del mondo arabo, benché non sia facile capire quale sia effettivamente il ruolo dell’entità sionista e quale partita si stia giocando tra Washington e Tel Aviv).(1).
E’ affatto logico allora che si tema che la crisi dei “debiti sovrani” possa avviare un nuovo corso della politica europea, dato che non v’è dubbio che la soluzione della crisi – intesa come “krisis”, cioè come scelta, “decisione” – consiste nel riconoscere che l’indipendenza del continente europeo dagli Usa è condicio sine qua non di ogni altra autonomia dei popoli europei. In quest’ottica, la crisi dell’unipolarismo americano e la scelta di puntare sulla geopolitica del caos, per salvaguardare ad ogni costo l’egemonia atlantista, anche contro gli interessi di parte del popolo americano, sono con ogni probabilità alla base della proposta del noto “filantropo” George Soros, secondo cui bisogna delegare alla Bce e al Fesf (Fondo europeo per la stabilità finanziaria) il compito “di riportare la crisi sotto controllo”. (2) Il che è quanto si sostiene pure in una “lettera aperta” – firmata, oltre che dallo stesso Soros, da Emma Marcegaglia e da Massimo D’Alema – in cui si rivolge un appello ai “Parlamenti dei paesi dell’Eurozona affinché riconoscano che l’euro richiede una soluzione europea [dato che] la ricerca di soluzioni a livello nazionale può solo portare alla dissoluzione” (3). Sono parole che però non devono trarre inganno, dacché quello cui si mira, “invertendo” il rapporto tra causa (debolezza politica e strategica ) ed effetto (crisi economica), non è ciò che apparentemente si sostiene, bensì esattamente l’opposto. Lo comprende bene Rino Formica che scrive che “il rinvio sulla debolezza costituzionale (e quindi politica) dell’Europa segue l’antica logica dei due tempi: prima viene l’emergenza e dopo le riforme. Su questo terrreno sono sempre state sconfitte le forze del cambiamento”. (4) A tale proposito, scrive il sociologo Luciano Gallino non solo che “il passo più rischioso cui Sarkozy e Merkel stanno spingendo la Ue consiste nel salvare le banche senza compiere alcun tentativo per avviare una vera riforma del sistema finanziario”, ma pure che “i gruppi finanziari salvati dallo Stato a suon di trilioni di dollari e di euro spesi o impegnati (più di 15 in Usa, almeno 3 nella Ue) sono ora, in termini di attivi in bilancio, grandi il doppio [e ] i primi venti del mondo hanno ciascuno attivi tra 1 e 2 trilioni di dollari, cifre che si collocano, come equivalenza, tra il cinquanta e il cento per cento del Pil dell’Italia. Ci provi, un qualsiasi governo, a opporsi ai voleri di simili colossi”. (5) Anche se si può obiettare a Gallino di non prendere in esame il fatto che si tratta di “colossi” che agiscono secondo una particolare strategia politica (che altro non è se non quella che si suole, correttamente, definire atlantista), non potendo in alcun modo la finanza internazionale fare a meno dell’apparato di “comando e controllo” della potenza capitalistica dominante – egli ha comunque il merito di non mistificare la verità come invece fa Mario Monti (il tecnocrate che ha dichiarato che le misure draconiane adottate dal governo greco provano il successo dell’euro, in base alla logica che, anche se il paziente è morto, l’operazione è perfettamente riuscita), il quale afferma che “in Europa e negli Stati Uniti [...] si identifica proprio nell’Italia il possibile fattore scatenante nell’eurozona di dimensioni non ancora sperimentate e forse non fronteggiabili [mentre] in un’Europa e in un mondo sempre più interdipendenti sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno a Berlusconi [...] prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l’Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell’Unione europea”. (6) A parte l’assurdità di far dipendere dall’attuale governo italiano (sebbene sia innegabile che anche questo governo abbia “costruito” assai male) il terremoto finanziario che sta facendo vacillare l’intero Occidente, è evidente che, a giudizio di Monti, per non consentire ai “mercati” di attaccare un Paese sovrano – “già oggetto di ‘protettorato’ (tedesco-francese e della Banca centrale europea)” – e di far così affondare addirittura l’Europa, si dovrebbe accettare il diktat della Bce che, come anche Gallino riconosce, altro non è che il diktat dei “mercati” medesimi. E non v’è chi non s’accorga della somiglianza tra la “ricetta” del tecnocrate italiano “targato” Goldman Sachs (come “mister” Draghi) e la proposta del “sostenitore” delle rivoluzione colorate. Non è che vi sia un “complotto” dell’alta finanza contro l’Italia, ma è la realtà stessa che spinge in certe “direzioni”, dato che essa non piove dal cielo, ma è frutto di precise scelte strategiche. Insomma, la “vulnerabilità” dei singoli Stati europei – anche per errori (che nessuno nega) di gestione politica – diviene “strumento” di una strategia complessa, che deve impedire che la “crisi globale”, cioè l’interdipendenza cui si riferisce Monti, possa generare – anche allo scopo di risolvere una situazione economica che si aggrava sempre più – un radicale rinnovamento della politica europea o, in altre parole, quell’alternativa multipolare che metterebbe fine all’egemonia dei “mercati”.
Sono questi dunque i motivi che ci inducono a ritenere che si dovrebbe costruire nel nostro Paese (ma naturalmente non solo nel nostro Paese) un “polo nazionalpopolare”, per una rifondazione dell’Unione europea, senza la quale qualsiasi riforma finanziaria sarà “inutile”, e che rappresenti, anziché i diritti dei cosiddetti “mercati”, i diritti dei popoli europei. Epperò, la solidarietà tra le varie parti non solo del continente europeo, bensì dello stesso continente eurasiatico, consegue anche dalla necessità di difendere la propria “terra”, ovvero le proprie radici, che tanto più sono profonde, tanto più si intrecciano, per cui la loro connessione si dovrebbe considerare come effetto di un processo di integrazione che non annulla le “differenze”, ma anzi le conserva, sia pure in funzione di una sintesi politica e culturale realmente “sovra-nazionale”. Nel Novecento l’Europa ha dovuto pagare un prezzo troppo alto per non aver saputo mediare tra difesa delle “radici identitarie” e giustizia sociale, nel rispetto della persona umana. Ma se è vero che possono affermare di avere appreso le “dure” lezioni del Novecento soltanto coloro che sanno prendere le distanze da chi è disposto (per interesse personale, per conformismo, o per mera “degenerazione ideologica”) ad avallare i crimini dei sionisti o la “barbarie umanitaria” dell’Occidente, allora non dovrebbe essere difficile comprendere perché sia necessaria una forza “nazionalpopolare” e che cosa significhi oggi lottare per l’indipendenza del continente europeo, “saldandolo” alla massa eurasiatica, secondo una concezione antisionista e antiatlantista.

Note
1)Vedi http://aurorasito.wordpress.com/2011/10/14/israele-e-libia-preparare-lafrica-allo-scontro-di-civilta/.
2)Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-30/soros-salvare-eurozona-tesoro-231508.shtml?uuid=Aa3WM08D&fromSearch.
3)Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-10-11/appello-leuropa-202250.shtml?uuid=AaeDKBCE.
4) Vedi http://www.ilfoglio.it/soloqui/10743.
5)Vedi http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=40674
6)Vedi Corriere della sera, 16/10/11, p.1.

SOVRANITA' NAZIONALE ED ALTERNATIVA MULTIPOLARE


La nozione di sovranità non è affatto facile da definire, tanto che Alain de Benoist ritiene che non sia distante dalla verità l’affermazione di John Hoffman, secondo cui «la sovranità rappresenta un problema insolubile già da parecchio tempo prima che si volesse associarla ad ogni costo allo Stato». (1) D’altronde, lo stesso de Benoist osserva che di regola tale nozione è usata in due accezioni particolari: «Una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità. Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, ci si situa nella seconda». (2)
La questione della sovranità nazionale sembra quindi – sia in quanto “mezzo di indipendenza”, sia in quanto «non è legata né a una particolare forma di governo né a un tipo particolare di organizzazione politica [ma] al contrario, è inerente a qualsiasi forma di esercizio del comando politico», (3) – essere oggi tanto più rilevante per la presenza di organizzazioni in grado di limitare non poco la sfera di azione e la sovranità dei singoli Stati. Ne è una ulteriore conferma il fatto stesso che sono organizzazioni che vengono considerate internazionali o “sovranazionali”, ma che in realtà agiscono come “strumenti” dello Stato predominante, cioè gli Usa, o di “certi altri” Stati (come gli Stati che sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu o gli Stati più “forti” dell’Ue, ossia Germania, Francia e Gran Bretagna, a loro volta dipendenti, in misura più o meno grande, dagli Usa; e analoghe considerazioni valgono non solo per l’Onu o l’Ue, ma, ad esempio, per istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Corte penale internazionale e la Nato).
Posto che è di estrema importanza allora capire che cosa sia lo Stato e quale dovrebbe essere la “forma” dello Stato migliore per contrastare la politica di quei gruppi “tecno-plutocratici” che controllano lo Stato capitalistico dominante – benché, a causa della competizione e della rivalità all’interno del “nucleo” del sistema americano, anch’esso non sia un “monolito” – , è degno di nota che, come scrive Emilio Ricciardi, secondo Gianfranco La Grassa «lo Stato andrebbe concepito come un campo (costituito da correnti) di energia conflittuale permanente che, generatosi dallo scontro nella sfera politica fra gruppi dominanti volti alla reciproca sopraffazione per la supremazia su un’intera formazione sociale, troverebbe poi condensazione e precipitazione in apparati (tra cui, fondamentali, gli apparati della coercizione), istituzioni, corpi vari, i quali, pertanto, costituirebbero l’esito e risultante finali (ma giammai definitivi ed anzi sempre sostanziantisi in un equilibrio instabile, pronto a risolversi in ulteriori e diversi assetti di rapporti di forza) dell’azione combinata ed interazione di e tra siffatte correnti conflittuali. Insomma, lo Stato non come soggetto (tanto meno unitario) ma come processo» (4). Bisognerebbe allora evitare ogni “reificazione” del concetto di Stato, senza perdere di vista «la struttura dei rapporti sociali: sia in generale per quanto concerne l’odierna formazione capitalistica (non omogenea dappertutto, anzi l’esatto contrario) sia con specifico riferimento all’Italia». (5) In definitiva, facendo proprio il lessico epistemologico di Ernst Cassirer, si può sostenere che per La Grassa si dovrebbe considerare lo Stato non come sostanza, bensì come funzione.
Tuttavia, è della massima importanza rilevare che solo se una comunità non è la “semplice” somma delle parti, ma una “totalità” distinta dalle parti che la compongono – senza per questo che si debba sostenere che lo Stato è un “soggetto spirituale”, come lo Stato etico hegeliano – (6) si può effettivamente giustificare che lo Stato – che detiene il monopolio “legittimo” dell’uso della forza – rappresenti un’istanza unitaria e sovrana, “vincolante” per tutti i cittadini, in quanto “ap-partenenti” alla medesima comunità nazionale (e non è perciò casuale che “Stato” designi sia un Paese, una popolazione che occupa un ben definito territorio, sia l’organizzazione politica di una società, o in senso più specifico, l’apparato che consente l’organizzazione politica di una società). Se così non fosse, tra l’altro (ma è osservazione di non poco conto), un individuo potrebbe essere costretto a dare la vita per lo Stato, ma certo non avrebbe alcun “obbligo morale” di farlo, giacché «solamente dal valore superiore del tutto in confronto con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e, se necessario, di morire per il tutto». (7 ) E in guerra è lo Stato a svolgere un ruolo strategico fondamentale, quando tutte le forze produttive e tutte le “risorse umane” del Paese devono concorrere al raggiungimento dell’obiettivo comune. Sicché, la lezione che se ne dovrebbe trarre è che la “coesione” dello Stato non è “data a priori”, ma varia a seconda delle circostanze storiche, poiché una classe dirigente ha, perlomeno in linea di principio, la possibilità di “uni-ficare” l’azione dei molteplici apparati dello Stato, in funzione di un progetto politico condiviso dall’intera comunità.
Sotto questo profilo, le critiche che il comunitarismo rivolge al liberalismo ed all’individualismo, rivalutando l’idea greca, e soprattutto quella aristotelica, dell’ethos comunitario, paiono cogliere nel segno. Nondimeno, anche il comunitarismo , sebbene non sia una corrente di pensiero unitaria, ha il grave limite di sottovalutare il ruolo della sovranità nazionale nel contrastare il “mondialismo”, poiché si lascia sfuggire che il narcisismo identitario delle cosiddette “piccole patrie” (a prescindere dal modo in cui si sono formati gli Stati nazionali e dalla critica di una burocrazia inefficiente) non può non favorire, benché talora in modo inconsapevole, la politica di potenza atlantista. (Si può muovere questa obiezione anche ad Alain de Benoist, cui pure si deve forse la più articolata analisi delle patologie dell’individualismo moderno e della società liberale. Se lo Stato nazionale si è imposto a scapito dei tradizionali legami comunitari, si deve prendere anche in considerazione che le “diverse identità locali” sono ancora presenti come parti di uno Stato nazionale, che pare essere l’unico ostacolo che si frapponga tra l’oligarchia finanziaria “mondialista” e le comunità locali) (8). Si deve però anche ammettere che il tentativo di costruire una autentica entità politica “sovranazionale” non può non essere destinato a fallire (si pensi anche ai danni che derivano da un europeismo grossolano e superficiale, come quello che contraddistingue il nostro Paese), qualora non si capisca (o non si abbia interesse a capire) la necessità di elaborare una strategia geopolitica allo scopo di realizzare un’alternativa multipolare. Si dovrebbe di conseguenza evitare tanto il localismo quanto un ottuso centralismo e rafforzare la sovranità e il potenziale strategico di uno Stato, di modo da poter incastonare l’Economico in una struttura (geo)politica imperniata sui legami identitari e sociali.
Peraltro, la questione della sovranità nazionale, per quegli Stati, come l’Italia, che rischiano di perderla completamente, con conseguenze facilmente immaginabili, deve essere messa in relazione con quella inerente alla “forma” dello Stato, nel senso che la difesa della sovranità nazionale e dell’interesse generale, definito in base a criteri di “appartenenza” (e quindi secondo una concezione del Politico non economicistica, ma fondata su quei principi di giustizia sociale ed equità, senza i quali non vi possono essere né vero consenso né vera coesione sociale) non può non presupporre una”ri-forma” del sistema politico “liberale”. E’ innegabile, infatti, che quest’ultimo sia “veicolo” di quelle “forze mondialiste” che applicano la logica del “divide et impera” non solo a livello internazionale ma anche, e con notevole successo, all’interno di un singolo Paese, facendo leva sullo spirito di fazione, su “quinte colonne” e sulla mancanza di forze politiche “antagoniste”. Un’altra prova che è mera illusione pensare che la riduzione del Politico a pubblica amministrazione – come se un sistema sociale si potesse autoregolare in virtù di meccanismi teleologici, ad un tempo immanenti e metastorici – non sia funzionale alla strategia di determinati “centri di potenza”. Tanto che l’indebolimento della sovranità nazionale, come mostra chiaramente anche la recente storia del nostro Paese, oltre a implicare una gravissima “contrazione” dell’autonomia del Politico, non può non coincidere con la progressiva perdita anche dei diritti sociali e culturali di un popolo.
In particolare, se si prende in esame il nostro Paese, è sempre più manifesto non solo che il degrado istituzionale è giunto al punto di minare le fondamenta stesse dello Stato (il cui ruolo, in primo luogo, dovrebbe consistere nel garantire la convivenza civile mediante l’istituzionalizzazione del conflitto), ma che i partiti non rappresentano altri interessi se non quelli di alcune lobbies, di cui fanno parte non pochi di coloro che dovrebbero servire lo Stato e che invece non si fanno alcuno scrupolo di porsi al servizio di potentati economici stranieri. La lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto scorso al Governo italiano non lascia dubbi al riguardo: indipendentemente da ogni considerazione sull’attuale Governo italiano, il Consiglio direttivo della Bce “propone” (ed è “una proposta che non si può rifiutare”) ai politici italiani di «ritagliare» il nostro Paese in base alle «esigenze specifiche delle aziende» e “consiglia” pure come farlo: con decreto legge e una riforma costituzionale, senza guardare in faccia nessuno, tranne evidentemente gli “amici” della Goldman Sachs e gli “amici degli amici” (9). La democrazia occidentale si rivela “fiction”, mentre infuria la polemica sull’autonomia di Bankitalia, ché ormai quella del Paese la si vuole mettere in liquidazione.
Vero quindi che il re “liberaldemocratico” è nudo, ma, anche dal momento che per i media mainstream è “normale” che il bene comune e la sovranità di un Paese (del nostro Paese, ma certo non solo del nostro) siano “quotati in Borsa” e che siano i “mercati” a decidere ciò che è giusto per una collettività, si è ancora ben lontani dal rendersi pienamente conto che la crisi che attanaglia il “mondo occidentale” (resa ancor più “drammatica” dalla frammentazione sociale e dalla frustrazione delle aspettative dei ceti medi) è prima di tutto effetto di un “mutamento di fase” che penalizza non tanto (e non solo) i Paesi economicamente deboli quanto piuttosto i Paesi che hanno scarsa capacità di “manovra geostrategica”. Afferma perciò, giustamente, Gianfranco La Grassa che «la prima esigenza è quella della formazione in Italia di un polo nazionale [che però] non avrebbe ragione di esistere – nel senso che non avrebbe alcuna incidenza reale – se non fosse dotato degli strumenti tipici di uno stato d’eccezione» e che «esistono stati d’eccezione, in cui occorrono mezzi speciali e d’emergenza per governare i processi e renderli funzionali agli interessi della maggioranza della popolazione abitante in una di quelle zone in cui lo stato d’eccezione si è prodotto». (10) Ora, se non si vogliono ripetere gli errori del passato, è logico che non si possa avere di mira alcuna forma di sciovinismo o di xenofobia (esclusi comunque “a priori” dall’orientamento geopolitico che si vuol difendere), né si ignorino le aberrazioni del totalitarismo (anche se si dovrebbe notare che è proprio della “libera società totalmente amministrata” spogliare l’individuo di ogni “abito” sociale e culturale che non sia quello dell’anonimo e impersonale “si” delle tecnostrutture, sia pubbliche che private). Ma quel che è assolutamente necessario è stabilire «una politica di strategia italiana del tutto autonoma rispetto ad altri potentati stranieri [e controllare] con mezzi ineludibili e pene assai dure di coercizione, che simile politica venga applicata», di modo che la stessa distinzione tra pubblico e privato dipenda dal Politico, giacché «il “pubblico” non è affatto sinonimo di interesse collettivo, generale. Tutto dipende da chi ha le redini politiche e dagli scopi che si propone». (11) Non è allora difficile comprendere che, se si condividono le affermazioni di La Grassa, cade pure la possibile obiezione che quel che vale in guerra non può che valere solo in guerra, dacché lo stato d’eccezione cui si riferisce La Grassa, mostra, come sostiene Carl Schmitt, che vi è sì differenza ma non soluzione di continuità tra la guerra e la “normale” attività politica di uno Stato. In sostanza, quelle condizioni che permettono al Politico di prendere decisioni che impegnano una collettività, ben oltre la concezione liberale dello Stato, non sono solo quelle che valgono in guerra, ma pure, mutatis mutandis, quelle che caratterizzano lo stato d’eccezione.
Epperò non sembra una forzatura ritenere addirittura che sia lo stato d’eccezione ad essere la “regola”, allorquando non è possibile che vi sia un equilibrio (stabile) tra le diverse potenze, dato che una di esse (e la maggiore) persegue un disegno di egemonia globale. D’altra parte, la mediazione politica tra le differenti istanze sociali, nonché l’esigenza di garantire la relativa autonomia dei diversi mondi vitali, non possono non trovare sufficiente “spazio”, qualora l’azione del Politico sia realmente, ad un tempo, nazionale e popolare. Non è allora un problema di (mera) ingegneria costituzionale, ma di formazione di una volontà politica che sappia “ri-definire” ed articolare le istituzioni “democratiche” in vista dell’interesse generale. Inoltre, se da un lato, indubbiamente occorre “dar forma” alla propria “potenza” con mezzi adeguati e perfino “eccezionali”, dall’altro, non si può non tener conto della necessità di “connettere” gli orizzonti spirituali dei differenti popoli (e soprattutto di quelli dell’area mediterranea e dell’Eurasia). Né questo può considerarsi un compito di secondaria importanza (come fosse una sorta di “appendice ideologica” del realismo politico) ai fini di una costruzione culturale di un polo “nazionalpopolare”, avendo presente che questo termine, nella riflessione critica gramsciana, designa quei fenomeni che esprimono valori radicati nella tradizione di un intero popolo, in opposizione al cosmopolitismo e ad un “astratto” (nel senso hegeliano) universalismo. Vale a dire che la valorizzazione delle proprie radici, se non deve essere bolsa retorica, nazionalista o “europeista” che sia, non può essere disgiunta dal riconoscere che difendere l’identità e la dignità degli altri popoli, significa difendere la propria identità e la propria dignità (anche per il semplice fatto che vi è un “nemico comune” da combattere e che i singoli Stati nazionali, tranne eccezioni – quali la Russia o la Cina – , sono troppo piccoli per potersi opporre alla “pre-potenza” del Leviatano). Ed è su questa base che si potrebbe e si dovrebbe costruire un “grande spazio geopolitico”, per porre “termine” alla barbarie “mondialista”.
Pertanto, sebbene sia indubbio che vi è bisogno di aggiornare continuamente la “mappa”, anzi “le mappe” del mondo in cui viviamo, è urgente pure definire e promuovere un saldo ed organico “orientamento culturale” (anche, in un certo senso, “metapolitico”), che sostituisca definitivamente paradigmi ideologici obsoleti, se non si vuole “parlare al vento”, o peggio ancora essere radicalmente fraintesi, oggi che l’industria culturale diffonde una immagine “mistificata” e semplicistica del mondo. Ed a maggior ragione si corre questo rischio quando il sistema educativo “veicola” un sapere che si ritiene debba essere socialmente utile, ma che non pare essere affatto utile a formare degli “uomini completi”. Nell’antica Cina, quando tutto sembrava essere irrimediabilmente destinato a corrompersi, Confucio, non venendo ascoltato dai potenti, decise di ripiegare «su di un piano meno appariscente ma molto più efficace [dedicandosi] all’educazione dei giovani, intesa come preparazione di uomini completi utili al popolo e a sé stessi» (12). Cambiano gli uomini, i luoghi, i tempi e naturalmente le “proporzioni”. Ma l’insegnamento resta. Ed è chiaro. Non si tratta cioè di discutere sulla natura del fuoco, mentre la casa sta bruciando, come dicono i buddhisti, ma di sapere in che direzione si deve andare per mettersi al sicuro. Una prospettiva geopolitica e “geo-filosofica”, del resto, è il necessario “pre-supposto” non solo di un agire strategico consapevole e maturo, ma pure di una “corretta” distinzione tra amico e nemico; una distinzione che è l’essenza stessa, se non dello Stato, del suo fondamento, ovvero del Politico.

Note
1) Vedi http://temis.blog.tiscali.it/2011/01/10/sovranita-federalismo-sussidiarieta-by-de-benoist/ .
2) Ibidem.
3) Ibidem.
4) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/19/brevi-considerazioni-sul-possibile-rapporto-tra-le-presunte-%E2%80%9Cforze-nazionali-italiane%E2%80%9D-ed-il-compito-teorico-pratico-che-ci-siamo-assegnati/ .
5) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/20/fatti-e-riflessioni-i-20-sett-%E2%80%9911/ .
6) Si deve però stigmatizzare la critica volgare, come quella di Popper, della filosfia politica di Hegel, che, al contrario di quel che pensano i liberali “anglofoni” o “anglofili”, non si può considerare come una difesa del totalitarismo; sempre valido, al riguardo, è (a cura di) C. Cesa, Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Bari,1979.
7) Così Otto von Gierke, citato in N. Abbagnano e G. Fornero, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino, 1998, p.1043.
8) Assai attento invece a sottolineare l’importanza della sovranità nazionale è il discorso filosofico-politico di Costanzo Preve (di cui vedi anche http://www.eurasia-rivista.org/de-globalizzazione-e-recupero-della-sovranita-nazionale/11354/). Sul comunitarismo e su altri temi trattati in questo scritto ci siamo già espressi in precedenti articoli. In ogni caso, è preferibile peccare di ripetitività, piuttosto che non essere chiari, senza contare che il significato dei concetti cambia a seconda del contesto.
9) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/30/minacce-di-morte/ .
10) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/20/fatti-e-riflessioni-i-20-sett-%E2%80%9911/ .
11) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/30/che-pena/ .
12) P. Filippani Ronconi, Storia del pensiero cinese, Bollati Boringhieri, Torino, 192, p. 41.
http://www.cpeurasia.eu/1724/sovranita-nazionale-e-alternativa-multipolare

lunedì 5 settembre 2011

TEMPO DI CRISI ED EURASIATISMO

Ogni nostra azione scaturisce da ciò che precede e si intreccia con altre azioni che non dipendono da noi. Non vi è quindi relazione necessaria tra il nostro “pro-getto” e il prodotto del nostro agire. Anche se è inevitabile che vi siano eventi, “fatti”, «la loro successione e i loro esiti costituiscono una rete che trascende costantemente volontà, progetti e attese della soggettività “libera”» (1). D’altronde, è innegabile che vi siano delle decisioni che rendono più o meno probabile un determinato corso di eventi. Ed è pure evidente che vi sono tendenze oggettive e “connessioni di sistema” che favoriscono determinate scelte. Secondo Max Weber «quando l’esclusione ipotetica di alcune componenti causali reca ad un risultato radicalmente diverso da quello del processo reale, si deve concludere che esse hanno un’importanza essenziale nella determinazione delle conseguenze in questione» (2). Talora, vi sono solo due possibilità che si dividono il campo e l’importanza di un evento storico è fondata sulla funzione decisiva che esso può aver esercitato riguardo a queste due possibilità, ma poiché le conseguenze che si ritiene derivino dall’esclusione ipotetica di certe componenti causali sono di varia natura, l’importanza di queste ultime può essere maggiore o minore, a seconda delle circostanze storiche prese in considerazione. Weber riconosce cioè che, sebbene un’azione non consegua necessariamente da una serie causale, una situazione storica è un “campo di possibilità” strutturato in modo tale che difficilmente non può prevalere una decisione in favore di una determinata possibilità.

E’ questo schema concettuale che, per il suo valore euristico (prescindendo dai difficili problemi epistemologici che può implicare), si dovrebbe tener presente, se si vuol comprendere la storia recente dell’Italia, dacché è indubbio che l’attuale debolezza strategica del nostro Paese derivi essenziamente da scelte compiute negli anni Novanta e che consisterono, in particolare, nella (s)vendita della quasi totalità delle nostre principali imprese pubbliche al grande capitale, nazionale ed internazionale, e in una ristrutturazione della Nato e della Ue, che si voleva fossero un baluardo a difesa della libertà e dei diritti politici e sociali dei popoli europei e che invece si sono mutate in strumenti della politica di potenza americana e degli interessi dell’oligarchia atlantista, al di qua e al di là dell’Atlantico. Infatti, è alla fine degli anni Ottanta, allorché giunge a compimento il bipolarismo, che si decide, sostanzialmente, tra due possibilità: da un lato, atlantismo e sionismo come pilastri cardine del nuovo modello unipolare americano, allo scopo di imporre, su scala planetaria, la logica del “turbocapitalismo” e di impedire ad altri “soggetti politici” di poter cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio; dall’altro, la rifondazione dell’alleanza tra Europa e Stati Uniti su basi nuove, sia opponendosi al liberismo d’Oltreoceano, assegnando, in modo netto e definito, al Politico il ruolo di “decisore strategico” (tanto in campo sociale quanto in campo economico, tanto a livello nazionale quanto a livello europeo), sia ampliando i margini di azione dei singoli Paesi europei, nell’unica direzione rilevante sotto il profilo geostrategico e geoeconomico, ossia verso Est e l’area mediterranea, di modo da implementare un programma di sviluppo che con il passare del tempo avrebbe probabilmente dato vita ad una Unione europea indipendente dal mondo (anglo)americano, se non addirittura antiatlantista ed antisionista. Certamente un percorso impervio, ma non impossibile, se si considera la reale situazione storica venutasi a creare con la scomparsa dell’Unione Sovietica e di conseguenza pure delle “ragioni” dell’atlantismo non solo sul piano militare, ma anche (e soprattutto) sul piano politico ed economico.

Comunque sia, sarebbe stato relativamente semplice dimostrare come tali “ragioni” fossero del tutto anacronistiche ed addirittura contrarie – se non nel breve periodo, almeno nel medio-lungo termine – agli interessi dei popoli europei, qualora non fossero venute meno, insieme con l’Urss, anche quelle forze politiche” che potevano/dovevano rappresentare ben altre “ragioni”. D’altra parte, se ci si concentra su quanto è accaduto in Italia, si comprende che l’obiettivo principale di forze politiche (in specie dei loro vertici e dei loro quadri) considerate “antagoniste” non poteva non essere quello di “riciclarsi” per continuare a sopravvivere. Al riguardo, non può sorprendere più di tanto nemmeno la trasformazione del Pci – apparentemente repentina, in realtà preparata fin dagli anni Settanta – in “guardia bianca” del capitalismo più arretrato e “reazionario” (gli interessi della Fiat li faceva meglio D’Alema, come ebbe a dichiarare l’Avvocato) e in una “quinta colonna” dell’atlantismo. Ovviamente la complessità del mutamento di fase è innegabile, ma il teatro politico italiano difficilmente poteva rappresentare qualcosa di diverso, giacché i membri della classe politica di allora non vollero o non poterono (sono gli anni di Mani Pulite) sfruttare l’occasione storica per cambiare l’indirizzo (geo)politico del Paese, senza assurde o “irrealistiche” contrapposizioni frontali, ma basandosi proprio sul settore pubblico del nostro sistema produttivo, per guadagnare nuove posizioni strategiche; anche perché il sistema italiano, essendo quasi del tutto privo di autentica sovranità e di capacità decisionale, non avrebbe potuto non svolgere, una volta liquidato definitivamente il “pericolo rosso”, una funzione sempre più marginale e subalterna nei confronti di quella della potenza dominante e dei suoi principali alleati. Del resto, tutta una serie di “accadimenti” (da Mani Pulite al trasformismo dei neofascisti e dei comunisti, dal debito pubblico alla crisi del Welfare, dalla riunificazione della Germania alla dissoluzione dell’Urss ed a quella della Iugoslavia) fece sì che qualunque ostacolo (ché una certa resistenza alcuni politici – tra i più capaci, anche se non con le “mani pulite” – cercarono di farla) si frapponesse alla realizzazione del progetto di ridefinizione politica, economica, monetaria, militare, sociale e culturale del nostro Paese in “chiave atlantista” venisse spazzato via, con il consenso di coloro che avrebbero avuto invece tutta la convenienza a (o il dovere di) contrastarlo. Tanto che ancora oggi si protesta, giustamente, contro i privilegi vergognosi della “casta”, che ha rinunciato a (o è incapace di) governare il mutamento sociale e che rischia di non poter più dirigere alcunché ma di eseguire solo “gli ordini dei mercati”, ma non ci si sa opporre a chi promette di privatizzare gli ultimi residui di sovranità nazionale con la scusa di ridurre il debito pubblico, di eliminare la corruzione e di modernizzare il Paese. Ovvero a chi propone, esattamente come negli anni Novanta, una terapia che si è rivelata essere non solo assai peggiore del male che si doveva curare, ma anche la causa principale, se non l’unica, del declino del Paese e del degrado della vita pubblica.

Ciononostante, sono le differenze rispetto alla situazione di vent’anni fa ad essere ancora più rilevanti delle analogie, ché la scelta decisiva ancora una volta concerne l’essere o il non essere subordinati all’oligarchia atlantista, ma sullo sfondo di una crisi dell’euro – che non è affatto contingente, ma è la crisi di una Ue che è tutto fuorché una “comunità europea” – e in presenza di una sorta di “rovesciamento” del ruolo degli Usa: da superpotenza protesa verso il dominio dell’Eurasia e quindi dell’intero pianeta, a potenza ancora predominante, ma con una base economica troppo fragile per sostenere un gigantesco Warfare State, che pure è (nonostante sia del tutto inadeguato – più per limiti di carattere strutturale che per quelli di singole persone – a risolvere positivamente conflitti di tipo asimmetrico) essenziale perché gli Usa possano svolgere il ruolo di gendarme mondiale, di modo da poter continuare a finanziare il proprio debito con capitali stranieri ed evitare che la “tendenza multipolare” che si va profilando sullo scacchiere globale possa mettere in discussione l’egemonia americana. Tutto ciò però non rende più “indeterminata” l’evoluzione del “campo di possibilità” che riguarda la politica europea e in particolare quella italiana, non solo per i motivi sopraccitati, ma pure per la quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica europea, disposta a tollerare qualsiasi crimine, a patto che lo si compia per difendere i cosiddetti “diritti umani”, anche dopo le innumerevoli soperchierie, razzie, mistificazioni e guerre (nonché stragi) umanitarie delle “forze occidentali”. Nulla insomma sembra “scuotere” la coscienza degli europei, neanche il fallimento delle politiche liberiste che pure incidono sul “corpo vivo” di non pochi di essi; sicché si deve ammettere che atlantismo e sionismo, grazie anche al nuovo corso politico di quella che era la Francia di De Gaulle e al persistere del “nanismo” politico della Germania, possono ancora facilmente condizionare gli equilibri politici e sociali europei.

Tuttavia, non è da escludere che le difficoltà che gli Usa incontrano (e incontreranno) nel rinnovare la propria politica di potenza – tenendo conto anche dello scontro, con ogni probabilità assai più duro di quel che si immagini, tra i diversi “sottogruppi” che compongono l’élite del potere “occidentale” – vengano ad alterare, in modo imprevedibile, i rapporti che sono a fondamento del sistema politico internazionale, tanto da rendere possibile un autentico multipolarismo, che non potrebbe non esercitare, anche indirettamente, una “forte attrazione” perlomeno su parte dell’Europa continentale. In ogni caso, queste “tensioni di struttura”, in quanto espressioni di forze reali che generano e “regolano” i conflitti tra differenti centri di potere, si dovrebbero interpretare senza lasciarsi fuorviare da schemi ideologici del tutto obsoleti, in vista di una diversa configurazione del “campo di possibilità” che caratterizza l’attuale fase storica, anche se sembra già determinato il “senso” da attribuire agli eventi che si ritiene “facciano la storia”. Ci si dovrebbe cioè domandare se la “tracotanza occidentale” non sia il segno di una possibile “inversione di tendenza” per la nota “legge dei contrari” – la “enantiodromia” di cui parla Eraclito, secondo cui ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario, e della quale forse si dovrebbe tener maggior conto – ma anche se una “strategia del caos” non sia ormai l’unica in grado di “tenere insieme” un “Occidente”, che pare essere più una immagine meramente ideologica del mondo che non una effettiva realtà (geo)politica e culturale, a meno che non designi, in primo luogo, la sfera di influenza della talassocrazia americana. Ed è sotto questo punto di vista che si dovrebbe interpretare pure il sionismo, che ben lungi dal riguardare solo i palestinesi complica enormemente la questione dell’imperialismo statunitense e di una politica europea indipendente da Washington. (Anche per questo motivo la lotta politica tra dominanti non è affatto di poco conto, ché, dopo il fallimento politico e militare in Irak e in Afghanistan, gli Usa, o meglio certi “gruppi d’interesse” americani non possono non cercare di “ri-formare” la strategia israeliana secondo una prospettiva che privilegi un “approccio indiretto”, facendo leva su quei settori del mondo islamico che sono filo-occidentali, senza essere – necessariamente o perlomeno esplicitamente – filo-sionisti; a questo proposito, sono da seguire con la massima attenzione le vicende della variegata galassia dei Fratelli musulmani, nonché della Turchia di Erdogan, per capire se l’Islam potrà evitare una “deriva” atlantista e il fanatismo wahabita ed anti-sciita). Non può essere invece in alcun modo messa in dubbio l’importanza della funzione ideologica del sionismo, che tiene addirittura “sotto schiaffo” la cultura europea, ostacolando qualunque tentativo di smarcarsi dal “mondo occidentale”, facendo gravare sulla coscienza dell’Europa l’immane responsabilità di un passato che non si vuole “oltre-passare”, ovvero si vuole che rimanga “al servizio dello spirito di vendetta” (indipendentemente da ogni considerazione sul revisionismo storico) per giustificare, come gli (intellettuali) ebrei più coraggiosi ed anticonformisti denunciano apertamente, l’aberrante “volontà di potenza” di Israele e delle lobbies sioniste.

Pertanto, anche se si ritiene che la tendenza fondamentale del nostro tempo sia la cosiddetta “occidentalizzazione” del pianeta, l’ “ambiguità ideologica” di tale tendenza è già indicata dalla “ambiguità referenziale” del termine “Occidente”. Tra l’altro, si è anche mostrata priva di fondamento la tesi secondo cui la “globalizzazione” avrebbe portato rapidamente alla scomparsa delle frontiere, facendo retrocedere (tutti) gli Stati nazione ad entità di secondaria importanza, nonché delle guerre, che avrebbero dovuto essere sostituite da operazioni di polizia internazionale del “nuovo ordine mondiale”. Di fatto, se in questi ultimi anni si è confermata l’ipotesi schmittiana della formazione di “grandi spazi”, intermedi tra lo Stato mondiale e i singoli Paesi, si è anche assistito, oltre alla “rinascita” della Russia dopo gli anni bui dell’era Eltsin, al consolidamento ed al rafforzamento di Stati nazione quali, ad esempio, la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia ed il Brasile; ossia ad un fenomeno storico che pare problematico definire “semplicemente” come una “specie di occidentalizzazione”. Ché sarebbe una definizione – al di là della relazione tra modernizzazione e “occidentalizzazione” e di quella tra modernità e postmodernità, o, in altre parole, al di là dei problemi concernenti l’essenza di quel che si intende per “Occidente” – certo assai poco convincente sotto l’aspetto politico; e non solo politico, giacché ciascuna di queste “resistenze” nei confronti del mercato globale è il anche il “pro-dotto” di un determinato “sub-stratum culturale” che, nonostante le molteplici fratture che contrassegnano ogni tradizione, continua a condizionare la lotta politica e sociale. Un “sostrato” che non è affatto assente né in Italia né in Europa, ma che la politica e la stessa intellighenzia europea non sanno più “com-prendere” e che possono solo rimuovere o strumentalizzare (ma che, proprio in quanto “represso”, si manifesta il più delle volte in forme aberranti, dall’islamofobia al narcisismo identitario), per quanto sia particolarmente difficoltoso cancellarlo. In definitiva, dato che è essenzialmente un fenomeno politico e culturale, la “krisis europea” non si è affatto risolta con la fine del socialismo (“reale” o no che fosse), come attesta il ripetersi, benché in modi diversi, del conflitto tra le esigenze di una “ragione pubblica” – interprete di “iconografie identitarie”, di legami comunitari e di molteplici mondi vitali – e gli interessi del “mondo occidentale”, che deve prevenire l’azione di quelle energie storiche che, sebbene siano latenti (perciò non immediatamente riconoscibili e tali da alimentare differenti e perfino “contraddittori” percorsi politici e culturali), costituiscono ancora un orizzonte di senso possibile, nettamente opposto rispetto al “caos organizzato” che “in-forma” il sistema di potere “occidentale”.

Ciò allora significa che non tanto e non solo si dovrebbe badare alla “grammatica politica di superficie” (che pure non è affatto irrilevante), quanto piuttosto alla struttura profonda che la articola, anche se non la determina (ché come ogni “grammatica di superficie” non può che essere “selvaggia”); vale a dire al paradigma in base a cui si prendono le decisioni. Un paradigma però che ha cessato di fornire risposte adeguate ai problemi che esso stesso ha contribuito e contribuisce a creare, anche se solo un ristretto settore della società se ne rende pienamente conto. E’ questa, com’è noto, una situazione analoga a quella che secondo Thomas Kuhn si verifica nella storia della scienza allorché un paradigma scientifico non riesce a spiegare nuove scoperte ed invenzioni. Le numerose anomalie fanno perdere al paradigma il suo carattere di assolutezza e originano una crisi che termina solo quando un altro paradigma sostituisce il precedente. Ed è lo stesso Kuhn a paragonare le rivoluzioni scientifiche alle rivoluzioni politiche: «In una maniera più o meno identica [alle rivoluzioni politiche] le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente [...] che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente [...] Sia nello sviluppo sociale che in quello scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare a una crisi è un requisito preliminare di ogni rivoluzione [...] Le rivoluzioni politiche mirano a mutare le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni. Il loro successo richiede perciò l’abbandono parziale di un insieme di istituzioni a favore di altre» (3). Tralasciando il riferimento ad un “soggetto rivoluzionario”, che è assente da un pezzo in Europa, la descrizione della crisi del paradigma dominante coglie invece i tratti salienti del nostro orizzonte storico e ha il merito di mostrare l’impossibilità di un autentico mutamento strutturale senza un “ri-orientamento gestaltico”, che comporta l’introduzione di nuove regole e nuovi metodi, dato che per Kuhn chi «abbraccia un nuovo paradigma assomiglia [...] a colui che inforca occhiali con lenti invertenti. Sebbene abbia di fronte a sé lo stesso insieme di oggetti di prima e sia cosciente di ciò, egli li trova [...] completamente trasformati in parecchi dettagli» (4).

Nondimeno, si deve ammettere che il paradigma “occidentale” ha dimostrato (finora) di essere in grado non di risolvere ma di gestire la “krisis” tramite i media, l’industria culturale, il sistema educativo, il potere del denaro ed il controllo dell’apparato tecnico- produttivo. Peraltro, se si tralasciano gli spezzoni di “ideologie terminali”, le “sintesi” raffazzonate o deliranti, se non criptosioniste e/o criptoatlantiste, è affatto logico – non essendo possibile oggi ignorare che anche la politica interna è di necessità dipendente (e lo sarà ancora di più nel prossimo futuro per ragioni troppo chiare per dover essere spiegate) dai conflitti e dalle strategie geopolitiche – che l’unica alternativa possibile al paradigma ”occidentale” sia l’eurasiatismo, non solo perché è la prospettiva geopolitica “op-posta” rispetto a quella “occidentale”, ma perché, al contrario di quanto si è soliti pensare, difende esplicitamente un multipolarismo globale o, se si preferisce, un policentrismo globale che valorizzi le “differenze”, senza “perdere di vista” la diversa “provenienza storica”. Inoltre, a chi dovesse sostenere che l’eurasiatismo può forse essere significativo per la scienza delle religioni e, in generale, del mondo spirituale, (5) ma che non è “realistico” pensare che sia una “visione geopolitica del mondo” che possa effettivamente “ingranarsi” nella storia europea “qui ed ora”, si potrebbe far notare non solo che vi sono più cose in terra ed in cielo di quante ve ne siano nella testa di chi crede che “reale” sia solo ciò che appare “qui ed ora”, ma pure che sono proprio i “grandi spazi” eurasiatici che sono destinati ad essere dei protagonisti sulla scena internazionale e ai quali “qui ed ora” dovrebbero “ri-volgersi” gli europei, non per negare la propria origine, ma al contrario per ritrovarla «incamminandosi per una strada nuova in quanto alle coordinate storiche [...] lasciandosi alle spalle dilemmi inveterati e paralizzanti» (6). Ed è appunto questa “possibilità storica” che il processo di “occidentalizzazione” dell’Europa non è riuscito (ancora?) a cancellare. Quel che invece può considerarsi un “dato di fatto” è che fin quando l’Europa sarà “saldata” all’Atlantico continuerà ad essere una “nullità politica”. Una scelta che molti europei possono anche condividere, ma le cui conseguenze di carattere economico e sociale non possono che essere quelle che “qui ed ora” attanagliano buona parte di essi. Osserva, giustamente, Gianfranco La Grassa che i “terremoti finanziari” «dipendono dal venire in superficie delle pressioni cui sono sottoposte le varie “falde tettoniche”, in accentuata frizione le une contro le altre», e che «gli sconvolgimenti degli ultimi giorni sono del resto frutto di una crisi che dura da tempo e che non sarà sconfitta a breve; poiché non riguarda la sola economia, e tanto meno la finanza, l’aspetto semplicemente più appariscente e certo “tombale” per la maggioranza dei “poveracci”, bensì assetti dei rapporti di forza che ancora per molto vedranno un conflitto accanito» (6). Un giudizio lucido ed inequivocabile, di un teorico “postmarxista” dei conflitti politici ed economici, a conferma, se ve ne fosse bisogno, sia dell’impossibilità di scindere la funzione economica da quella politica, sia della necessità di comprendere le sfide del nostro tempo alla luce di una concezione geopolitica capace di render ragione della complessità del “campo di possibilità” su cui si fondano le decisioni del Politico, incluse, naturalmente, quelle degli strateghi del grande capitale finanziario.

Note

1) M. Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano, nota 5, p. 122.

2) Vedi P. Rossi, Lo storicismo contemporaneo, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 279.

3) T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, pp. 119-120.

4) Ibidem, p.151.

5) Questione non affatto secondaria, anche perché spesso fraintesa da chi ritiene che il punto debole dell’eurasiatismo consista principalmente nel fatto che Eurasia denoti una tale moltitudine di “cose e persone” che l’espressione “unità spirituale dell’Eurasia” non sarebbe altro che un “flatus vocis” che vorrebbe mettere insieme “cose e persone” che non possono stare insieme. A questo riguardo, Glauco Giuliano scrive che «l’idea di Eurasia, al di là delle determinazioni storico-geografiche, e dei pertinenti progetti conoscitivi, dovrà dunque intendersi come metafora dell’unità spirituale e culturale da ricomporre al termine dell’età cristiana ed in vista dell’oltrepassamento degli esiti di questa», G. Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis (Tn), p. 14 (ma sull’unità spirituale dell’Eurasia in quanto “vox significativa” si vedano anche i numerosi lavori di Claudio Mutti e in specie gli articoli su questo tema pubblicati dalla rivista “Eurasia”).

6) Ibidem, p. 13.

7) G. La Grassa, La mattanza, http://www.worlditaliantalents.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1607%3Ala-mattanza-&catid=89%3Aitalia-societa-e-politica-1&Itemid=472

http://www.cpeurasia.eu/

lunedì 4 luglio 2011

CONFLITTI, STRATEGIE E BENE COMUNE

 Non v'è dubbio che con la fine del bipolarismo e la crisi irreversibile del cosiddetto "socialismo reale" (da non identificare con il "metaracconto" del tramonto delle ideologie, che può essere considerato esso stesso espressione ideologica della postmodernità, in quanto pretende di essere un problematicismo non situazionale, ma assoluto) si sia compresa la necessità di avanzare nuove proposte teoriche, al fine di superare schemi concettuali del tutto anacronistici. Ci si è così potuti anche rendere conto che la tradizionale dicotomia destra/sinistra, più che una adeguata rappresentazione del politico, "maschera" il fatto che, in Occidente, sono gli strateghi del capitale a svolgere la funzione politica che permette di adeguare il sistema sociale alla crescita dell'apparato tecnico-produttivo.
Particolarmente significativo, al riguardo, è il lavoro teorico dello studioso "postmarxista" Gianfranco La Grassa che interpreta l'attuale fase delle società capitalistiche "occidentali" alla luce della politica di potenza degli Stati Uniti, dopo che il progetto americano di conseguire un'egemonia planetaria, mediante una serie di interventi militari in Eurasia, pare definitivamente abbandonato, per lasciare posto ad un "approccio indiretto", incentrato sulla "collaborazione" di gruppi sociali filo-occidentali (rivoluzioni colorate, destabilizzazione tramite l'esportazione dei cosiddetti "diritti umani", azione di "quinte colonne", sostegno all'american way of life etc.) presenti, sia pure in diversa misura, in qualsiasi Paese. Si tratta di un'analisi che, essendo attenta a cogliere l'importanza dei fattori geopolitici per una maggiore comprensione/spiegazione degli eventi storici, ma senza trascurare il conflitto sociale che è alla base della lotta politica, induce ad approfondire non solo la questione dell'interazione che i fattori geopolitici possono avere con i fattori economici, ideologici e culturali, ma pure quella concernente il rapporto tra l'imperialismo americano e la società di mercato. E' evidente, infatti, che, se non si critica la societa di mercato, non è facile giustificare la critica dell'imperialismo americano, dato che è del tutto logico che chi difende le ragioni della società di mercato ritenga che le stesse nozioni di sovranità e interesse nazionale intralcino la creazione di una comunità internazionale basata sul "libero mercato" e che il ruolo predominante degli Usa dipenda (quasi) esclusivamente dal fatto che il loro sistema sociale sia più avanzato e più progredito di qualsiasi altro sistema sociale. Mentre coloro che difendono un'idea di bene comune, a patto che siano coerenti, è naturale che vedano nell'imperialismo americano la forma più aggressiva e più pericolosa di mercificazione delle relazioni sociali, nonché la dissoluzione del legame comunitario e lo sradicamento di qualsiasi ethos diverso da quello angloamericano. D'altra parte, una volta che si sia ammesso che il conflitto strategico tra potenze è fondamentale per capire i fenomeni sociali (inclusi quelli economici), sembra impossibile poter mettere in relazione una nozione come quella di bene comune con quella di agire strategico, senza confondere due diversi ambiti di discorso: etico, o meglio apparentemente solo etico, il primo; politico e geopolitico il secondo.

Sotto questo profilo, è comprensibile allora che la stessa distinzione tra pubblico e privato venga considerata secondaria o addirittura “fuorviante” rispetto alla strategia per lo sviluppo e l'innovazione di un sistema sociale, soprattutto in un contesto politico internazionale contrassegnato dalla instabilità derivante dal passaggio da una fase unipolare ad una multipolare. Nondimeno, non pare eccessivo sostenere che è la stessa analisi strategica del conflitto, politico ed economico, che richiede una tematizzazione della nozione di bene comune, posto che si sostenga che l'interesse generale sia superiore ad interessi settoriali o, se si vuole, che l'interesse nazionale prevalga rispetto agli interessi delle varie lobbies, in conflitto tra di loro. Né si dovrebbe trascurare che, sebbene sia corretto distinguere il politico dalla morale soggettiva, tipica dei moderni, ciò che si intende per “etica” può anche rimandare ad un preciso orizzonte culturale e sociale (si pensi al linguaggio come istituzione cardine della vita di una comunità nazionale), con implicazioni di carattere antropologico e perfino ontologico. Tanto è vero che è su questo aspetto che si concentra la riflessione di Costanzo Preve, che, convinto anch'egli della obsolescenza del paradigma marxista, cerca di "declinare" il comunitarismo di de Benoist in senso aristotelico - evitando così il rischio di un "relativismo assoluto" – avvalendosi anche degli studi di antropologia economica, come quelli di Louis Dumont e di Karl Polanyi. Sì che è lecito ritenere che il discorso filosofico-politico sulla "comunità" – concepita come totalità superiore a (e distinta da) ciascuna della parti di cui si compone - dovrebbe essere interpretato come una riflessione non alternativa bensì complementare rispetto a quella teorica ed analitica sul politico, qualora si reputi essenziale delineare i tratti fondamentali di un agire strategico rivolto a difendere non un (più o meno vago) "dover essere", ma ciò che si (di)mostra "essere" il bene comune. E che siano due pensatori di formazione marxista, a sostenere l'uno (La Grassa) la rilevanza dell'agire strategico, l'altro (Preve) quella del bene comune, per l'elaborazione di una (nuova) teoria critica dell'attuale società di mercato (indipendentemente dal problema delle diverse forme di capitalismo), (1) non pare essere casuale, se la crisi del marxismo si è generata, essenzialmente, dal fatto che si è dovuto prendere atto che non vi è alcun nesso necessario tra la crescita delle forze produttive e lo sviluppo sociale. Non però nel senso che non è, o non è più, la classe operaia il "motore" del progresso, bensì nel senso, assai più rilevante, che tra le forze produttive e lo sviluppo sociale (da differenziare dunque dal mero "progresso", che invece sembra ormai essere una sorta di fatalità "socialtecnologica") vi è un nesso contingente, "non necessario", dipendendo dalla "forma politica" che “articola” l'economico e i rapporti sociali, se il sistema produttivo sia o non sia al servizio dell'interesse dell'intera comunità, come anche la storia di questi ultimi decenni conferma. Venuta meno la concezione (hegelo)marxista di una storia "uni-versale" - ovvero di una progressiva ed inevitabile "auto-manifestazione” dell'essenza dell'uomo - è l'economicismo che non è più in alcun modo giustificabile. Ovviamente, per i liberisti il problema non sembra neanche porsi, giacché secondo loro l'economia di mercato comporterebbe (grazie alla "mano invisibile" del mercato) di necessità una "crescita sociale", allocando le risorse economiche nel miglior modo possibile, al punto che essi considerano la nozione di bene comune solo un "flatus vocis" oppure tendono ad identificarla con il mercato. Ciononostante, oltre a criticare il "dogma" di un sistema economico ritenuto capace di autoregolarsi (e che ancora una volta dopo la Grande Depressione del '29, non solo ha richiesto il massiccio intervento dello Stato per evitare il crollo del sistema, ma si è rivelato essere un formidabile mezzo di destabilizzazione economica e sociale, che tende ad avvantaggiare una parte a discapito di tutte le altre) coloro che criticano la società di mercato possono, come si è già accennato, riferirsi ad una nozione "sostanziale" di bene comune, basandosi non su presupposti ideologici “volgari”, ma sia sulla storia e l'antropologia economica che su una rigorosa ontologia sociale e politica.

Del resto, è noto che le ricerche di Polanyi (ma si devono tener presenti anche i celebri studi di Marcel Mauss e Georges Bataille sull'economia del dono) dimostrano che, prima dell'avvento della moderna società capitalistica, non vi era alcuno spazio economico autonomo (il termine mercato è cioè, a differenza di quel che ritengono i liberisti, un termine equivoco, dato che può denotare realtà affatto diverse e niente affatto una “realtà naturale”) mentre erano le relazioni comunitarie e le istituzioni politiche e religiose a regolare la vita sociale ed economica. (Epperò, è giusto rammentare che anche Marx aveva già messo in luce l'influenza dei fattori non economici nel corso della storia, senza avallare una interpretazione deterministica del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura politica, tanto che, anche se aveva fatto l'apologia del progresso capitalistico, nell'ultima fase della sua vita ebbe a sostenere che era possibile passare direttamente ad una società socialista, ossia senza dover passare prima per uno "stadio capitalistico") (2). Inoltre, è merito dello studioso ungherese aver prestato particolare attenzione alla "mistificazione" su cui si deve fondare la società di mercato per poter funzionare, giacché moneta, terra e lavoro, pur essendo essenziali per il mercato, non sono merci (nessuno di essi è "prodotto per la vendita"); cosicché fingere che essi lo siano è sì possibile, anche se «nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni neanche per il più breve periodo di tempo a meno che la sua sostanza umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico meccanismo». (3) Un'osservazione, quest'ultima, che rinvia anche al ruolo svolto dalla tecnologia sociale per la produzione e/o manipolazione del consenso, onde poter controllare gli effetti negativi di tale meccanismo per quanto concerne quel "mondo della vita", senza il quale nessun tipo di comunità umana sarebbe possibile. Ma è pure degno di nota che, grazie anche agli studi di Polanyi, sempre più si faccia strada la consapevolezza dell'importanza della filosofia di Aristotele per un approccio di tipo anti-individualistico all'analisi dei fenomeni sociali, dato che allo Stagirita era ben chiaro che solo la funzione politica, subordinando la funzione economica alle "ragioni" dell'intero organismo sociale, poteva impedire alla crematistica ("l'arte di guadagnare") di alterare il rapporto tra mezzo (denaro) e fine (bisogni della comunità) e che si generasse, trasformando il mezzo in fine, un processo ("senza fine") di accumulazione di ricchezza. Ed invece «è esattamente questo il mondo in cui [oggi] viviamo», asserisce de Benoist,«dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti». (4) A giudizio di de Benoist, però non è sufficiente «appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario», dato che occorrono «idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico [per] contestare la globalizzazione in nome dei popoli» e si dovrebbe piuttosto cercare di realizzare «un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa [per] finirla con [...] il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili»; (5) ovverosia, si dovrebbe "oltrepassare” l'homo oeconomicus, facendo leva su una diversa idea dell'uomo, ma senza dimenticare la "lezione" del realismo politico (da Tucidide a Carl Schmitt). E ciò non è altro che rendersi conto del rapporto che sussiste tra agire strategico e bene comune (e usare espressioni quali minimo comun denominatore nazionale o interesse nazionale, non cambia "i termini" del problema); un rapporto che è a fondamento del politico, in quanto opposizione e scelta necessaria tra amico e nemico, anche se i liberali tendono a confondere la critica dello Stato con quella del politico, come se, con la scomparsa lo Stato nazione, dovessero scomparire pure il politico e le funzioni degli apparati coercitivi. D'altronde, se la scienza dei fenomeni economici può, e in qualche modo deve, “astrarre” dalle concrete relazioni sociali e "supporre" che siano fenomeni "isolati" (ma perfino le scienze della natura non possono prescindere completamente dalla cultura e dal linguaggio, come ha dimostrato l'epistemologia contemporanea), è innegabile che, se l'uomo è un animale politico, l'economico non possa non essere parte di una “totalità politica”; e, sotto questo punto di vista, la critica marxiana alle “robinsonate” dell'economia politica è certo da non rifiutare, ché l'individuo non può non “essere insieme con” altri individui, secondo ben definite relazioni politiche e sociali, che distinguono nettamente il rapporto tra uomini dal rapporto tra uomini e cose, considerate come “utilizzabili”, ossia come semplici mezzi (famosa è la dialettica “servo-padrone”, grazie alla quale Hegel mostra come la riduzione di un altro uomo a mezzo, instauri un processo storico assai differente da quello che può condurre l'uomo ad ampliare il proprio “dominio” della natura). E allora pare si debba insistere ancor più sul fatto che, proprio perché la crescita dell'apparato tecnico-produttivo “può” sia promuovere che ostacolare o “distorcere” lo sviluppo umano, è il politico che "decidendo" quale debba essere la "forma" (proprio in senso aristotelico, ovvero intesa come principio che ordina un molteplice, in continuo divenire, secondo un particolare "telos") (6) del mutamento sociale, si rivela essere la "chiave" per cercare di risolvere le contraddizioni della società di mercato. E che siano non semplici opposizioni, ma autentiche contraddizioni non è affatto strano perché, se la società di mercato si compone di forze opposte (semplice opposizione reale, come, ad esempio, tra lavoro e capitale; ma gli esempi si possono moltiplicare) che necessitano di una "mediazione" politica - vuoi per istituzionalizzare il conflitto vuoi per rimuovere qualsiasi "limes" (culturale, "ambientale" e ovviamente politico) che sia di ostacolo alla crescita illimitata del mercato - lo Stato dovrebbe invece, pur con tutti i possibili distinguo, non interferire o interferire il meno possibile con il mercato, per garantirne l'autonomia. Inoltre, la società di mercato “negando” quella sostanza, naturale e umana ( terra e lavoro), senza la quale - come si è già notato - essa stessa non potrebbe esistere, si configura non come l'impossibile “contenuto” di una contraddizione, ma come un “reale” contraddirsi, (7) che essa può “sostenere” solo perché il politico è in grado di gestire le ricorrenti crisi che ne conseguono, mediante la potenza militare, l'innovazione tecnologica e l'industria culturale. Non meraviglia allora che, nella “realtà storica”, per così dire, “dietro” la potenza economica non possa che esserci il “pugno” politico e militare e che sia decisivo il controllo dello Stato (prima di tutto della potenza dominante, poi delle potenze subdominanti), di modo da poter stabilire la strategia che si deve seguire: rafforzamento del Warfare State, finanziamenti pubblici alle banche, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, (s)vendita del patrimonio pubblico, subordinazione del sistema educativo agli imperativi del mercato, acquisizione del "dominio" di determinate aree geografiche, "ristrutturazione" di equilibri geopolitici, “guerre umanitarie” etc. Perciò, "conditio sine qua non" di un'alternativa (reale, non velleitaria o immaginaria) alla società di mercato non può che essere il controllo (non necessariamente la proprietà) politico della moneta e di quei mezzi di produzione che si debbano ritenere strategici per la sovranità e lo sviluppo di un Paese; nonché di quei beni e servizi che, indipendentemente da ogni considerazione economica, non possono essere privatizzati senza favorire la legittimazione della “colonizzazione” della “res publica” da parte del mercato, alterando radicalmente quell'orizzonte di senso condiviso (costumi, tradizioni, memoria storica, lingua etc.), che permette, in linea di principio, a tutti i membri di una comunità di avere una conoscenza "pre-riflessiva" del bene comune; ovvero di quei mondi vitali che, come struttura intersoggettiva dell'esperienza, precedono (onto)logicamente ogni altra attività umana, compresa la tecnoscienza, in quanto anch'essa, nonostante tutto, è una scienza dell'uomo (genitivo soggettivo). Da ciò, però, non deriva in alcun modo che si debba favorire l'ipertrofia della macchina (tecno)burocratica dello Stato (ossia il cosiddetto "statalismo"), funzionale, perlopiù, agli interessi di lobbies e di un ceto medio "semicolto" (come lo denomina La Grassa), che sottraggono ingenti risorse ai settori più dinamici della società e impediscono che si venga a creare un “circolo virtuoso” tra le forze produttive e l'azione politica ed economica dello Stato. Non ne consegue quindi che si debba difendere il settore pubblico solo perché pubblico, giacché vi può essere anche un settore pubblico che sia al servizio non della comunità, bensì di potenti gruppi di interesse, nazionali ed anche stranieri. Necessario è invece che lo Stato, allo scopo di contrastare la logica aberrante dell'oligarchia atlantista e dell'imperialismo, ormai manifestamente criminale, degli Stati Uniti, possa “incastonare” il mercato in un ampio ventaglio di istituzioni, facendo valere ordini, misure e proporzioni in ogni ambito sociale, senza comprimere oltre “misura” la sfera personale, ché anzi responsabilizzazione e autonomia decisionale devono essere sempre incoraggiati, laddove sia possibile. (Si tenga presente che, a differenza del totalitarismo, una concezione olistica della società non nega che vi sia una tensione strutturale tra “esistenza” e storia, poiché il singolo è pur sempre capace di trascendere, in un certo senso, il proprio “ambiente”. Le relazioni sociali e culturali cioè non “esauriscono” la sfera personale, dato che il singolo individuo non è “soltanto” parte di una totalità sociale, sebbene quest'ultima sia l'indispensabile “sostegno” affinché vi possa essere una effettiva trascendenza della concreta situazione storica in cui si radica il nostro “Esser-ci"; tanto che come scrive Luigi Ruggiu, «la nostra identità è insieme duplice ed una: quella segnata dalla comunità alla quale ciascuno di noi appartiene, e quella di ciascuno di noi il cui sé si pone come membro attivo di una comunità storica concreta »). (8)
A tale proposito, non è possibile non considerare che in guerra, ovvero allorché può essere in gioco addirittura l'esistenza stessa di un'intera comunità nazionale, è lo Stato che dirige tutte le forze di una nazione per il raggiungimento di un obiettivo comune. Che ciò dipenda dal fatto che sia una situazione eccezionale è indubbio, ma come insegna Carl Schmitt è l'eccezione che ci fa comprendere la regola, non viceversa. La guerra come “stato d'eccezione” rivela cioè sia la natura metaindividuale (che la tradizionale concezione politica del liberalismo non “com-prende”) della comunità politica sia la “possibilità” che ha lo Stato di “in-formare” e dirigere una collettività non solo in quanto detentore del monopolio dell'uso legittimo della forza, ma anche e soprattutto come  "ragione pubblica" su cui si fonda l'unità di un popolo. Per questo motivo, come von Clausewitz comprese perfettamente, lo Stato può “condurre” quella “ impresa” che è la guerra, non in quanto “macchina”, ma in quanto organizzazione politica “razionale”, ovvero, secondo il teorico prussiano, in quanto intelligenza “personificata” avente la “forza morale”, ossia la "potenza", per chiedere ai cittadini di essere pronti a sacrificare anche la propria vita per il bene della comunità e che ordina, comanda e dispone agendo come un “soggetto unitario” (se per Sun Tzu la guerra può conseguire uno scopo politico basandosi sul Tao, sull'armonia tra il popolo e il sovrano, e se per Machiavelli la strategia dipende dalla saldezza dello Stato, per von Clausewitz, cui non sfugge il ruolo  delle masse nella guerra moderna, "razionalità" politica ed azione di comando devono essere appunto la messa "in forma" delle passioni che caratterizzano un popolo, cioè  della "volontà di potenza" di un popolo). Ed è pacifico che nessun gruppo “privato” possa agire in tal modo, se non trasformandosi in una forza politica (e tantomeno “l'impresa militare” può essere affidata al “libero mercato”, se non per alcuni aspetti della logistica). Parafrasando von Clausewitz allora si potrebbe affermare che l'economico ha una sua grammatica ma non una sua logica, ché solo una logica politica conferisce quell'unità d'azione senza la quale il conflitto sociale e la competizione economica degenerano inevitabilmente in “spirito di fazione”. Un pericolo però, quest'ultimo, che, in effetti, non corre la talassocrazia americana (come non lo correva quella inglese) dato che – e proprio in quanto “talassocrazia” - essa si basa sull'alleanza strategica tra il grande capitale finanziario (per sua “natura” apolide) e lo Stato, di modo che l'apparato tecnico-produttivo si sviluppi secondo una logica politica che favorisca la potenza capitalistica dominante (che può anche contare su una miriade di organizzazioni ed enti internazionali), nonché i “gruppi” e gli Stati subdominanti (come Israele e la Gran Bretagna), e che diffonda in tutto il mondo l'ideologia americanista, onde assicurarsi il consenso delle “masse popolari”, senza il quale la “forza morale” necessaria per alimentare la gigantesca “macchina da guerra” (in senso letterale e figurato) statunitense e dei principali alleati degli Usa verrebbe rapidamente meno. Di fatto, il mercato, lungi dall'essere "politicamente neutro" (né lo sono la maggior parte delle organizzazioni umanitarie e delle Ong che promuovono, anche se sovente in modo surrettizio, la privatizzazione dei diritti sociali) – si rivela essere il “veicolo” attraverso il quale gli Usa e, in generale, il capitalismo finanziario possono conservare e rafforzare la propria egemonia politica e culturale; a tal punto che, in Eurolandia, si è potuto quasi smantellare lo Stato sociale e si è giunti persino a ridurre in “servitù per debiti” interi Paesi. Mentre la crisi irreversibile della socialdemocrazia e del socialismo reale ha originato non il generico indebolimento degli Stati nazione, a vantaggio di organismi cosiddetti “sovranazionali”, ma di quegli Stati nazione, come l'Italia, privi di autentica sovranità nazionale.

Si deve pertanto constatare che, perlomeno in Europa, nonostante la gravissima crisi economico-finanziaria che attanaglia il “mondo occidentale”, e in specie l'America, non vi sono né le condizioni politiche né le condizioni culturali per contrapporsi in modo efficace alla “volontà di potenza” atlantista e, di conseguenza, alla società di mercato. Da un lato, la strumentalizzazione, in funzione antifascista o anticomunista, della “memoria storica”, ovvero dell'estremismo nazionalista e dell'involuzione totalitaria dello Stato nella prima metà del secolo scorso, non solo rende difficile comprendere che l'olismo ed il totalitarismo sono concezioni del tutto diverse, ma blocca ogni tentativo di superare il sistema liberaldemocratico al fine di evitare che gli egoismi corporativi “soffochino” l'unità dello Stato, che non è una “astrazione metafisica”, bensì una “forza reale”, anzi l'unica forza che possa arginare gli “appetiti” illimitati dell'oligarchia atlantista” (e questo lo si deve ribadire “contro” ogni forma “ingenua” di comunitarismo). Dall'altro - pur se è vieppiù palese che la lottizzazione della cosa pubblica, l'abuso dei privilegi, la separazione tra eletti ed elettori e gli innumerevoli “difetti” della democrazia liberale sono inconvenienti strutturali del sistema di potere “occidentale” - l'americanismo, che è appunto un “ismo”, continua ad essere l'orizzonte politico-ideologico delle masse popolari (“occidentali” e non); e si sa che in politica, come in guerra, l'intenzione ostile non basta, ché occorre anche il sentimento ostile; ossia per governare, nel vero senso della parola, occorre il consenso. In questa situazione, quindi è irrealistico pensare che sia possibile smarcarsi dagli Usa o che alcuni membri della classe dirigente di un Paese europeo siano disposti a farlo, magari sfruttando il conflitto tra dominanti (che è inevitabile sia perché non v'è struttura politica che sia monolitica, sia per quella eterogenesi dei fini che fa sì che nessun sistema possa mai considerarsi del tutto autoreferenziale), giacché verrebbe a mancare proprio il consenso popolare, a meno che non si riuscisse a valorizzare le competenze generali e strategiche per ridefinire il bene comune in funzione di un progetto politico e culturale il più possibile “condiviso”. Comunque sia, tenendo conto pure che la quasi totalità delle relazioni personali, culturali e politiche (“libertà” inclusa) in una società di mercato sono mediate dal “potere” del denaro, ciò equivarrebbe più a formulare correttamente il problema del “giusto” rapporto tra il politico e l'economico che non a risolverlo. In ogni caso, anziché immaginare improbabili soggetti rivoluzionari, rischiando di finire nelle file dei “rivoluzionari colorati”, si dovrebbe almeno mirare a (far) comprendere le ragioni politiche per cui converrebbe dar vita ad un "grande spazio" geopolitico opposto a quello angloamericano (tanto più adesso che l'euro sembra rendere inevitabile il fallimento politico dell'Ue, o, se si preferisce, di “questa” Ue). Non perché si debba sostituire la filosofia con la geopolitica, bensì perché “Stato e potenza” dovrebbe essere una “formula politica” tanto realistica quanto “giusta”. Vale a dire che, anche sotto questo rispetto, si conferma che vi è bisogno di una posizione che sappia mettere in relazione l'agire strategico con la difesa di una idea di giustizia. Il che è, in definitiva, il riconoscimento della perenne validità dell'insegnamento della filosofia (politica) dei Greci.

Note

1) Per quanto concerne Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa, ci si riferisce specialmente alla loro produzione intellettuale negli ultimi due decenni. Saggi e/o articoli di entrambi sono disponibili anche in rete (vedi, ad esempio, per Preve, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/e-books_free_01-20.html; mentre per La Grassa http://conflittiestrategie.splinder.com/).
2) Interessanti considerazioni in relazione a questo problema si trovano in Angelo d'Orsi, "Piccolo manuale di storiografia", Bruno Mondadori, Milano, pp.13-16.
3) Karl Polanyi, "La grande trasformazione", Einaudi, Torino, p. 95.
4) Alain de Benoist, "Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo", http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=39052
5) Ibidem.
6) Ciò, di per sé, implica una critica dell'ideologia della crescita, e, in generale, di quel che si suole denominare “il regno della quantità”, ma non per questo si deve giustificare (perlomeno dal punto di vista politico) un semplicistico “rifiuto” della modernità, rinunciando a cercare di «imprigionare la tecnica scatenata, domarla e [...] metterla in un ordinamento concreto» (Carl Schmitt, "Dialogo sullo spazio", in Carl Schmitt, "Terra e mare", Giuffrè, Milano, 1986, p.108). E forse è questo problema che i teorici della decrescita, anche loro più attenti agli aspetti quantitativi della crescita che non a quelli qualitativi dello sviluppo, pare non prendano in sufficiente considerazione.
7) Sulla "realtà" della contraddizione non si può che rimandare all'eccellente saggio di Emanuele Severino "Tramonto del marxismo. Discussione con Lucio Colletti e risposta semiseria a Paolo Rossi", in Emanuele Severino, "Gli abitatori del tempo", Armando , Roma, 1978, pp. 36-115. Naturalmente, se e solo se si concepisce la società di mercato ("capitalistica") secondo una metodologia diversa da quella delle scienze della natura, ossia come "soggetto" - anziché come semplice aggregato, più o meno stabile, di individui, negando quindi che le relazioni sociali siano costitutive per l'individuo – è lecito affermare che la realtà sociale può "contraddirsi", altrimenti ciò sarebbe assurdo.
8) Luigi Ruggiu, "Riconoscimento e conflitti", in Luigi Ruggiu e Francesco Mora ( a cura di ), "Identità, differenza, conflitti", Mimesis, Milano, 2008, p.89.
http://www.cpeurasia.eu/

LA GIUSTA MISURA. PER UNA METAPOLITICA EURASIATISTA

1.1 Critica della concezione "liberal-liberista" del Politico.

Vi sono ben pochi dubbi che il tratto distintivo del liberismo consista nel considerare la società come un’entità non diversa dalla semplice somma dei suoi membri (in quanto si esclude che il tutto sia altro che la somma delle parti che lo compongono) e che per questo motivo «l’analisi liberale del fatto sociale si basa [...] o sull’approccio contrattuale (Locke) o sul ricorso alla mano invisibile (Smith), o sull’idea di un ordine spontaneo, non subordinato a un qualche disegno (Hayek)». (1) In particolare, per il teorico viennese, la società è una mera astrazione, reale è solo l’individuo, vale a dire l’individuo “presociale”, privo di ogni appartenenza e di qualsiasi relazione identitaria. Von Hayek ritiene che una società complessa come quella moderna possa funzionare soltanto se si affida al mercato, dato che la «nostra civiltà dipende, non solo nella sua origine, ma anche nella sua preservazione, da quello che può venir descritto unicamente come l’ordine esteso della cooperazione umana, ma che viene più comunemente [...] conosciuto come capitalismo». (2).

Difficilmente si potrebbero sintetizzare meglio le premesse su cui si basa il pensiero degli esponenti della scuola marginalista austriaca (cioè, oltre a Friedrich von Hayek, Carl Menger e Ludwig von Mises), nonché quello dei cosiddetti “anarcocapitalisti” (come, ad esempio, Murray Newton Rothbard). Infatti, nella frase sopraccitata, non solo si sostiene implicitamente che la civiltà occidentale è superiore a qualsiasi altra civiltà (poiché è l’unica in cui vi sia autentica cooperazione umana, che non differisce da ciò che si è soliti denominare capitalismo), ma si afferma esplicitamente che il mercato è a fondamento della civiltà occidentale (evidentemente senza che vi possa essere alcuna differenza tra civiltà europea e civiltà occidentale). Ne consegue che non solo l’attuale società di mercato angloamericana sarebbe la forma più alta di civiltà che sia mai esistita – una conclusione inevitabile una volta che si siano accettati determinati presupposti – ma che il mercato sarebbe un ordine spontaneo, in un certo senso “naturale”, mentre ogni forma di “costruttivismo” potrebbe andar bene tutt’al più per una società tribale e l’idea di giustizia sociale altro non sarebbe che un’espressione priva di senso, che deriverebbe da “ubbie” dei cacciatori paleolitici. 

Ciononostante – anche a prescindere dal fatto che non si può certo ritenere che il mercato sia un sistema in grado di regolarsi solo perché «l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino: la sua stessa ragione progredisce sempre portandolo verso l’ignoto e l’imprevisto, dove egli impara nuove cose» – (3) gli studi scientifici della storia (e della antropologia) sociale ed economica, hanno dimostrato che la formazione di uno spazio economico autonomo, lungi dall’essere “naturale”, è frutto di un lungo e complesso processo storico. Tanto è vero che Louis Dumont sostiene: «Con il mondo moderno è avvenuta una rivoluzione [...] E’ solo a partire da quel momento che si può tracciare una distinzione chiara tra ciò che chiamiamo “politico” e ciò che chiamiamo “economico”. Si tratta di una distinzione che le società tradizionali non conoscevano». (4). Per questo motivo, Luigi Ruggiu può affermare che «è solo a prezzo di arbitrarie interpretazioni che i fatti economici delle società precapitaliste possono essere riuniti assieme per formare un sistema economico in qualche modo autosufficiente, con proprie leggi e specifici comportamenti, riportabili nell’alveo dell’agire economico». (5) 

Di fatto, nelle società primitive e in quelle storiche del mondo antico, il sistema delle relazioni economiche è «non solo diversamente organizzato rispetto alle relazioni di mercato, ma anche vive al di fuori della stessa forma economica. Sono forme metaeconomiche quali la religione, la politica o le relazioni comunitarie che organizzano i fatti economici, imponendo ad essi le proprie leggi e le proprie finalità complessive». (6) E sono gli studi di Karl Polanyi che attestano non solo che l’antica Atene, anche se le relazioni commerciali ed una certa diffusione della moneta avevano portato ad uno sviluppo considerevole della sfera economica, aveva esteso la direzione politica a tutti gli ambiti dell’attività economica, ma che con l’avvento della società di mercato, invece di essere l’economia incastonata nelle relazioni sociali, sono le relazioni sociali ad essere incastonate nelle realazioni economiche. (7) 

Si tratta di “dati duri” delle scienze dell’uomo, contro i quali non può non “infrangersi” il tentativo dei teorici liberisti di far apparire come “naturale” e spontaneo ciò che in realtà è “artificiale” e storico (e, per Polanyi la società di mercato costituisce addirittura un’eccezione dal punto di vista storico). Non è comunque una novità che i liberisti abbiano sempre avuto difficoltà ad intepretare gli eventi storici. Oltre a mettere in discussione i costi umani e sociali della “grande trasformazione”, cioè della rivoluzione industriale, e alla difficoltà di interpretare la crisi del 1929 e le drammatiche conseguenze che ebbe non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero (e, in particolare, per la Germania), von Hayek, negli anni Quaranta del secolo scorso, non esitò a prevedere, in Road to Serfdom, che la regolamentazione del mercato da parte dello Stato avrebbe causato la distruzione della democrazia politica e delle libertà personali. E’ altresì degno di nota che egli abbia espresso questi giudizi nell’anno (1944) in cui venne pubblicato il libro di Polanyi La grande trasformazione, opera nella quale il grande studioso di origine ungherese confuta la tesi della determinazione economica della società e della storia, ovvero proprio la tesi difesa da von Hayek in Road to Serfdom, dato che quest’opera «si può considerare [...] come un’estrapolazione diretta del determinismo economico». (8) 

Del resto, von Hayek, allorché afferma che, se si vuole perseguire un fine comune, «tutta l’organizzazione per la diffusione della cultura, la scuola e la stampa, la radio e il cinema, tutto verrà usato esclusivamente per diffondere quelle opinioni che – vere o false che siano – valgano a rafforzare la fede nella giustizia delle decisioni prese dall’autorità», (9) sembra inconsapevolmente descrivere proprio quel “pensiero unico” che contraddistingue l’aberrante globalizzazione “turbocapitalista” di questi ultimi vent’anni, la “fede nel mercato” avendo sostituito, in Occidente, quasi del tutto, qualsiasi altra “fede politica” (e non soltanto politica). Ma la stessa crescita della macchina statale, come dimostra Polanyi, dipende in gran parte dalla necessità di porre rimedio ai danni causati al tessuto sociale dalla logica di mercato.

 Perciò non meraviglia che, laddove sia venuta meno la sinergia tra Stato e mercato, che caretterizzava il Welfare, si verifichi una progressiva dissoluzione del legame sociale e le istituzioni politiche tendano a configurarsi come un sottosistema del sistema tecnico-produttivo della potenza predominante. Oppure si assista alla formazione di un Warfare State, come negli Usa (e non si dovrebbe nemmeno ignorare che fu la Seconda guerra mondiale a “rilanciare” l’economia americana, a tal punto che, alla fine della guerra, gli Stati Uniti, in termini economici, erano i padroni del mondo), che garantisce al mercato la potenza necessaria per espandersi e al tempo stesso l’intervento dello Stato, allorquando, ad esempio, il sistema economico minaccia di collassare per il formarsi di gigantesche “bolle finanziarie”, ossia per la divaricazione tra “economia reale” e finanza. Osserva giustamente de Benoist che «l’idea secondo cui l’uomo agisce liberamente e razionalmente sul mercato non è altro che un postulato utopico, giacché i fatti economici non sono mai autonomi, bensì relativi a un determinato contesto culturale e sociale»; ed aggiunge: «Non esiste una razionalità economica innata, essa è il prodotto di una ben determinata elaborazione storico-sociale». (10) 

L’ipotesi liberale, che suppone che l’individuo sia un tutto completo a sé stante, è quindi priva di fondamento storico ed antropologico, utile tutt'al più per elaborare modelli economici, ma non in grado di rendere conto del “concreto” agire dell’uomo, che non è mai determinato solo da fattori economici o spiegabile solo in base a fatti economici. Secondo Pierre Rosanavallon «lo Stato nazionale e il mercato rimandano ad una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Sono pensabili solo nel contesto di una società atomizzata nella quale l’individuo è considerato autonomo». (11) Vale a dire che lo si considera tale, sebbene non lo sia completamente, poiché, perfino in una società atomizzata, cioè in una società di mercato, l’individuo è pur sempre embedded in una miriade di relazioni sociali. Quel che cambia è la “natura” di tali relazioni, in quanto vengono a dipendere da un sistema economico che, colonizzando tutti i mondi vitali, minaccia di trasformare l’individuo in un atomo sociale, del tutto in balia di forze che in alcun modo può controllare.

 Ma la concezione liberale comporta anche una pericolosa mistificazione del politico, considerato, in definitiva, qualcosa di “negativo”, che ostacola la “cooperazione umana”, ovvero, per von Hayek e, in generale, per i liberali, il “libero mercato”. Il che pressuppone non solo che non vi sia alcuna differenza tra il politico e lo Stato – e gli anarcocapitalisti, che pensano che lo Stato sia da abolire, o meglio da privatizzare totalmente, assimilano il politico ad un insieme di regole liberamente accettate dai membri di un’associazione, qualunque essa sia – ma che il mercato, in quanto capace di autoregolarsi senza l’interferenza dello Stato (cioè del politico), potrebbe creare le condizioni per arrivare ad una definitiva scomparsa della guerra. Nondimeno, per quanto sia facile constatare che la storia del Novecento e soprattutto quella recente ha “falsificato” definitivamente siffatta “congettura”, la critica della concezione liberale del politico non può ignorare l’esigenza di chiedersi come sia possibile che un ordinamento sociale sia fondato sul rapporto tra unità politica e individualità personale.

 1.2 Il Politico e il Nomos della Terra

E’ stato lo stesso Carl Schmitt ad affermare: «Io fondo lo Stato sul politico e non il politico sullo Stato [...] Ciò che fa lo Stato è politico». (12) Per il filosofo tedesco del diritto, infatti, l’essenza del politico consiste nella distinzione/opposizione “amico versus nemico”; distinzione/opposizione che articola l’agire degli uomini in quanto animali politici (si badi, non “animali sociali”). In sostanza, ciò significa che il politico è una “dimensione” costitutiva dell’agire dell’uomo, un destino dell’uomo, e che di conseguenza il conflitto tra gli uomini non lo si può eliminare. E Schmitt non solo mostra che, quando l’economia sembra prevalere rispetto alla politica, in realtà si è in presenza di una politica mistificata e mistificante, ma anche che tale mistificazione fa sì che il “nemico” (cioè, lo justus hostis, il nemico pubblico, da non confondere con l’inimicus, il nemico privato) venga concepito come un criminale o un “folle”: «Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato “hors-la-loi” e “hors-l’humanité” e quindi che la guerra deve essere portata fino all’estrema inumanità». (13)

L’amore “astratto” per l’umanità si rivela allora veicolo di una volontà di potenza “il-limitata”, che vuole cioè illimitatamente accrescere la propria potenza e che non esita a strumentalizzare i “diritti umani” per giustificare un sistema che non riconosce i diritti sociali e per legittimare le cosiddette “guerre umanitarie”, che annientano gli uomini “in carne ed ossa”. Conseguenza paradossale, ma inevitabile, dell’assimilazione del politico al “negativo” che contraddistingue l’universalismo individualistico liberale, dato che crea, «cristallizzandosi all’interno della vita politica, le condizioni di una trasformazione radicale della guerra, che [dopo il tramonto dello jus publicum europaeum] si troverà ad essere condannata sul piano del principio e nel contempo notevolmente aggravata sul piano della prassi». (14) Tutto ciò prova che il mercato, ben lungi dal poter eliminare il conflitto tra i diversi gruppi umani (e la guerra non è altro, secondo la famosa definizione di von Clausewitz, che il proseguimento della politica con altri mezzi), proprio in quanto si vuole indipendente da ogni “ordine politico”, ovverosia in quanto pretende di autoregolarsi, si configura, surrettiziamente, esso stesso come espressione della volontà politica di un particolare gruppo sociale e/o di una particolare “potenza”.

Laddove cioè si vuole che siano le ragioni del mercato a “decidere”, e non il politico, vi è sempre la logica politica del dominio sociale e/o dell’imperialismo economico (in passato, l’imperialismo inglese, oggi quello americano, ben più pericoloso e “totalizzante”). L’aspetto politico della “decisione” lo si può “rimuovere”, ma non è possibile cancellarlo. Competizione e concorrenza, possono riguardare certi ambiti sociali o designare i meccanismi mediante i quali un sistema sociale e/o la comunità internazionale “istituzionalizzano” il conflitto. Ma è la “volontà politica” che fonda un determinato ordine, non viceversa. Vale a dire che la la “volontà politica” è, come direbbero gli Scolastici, causa essendi e non semplice causa efficiente di un ordine, quasi che esso, una volta posto in essere, fosse totalmente “auto-nomo”. Né ciò sembra essere senza relazione con la nota tesi di Carl Schmitt secondo cui sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. Tuttavia, se Schimtt critica la concezione del diritto come norma e difende il “decisionismo”, in nome non di un’astratta ideologia bensì del realismo politico, egli, nel suo opus magnum, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus publicum Europaum, difende pure la tesi del diritto come istituzione, come «unità di ordinamento (Ordnung) e localizzazione (Ortung)». (15)

D’altra parte, l’appropriazione della terra e l’instaurazione di un ordine si configurano come un “taglio” (ossia una “de-cisione”) che avviene mediante la “de-limitazione” di uno spazio, sebbene nomos, secondo Schmitt, denoti, oltre all’appropriazione (Nahme) e all’atto performativo della denominazione (Name) della terra, sia l’azione del dividere e dello spartire (che concerne la giustizia distributiva) sia il coltivare e il produrre. Vi è però, ad avviso di Schmitt, una sorta di gerarchia tra questi tre processi (16) (benché tutt’e tre siano costitutivi di ogni ordinamento sociale e giuridico): «Ogni ordinamento fondamentale è un ordinamento spaziale. Quando si parla della costituzione di un paese o di un continente, ci si riferisce al suo ordinamento fondamentale, al suo nomos. Ora, il vero, autentico ordinamento fondamentale si basa, nella sua essenza, su determinati confini e delimitazioni spaziali, su determinate misure e su una determinata spartizione della terra. Al principio di ogni grande epoca c’è quindi una grande conquista di terra». (17) Sotto questo profilo, non si può non rilevare il nesso tra il pensiero di Schmitt e la conferenza di Martin Heidegger Costruire, abitare, pensare. (18) Un nesso che è perlomeno altrettanto rilevante di quello che Karl Löwith critica aspramente, ossia quello tra il decisionismo politico di Schmitt e la filosofia heideggeriana del tempo e della “fatticità storica”, (19) dato che, per Löwith, Schmitt difende una forma di nichilismo, considerando come unico scopo dell’uomo la guerra, «l’essere pronti al nulla, cioè alla morte [esattamente come l'heideggeriano "essere per la morte" in Essere e tempo] intesa come sacrificio della vita per uno Stato, il cui “presupposto”, è già la politica decisiva». (20)

Peraltro, anche nel caso che le obiezioni di Löwith (indubbiamente non esenti da gravi pregiudizi ideologici, anche perché Löwith, nell’interpretare sia il pensiero di Heideggger che quello di Schmitt, privilegia i dati biografici, in quanto questi ultimi sarebbero, a suo parere, di fondamentale importanza per comprendere il pensiero di un filosofo) non si considerino del tutto infondate, pare lecito ritenere che gli studi di Schmitt sul nomos della terra, evidenziando la connessione tra appropriazione, distribuzione e produzione, si possano intendere anche come una convincente risposta ai suoi critici (Löwith incluso). Inoltre, da un lato, si deve osservare che la filosofia di Heidegger non mira, in primo luogo, a comprendere l’essere dell’Esserci (ossia non è una antropologia filosofica né una forma di esistenzialismo), bensì l’Essere in quanto differente dall’ente (la differenza ontologica), al fine di distruggere l’ontoteologia del pensiero metafisico (a cui Heidegger imputa la responsabilità dell’oblio della differenza tra Essere ed ente), interrogando l’inizio stesso della filosofia (e della metafisica) nell’epoca della fine della filosofia. (21) Dall’altro, si deve tener conto che nelle opere di Schmitt (che definì sempre sé stesso “solo” come un giurista) non vi è una esplicita analisi filosofica dell’essere dell’uomo, nonostante che si possa affermare che egli condivide (proprio come Tucidide, Machiavelli ed Hobbes) l’idea che la natura umana sia “opaca” e strutturalmente “negativa”. Un “pessimismo antropologico” che conduce Schmitt a valorizzare il katechon come “figura chiave” per la comprensione della funzione politica. Al riguardo, Giuseppe Antonio Di Marco afferma che il Leviatano di Hobbes, ossia l’uomo artificiale, anche se trascende «la semplice somma delle volontà dei singoli artefici, [...] rimane pur sempre un artificio e quindi non può portare dentro di sé la sostanza dell’infinità finita, come il dio terreno hegeliano [, ovvero,] in quanto artificio, non può dar luogo a un’autentica [...] totalità [dacché] un intero che può essere reso presente solo dalla rappresentanza, cioè da un artificio, può essere usato e distrutto. [...] Viceversa, il dio terreno di Hegel è in grado di presentificare, e non solo di rappresentare, l’intero, per cui l’artificiale della macchina viene compreso entro la totalità e così la tendenza disgregatrice viene frenata». (22) 

Perciò, «Hegel accanto a Savigny [entrambi sostenitori del diritto come istituzione], anche se con qualche differenza, ha la funzione di frenatore, di “katechon” rispetto [al processo di] distruzione dello jus publicum europaeum». (23) D’altronde, pare essenziale per la comprensione del significato del politico il fatto che la volontà di abitare una terra e di darsi un ordinamento concreto, non possa non radicarsi in un contesto storico-culturale e non presupporre un orizzonte di senso condiviso, mediato dal linguaggio (e si deve pur tener presnte che nel mondo antico l’atto mediante il quale un popolo si appropria di una terra o fonda una città è un rito, cioè ha sempre un carattere sacrale). (24) Ma non è forse la stessa concezione secondo cui l’essenza del politico consiste nella contrapposizione tra amico e nemico, ossia nel conflitto – tanto da poter pensare che la politica sia la prosecuzione della guerra con altri mezzi – che mostra l’esigenza di prendere in considerazione il “sostrato antropologico” del politico? (Un “sostrato” che il liberalismo “riduce” all’individuo “astratto”, non solo nel senso hegeliano del termine – che significa “irrelato” o “isolato” – ma anche “astratto” in quanto astrazione, o meglio “finzione” dell’economia politica, benché si tratti di una “finzione produttiva”, giacché l’individuo “isolato” è appunto “prodotto” dalla società di mercato, come prova la celebre analisi marxiana di Robinson Crusoe, il personaggio dell’omonimo romanzo di Daniel De Foe, il quale si comporta come un normale borghese che crede nella “mano invisibile” del mercato e nei meccanismi “naturali” dei processi produttivi, quasi che non vi fosse alcuna differenza tra società primitive o antiche e quelle moderne).


 1.3 Il Politico e la Giusta Misura.

Se l’agire politico è “proprio” dell’uomo, dell’animale (politico) razionale, allora non è affatto strano che Platone veda nello Stato il “grande uomo” e l’analogia tra la virtù individuale e quella dello Stato sia alla base dell’indagine sulla giustizia nella Repubblica, un dialogo in cui il conflitto tra città e all’interno delle singole città non appare “altro” dal conflitto che agita l’anima dell’uomo, ché dalla corruzione di quest’ultima si origina la guerra. E il conflitto, sia come polemos che come stasis (la guerra civile), è, per Platone, il necessario “presupposto” della riflessione sul politico. La stessa condanna a morte di Socrate non è comprensibile senza la terribile guerra del Peloponneso, in cui «per dirla con le parole di chi volle consegnare a perenne memoria quel tempo e gli avvenimenti che lo segnarono, la morte imperò “con i suoi innumeri volti”, ed ogni tradimento, ogni spergiuro, ogni nefandezza, perpetrati con mano pronta e felice e con mente solerte, costituirono titolo d’onore. L’avidità del potere [...] e tutte quelle tendenze [...] che per solito vengono tenute a bada, dimostrarono chiaramente che cosa fosse la natura umana». (25).

Epperò, Platone, sebbene abbia ben presenti gli impulsi sinistri della natura umana, non può fare a meno «di guardare le cose a distanza», ritenendo che il compito del filosofo consista ormai in una nuova fondazione dell’uomo e dello Stato insieme. (26) Il problema che la Repubblica deve risolvere concerne l’ antropologia politica, non è un problema di “ingegneria costituzionale”, come invece pensa Aristotele, la cui intepretazione della filosofia platonica è all’origine dell’errata caratterizzazione di Platone come “utopista”. Platone cioè comprende che la krisis della polis deriva dalla mancanza di un principio di bene comune e che è irrealistico pensare di poter cambiare la “forma” della polis, senza cambiare i cittadini. E’ allora evidente che non è affatto una “forzatura ermeneutica” di Massimo Cacciari, considerare Platone come un pensatore politico “realista”, dacché la Repubblica non può rappresentare una polis completamente “sana” e in nessun modo si può interpretare la filosofia platonica come «pretesa di eliminare astrattamente la contraddittorietà del politico nell’unità dell’idea»: come potrebbe una costituzione risolvere quel conflitto «dell’anima, che è l’anima», se anche l’anima che si eleva fino all’iperuranio, prima o poi, si appesantisce, perde le ali e precipita a terra di nuovo (Fedro 248b-c)?. Innegabile invece che la politeia «il prodotto massimo dell’”arte politica”, non mantiene in salute ciò che è già sano, ma permette di “curare” (ha cura di) ciò che ha perduto la salute». (27) Nessuna “ingenua” scissione tra essere e dover essere, nessuna utopia, dunque, semmai “a-topia”, discorso fuori dall’ordinario sul politico, ossia rigorosamente “meta-politico”, ma al tempo stesso del tutto disincantato: polis vi è solo laddove è necessario vi sia techne politiké. Quando, in illo tempore, è il Dio a governare, nessuna techne politiké è necessaria. Ma allora non c’è neanche alcuna polis né alcun conflitto (Politico 271e).

Tuttavia, al tempo in cui scrive Platone, non solo non vi è più la “tradizione”, il mito come “parola vera” che possa “ordinare” la città, ma perfino la parola dei “sapienti” non può più persuadere “i mortali a due teste”. La Dike dei “sapienti” può essere sì ancora “misura” dell’ordine divino del mondo, ma non è più sufficiente a “misurare” il mondo degli uomini. La stessa molteplicità dei “discorsi intorno alla natura” si ritiene esser segno che non è possibile risolvere stabilmente il conflitto che “cova” dentro ogni uomo e in ogni comunità, mediante quella “misura cosmica” sulla quale – per Parmenide o Pitagora (ma pure per il “democratico” Empdocle), “sapienti” e politici ad un tempo – (28) doveva basarsi il “buon governo” della città, dacché essa non può più valere “immediatamente” per il mondo degli uomini. Certamente anche i Presocratici non ignorano il conflitto ed Eraclito, come si sa, giunge addirittura ad affermare che «pólemos di tutte le cose è padre, di tutto poi è re», (29) benché già Anassimandro mostri il volto filosofico del “dissidio”. In particolare, nel detto di Anassimandro, che è conosciuto come la più antica parola della tradizione filosofica europea (nel suo testo abituale: «Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse infatti debbono fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia [adikias], secondo l’ordine del tempo»), secondo Heidegger, «parla il molteplice dell’ente nel suo insieme. Ma dell’ente non fanno parte soltanto le cose. E le cose non sono affatto soltanto le cose di natura. Anche gli uomini e le cose da essi prodotte, le situazioni e le circostanze derivanti dal fare e dal tralasciare umani fanno parte dell’ente». (30)

Non si deve però equivocare, dato che «”le cose della natura” non avevano il significato che possiedono oggi. Nel suo significato originario, la physis non costituiva un mondo separato e contrapposto al mondo umano, le leggi della natura e le leggi degli uomini non erano pensate come rispondenti a differenti criteri». La soluzione di continuità si manifesta solo con «la sofistica che interrompe questa visione unitaria, e nettamente distingue i due mondi; Socrate approfondisce il solco, facendo dell’uomo un ente a sé: sposta il punto focale dalla natura all’uomo [e] nel suo “sapere di non sapere” indica la via del sapere». (31) Non solo. Se la dialettica di Zenone e (forse) anche quella di Gorgia hanno un significato sapienziale, la sofistica degenera rapidamente in eristica, si muta in un agonismo «cerebrale, sottile, sleale». (32) Da qui e dalla guerra tra Greci, che dovrebbero essere amici (Rep. 470c), e dalla lotta delle fazioni all’interno delle città, muove il discorso di Platone. La “sapienza” arcaica ora deve essere riformulata, in modo che la “misura” sia, come aveva indicato Socrate, il “discorso vero”, in grado di “convincere” e di “educare” l’anima. Ma per ottenere ciò, bisogna «ricorrere a medici molto più di prima» (Rep. 373d) e il “custode” deve essere filosofo e uomo di guerra (Rep. 525b8 e 543a5). E persino i “filosofi-guardiani” «dovranno fare esperienza della stásis in sé prima di amministrare qualsiasi pólemos», per “domare”, senza poterla mai debellare del tutto, la “doppiezza” anche della loro anima, ché «la fonte della guerra è quella stessa delle passioni e degli appetiti, la stessa dei massimi mali privati e pubblici». (33) Il realismo tucidideo non è affatto “rimosso”, ma “com-preso” nel discorso di Platone, che non perde mai di vista la “necessità” della guerra – tanto da “giustificare” che si distruggano i nemici, prima che siano essi a muovere guerra (Rep. 375c) – perché, se non si sa “dar forma” al conflitto, o si conduce la città alla rovina o si innesca una catena di violenze interne e di guerre senza fine. 

Non è “pensabile” allora che vi sia “vera polis” senza conflitto tra gli uomini: «la stessa idea di polis [ed è “decisivo” che, appunto, si tratti dell'idea di polis], in quanto polis, implica una molteplicità di appetiti, implica uno stato di guerra». (34) L’idea della polis, proprio perché partecipa del Bene, non può essere essa stessa il Bene, né da essa si può “dedurre” una particolare costituzione, per quanto debba misurare le costituzioni esistenti, “orientare” il politico, se si ha in vista la “salute” dell’intera comunità. Sia che si legga la Repubblica secondo la prospettiva di Colli, (35) sia che si condivida la tesi che vede nelle “dottrine non scritte” di Platone la chiave per decifrare l’autentico senso dei dialoghi del filosofo ateniese (è la tesi della scuola di Tubinga, ma anche di Giovanni Reale e degli studiosi che si ispirano al suo insegnamento), (36) non v’è dubbio quindi che «la costituzione platonica non deduce affatto astrattamente dal Principio l’utopia di una polis-tutt’una, ma si interroga a quali condizioni sia pensabile una polis la cui molteplicità non sia sempre anche guerra civile in potenza». (37) Se tutta la realtà risulta da una mescolanza di limite e illimite, allora il politico deve saper “uni-ficare” i molti, non in una astratta unità, ma impedendo che la “dis-misura” distrugga la città o, peggio ancora, la muti in altro, ovvero la “governino” ingiustizia e hybris. Insomma, Platone ha sempre presente che la funzione politica è, in primo luogo, il katechon che “trattiene il negativo” all’interno della città, limitandone gli “appetiti”. Anche se il politico non necessariamente “partecipa” dell’idea di giustizia, non è impossibile quindi che esso sia conforme all'ordine del cosmo; e ciò si può avverare, a giudizio di Platone, mediante l’istituzione di un “ordine funzionale” tripartito (e poco importa, sotto questo punto di vista, che egli divida-la società in tre classi distinte, ma assai più importante è che si tratti di tre funzioni distinte e ordinate gerarchicamente), che non si discosta dall'ideologia trifunzionale indoeruopea descritta da Dumézil. Ovvero il politico può partecipare dell’idea di giustizia «se, con una strategia educativa di cui l’intera comunità è agente, i desideri “signorili” e aggressivi di autoaffermazione del gruppo combattente, [una volta] posto al servizo dell’élite intellettuale dei “filosofi” al potere, vengono indirizzati verso finalità collettive, in modo che essi trovino soddisfazione e riconoscimento da parte della società politica nel suo insieme». (38)

 Strategia educativa ma anche (e soprattutto) “veritativa” – dacché è la “filo-sofia” che ha il compito di istituire un circolo virtuoso tra città giusta e cittadini giusti – senza le quali l’agire degli uomini non produce alcun “ordine naturale” – anzi distrugge la comunità, lasciando che una parte possa sopraffare le altre, subordini il bene comune al proprio utile e, per soddisfare gli “appetiti” della moltitudine, che Platone paragona ad un grande animale forte e vorace (Repubblica 493a-c), induca la città ad oltrepassare ogni “con-fine” e ad aggredire chiunque non si sottometta alla sua volontà. Molteplici però sono gli “ordini” possibili ed i modi in cui il limite può “misurare” l’apeiron (l’illimitato), di modo che non vi è contraddizione tra la concezione del politico sostenuta nella Repubblica e quella delle Leggi, in cui Platone traccia il disegno di uno Stato storicamente realizzabile nelle circostanze del suo tempo. In quest’ultima opera, gli elabora «una costituzione mista in cui le forze contrastanti sono ricondotte all’equilibrio, costituzione che aveva il suo antecedente storico nello Stato spartano [nonostante che] la durezza dell’ordinamento spartano [venga] addolcita con l’introduzione di parecchie istituzioni ateniesi». (39) Ma nel XII libro, «quando il lettore meno se lo aspetta, si introduce una magistratura nuova, un consiglio che si riunisce quotidianamente quando le tenebre stanno per cedere al chiarore dell’aurora, e che è composto di uomini che possiedono non solo la retta opinione, ma la scienza». (40) Con la consueta ironia – fraintesa dalla maggior parte dei teorici liberali, che, leggendo i dialoghi platonici con criteri popperiani, vi ravvisano un’ulteriore conferma del “pensiero totalitario” del filosofo ateniese – Platone mostra che le leggi sono necessarie ma non sufficienti, ché la realtà, che sempre “oscilla” tra l’essere e il non essere, è “tutta un’eccezione”. Necessaria allora anche un’istituzione che “decida” per la salvaguardia dell’ordinamento concreto della polis, purché operi secondo “giustizia”, cioè a patto che le sue decisioni abbiano come scopo il bene comune e si “ingranino” nella struttura comunitaria della polis. E l’ultimo dialogo di Platone anticipa, in qualche modo, anche «la posizione di Aristotele, il cui Stato ideale è, appunto, un ideale supposto nella dimensione storica». (41) 

Peraltro – anche se «la critica aristotelica [della polis “ideale” di Platone] nasconde l’effettiva drammaticità della politeia platonica e inaugura quel luogo comune per cui essa non sarebbe che una “statua“ artisticamente perfetta, ma non confrontabile con “uomini vivi”» – la politeia di Platone «riguarda una città che si allarga, che s’ingrandisce, che “inventa” bisogni e costumi», (42) ossia quel medesimo fenomeno (mutatis mutandis), che lo Stagirita critica nella sua famosa analisi della crematistica, “vedendo”, benché in un’ottica diversa da quella del suo maestro, ampliarsi “a dismisura” la sfera economica, grazie all’eccezionale sviluppo degli scambi commerciali e ai molteplici impieghi della moneta nell’Atene del IV secolo a. C. Ovviamente Aristotele non condanna lo scambio in quanto tale, che invece pensa possa contribuire a rafforzare la struttura e la coesione sociale, ma ciò che definisce crematistica non naturale (nel senso che non è la “semplice” arte di acquistare beni, ma la techne che ha come scopo l’accumulazione di beni e denaro), dacché altera radicalmente la relazione tra mezzo e fine, considerati come “momenti distinti”, trasformando il mezzo in fine ed il fine in mezzo, senza che tale processo possa terminare. (43) La techne viene così a perdere il suo carattere strumentale rispetto alla physis, grazie all’affermarsi della “natura convenzionale” della moneta, aprendo un orizzonte fino ad allora sconosciuto: la moneta, da un lato, perde tutte le sue qualità per essere puro segno di quantità e poter funzionare come “misura”; dall'altro, rende possibile che beni differenti si rapportino reciprocamente traducendosi in termini di pura quantità. I molteplici e differenti beni allora possono essere misurati, dato che ogni cosa può essere ricondotta alla astratta quantità della moneta. Determinando la funzione della moneta, lo Stagirita può svolgere un’analisi, di carattere storico e teorico, che gli consente di mettere in rilievo sia il significato sociale della moneta – in quanto essa media le relazioni tra le cose e gli uomini e di conseguenza i rapporti tra gli uomini – sia che, attraverso il commercio al minuto, si sviluppa una forma di intermediazione, in cui gli estremi non sono i prodotti (come quando, ad esempio, si vende l’olio prodotto, per acquistare grano) ma il denaro stesso (ad esempio, si acquista olio ad un determinato prezzo, per venderlo ad un prezzo maggiore). 

Perciò, non solo la crematistica non naturale mira ad accumulare una ricchezza illimitata, poiché non appaga bisogni determinati – come accade allorché si possiede per consumare – ma, essendo il possesso di denaro non più un mezzo per conseguire un determinato fine bensì il fine di un processo infinito, il bisogno che alimenta il processo è esso stesso illimitato. Il che per Aristotele non può non essere che “figura” del “negativo”, in quanto l’infinito, secondo lo Stagirita, non è l’intero – che non può essere “trasceso”, che è “inoltrepassabile” – ma al contrario è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa, quell’assoluta assenza di limite che anche Aristotele – la cui filosofia privilegia non le “forme geometriche” e i “rapporti numerici”, come quella di Pitagora o quella di Platone (indipendentemente dalla differenza tra enti matematici, cosiddetti “intermedi”, e forme metafisiche pure, le cosiddette “idee numeri”), bensì la “forma” del vivente, l’organismo – non può non considerare un qualcosa di aberrante. (Per i Greci l’infinito non si distingue dall’indefinito, dall’indeterminato, dall’illimitato, per quanto in Plotino assuma una connotazione positiva, dato che indica l’ineusarabile potenza dell’Uno; l’infinito dei Greci corrisponde piutttosto all’infinito che i medievali denominano sincategorematico e che si distingue dall’infinito categorematico, ossia l’Assoluto). Del resto, Aristotele osserva che, se non si riesce a procurarsi la ricchezza mediante la crematistica, si sarà facilmente disposti ad impiegare qualsiasi altro mezzo, poiché l’arricchimento diventa “il fine generale a cui pare debba essere indirizzata ogni cosa”. 

Nota Ruggiu che per Aristotele «lo spirito della crematistica rischia di impadronirsi di ogni aspetto della società; ogni facoltà naturale o ogni virtù tradizionale, non sono più considerate per sé stesse, in relazione alla propria natura e destinazione, ma in rapporto alla possibile utilizzazione ai fini della acquisizione di ricchezza». (44) In definitiva, Aristotele comprende che, una volta creatosi uno spazio economico autonomo nell’ambito della polis, l’economico tende inevitabilmente a “degenerare”, espandendosi ai danni dell’intero organismo politico e sociale. E ad Aristotele (come già a Platone) non sfugge nemmeno il legame tra talassocrazia e imperialismo economico che (sebbene Atene non fosse governata da “mercanti” e il suo impero fosse solo un impero costiero), (45) trascinando la città verso l’egemonia sul mare, muta la techne polemiké in hybris (fino a pretendere che quest’ultima valga come giusta), porta a macchiarsi di orrrende stragi e a massacrare le popolazioni di tante piccole città (come scrive Senofonte nelle Elleniche, II, 2, 10) e a considerare i propri alleati come schiavi (Costituzione degli Ateniesi XXIV-XXVII). (46) E nella Politica ( VII, 1327a) lo Stagirita denuncia apertamente la “prassi” del mercante che “va per mare” come ciò che si oppone al buon governo, anche se non è più possibile per la polis “chiudersi” al mare. Sicché, se per Platone, la polis deve sorgere lontano dal mare, ma non deve essere priva di porti né di materiale per costruire navi, per Aristotele, bisogna evitare la “tentazione talassocratica” e possedere solo una flotta navale necessaria per uno sviluppo equilibrato.


 2. Conclusione.

Com'è noto, dovettero passare non pochi secoli prima che potesse accadere quel che Aristotele temeva. A tale proposito, scrive Edouard Will: «[Nell'antica Grecia] in nessuna branca d’attività la produzione è mai limitata dalla sola preoccupazione della produttività, essendo paralizzata da condizioni arcaiche di natura religiosa e morale: l’idea di un rapporto sacro o naturale fra la terra e il lavoro, fra la capacità dell’artigiano e la qualità del suo lavoro, ha distolto il lavoratore greco dall’idea di dover produrre di più, producendo diversamente». (47) E il motivo per cui dovette passare tanto tempo lo spiega assai bene Costanzo Preve: «Il pensiero classico dei Greci si è storicamente costituito sulla base delle forze distruttive messe in moto dall’apeiron, ove questo apeiron diventi il principio distruttivo della politeia degli uomini, ed il kaos finisca con il distruggere il nomos; questo pensiero si basava essenzialmente su di una visione cosmocentrica unitaria in cui le categorie dell’essere e le categorie del pensiero fanno tutt’uno e sono unificate dalla dialettica intesa in senso ontologico; il pensiero ellenistico nonostante la sua grandezza […] ha disperato di far fronte a questo caos, e ha “ricentrato” il potere della ragione in una comunità di amici (Epicuro) o in una comunità cosmopolitica di dotti (lo stoicismo); il pensiero cristiano ha correttamente mantenuto l’unità delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere […] ma ha prodotto uno sdoppiamento fra l’uomo, il cosmo e Dio che ha finito con il perdere l’unità cosmologica ed umana del mondo dei Greci». (48)

Solo con la nascita del mondo moderno si realizzano quelle condizioni che permettono all’economico di scorporarsi dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui era “incastrato” sino alla fine del Medioevo, e alla funzione economica di rivendicare una supremazia rispetto a quella politica. E non a caso, questo conflitto si manifesta anche, secondo Carl Schmitt, come separazione/conflitto tra terra e mare. (49) Ma con il tramonto del nomos della terra e l’affermarsi della talassocrazia dell’America – che acquisisce pure il dominio dell’aria – ogni mescolanza tra limite ed illimite, tra uno e molti, viene, per così dire, “misurata” dalla dismisura di un sistema che mette al centro «l’arricchimento crematistico infinito e illimitato […] basato sulla hybris di un soggetto assolutizzato e sradicato dalla comunità umana […] che se non trova un qualche un freno sociale e politico (katechon) può portare alla dissoluzione l’intera polis, ed oggi – lo sappiamo – anche l’intera kosmopolis». (50) L’hybris dell’apparato tecnico-produttivo della grande “isola” d’oltreoceano ormai minaccia di travolgere ogni limes, non essendovi più alcun katechon capace di arrestarne l’impeto sradicante. Perfetto “rovesciamento” della misura greca nel proprio opposto, che induce la “vecchia Europa” a indossare la maschera dell’Occidente, per celare la propria ”im-potenza”, ché «l’occidentalismo […] è un concetto ideologico di guerra e di pretesa aprioristica di superiorità». (51).

Ma allora come opporsi alla “macchina da guerra” dell’Occidente? Nella radicalità con cui Schmitt critica il “cosmopolitismo” umanitario dell’Occidente (benché, in realtà, si tratti di un “uni-versalismo astratto”, perché l’occidentalismo non può definirsi “cosmo-politismo” né ammette che vi possano essere differenti identità “oltre” quella occidentale) e l’utopia di un “ordine mondiale” basato sulle cosiddette “leggi del mercato”, si deve ravvisare la demistificazione di una morale affatto diversa dall’ethos dei Greci, che, esattamente come mos per i Romani, denota non comportamenti soggettivi, ma l’abitare, la radice cui ogni uomo appartiene. Nessun “narcisismo comunitario” tuttavia può realisticamente svolgere la funzione del katechon. Né si può dimenticare che proprio i Greci, perché non seppero dar vita ad un ordinamento politico panellenico, finirono con l’essere dominati dallo straniero. (52) Si dovrebbe piuttosto riconoscere che solo all’interno di quelle entità politiche che Schmitt denomina “grandi spazi” è possibile difendere il senso di appartenenza e “frenare” la barbarie della società di mercato, quando perfino i limiti degli Stati nazione e i loro mercati interni mostrano di essere troppo piccoli.

 I Greci insegnano che necessario è “misurare” l’illimitato, (53) non che sia necessaria una “particolare misura”, che, in quanto prodotta dagli uomini, non può non cambiare con il variare delle circostanze storiche. E la questione di un nuovo inizio politico non può non presentarsi nel nostro tempo diversamente che nel tempo antico. Per questo, Schmitt pensa ai “grandi spazi” come alternativa all’occidentalismo e come garanzia delle differenze storiche, sociali e culturali. Diverse “iconografie”, diverse tradizioni, diverse lingue, diverse culture, diversi costumi e finanche diverse comunità politiche possono “co-esistere” come parti di un intero. Se è vero, come sostiene Cacciari, che «sta nella natura d’Europa sapersi come parte [e che perciò ] mai potrà identificarsi con Dike, con quell’universale Giustizia per cui anche Europa e Asia provengono dallo stesso e nello stesso si risolveranno», (54) è anche vero che l’unità spirituale dell’Eurasia è un unità in sé differenziata. In nessun modo si può “ri-produrre” l’immediata unità dell’Europa e dell’Asia e rendere reversibile lo sviluppo storico, ma è la stessa idea di Dike, di “giusta misura”, che “in-formava” il mondo dei Greci, ad “in-formare”, sia pure sempre più debolmente, l’identità dell’homo europaeus, che vuole prendersi cura della propria radice terranea, non per tornare all’inizio, ma per poter dare inizio ad nuovo nomos insieme con gli altri popoli dell’Eurasia, con i quali “con-divide” la medesima terra.

NOTE

1) A. de Benoist, Il liberalismo contro le identità collettive, in A. de Benoist, Le sfide della postmodernità, Arianna, Casalecchio (Bo), 2003, p. 70.
2) F. A. von Hayek, The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, Routledge, Londra, 1988.
3) F. A. von Hayek, Legge, legislazione, libertà, Il Saggiatore, Milano, 1986, p. 559. La critica, affatto condivisibile, di un certo storicismo hegelo-marxista pare così sfociare in una sorta di “metafisica economicistica” ingenua e “volgare”.
4) L. Dumont, Homo aequalis I. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi, Milano, 1984, p. 21.
5) (A cura di) L. Ruggiu, Genesi dello spazio economico, Guida, Napoli, 1982. pp.8-9.
6) Ibidem, p. 9.
7) Vedi, per l’antica Atene, K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, in K. Polanyi (a cura di), Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino, 1980. Per l’avvento della società di mercato, vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974.
8 ) J. Dalton, introduzione a K.Polanyi, op.cit., p. XIV.
9) F. A. von Hayek, Verso la schiavitù, Rizzoli, Milano, 1948, p. 3.
10) P. Rosanvallon, Le libéralisme économique, Seuil, Parigi, 1987, p.124, citato in A. de Benoist, op. cit., p.84.
11 ) Ibidem, p. 80.
12) C. Schmitt, Un giurista davanti a sé stesso, (intervista di F. Lanchester) , in «Quaderni costituzionali», 1983, n. 1, pp. 5-34.
13). C. Schmitt, Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 13.
14) A. de Benoist, Ripensare la guerra. Dallo scontro cavalleresco allo sterminio di massa, coll. «Quaderni», 1, Asefi-Terziaria, Milano 1999, p. 21. De Benoist ricorda anche che secondo Martin van Creveld «ufficialmente, l’annientamento delle popolazioni civili [nella Seconda guerra mondiale] era giustificato dalla loro malvagità. In realtà quelle popolazioni dovevano essere dichiarate malvagie per giustificarne l’annientamento per mezzo di ordigni ad effetto di massa» (Ibidem, p. 31, nota 15). Si noti che è sullo jus publibicun europaeum che si basa la famosa critica di Hegel del progetto kantiano di pace universale: «Anche nella guerra come situazione giuridica, di violenza e di contingenza, sussiste un legame nel fatto che gli Stati si riconoscono vicendevolmente pari. In questo legame essi valgono l’uno per l’altro come esistenti in sé e per sé, a tal punto che, nella stessa guerra, si dispone che essa debba essere passeggera. Essa implica dunque questo carattere conforme al diritto delle genti, così che anche in essa la possibilità della pace è preservata» (G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1979, par. 338, p. 327).
15) C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991, p. 19. Sul nomos della terra, vedi pure C. Schmitt, Terra e Mare, Adelphi, Milano, 2002 e C. Schmitt, Appropriazione, produzione, divisione. Il tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale a partire dal “nomos”, in C.Schmitt, Le categorie del politico, Saggi di teoria politica, cit., pp. 293-312.
16) Nomos deriva da nemein, che significa ” stabilire”, “spartire”, “dividere”. Per Schmitt, diversamente da Benveniste, però è prioritario il significato di “appropriazione”, “conquista” (vedi A. Jellamo, Il cammino di Dike: l’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli Editore, Roma, 2005. p. 85, nota 19 (la Jellamo ricorda pure che «l’intraducibilità del termine nomos, la complessità della parola e del concetto nella cultura greca, sono state sottolineate con particolare efficacia da K. Kerenyi [in] La religione antica nelle sue linee fondamentali, Zanichelli, Bologna, 1940, pp.68-69», Ibidem, p. 85, nota 20).
17) C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 73-74.
18) M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 2006, pp. 96-108.
19) K. Löwith, Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, in K.Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Bari 1994, pp.125-166.
20) Ibidem, p. 137 e p. 148.
21) Vedi M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in M. Heidegger, Tempo e Essere, Longanesi, Milano, 2007, pp. 73-94.
22) G.A.Di Marco, Thomas Hobbes nel decisionismo giuridico di Carl Schmitt, Guida Editore, Napoli, 1999, pp. 536-537.
23) Ibidem, p. 537
24) Vedi, oltre al “classico” M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma, 1989, K. Kerényi, introduzione a C.G. Jung e K. Kérenyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino, 1972, pp. 24 e ss., e J. Rykwert, L’idea di città, Adelphi, Milano, 2002.
25) V. Meattini, L’orizzonte etico e politico di Platone, Vigo Cursi, Pisa, 1984, p. 19.
26) Ibidem, p. 20.
27) M.Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 1994, pp. 29 e 31.
28) Vedi G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2003, e G. Colli, Platone politico, Adelphi, Milano, 2007.
29) Eraclito 14 [A 19] – secondo la numerazione di Diels-Kranz: 22B53 DK – in G. Colli, La sapienza greca, III, Adelphi, Milano, 1980, p. 35.
30) M.Heidegger, Il detto di Ansassimandro, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 308 (per la traduzione del frammento, Ibidem, p.299).
31) A. Iellamo, op. cit., p. 84.
32) Così Colli, di cui vedi Zenone di Elea, Adelphi, Milano, 1998 e Gorgia e Parmenide, Adelphi, Milano, 2003.
33) M.Cacciari, op. cit., p. 38.
34) Ibidem, p. 32.
35) Si può affermare che, per Colli, in un certo senso, Platone è l’ultimo “sapiente” greco e il padre della “filo-sofia” europea. Per questo giudizio vedi G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano,1998, specialmente pp. 259-329.
36) Fondamentale, al riguardo, G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e pensiero, Milano, 2003.
37) M.Cacciari, op. cit., pp. 40-41.
38) M. Vegetti, Il problema della giustizia nella Repubblica di Platone, in (a cura di) G. M. Chiodi e R. Gatti, La filosofia politica di Platone, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 34.
39) G. Colli, Platone politico, cit., p. 129.
40) Ibidem, p. 130.
41) G. Reale, Storia della filosofia antica ,V, Vita e pensiero, Milano, 1989, p. 218.
42) M.Cacciari, op. cit., pp. 30-31.
43) Vedi L. Ruggiu, Aristotele e la genesi dello spazio economico, in (a cura di) L. Ruggiu, op. cit., in particolare pp. 85 e ss.
44) Ibidem, p. 110.
45) Vedi K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, cit., e K.Polanyi, Aristotele scopre l’economia, in (a cura di) K. Polanyi, Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, pp. 75-113.
46) Vedi M. Cacciari, op. cit., pp. 48 e ss.
47) Citato in L.Ruggiu, Aristotele e la genesi dello spazio economico, cit., p. 62, nota 52. Com’è ovvio, le considerazioni di Will valgono per qualsiasi società precapitalistica.
48) C. Preve, La saggezza dei Greci, Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1096/el_1096.pdf, pp. 23-24.
49) Vedi Carl Schmitt, Terra e mare, cit., in cui Schmitt analizza lo scontro tra Landmächte e Seemächte.
50) C. Preve, Il saggio di Gianluca Grecchi “Occidente: radici, essenza, futuro”. Un convincente esercizio di filosofia della storia, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1094/el_1094.pdf, p. 17. Preve ritiene necessaria una deduzione sociale delle categorie dei Presocratici, pur ammettendo che «in questo modo si possono anche fare gravi errori di interpretazione» (Ibidem, pp. 17-18). Ma non è proprio il nesso strettissimo tra “sapienza” e politico e il fatto che la prima è a fondamento del politico a caratterizzare anche il Platone politico, come dimostrano gli studi del giovane Colli? (vedi, oltre alle opere già citate, anche G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2003). Si tenga comunque conto che, se prima della sofistica non vi è una vera distinzione tra “natura” e comunità degli uomini, allora è impossibile che «la physis di Eraclito [sia] semplicemente la metafora delle contraddizioni della polis di Efeso» (Ibidem, p. 17), benché il “significato sapienziale” della physis possa concernere anche la sfera del politico.
51) Ibidem, p. 16.
52) Se Aristotele è “cieco” di fronte all’emergere dell’impero macedone, Luigi Alfieri si domanda – in L. Alfieri, Platone Realpolitiker?, in (a cura di) M.A.Chiodi e R. Gatti, op. cit. – se Platone «non sia stato l’unico pensatore politico greco capace di anticipare precisamente lo sfociare della polis nella monarchia universale ellenistica e poi romana» (Ibidem, p. 70). Platone mira indubbiamente ad una metanoia, ma è altresì convinto che ciò non si possa avverare senza il sostegno di una “potenza” (Siracusa, ad esempio) che abbia interesse ad instaurare un “nuovo ordine”.
53) Per Schmitt (non diversamente da Heidegger o da Severino) non è più l’economico ma la tecnica “scatenata” il centro di riferimento intorno al quale si organizza la società occidentale. Basandosi sulla filosofia platonica e sull’analisi aristotelica della crematistica si potrebbe però pensare che la tecnica – ma solo in quanto autoreferenziale, in quanto cioè “volontà” che ha come scopo il potenziamento illimitato della propria potenza – non sia altro da quella “volontà di potenza” che contraddistingue l’economico nel suo divenire storico, bensì ne sia invece l’espressione più matura e compiuta. Con ciò non s’intende tanto difendere le “ragioni” della decrescita, quanto piuttosto rilevare che “im-porre una forma” all’apparato tecnico-produttivo non è un’utopia, ma una sfida, che si dovrebbe affrontare senza illudersi, come coloro che volevano opporre la cavalleria ai mezzi corazzati, ma anche senza sottovalutare che proprio l’arte e la storia militare provano che vi sono differenti “forme di potenza” e differenti criteri per “misurarle”.