Ogni nostra azione scaturisce da ciò che precede e si intreccia con altre azioni che non dipendono da noi. Non vi è quindi relazione necessaria tra il nostro “pro-getto” e il prodotto del nostro agire. Anche se è inevitabile che vi siano eventi, “fatti”, «la loro successione e i loro esiti costituiscono una rete che trascende costantemente volontà, progetti e attese della soggettività “libera”» (1). D’altronde, è innegabile che vi siano delle decisioni che rendono più o meno probabile un determinato corso di eventi. Ed è pure evidente che vi sono tendenze oggettive e “connessioni di sistema” che favoriscono determinate scelte. Secondo Max Weber «quando l’esclusione ipotetica di alcune componenti causali reca ad un risultato radicalmente diverso da quello del processo reale, si deve concludere che esse hanno un’importanza essenziale nella determinazione delle conseguenze in questione» (2). Talora, vi sono solo due possibilità che si dividono il campo e l’importanza di un evento storico è fondata sulla funzione decisiva che esso può aver esercitato riguardo a queste due possibilità, ma poiché le conseguenze che si ritiene derivino dall’esclusione ipotetica di certe componenti causali sono di varia natura, l’importanza di queste ultime può essere maggiore o minore, a seconda delle circostanze storiche prese in considerazione. Weber riconosce cioè che, sebbene un’azione non consegua necessariamente da una serie causale, una situazione storica è un “campo di possibilità” strutturato in modo tale che difficilmente non può prevalere una decisione in favore di una determinata possibilità.
E’ questo schema concettuale che, per il suo valore euristico (prescindendo dai difficili problemi epistemologici che può implicare), si dovrebbe tener presente, se si vuol comprendere la storia recente dell’Italia, dacché è indubbio che l’attuale debolezza strategica del nostro Paese derivi essenziamente da scelte compiute negli anni Novanta e che consisterono, in particolare, nella (s)vendita della quasi totalità delle nostre principali imprese pubbliche al grande capitale, nazionale ed internazionale, e in una ristrutturazione della Nato e della Ue, che si voleva fossero un baluardo a difesa della libertà e dei diritti politici e sociali dei popoli europei e che invece si sono mutate in strumenti della politica di potenza americana e degli interessi dell’oligarchia atlantista, al di qua e al di là dell’Atlantico. Infatti, è alla fine degli anni Ottanta, allorché giunge a compimento il bipolarismo, che si decide, sostanzialmente, tra due possibilità: da un lato, atlantismo e sionismo come pilastri cardine del nuovo modello unipolare americano, allo scopo di imporre, su scala planetaria, la logica del “turbocapitalismo” e di impedire ad altri “soggetti politici” di poter cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio; dall’altro, la rifondazione dell’alleanza tra Europa e Stati Uniti su basi nuove, sia opponendosi al liberismo d’Oltreoceano, assegnando, in modo netto e definito, al Politico il ruolo di “decisore strategico” (tanto in campo sociale quanto in campo economico, tanto a livello nazionale quanto a livello europeo), sia ampliando i margini di azione dei singoli Paesi europei, nell’unica direzione rilevante sotto il profilo geostrategico e geoeconomico, ossia verso Est e l’area mediterranea, di modo da implementare un programma di sviluppo che con il passare del tempo avrebbe probabilmente dato vita ad una Unione europea indipendente dal mondo (anglo)americano, se non addirittura antiatlantista ed antisionista. Certamente un percorso impervio, ma non impossibile, se si considera la reale situazione storica venutasi a creare con la scomparsa dell’Unione Sovietica e di conseguenza pure delle “ragioni” dell’atlantismo non solo sul piano militare, ma anche (e soprattutto) sul piano politico ed economico.
Comunque sia, sarebbe stato relativamente semplice dimostrare come tali “ragioni” fossero del tutto anacronistiche ed addirittura contrarie – se non nel breve periodo, almeno nel medio-lungo termine – agli interessi dei popoli europei, qualora non fossero venute meno, insieme con l’Urss, anche quelle forze politiche” che potevano/dovevano rappresentare ben altre “ragioni”. D’altra parte, se ci si concentra su quanto è accaduto in Italia, si comprende che l’obiettivo principale di forze politiche (in specie dei loro vertici e dei loro quadri) considerate “antagoniste” non poteva non essere quello di “riciclarsi” per continuare a sopravvivere. Al riguardo, non può sorprendere più di tanto nemmeno la trasformazione del Pci – apparentemente repentina, in realtà preparata fin dagli anni Settanta – in “guardia bianca” del capitalismo più arretrato e “reazionario” (gli interessi della Fiat li faceva meglio D’Alema, come ebbe a dichiarare l’Avvocato) e in una “quinta colonna” dell’atlantismo. Ovviamente la complessità del mutamento di fase è innegabile, ma il teatro politico italiano difficilmente poteva rappresentare qualcosa di diverso, giacché i membri della classe politica di allora non vollero o non poterono (sono gli anni di Mani Pulite) sfruttare l’occasione storica per cambiare l’indirizzo (geo)politico del Paese, senza assurde o “irrealistiche” contrapposizioni frontali, ma basandosi proprio sul settore pubblico del nostro sistema produttivo, per guadagnare nuove posizioni strategiche; anche perché il sistema italiano, essendo quasi del tutto privo di autentica sovranità e di capacità decisionale, non avrebbe potuto non svolgere, una volta liquidato definitivamente il “pericolo rosso”, una funzione sempre più marginale e subalterna nei confronti di quella della potenza dominante e dei suoi principali alleati. Del resto, tutta una serie di “accadimenti” (da Mani Pulite al trasformismo dei neofascisti e dei comunisti, dal debito pubblico alla crisi del Welfare, dalla riunificazione della Germania alla dissoluzione dell’Urss ed a quella della Iugoslavia) fece sì che qualunque ostacolo (ché una certa resistenza alcuni politici – tra i più capaci, anche se non con le “mani pulite” – cercarono di farla) si frapponesse alla realizzazione del progetto di ridefinizione politica, economica, monetaria, militare, sociale e culturale del nostro Paese in “chiave atlantista” venisse spazzato via, con il consenso di coloro che avrebbero avuto invece tutta la convenienza a (o il dovere di) contrastarlo. Tanto che ancora oggi si protesta, giustamente, contro i privilegi vergognosi della “casta”, che ha rinunciato a (o è incapace di) governare il mutamento sociale e che rischia di non poter più dirigere alcunché ma di eseguire solo “gli ordini dei mercati”, ma non ci si sa opporre a chi promette di privatizzare gli ultimi residui di sovranità nazionale con la scusa di ridurre il debito pubblico, di eliminare la corruzione e di modernizzare il Paese. Ovvero a chi propone, esattamente come negli anni Novanta, una terapia che si è rivelata essere non solo assai peggiore del male che si doveva curare, ma anche la causa principale, se non l’unica, del declino del Paese e del degrado della vita pubblica.
Ciononostante, sono le differenze rispetto alla situazione di vent’anni fa ad essere ancora più rilevanti delle analogie, ché la scelta decisiva ancora una volta concerne l’essere o il non essere subordinati all’oligarchia atlantista, ma sullo sfondo di una crisi dell’euro – che non è affatto contingente, ma è la crisi di una Ue che è tutto fuorché una “comunità europea” – e in presenza di una sorta di “rovesciamento” del ruolo degli Usa: da superpotenza protesa verso il dominio dell’Eurasia e quindi dell’intero pianeta, a potenza ancora predominante, ma con una base economica troppo fragile per sostenere un gigantesco Warfare State, che pure è (nonostante sia del tutto inadeguato – più per limiti di carattere strutturale che per quelli di singole persone – a risolvere positivamente conflitti di tipo asimmetrico) essenziale perché gli Usa possano svolgere il ruolo di gendarme mondiale, di modo da poter continuare a finanziare il proprio debito con capitali stranieri ed evitare che la “tendenza multipolare” che si va profilando sullo scacchiere globale possa mettere in discussione l’egemonia americana. Tutto ciò però non rende più “indeterminata” l’evoluzione del “campo di possibilità” che riguarda la politica europea e in particolare quella italiana, non solo per i motivi sopraccitati, ma pure per la quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica europea, disposta a tollerare qualsiasi crimine, a patto che lo si compia per difendere i cosiddetti “diritti umani”, anche dopo le innumerevoli soperchierie, razzie, mistificazioni e guerre (nonché stragi) umanitarie delle “forze occidentali”. Nulla insomma sembra “scuotere” la coscienza degli europei, neanche il fallimento delle politiche liberiste che pure incidono sul “corpo vivo” di non pochi di essi; sicché si deve ammettere che atlantismo e sionismo, grazie anche al nuovo corso politico di quella che era la Francia di De Gaulle e al persistere del “nanismo” politico della Germania, possono ancora facilmente condizionare gli equilibri politici e sociali europei.
Tuttavia, non è da escludere che le difficoltà che gli Usa incontrano (e incontreranno) nel rinnovare la propria politica di potenza – tenendo conto anche dello scontro, con ogni probabilità assai più duro di quel che si immagini, tra i diversi “sottogruppi” che compongono l’élite del potere “occidentale” – vengano ad alterare, in modo imprevedibile, i rapporti che sono a fondamento del sistema politico internazionale, tanto da rendere possibile un autentico multipolarismo, che non potrebbe non esercitare, anche indirettamente, una “forte attrazione” perlomeno su parte dell’Europa continentale. In ogni caso, queste “tensioni di struttura”, in quanto espressioni di forze reali che generano e “regolano” i conflitti tra differenti centri di potere, si dovrebbero interpretare senza lasciarsi fuorviare da schemi ideologici del tutto obsoleti, in vista di una diversa configurazione del “campo di possibilità” che caratterizza l’attuale fase storica, anche se sembra già determinato il “senso” da attribuire agli eventi che si ritiene “facciano la storia”. Ci si dovrebbe cioè domandare se la “tracotanza occidentale” non sia il segno di una possibile “inversione di tendenza” per la nota “legge dei contrari” – la “enantiodromia” di cui parla Eraclito, secondo cui ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario, e della quale forse si dovrebbe tener maggior conto – ma anche se una “strategia del caos” non sia ormai l’unica in grado di “tenere insieme” un “Occidente”, che pare essere più una immagine meramente ideologica del mondo che non una effettiva realtà (geo)politica e culturale, a meno che non designi, in primo luogo, la sfera di influenza della talassocrazia americana. Ed è sotto questo punto di vista che si dovrebbe interpretare pure il sionismo, che ben lungi dal riguardare solo i palestinesi complica enormemente la questione dell’imperialismo statunitense e di una politica europea indipendente da Washington. (Anche per questo motivo la lotta politica tra dominanti non è affatto di poco conto, ché, dopo il fallimento politico e militare in Irak e in Afghanistan, gli Usa, o meglio certi “gruppi d’interesse” americani non possono non cercare di “ri-formare” la strategia israeliana secondo una prospettiva che privilegi un “approccio indiretto”, facendo leva su quei settori del mondo islamico che sono filo-occidentali, senza essere – necessariamente o perlomeno esplicitamente – filo-sionisti; a questo proposito, sono da seguire con la massima attenzione le vicende della variegata galassia dei Fratelli musulmani, nonché della Turchia di Erdogan, per capire se l’Islam potrà evitare una “deriva” atlantista e il fanatismo wahabita ed anti-sciita). Non può essere invece in alcun modo messa in dubbio l’importanza della funzione ideologica del sionismo, che tiene addirittura “sotto schiaffo” la cultura europea, ostacolando qualunque tentativo di smarcarsi dal “mondo occidentale”, facendo gravare sulla coscienza dell’Europa l’immane responsabilità di un passato che non si vuole “oltre-passare”, ovvero si vuole che rimanga “al servizio dello spirito di vendetta” (indipendentemente da ogni considerazione sul revisionismo storico) per giustificare, come gli (intellettuali) ebrei più coraggiosi ed anticonformisti denunciano apertamente, l’aberrante “volontà di potenza” di Israele e delle lobbies sioniste.
Pertanto, anche se si ritiene che la tendenza fondamentale del nostro tempo sia la cosiddetta “occidentalizzazione” del pianeta, l’ “ambiguità ideologica” di tale tendenza è già indicata dalla “ambiguità referenziale” del termine “Occidente”. Tra l’altro, si è anche mostrata priva di fondamento la tesi secondo cui la “globalizzazione” avrebbe portato rapidamente alla scomparsa delle frontiere, facendo retrocedere (tutti) gli Stati nazione ad entità di secondaria importanza, nonché delle guerre, che avrebbero dovuto essere sostituite da operazioni di polizia internazionale del “nuovo ordine mondiale”. Di fatto, se in questi ultimi anni si è confermata l’ipotesi schmittiana della formazione di “grandi spazi”, intermedi tra lo Stato mondiale e i singoli Paesi, si è anche assistito, oltre alla “rinascita” della Russia dopo gli anni bui dell’era Eltsin, al consolidamento ed al rafforzamento di Stati nazione quali, ad esempio, la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia ed il Brasile; ossia ad un fenomeno storico che pare problematico definire “semplicemente” come una “specie di occidentalizzazione”. Ché sarebbe una definizione – al di là della relazione tra modernizzazione e “occidentalizzazione” e di quella tra modernità e postmodernità, o, in altre parole, al di là dei problemi concernenti l’essenza di quel che si intende per “Occidente” – certo assai poco convincente sotto l’aspetto politico; e non solo politico, giacché ciascuna di queste “resistenze” nei confronti del mercato globale è il anche il “pro-dotto” di un determinato “sub-stratum culturale” che, nonostante le molteplici fratture che contrassegnano ogni tradizione, continua a condizionare la lotta politica e sociale. Un “sostrato” che non è affatto assente né in Italia né in Europa, ma che la politica e la stessa intellighenzia europea non sanno più “com-prendere” e che possono solo rimuovere o strumentalizzare (ma che, proprio in quanto “represso”, si manifesta il più delle volte in forme aberranti, dall’islamofobia al narcisismo identitario), per quanto sia particolarmente difficoltoso cancellarlo. In definitiva, dato che è essenzialmente un fenomeno politico e culturale, la “krisis europea” non si è affatto risolta con la fine del socialismo (“reale” o no che fosse), come attesta il ripetersi, benché in modi diversi, del conflitto tra le esigenze di una “ragione pubblica” – interprete di “iconografie identitarie”, di legami comunitari e di molteplici mondi vitali – e gli interessi del “mondo occidentale”, che deve prevenire l’azione di quelle energie storiche che, sebbene siano latenti (perciò non immediatamente riconoscibili e tali da alimentare differenti e perfino “contraddittori” percorsi politici e culturali), costituiscono ancora un orizzonte di senso possibile, nettamente opposto rispetto al “caos organizzato” che “in-forma” il sistema di potere “occidentale”.
Ciò allora significa che non tanto e non solo si dovrebbe badare alla “grammatica politica di superficie” (che pure non è affatto irrilevante), quanto piuttosto alla struttura profonda che la articola, anche se non la determina (ché come ogni “grammatica di superficie” non può che essere “selvaggia”); vale a dire al paradigma in base a cui si prendono le decisioni. Un paradigma però che ha cessato di fornire risposte adeguate ai problemi che esso stesso ha contribuito e contribuisce a creare, anche se solo un ristretto settore della società se ne rende pienamente conto. E’ questa, com’è noto, una situazione analoga a quella che secondo Thomas Kuhn si verifica nella storia della scienza allorché un paradigma scientifico non riesce a spiegare nuove scoperte ed invenzioni. Le numerose anomalie fanno perdere al paradigma il suo carattere di assolutezza e originano una crisi che termina solo quando un altro paradigma sostituisce il precedente. Ed è lo stesso Kuhn a paragonare le rivoluzioni scientifiche alle rivoluzioni politiche: «In una maniera più o meno identica [alle rivoluzioni politiche] le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente [...] che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente [...] Sia nello sviluppo sociale che in quello scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare a una crisi è un requisito preliminare di ogni rivoluzione [...] Le rivoluzioni politiche mirano a mutare le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni. Il loro successo richiede perciò l’abbandono parziale di un insieme di istituzioni a favore di altre» (3). Tralasciando il riferimento ad un “soggetto rivoluzionario”, che è assente da un pezzo in Europa, la descrizione della crisi del paradigma dominante coglie invece i tratti salienti del nostro orizzonte storico e ha il merito di mostrare l’impossibilità di un autentico mutamento strutturale senza un “ri-orientamento gestaltico”, che comporta l’introduzione di nuove regole e nuovi metodi, dato che per Kuhn chi «abbraccia un nuovo paradigma assomiglia [...] a colui che inforca occhiali con lenti invertenti. Sebbene abbia di fronte a sé lo stesso insieme di oggetti di prima e sia cosciente di ciò, egli li trova [...] completamente trasformati in parecchi dettagli» (4).
Nondimeno, si deve ammettere che il paradigma “occidentale” ha dimostrato (finora) di essere in grado non di risolvere ma di gestire la “krisis” tramite i media, l’industria culturale, il sistema educativo, il potere del denaro ed il controllo dell’apparato tecnico- produttivo. Peraltro, se si tralasciano gli spezzoni di “ideologie terminali”, le “sintesi” raffazzonate o deliranti, se non criptosioniste e/o criptoatlantiste, è affatto logico – non essendo possibile oggi ignorare che anche la politica interna è di necessità dipendente (e lo sarà ancora di più nel prossimo futuro per ragioni troppo chiare per dover essere spiegate) dai conflitti e dalle strategie geopolitiche – che l’unica alternativa possibile al paradigma ”occidentale” sia l’eurasiatismo, non solo perché è la prospettiva geopolitica “op-posta” rispetto a quella “occidentale”, ma perché, al contrario di quanto si è soliti pensare, difende esplicitamente un multipolarismo globale o, se si preferisce, un policentrismo globale che valorizzi le “differenze”, senza “perdere di vista” la diversa “provenienza storica”. Inoltre, a chi dovesse sostenere che l’eurasiatismo può forse essere significativo per la scienza delle religioni e, in generale, del mondo spirituale, (5) ma che non è “realistico” pensare che sia una “visione geopolitica del mondo” che possa effettivamente “ingranarsi” nella storia europea “qui ed ora”, si potrebbe far notare non solo che vi sono più cose in terra ed in cielo di quante ve ne siano nella testa di chi crede che “reale” sia solo ciò che appare “qui ed ora”, ma pure che sono proprio i “grandi spazi” eurasiatici che sono destinati ad essere dei protagonisti sulla scena internazionale e ai quali “qui ed ora” dovrebbero “ri-volgersi” gli europei, non per negare la propria origine, ma al contrario per ritrovarla «incamminandosi per una strada nuova in quanto alle coordinate storiche [...] lasciandosi alle spalle dilemmi inveterati e paralizzanti» (6). Ed è appunto questa “possibilità storica” che il processo di “occidentalizzazione” dell’Europa non è riuscito (ancora?) a cancellare. Quel che invece può considerarsi un “dato di fatto” è che fin quando l’Europa sarà “saldata” all’Atlantico continuerà ad essere una “nullità politica”. Una scelta che molti europei possono anche condividere, ma le cui conseguenze di carattere economico e sociale non possono che essere quelle che “qui ed ora” attanagliano buona parte di essi. Osserva, giustamente, Gianfranco La Grassa che i “terremoti finanziari” «dipendono dal venire in superficie delle pressioni cui sono sottoposte le varie “falde tettoniche”, in accentuata frizione le une contro le altre», e che «gli sconvolgimenti degli ultimi giorni sono del resto frutto di una crisi che dura da tempo e che non sarà sconfitta a breve; poiché non riguarda la sola economia, e tanto meno la finanza, l’aspetto semplicemente più appariscente e certo “tombale” per la maggioranza dei “poveracci”, bensì assetti dei rapporti di forza che ancora per molto vedranno un conflitto accanito» (6). Un giudizio lucido ed inequivocabile, di un teorico “postmarxista” dei conflitti politici ed economici, a conferma, se ve ne fosse bisogno, sia dell’impossibilità di scindere la funzione economica da quella politica, sia della necessità di comprendere le sfide del nostro tempo alla luce di una concezione geopolitica capace di render ragione della complessità del “campo di possibilità” su cui si fondano le decisioni del Politico, incluse, naturalmente, quelle degli strateghi del grande capitale finanziario.
Note
1) M. Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano, nota 5, p. 122.
2) Vedi P. Rossi, Lo storicismo contemporaneo, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 279.
3) T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, pp. 119-120.
4) Ibidem, p.151.
5) Questione non affatto secondaria, anche perché spesso fraintesa da chi ritiene che il punto debole dell’eurasiatismo consista principalmente nel fatto che Eurasia denoti una tale moltitudine di “cose e persone” che l’espressione “unità spirituale dell’Eurasia” non sarebbe altro che un “flatus vocis” che vorrebbe mettere insieme “cose e persone” che non possono stare insieme. A questo riguardo, Glauco Giuliano scrive che «l’idea di Eurasia, al di là delle determinazioni storico-geografiche, e dei pertinenti progetti conoscitivi, dovrà dunque intendersi come metafora dell’unità spirituale e culturale da ricomporre al termine dell’età cristiana ed in vista dell’oltrepassamento degli esiti di questa», G. Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis (Tn), p. 14 (ma sull’unità spirituale dell’Eurasia in quanto “vox significativa” si vedano anche i numerosi lavori di Claudio Mutti e in specie gli articoli su questo tema pubblicati dalla rivista “Eurasia”).
6) Ibidem, p. 13.
7) G. La Grassa, La mattanza, http://www.worlditaliantalents.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1607%3Ala-mattanza-&catid=89%3Aitalia-societa-e-politica-1&Itemid=472
http://www.cpeurasia.eu/
http://www.cpeurasia.eu/
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