lunedì 28 settembre 2015

HYBRIS TALASSOCRATICA E GIUSTA MISURA*

Ai Meli, che confidano nella buona fortuna mandata dagli dei, replicano duramente gli Ateniesi: «Noi pensiamo che gli dei (per quel che se ne dice), gli uomini di certo, sempre, per una necessità di natura, comandino su coloro che riescono a sopraffare» (Tucidide, V, 104-105). Osserva Luciano Canfora che in questa frase vi è «la radice della scoperta tucididea della “necessità” del conflitto, della sua inevitabilità» (1). Scoperta quindi del conflitto come dimensione costitutiva del “politico”, ma anche esposizione che non si contenta dell'apparenza superficiale delle cose, al punto che Tucidide, a differenza di Erodoto, non solo «avverte il carattere strumentale della pretesa ateniese di brandire sempre i vecchi meriti acquisiti nelle guerre persiane», (2) ma comprende che è la crescita della potenza ateniese ad aver “costretto” (ἀναγκάσαι) Sparta ad optare per la guerra. Non a caso è la  “necessità di potenza” che, secondo gli Ateniesi, giustifica il loro agire verso gli abitanti di Melo. Coglie perfettamente questo aspetto del discorso degli Ateniesi anche Massimo Cacciari: «qui […] la hybris stessa ragiona, è logos, pretende di valere come necessaria. Giustizia, nel discorso degli Ateniesi, non è sinonimo di utile (come, a torto, credono i Meli), ma di necessario» (3) L'agire degli Ateniesi è giusto in quanto «fondato sulla necessaria natura delle cose umane e divine» (4) In nessun modo ci si deve opporre a chi è più forte e affidarsi a cieche speranze, dacché «chi è più forte fa ciò che può, e chi è più debole deve cedere» (Tucidide,V, 89) Gli Ateniesi quindi ritengono di agire secondo «necessità di natura» e che nessuna “opposizione” ci sia tra Dike ed il loro Wille zur Macht. Ma quale Nomos potrebbe “armonizzare” la «misura del Partenone e strage dei Meli»? (5). Non è forse al di là di ogni “misura” chi pretende di giudicare gli altri con il “metro” della propria volontà di potenza? “Im-mensa” è la distanza tra la “superbia” del logos degli Ateniesi, che conduce a trattare i nemici con disprezzo (Tucidide, II, 63), e l' ethos epico e tragico, secondo cui disprezzare il nemico è di per sé indubitabile segno di hybris. Non solo. Si tratta di una hybris che rende difficile, se non impossibile, distinguere tra “libertà” e “pre-potenza”. Una analisi “disincantata” della guerra del Peloponneso non può che “portare oltre” la contrapposizione tra il Greco libero e il Persiano suddito del principe, evidenziandone il “lato ideologico”. Così, infatti, Tucidide commenta l'attacco alla città di Naxos, sconfitta da Atene dopo un durissimo assedio: «Questa fu la prima città alleata fatta schiava dagli Ateniesi, contro giustizia» (Tucidide, I, 98). Quella “funzione salvatrice” di Atene, che Erodoto mette in luce convinto di dire «cosa odiosa ai più» (Erodoto, VII, 139), si è mutata in un imperialismo che Tucidide descrive con le stesse parole con cui i Greci descrivono la tracotanza dei Persiani, cioè il voler ridurre in schiavitù un popolo libero. Ancora più significativo però è che egli definisca il comportamento degli Ateniesi «contro giustizia». Ma se la “pre-potenza” della polis che a Maratona si coprì di gloria, è «contro giustizia», non può non essere anche giusta, in quanto necessaria. Aporia i cui effetti Tucidide osserva “scientificamente”, con l'occhio attento e la freddezza del medico, descrivendo «quello che ha visto come lo ha visto»(6).

D'altra parte, alla natura umana «come immutabile punto di riferimento per lo storico, si richiamano i personaggi [dell'opera di Tucidide] in momenti cruciali» (7); di modo che la scoperta dei meccanismi storici porta Tucidide ad affermare che «accaddero molte e terribili cose nelle città durante la lotta civile – cose che avvengono e sempre avverranno finché la natura umana sarà la stessa» (Tucidide, III, 82) e che «se, quanti vorranno vedere con chiarezza il passato e il futuro – che si ripeterà uguale o simile data la natura umana - , [quest'opera] la riterranno utile, questo mi basterà» (Tucidide, I, 22). Ciò non implica che la pace sia un'utopia, ma che non può non essere concepita che come equilibrio tra potenze. Ma se giusto è quel che si impone come necessario, necessario e giusto è pure impedire la rovina della città - impedire che polemos si muti in stasis, in guerra civile - ed agire in vista della pace, se la guerra, come afferma Aristotele, la si fa in vista della pace. Come può, allora, essere stabile un equilibrio fondato sulla natura umana, sempre cangiante, e al tempo stesso essere tale da non recar danno alla città? Questo domandare è affatto proprio della grecità, ma il legame tra “cose della natura” e “mondo degli uomini” pare essersi definitivamente spezzato. Se nell'età arcaica «la physis non costituiva un mondo separato e contrapposto al mondo umano […] la sofistica […] interrompe questa visione unitaria, e nettamente distingue i due mondi» (8). Il punto focale di conseguenza si è spostato dalla natura all'uomo, di modo che le leggi ormai non si sentono più «come qualcosa di venerabile e sacro, ma come una pura convenzione utilitaristica fatta dall'uomo» (9). Vero che un Anassagora «mai avrebbe supposto che le sue dottrine potessero portare ad un Alcibiade e ad ispirare profanatori di misteri e traditori della patria, come appunto si sarebbe verificato tra il 415 ed il 411» (10), ma pure vero che la degenerazione della sofistica non la si può considerare accidentale ed assai breve è il “passo” dal discorso degli Ateniesi a quello di Callicle nel Gorgia (482 e ss.) o a quello di Trasimaco nella Repubblica (338c), che fanno l'apologia della legge del più forte. Platone mostra che è comunque la forza dell'argomentazione che “misura“ il discorso che esalta la legge del più forte, in quanto discorso (se esso è giusto, lo è solo in quanto è l'argomentazione “più forte”, e non “del più forte”), ma è appunto la filosofia che ha il compito di “ri-cercare” la giusta misura, di “pro-durre” il discorso vero intorno allo Stato ed alla natura dell'uomo, la polis non potendosi più basare, perlomeno “im-mediatamente”, sulla “tradizione”. Un compito tanto più urgente e più difficile, se si tiene conto della condanna a morte di Socrate, ossia di colui che «aveva votato (unico nell'assemblea generale del popolo ateniese) contro la decisione illegale di processare in blocco quegli strateghi che non avevano soccorso i naufraghi dopo la battaglia delle Arginuse; [e] che, in altra occasione, opponendosi a un'azione illegale degli oligarchi, si era rifiutato di recarsi a Salamina per riportarne, verso sicura morte, un tale Leone» (11). D'altronde, anche se è innegabile che sia la filosofia di Platone a “rispondere” alla gigantesca sfida posta dalla sofistica, nonché agli interrogativi che inevitabilmente l'opera tucididea solleva, la stessa filosofia di Aristotele non la si può intendere appieno, senza considerare il contesto storico in cui, dopo la fine dell'epoca del mito, era pure maturata la crisi della religione e della stessa sapienza arcaica. E ciò non solo in relazione alla pur rilevante e significativa questione dell'intelletto agente, del nous, vale a dire di quella parte dell'anima che si potrebbe definire il “divino riflesso nella natura dell'uomo”. Tanto che Giovanni Reale afferma che la concezione aristotelica della polis è «la più radicale difesa dello Stato che nell'antichità sia stata fatta contro i tentativi di alcune correnti della sofistica di ridurre la polis a semplice frutto di artificiosa convenzione», e addirittura che «anche nella politica, in conclusione, la metempirica concezione dell'anima e dei valori dell'anima risulta la linea di forza secondo cui si svolge tutto il discorso aristotelico. Anche qui Aristotele è più vicino a Platone di quanto non si creda comunemente: sono certi aspetti aberranti della Repubblica platonica che lo Stagirita critica e respinge, non l'ideale di fondo che essa esprime» (12).

Nondimeno, se è vero che si deve prestare attenzione a non interpretare quel che i Greci denominano “anima” mediante le categorie del cristianesimo, a maggior ragione si deve tener conto che l'etica per i Greci, come mos per i Romani, a differenza della morale soggettiva ed individualistica dei moderni (impensabile senza il cristianesimo) è inseparabile dalla “terra” cui si appartiene, dal luogo in cui si “dimora”. Sotto questo profilo, essere uomini significa, prima di tutto, essere parte di una determinata comunità; né vi può essere conflitto tra “giustizia” e salvezza della polis ove il compito principale della politeia sia quello di svolgere la funzione del katechon onde “salvaguardare” l'intera comunità. E «il Greco fu sempre convinto (almeno fino all'età di Platone e di Aristotele) che lo Stato e la legge dello Stato costituissero il paradigma di ogni forma di vita [e che] il valore e le virtù dell'uomo [fossero] il valore e le virtù del cittadino». (13) Solo dunque con la definitiva rottura della «unità cosmologica e umana del mondo dei Greci» (14) e la radicale scissione tra cittadino e individuo, Machiavelli può scrivere che «dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso, anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita, e mantenghile la libertà» (Discorsi, III, 41). Quel che qui ha di mira Machiavelli è la una morale che non ha più il proprio baricentro nella comunità; perciò il pensatore fiorentino può nettamente distinguere, o meglio separare ciò che si considera giusto o ingiusto dalla “decisione” per la salvezza della patria, dacché lo Stato per Machiavelli non è più un «complesso “radicato” di organi e soggetti, ma […] uso “virtuoso” di violenza, immanenza reciproca di ordine e conflitto» (15). E' proprio invece la relazione tra uso “virtuoso” della forza e “salute” della patria che è al centro della riflessione di Sofocle - il grande tragediografo (ed uomo politico) ateniese - nell'Antigone, secondo cui è impossibile che l'agire in vista della “salute” della polis non sia giusto, a patto che sia effettivamente tale, ossia non lo sia solo apparentemente ed arrechi invece il massimo danno possibile alla polis, perdendo di vista quelle norme «non scritte ed incrollabili, e che i mortali non possono permettersi di trasgredire, in quanto non sono né di oggi né di ieri, ma vivono da sempre, e nessuno sa quando sono apparse» (Antigone, vv. 450-457). Per questo motivo, il rapporto tra diritti della polis (Creonte) e diritti del genos (Antigone) è posto da Sofocle alla pari: «La polis sì, ma una polis che rispetti le tradizioni sacre di cui è custode la famiglia e che trovano la loro più alta espressione nel culto dei morti» (16). Degno di nota è pure che Sofocle (anche) nell'Antigone si riferisca alla realtà politica dell'Atene contemporanea: non solo la definizione di Creonte – il tiranno di Tebe - come “stratego” non può non riferirsi a Pericle, ma vi è una «precisa concordanza dei concetti, esposti da Creonte nel suo discorso, con quelli che Tucidide mette in bocca a Pericle (Tucidide, II, 60)» (17). Quel che paventa Sofocle è che la progressiva dissoluzione dell'etica tradizionale dia origine a comportamenti talmente radicali ed irresponsabili da minare le fondamenta stesse della comunità: «L'intero significato etico e politico dell'Antigone si riassume [nel] contrasto tra l'hypsipolis che opera per il bene della città, attenendosi ai principi sanciti dagli dei, e l'apolis che invece la porta alla rovina, sostituendo quei principi con nomoi puramente umani [ovvero convenzionali e contingenti]» (18). La difesa della tradizione, in quanto necessario presupposto di un agire assennato e di una intelligenza politica matura e responsabile, la si fraintenderebbe però se si ritenesse unicamente indice del timore di uno spirito conservatore nei confronti del nuovo corso della politica ateniese, ché Antigone, seguendo la «giustizia che posa sui giuramenti agli dei» (vv. 367 s.), vuole onorare le «leggi della sua terra» (v. 367), prendersi cioè cura della propria radice, che invece la tracotanza di Creonte, che segue soltanto la ragion di Stato, rischia di svellere. Del resto, anche nell'Edipo re, il coro afferma: «La dismisura genera il tiranno; e quando essa si sia stoltamente saziata […] allora, salita sulla cima più alta, precipita in un fatale abisso […] Ecco perché l'ottima gara per la salvezza della città chiedo al dio che non la voglia mai interrompere, il dio che mai cesserò di tenermi come patrono. Chi invece in azioni e parole procede sprezzante, senza timore di Dike, senza venerare i luoghi dove gli dei hanno le loro sedi, costui una sorte infausta se lo prenda» (vv. 872 ss.). Sia o no Alcibiade il bersaglio del coro, queste parole non sono solo quelle di un uomo pio, ma quelle di un Greco, consapevole di quella legge dei contrari, la enantiodromia di cui parla il filosofo d'Efeso, secondo cui ogni cosa tende a sfociare nel suo contrario, e di un politico “realista” che, avendo ben presente quale sia la natura dell'uomo, si avvede della necessità di porre un freno agli “appetiti” del demos, facendo leva su quelle sacre “leggi della terra”, senza le quali la polis è destinata a corrompersi e ad autodistruggersi. (Lo stesso Euripide ammonisce gli Ateniesi - ne Le troiane, vv. 95-98, tragedia rappresentata nella primavera successiva all'assedio di Melo ed alla vigilia della disastrosa spedizione contro Siracusa - con queste parole: «Folle è colui che spiana città, templi, sepolcri e sacrari dedicati ai morti; poiché semina distruzione, perirà egli stesso»).

Comunque sia, anche per Sofocle, come per Tucidide e per Platone, la città non può crescere e progredire muovendo guerra contro le altre città, senza farla anche a sé stessa. «Così accade ad Atene. Muovendo guerra per il dominio, essa non suscita soltanto odio ed inimicizie (Tucidide, II, 64, 5), ma corrode necessariamente la propria stessa forma politica» (19). Sotto questo profilo, però, la difesa sofoclea del “paradigma tradizionale”, come “guardiano” di quei “termini” che il “politico” non deve oltrepassare, non può non essere “contraddetta” dalla impossibilità di arrestare l'impeto “sradicante” di Atene, dacché quest'ultimo è imposto dall'esigenza di dominare il mare. Talassocrazia, imperialismo e democrazia (nell'accezione negativa del termine, cioè intesa non tanto come partecipazione dei più agli affari pubblici, quanto piuttosto come demagogia) sono inseparabili, come comprendono il “Vecchio Oligarca” (20). e lo stesso Platone, il quale non si illude che i valori della tradizione - inclusa quella mantica che Creonte disprezza apertamente (Antigone, vv. 1033 ss.) - possano ancora essere un saldo punto di riferimento per chi si opponga alla “pre-potenza” del più forte. Perciò Platone ritiene necessario impegnarsi in una rifondazione dell'ethos tradizionale, ossia dell'uomo e dello Stato. Ma già la historia tucididea, in cui come nel mondo di Creonte, non hanno parte alcuna le divinità, poiché è un «mondo costruito sul metro dell'uomo e dello Stato» (21) - mostra chiaramente come lo sviluppo di Atene, la cui potenza risiede sul mare, dipenda dalla capacità di dominare le altre città con la propria flotta da guerra, ché  gli Ateniesi non sono “incatenati alla terra”, come gli opliti spartani. Dicono i Corinzi ai Lacedemoni per incitarli alla guerra, che gli Ateniesi «sono innovatori […] audaci oltre la propria forza […] risoluti di fronte a voi che temporeggiate, pronti ad abbandonare il proprio paese di fronte a voi che mai volete uscire dal vostro» (Tucidide, I, 70). E' quindi questo conatus - che spinge gli Ateniesi oltre i propri confini, che non si può limitare con patti o con la promessa di non ostacolarlo, come “ingenuamente” credono i Meli, e che è alla base della fortuna della città e del potere del demos – che nell'opera di Tucidide si rivela essere come ciò che ne costituisce il lato “tragico” (del tutto assente invece nel discorso del grande fiorentino), giacché «questo furente-razionale conatus risulta alla fine auto-distruttivo [e] la stessa linfa che reca in alto le città, deve finirle con l'abbatterle» (22). Tucidide, pertanto, lascia che l' hybris del logos della talassocrazia ateniese si manifesti per quello che effettivamente è. Vano però sarebbe contestare tale logos appellandosi a Dike, non solo perché pretende di essere giusto, anzi il solo logos giusto - proprio come Creonte è convinto che solo il suo discorso sia vero (Antigone, vv. 705 ss.) - e perché si presenta fondato sulla natura umana (e perfino su quella divina), ma perché è segno di una ben determinata “volontà di potenza”, non “mero” discorso. Sono allora le conseguenze del logos di questa determinata volontà di potenza che si debbono prendere in considerazione, sia i “mali” prodotti dalle lotte intestine e dallo spirito di fazione, sia la sconfitta di Atene, prima contro Siracusa, poi contro Sparta. Conseguenze inevitabili di quella “pre-potenza” che Sofocle nell'Antigone vede originarsi da un uso “distorto” del potere politico e che Platone lucidamente ritiene essere l'effetto della hybris talassocratica (Gorgia, 518e-519b).

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A giudizio di Massimo Cacciari, però una volta che la via sia stata tracciata sul mare non si può non percorrerla, “chiuderla”. Di fatto, è indubbio che nel “passaggio” dall'Antigone di Sofocle ai dialoghi platonici “il mondo tradizionale” sia definitivamente tramontato. Solo così si spiega per quale motivo occorra dar “forma” alla lotta politica mediante una politeia che in primo luogo sia in grado di “e-ducare” la natura dell'uomo, instaurando un “circolo virtuoso” tra città giusta e cittadini giusti. Epperò, scrive Cacciari, in un passo che vale la pena di citare quasi per intero, «inizia qui tra filosofia e mare un difficile rapporto […] La filosofia non può condividere la hybris della talassocrazia, ma non può non condividerne la forza sradicante. La filosofia deve “salpare” da ogni doxa, da ogni Nomos acquisito solo per forza di tradizione – ma, ad un tempo, e con tutte le sue energie, contrastare l'equivalenza tra giusto e utile, tra giusto e semplice equilibrio di potenza, tra giusto ed effettuale». Il mare non potendo essere che “met-odo”, via da seguire per «guadagnare una terra ancor più salda di quella abbandonata, un Nomos finalmente ben fondato» (23). Si viene così a configurare quella “tensione essenziale” fra terra e mare che contraddistingue la storia europea e che in età moderna sfocerà nel conflitto tra Landmächte e Seemächte. (24) Secondo Cacciari però tra la talassocrazia ateniese e quella americana - non vi sarebbe soluzione di continuità, poiché sarebbero connesse secondo «una concatenazione logica, inconfutabile» (25). In tal modo, però non solo si perde totalmente di vista che il demos ateniese è, prima di tutto, uno zoon politikòn - e che quindi l'ordinamento democratico ateniese è basato sul primato della funzione politica, tanto è vero che la ricchezza ha la funzione di incrementare la potenza militare della polis, ma anche di finanziare la costruzione di opere pubbliche e la partecipazione del demos agli affari e alla vita della città, e le attività commerciali sono esercitate perlopiù da residenti stranieri privi di diritti politici (i meteci) - , ma soprattutto si rischia di giustificare un'altra “volontà di potenza”, assai diversa ed assai più “pre-potente” di quella ateniese. Una conclusione però che sembra difficile rifiutare, qualora si assuma che l'Occidente sia il “destino” dell'Europa o addirittura dell'intero pianeta. Certo è innegabile che il termine “occidentalizzazione” possa riferirsi a quel che Martin Heidegger designa come “la fine della filosofia”, che «si mostra come il trionfo dell'organizzazione che manovra il mondo tecnico-scientifico e dell'ordinamento sociale corrispondente a tale mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione mondiale fondata sul pensiero occidentale-europeo» (26). Ciononostante, il trattino fra “occidentale” e “europeo”, in questa frase di Heidegger, non solo unisce, ma distingue. E' indice di “differenza”. Ed è questa “differenza” che conta allorché si deve prendere in esame l'origine della civiltà europea in relazione alla sua “occidentalizzazione”.

Di fatto, l'idea di Occidente è relativamente recente. Nasce tra Settecento e Ottocento per designare l'espansione dello “spazio europeo” verso Ovest, cioè verso il continente (nord)americano. E viene “progressivamente” a denotare, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, il “nuovo mondo” americano, concepito come sintesi di tutta la “tradizione” europea, compresa la civiltà classica, greca e romana, il cristianesimo e il Rinascimento. Si cerca così di legittimare la proiezione universalistica e globalistica nordamericana, di un Occidente senza confini, rispetto all'Europa, «ancorata com'è alla dimensione mediterranea: una cultura del limes [corsivo nostro], del multilateralismo, del mare fra le terre, estranea alla dimensione cosmopolita delle potenze oceaniche». (27) Ossia una cultura come quella del mondo ellenico, caratterizzata - anche “in negativo”, per così dire, in quanto di ostacolo alla realizzazione di istituzioni politiche panelleniche, ritenendo i Greci accettabile solo la “di-mensione” della polis - dalla ricerca della giusta misura e della mediazione tra gli opposti, fra terra e mare, per “frenare” e imbrigliare l'illimitato. Peraltro, è proprio sulla base della distanza tra «l'estrema propaggine dell'Occidente e il suo originario spazio europeo» (28), che Robert Kagan ha potuto sostenere che «è tempo di smettere di pretendere che gli europei e gli americani condividano una stessa visione del mondo, o persino che essi abitino lo stesso mondo […] Su tutte le questioni essenziali relative al potere, le prospettive europee ed americane divergono […] Questo stato di cose non ha nulla di provvisorio […]. Le ragioni della frattura transatlantica sono profonde, esse vengono da lontano e sono destinate a perdurare» (29). Per Kagan, gli europei sarebbero kantiani, mentre gli americani sarebbero hobbesiani, poiché credono che le relazioni internazionali vadano gestite mediante i criteri della politica di potenza (30); tesi che deriva dalla convinzione che la “vecchia Europa” non rappresenti che la periferia dell'Occidente e che solo chi si trova in posizione di netta inferiorità contesta che i conflitti tra gli Stati siano da “regolare” secondo i principi della Machtpolitik e si appella al diritto internazionale (che i vincitori o i più forti invece possono far sì che valga soltanto “contro” i vinti o i più deboli). Kagan ammette esplicitamente che gli Stati Uniti hanno agito il più delle volte in dispregio del diritto internazionale e se talvolta  non l'hanno fatto, ciò è dipeso da considerazioni opportunistiche. Ma la legittimazione del loro agire strategico deriverebbe dal ruolo dell'America come leader del mondo libero, ovvero della civiltà occidentale. In realtà, anche in questo caso, si è in presenza di quella strumentalizzazione ideologica della cultura e della storia europea, che consiste nel ritenere tipicamente occidentale quello che conferma la visione liberale del mondo, e in particolare quella angloamericana. Il che, se porta l'Europa a percepire «sé stessa come arretrata rispetto al “vero” Occidente, costituito dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, i paesi più vicini ad un modello di “modernità liquida”, insulare ed oceanica», (31) favorisce pure una lettura apologetica del Novecento «che, nella sua miopia, moltiplica anziché risolvere i problemi. La cosiddetta vittoria della libertà sul totalitarismo non segna, infatti, il passaggio ad una fase superiore della storia, ma l'inizio di un nuovo periodo di conflitti, caratterizzato sì dal primato planetario degli Stati Uniti, ma anche dalla mutilazione della cultura occidentale e dalla conseguente drammatica contrazione della sua capacità di capire» (32) Si rafforza in tal modo la tendenza ad espungere dall'orizzonte culturale e politico dell'Occidente quelle tensioni strutturali che sono costitutive dell'identità europea e a recidere ogni “legame” dell'Europa con l'area mediterranea e l'Oriente. Si può allora giungere persino ad affermare che «il confine più naturale e generalmente riconosciuto è il grande spartiacque storico, che esiste da secoli e divide i popoli dell'Occidente cristiano da quelli musulmani e ortodossi» (33), quasi che l'Europa fosse un'appendice del mondo di lingua inglese, senza alcuno scambio culturale ed alcun rapporto commerciale con il mondo islamico e scrittori come Dostoevskij o Tolstoj non facessero parte della cultura europea. Non meraviglia perciò nemmeno che gli (anglo)americani, in generale, “oscillino” tra la pretesa di essere gli unici eredi legittimi dei Greci (soprattutto degli Ateniesi) e la critica della concezione greca del “politico”, in quanto, in ogni caso, fondata su principi olistici, se non addirittura totalitari, ovverosia nettamente anti-individualistici.

Affatto naturale, pertanto, che si cerchi anche di «imprimere il prestigioso marchio d'origine ateniese» sul sistema liberal-democratico occidentale, mediante paragoni più o meno zoppicanti. (34) E ai diversi “usi politici” di Tucidide si può ora aggiungere pure quello di Victor Hanson, autore di una importante analisi della guerra del Peloponneso, (35) dato che i suoi continui paralleli con l'attualità trascurano proprio quegli aspetti che sono decisivi per comprendere le differenze tra una società di mercato, come quella americana, ed una autentica comunità politica, come nonostante tutto si deve considerare Atene. Indipendentemente però dalle indubbie forzature, alcune analogie paiono essere plausibili, tanto più se si ritiene che non sia possibile comprendere il passato se non a partire dalle domande e dai problemi del presente, come lo stesso Hanson riconosce: «I nostri laeder politici e i nostri Soloni […] non sanno bene se il destino di Atene sarà anche il nostro, o se gli americani potranno ancora uguagliare la civiltà e l'influenza degli Ateniesi pur evitandone l'arroganza. La guerra del Peloponneso non è mai stata tanto rilevante per gli americani come oggi. Proprio come gli Ateniesi, siamo potentissimi ma insicuri, dichiaratamente pacifisti ma quasi sempre impegnati in qualche conflitto» (36). L'arroganza cui si riferisce Hanson (e che, in verità, caratterizza la storia degli Stati Uniti a partire dallo sterminio dei Pellerossa) non è altro, che quella hybris degli Ateniesi che si rivolgono ai Meli, sia pure “amputata” di un “retroterra” culturale affatto diverso, ed “immensamente” più aggressiva e potente. Pare perciò lecito – anche tenendo conto del nesso tra talassocrazia e “dis-misura”, e che l'opera di Tucidide, come egli stesso afferma (Tucidide, I, 22) vuole essere «un'acquisizione perenne, piuttosto che un pezzo di bravura composto per il successo immediato» - (37) ritenere che alla tracotanza dello zoon politikòn ateniese, corrisponda quella ben più terribile dell'homo oeconomicus, dell'illimitata volontà di potenza del “mercato”. Alla prima, i Meli assai poco possono opporre. Pensavano di poter rimanere neutrali, laddove si imponeva la scelta tra “amico o nemico”. Ed ora che gli Ateniesi li costringono a scegliere, non possono - al contrario dei Greci che non si erano piegati ai Persiani - che apparire “im-belli” e di conseguenza vengono irrisi dagli stessi ambasciatori ateniesi. Si potrebbe dire, secondo la nota metafora di Kagan, che sono venusiani, mentre gli Ateniesi provengono da Marte. Perciò ai Meli non rimane altro che farsi sterminare o essere ridotti in servitù. Anche se il paragone non deve trarre in inganno - ché, se l'America non è Atene, le “condizioni” dell'Europa non sono certo identiche a quelle di Melo – il senso però sembra chiaro: da un lato, una talassocrazia che non riconosce alcun confine, alcun “limite”; dall'altro, la necessità di opporsi ad una politica di potenza che tende ad annientare qualsiasi “spazio” – culturale, politico, economico e sociale – che non esegua gli “ordini del mercato” e della “grande democrazia occidentale”.

Tuttavia, anche se si ritiene che per l'Europa, «l'inseguimento mimetico del più forte coinciderebbe con un'avventura fuori tempo, con una perdita della specificità della sua identità» (38), non si deve commettere, mutatis mutandis, lo stesso errore dei Meli, che si devono criticare non per avere sostenuto che non è giusto imporre con la forza la propria volontà agli altri, ma per non aver compreso la necessità di agire affinché altri non ci impongano con la forza la propria volontà. E la necessità della cultura del limes (perfetta esemplificazione geopolitica dell'idea, tipicamente greca, di misura, di quel Misto che risulta dall'azione del principio limitante, del Limite, sull'Illimite) (39) è anche questa, ovvero la necessità di porre “termine” alla “barbarie atlantista”. Nell'età del nichilismo, secondo Heidegger, «appena l'uomo riflette sulla sradicatezza, questa non è più una miseria. Essa invece considerata giustamente e tenuta da conto, è l'unico appello che chiama i mortali all'abitare. Come possono però i mortali rispondere a questo appello se non cercando, per la loro parte, di portare se stessi l'abitare nella pienezza della sua essenza? Essi compiono ciò quando costruiscono a partire dall'abitare e pensano all'abitare» (40). Non c'è affatto bisogno allora di «un nuovo etnocentrismo imperiale, espansivo e concorrenziale rispetto a quello americano» (41). Ciò che invece è necessario - e proprio sul fondamento di quelle leggi che Sofocle denomina “leggi della propria terra” ,ossia l'ethos concepito come modo di abitare il mondo proprio dell'uomo - è contrapporre al “non luogo” della talassocrazia “atlantista”, alla «pre-potenza panoptica dell' “oceano del cielo”» (42), non l'utopia dell'unità “im-mediata” dei distinti o di una “terra senza il male”, bensì l' “eu-topia” di un blocco eurasiatico, radicato nella cultura del limes.







1. L. Canfora, Dalla logografia ionica alla storiografia attica, in AA.VV., La Grecia nell'età di Pericle, Bompiani, Milano, 1979, p. 366. Le parole degli Ateniesi acquistano un senso ancor più “sinistro” se si considera che la piccola Melo era condannata in partenza. Allorché capitolò, i maschi adulti furono uccisi, mentre donne e bambini furono venduti dagli Ateniesi come schiavi (per queste vicende vedi Tucidide, V, 87-111).
2. Ivi, p. 368.
3. M. Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994, pp. 45-46.
4. Ivi, p. 44.
5. Ivi, p. 46.
6. A. Lesky, Storia della letteratura greca, Il Saggiatore, Milano, 1982, vol. II, p. 619. Lesky sostiene che Tucidide «non è  un teorico della volontà di potenza o un estremista della sofistica che abbia annullato nel suo pensiero i valori etici [...] Egli può dire con Esiodo che Aidos e Nemesis hanno abbandonato da gran tempo la terra e che le cose vanno male per Dike, ma non abbiamo alcun motivo per credere che egli considerasse giusto questo stato reale delle cose» (Ivi, p. 619). Del resto, il "realismo politico” non è il “cinismo”, dacché consiste non nel giustificare ciò che accade in quanto accade, ma nell'evitare di comportarsi come non potesse accadere ciò che è giusto che non accada.
7) L. Canfora, op. cit., nota 440, p. 365.
8) A. Jellamo, Il cammino di Dike: l’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli Editore, Roma, 2005. p. 84.
9) E. Degani, Democrazia ateniese e sviluppo del dramma attico, in  AA.VV., La Grecia nell'età di Pericle, cit., p. 284.
10. Ivi, p.285.
11. M. M. Sassi, “Apologia” e “Critone”, una vita filosofica, una morte “necessaria”, introduzione a Platone, Apologia di Socrate, Critone, Bur, Milano, 1993, pp. 23-24.
12. G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, vol. II, p. 524 e p. 540.
13. G. Reale, Il pensiero antico, Vita e Pensiero, MIlano, 2001, p. 159.
14. Vedi C. Preve, La saggezza dei Greci, Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, pp. 23-24 (petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1096/el_1096.pdf). Preve chiarisce bene che questa unità perdura, benché in modo differente, anche dopo la crisi della polis, per scomparire all'inizio del mondo moderno, con il tramontare di ogni idea di “cosmo”.
15. M. Cacciari, op. cit., nota 2, p. 49.
16. C. Diano, Sfondo sociale e politico della tragedia greca antica, «Dionisio», 39, 1965, p. 122.
17. Ivi, p. 124.
18. E. Degani, op. cit., p. 285.
19. M. Cacciari, op. cit., p 49.
20. Al riguardo, vedi l'analisi di C. Mutti, La “Costituzione” di Atene. Democrazia e talassocrazia, «Eurasia», 2, 2011. Evidenzia bene questa relazione anche Giuseppe Nenci: «La politica di potenza ateniese viene fondata sulla base di una visuale che non è più quella dell'espansione territoriale, ma […] quella del consenso ad un'impostazione ideologica che tendeva ad identificare la visione di un modo di vita greco cioè dell'hellenikòn, con quella ateniese. Di qui una battaglia ideologica e propagandistica, pro o contro la visione ateniese dei rapporti tra città rette da ordinamenti politici affini; di qui una politica di potenza della quale gli uomini politici ateniesi più illuminati si resero conto come di un fatto ineluttabile che obbediva alla logica di una difesa di una ideologia politica, identificata nell'espandersi della medesima all'esterno della città guida» (G. Nenci, Formazione e carattere dell'impero ateniese, in  AA.VV., La Grecia nell'età di Pericle, cit., pp. 45-46).
21. V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, Morcelliana, Brescia, 1959, p. 82.
22. M. Cacciari, op. cit., p. 49.
23. Ivi, pp. 54-55.
24. Per tale questione, nonché per quella relativa alla differenza tra lo zoon politikòn ateniese e l'homo oeconomicus moderno, mi sia consentito di rimandare, per evitare ripetizioni e per i riferimenti bibliografici, al mio scritto Homo Europaeus, «Eurasia», 2, 2010, pp. 11-23.
25. M. Cacciari, op. cit., p. 69.
26. M .Heidegger, La fine della filosofia, in Idem, Tempo e Essere, Longanesi Milano, 2000, p.77.
27. D. Zolo, Recensione del libro di G. Preterossi, L'Occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari, 2004, «Jura Gentium», I (2005) 1, (vedi juragentim.unifi.itbooks/it/preteros.htm).
28. Ibidem.
29. Vedi A. de Benoist, Gli Stati Uniti e l'Europa, http: // www. Alaindebenoist. Com/ pdf/ gli_stati_uniti_e_l_europa.pdf.
30. Vedi R. Kagan, Paradiso e potere: America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2003.
31. F. Cassano, Un altro Occidente, «Jura Gentium», I (2005) 1, http: // www. Juragentium. unifi.it/topics/med/it/cassano.htm.
32. Ibidem.
33. Vedi S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997, p. 228.
34. Vedi C. Mutti, Un blocco militare nella Grecia del V secolo, in Idem, Gentes, Effepi, Genova, 2010, pp. 55-62.
35. Vedi V. D. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, Garzanti, Milano, 2008. Di V. D. Hanson, vedi anche L'arte occidentale della guerra, Garzanti, Milano, 2001.
36. V. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, cit., p. 239.
37. L. Canfora , Introduzione a Tucidide, Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Marsilio, Padova, 1991, p. 19.
38.  F. Cassano, op. cit.
39. Sotto questo punto di vista, non pare esagerato quindi affermare che è Roma (neppure da considerare "altra" rispetto alla civiltà ellenica - vedi A. Toynbee, Il mondo ellenico, Einaudi, Torino, 1967) che "risolve", in un certo senso, il problema greco del "politico". Per quanto concerne il Misto, il riferimento è naturalmente al Filebo di Platone.
40. M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1985, p. 108.
41 F. Cassano, op. cit.
42. M. Cacciari, op. cit., pp. 68-69.

* Articolo pubblicato su "Eurasia", 4/2012, pp. 15-26

venerdì 10 luglio 2015

EUROPEISMO CONTRO EURO-ATLANTISMO


L'8 maggio 1945, allorché tacquero le armi in Europa, a Sétif, in Algeria, dei manifestanti musulmani, che festeggiavano la fine della guerra, si scontarono con la gendarmeria locale. Ne nacquero dei tumulti in cui persero la vita 103 pieds noirs e altre centinaia di civili rimasero feriti. La repressione francese non si fece attendere. Benché sia tutt'ora incerto il numero delle vittime, non è lontana dal vero la stima di almeno 6000 algerini uccisi dalle truppe francesi. 1  Cominciava così, nello stesso giorno in cui cessava la guerra nel Vecchio Continente, il tragico capitolo della fine del sistema coloniale, che negli anni seguenti avrebbe visto la Francia impegnarsi, senza alcun profitto, in due guerre, quella di Indocina (terminata con la sconfitta francese a Dien Bien Phu nella primavera del 1954) e quella d'Algeria, cui mise termine Charles De Gaulle nel 1962 con il riconoscimento dell'indipendenza della repubblica d'Algeria. 
Anche se era annoverata insieme alla Gran Bretagna tra le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, in realtà la Francia solo nominalmente la si poteva annoverare tra gli Stati vincitori. Al riguardo, non v'è dubbio alcuno che i due Paesi che avevano veramente deciso le sorti della guerra fossero stati due Paesi non europei, ovvero gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica. Il contributo francese alla sconfitta della Germania era stato poco più che simbolico; tra l'altro, il piccolo esercito francese che aveva combattuto a fianco degli alleati era basato proprio su truppe reclutate in Algeria, Marocco e Tunisia. Assai maggiore invece era stato il contributo della Gran Bretagna alla vittoria, ma anch'essa aveva dovuto basarsi sempre più sui contingenti dei Paesi dell'impero coloniale britannico per combattere contro la Germania (e il Giappone). Ed era ovvio che finita la guerra ne avrebbe dovuto pagare il prezzo. Ma i problemi che la Gran Bretagna doveva affrontare non erano certo solo quelli derivanti dall'impiego massiccio di truppe non britanniche. Infatti, appena finita la guerra in Europa, gli Stati Uniti non esitarono ad interrompere, di punto in bianco, gli aiuti concessi alla Gran Bretagna (tranne quelli per la guerra del Pacifico che continuarono fino al 21 agosto del 1945) in base alla legge “Affitti e Prestiti” del marzo 1941. Londra fu subito costretta ad inviare a Washington una delegazione di cui faceva parte il famoso economista John Maynard Keynes, ma senza ottenere alcun risultato. 
Invero, il braccio di ferro tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna era già cominciato a Bretton Woods (nel luglio del 1944). In questa località dello Stato del New Hampshire si era deciso di creare due istituzioni che avrebbero avuto un ruolo chiave nel dopoguerra: il Fondo monetario internazionale (a tutt'oggi il pilastro fondamentale del sistema monetario mondiale) e la Banca internazionale per la ricostruzione e sviluppo. Il vero scopo della conferenza comunque era la creazione di un sistema economico internazionale imperniato sul libero scambio, i cambi fissi e “dollarocentrico”; vale a dire un sistema che, “agganciando” la moneta statunitense all'oro, sostituisse il pool della sterlina (che prevedeva che le entrate in dollari dei Paesi del Commonwealth venissero versate a Londra e fossero convertite in sterline) e sancisse il definitivo riconoscimento degli Stati Uniti come potenza capitalistica predominante. In sostanza, gli Stati Uniti erano diventati i padroni del mondo in termini economici e adesso potevano gettare sul piatto della bilancia l'enorme peso della loro potenza militare ed economica. 
Durante la guerra, mentre il Pnl dell'Europa (esclusa l'Unione Sovietica) era diminuito di circa il 25%, quello degli Stati Uniti (in termini reali) era aumentato del 50%. 2 Pressoché in tutti i settori di rilevanza strategica il Paese nordamericano sopravanzava l'Europa e in particolare l'Inghilterra Nel settore della marina mercantile, tradizionale “punto di forza” degli inglesi, nel 1939 gli Stati Uniti avevano appena la metà del tonnellaggio della Gran Bretagna, sei anni dopo il rapporto di forze si era rovesciato. 3 Ancor più significativo forse è che nel 1950 le forze armate degli Stati Uniti potevano contare su 1.380.000 uomini e le spese statunitensi per la difesa ammontavano a 14,5 miliardi di dollari contro i 2,3 miliardi di dollari e 680.000 uomini della Gran Bretagna (la Francia disponeva solo di 590.000 uomini e le spese per la difesa ammontavano a 1,4 miliardi di dollari). 4 
Logico allora che lo scontro imperialistico tra Gran Bretagna e Stati Uniti nel 1946-1948 non potesse concludersi che con la sconfitta del Paese europeo. La Gran Bretagna dovette accettare le  condizioni imposte dagli Stati Uniti per un nuovo prestito, che prevedevano tra l’altro la ratifica degli accordi di Bretton Woods e la convertibilità della sterlina entro il luglio del 1947 (con conseguenze pesantissime per la bilancia dei pagamenti inglese) e che aggravarono considerevolmente la già precaria situazione socio-economica della Gran Bretagna, che durante il terribile inverno del 1946-1947 aveva dovuto razionare, oltre al pane, la corrente elettrica e perfino sospendere la pubblicazione dei settimanali. Ora la Gran Bretagna fu costretta anche a “gettare la spugna” in Grecia, dato che non poteva più rifornire il proprio corpo di spedizione composto da 16.000 soldati che avevano il compito di appoggiare l’esercito greco contro i partigiani comunisti di Markos. 5 In seguito l’economia inglese riuscì, sia pure lentamente, a risalire la china, ma è indubbio che i costi politici del braccio di ferro con gli Stati Uniti furono salatissimi. 
Né migliori, ovviamente, erano le condizioni delle potenze europee sconfitte. Gravissimi erano i danni di guerra, soprattutto per quanto concerne il sistema delle comunicazioni (strade, ferrovie, canali, aeroporti e porti). In Germania (divisa in quattro zone d'occupazione: statunitense, britannica, francese e sovietica) le devastazioni causate dai bombardamenti erano aggravate dallo smantellamento di parecchi impianti industriali nonché dalla penuria di materie prime, tanto che nel 1946 il reddito e la produzione nazionali furono meno di un terzo di quelli del 1938. 6 Anche l'apparato industriale dell'Italia aveva subito colpi durissimi, sebbene i danni di guerra non superassero in media l'8% del valore degli impianti. 7 Del resto, anche le potenzialità della Germania erano notevoli per l'enorme espansione del sistema produttivo tedesco  dalla seconda metà degli anni Trenta sino alla fine della guerra. In definitiva, se così è lecito esprimersi, la macchina europea era ancora in buono stato, ma  mancavano i mezzi per ripararla e l'energia perché potesse funzionare a pieno regime.  
Sotto questo aspetto, benché non vi sia la prova contraria, è innegabile che il piano Marshall sia stato decisivo per la ripresa dell'economia europea. Si deve però prendere in considerazione anche l'altro lato della medaglia. In primo luogo, il piano Marshall era vantaggioso anche per l'economia statunitense. L'eccezionale sviluppo del settore manifatturiero degli Stati Uniti negli anni della Seconda Guerra Mondiale (rispetto al 1939 gli impianti industriali, specialmente a causa degli investimenti statali, erano aumentati di ben il 65%) aveva praticamente eliminato la disoccupazione, ma il mercato nazionale era troppo piccolo per l'apparato produttivo statunitense, né vi erano mercati esteri che potessero acquistare i prodotti statunitensi. Si calcolò quindi che i disoccupati potevano nuovamente salire a sei o sette milioni, ma era a rischio pure il saldo attivo della bilancia di pagamenti (un attivo che nel 1944 era pari a 14,3 miliardi di dollari) che secondo il Dipartimento di Stato non doveva scendere sotto i dieci miliardi dollari. 8 Il piano Marshall non solo risolveva questi problemi ma, grazie alle riserve accumulate per il surplus delle esportazioni, rendeva possibile trasferire risorse ai propri alleati, i quali acquistando in dollari merci statunitensi avrebbero contribuito al rafforzamento del sistema internazionale imperniato sul dollaro. Ma, oltre ad instaurare questo “circolo virtuoso” (per gli Stati Uniti, s'intende), il piano Marshall aveva un evidente significato politico, dacché era ovvio che i Paesi europei sarebbero venuti a dipendere sempre più dal sistema americano (peraltro una parte di questi aiuti sarebbero serviti a “coprire” le spese militari degli alleati degli statunitensi). 
Non a caso l’Unione Sovietica, che non aveva alcuna intenzione di modificare i propri piani economici (e quelli dei suoi alleati) per armonizzarli con gli obiettivi del programma americano, denunciò il piano Marshall come una manovra degli Stati Uniti che avrebbe portato i Paesi europei a perdere la propria indipendenza politica. Né Washington faceva mistero che, ridefiniti i rapporti di forza fra Vecchio Continente e Nuovo Mondo, gli Stati Uniti dovevano guidare la “crociata” occidentale contro il comunismo. In effetti, i rapporti con l'Unione Sovietica erano diventati sempre più tesi, tanto che nel giugno del 1948 i generali Clay, Robertson e Koenig introdussero nelle zone della Germania sotto il controllo delle “forze occidentali” una nuova moneta, il deutsche Mark. 9 A questa misura, decisa unilateralmente dagli “occidentali”, l'Unione Sovietica rispose con il blocco di Berlino. Era l'inizio della guerra fredda, che non solo avrebbe portato alla creazione di una Germania Ovest e di una Germania Est, ma avrebbe visto il mondo intero diviso in due blocchi nettamente contrapposti. Nell'aprile del 1949 venne firmato il Patto atlantico (duramente criticato da Mosca che lo riteneva essere pure in flagrante contraddizione con la carta dell'Onu) e nel giugno del 1950 scoppiò la guerra di Corea. 
Fu dunque in questo contesto strategico, contraddistinto dall'antagonismo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che venne elaborato il piano che mirava a creare un mercato comune europeo per il carbone e l'acciaio, considerato dagli europeisti il primo passo verso la realizzazione di una unione politica dell'Europa. È indubbio comunque che l'istituzione (nel 1951) della Ceca (cui aderirono sei paesi europei: Belgio, Olanda, Lussemburgo, Francia Italia e Germania) stimolasse (anche grazie all'aumento della domanda a causa della guerra di Corea) l'economia europea e in particolare favorisse la siderurgia tedesca che, nonostante la contemporanea espansione della siderurgia italiana e di quella olandese, mantenne intatto il primato nella produzione europea. Nondimeno, era evidente che negli anni Cinquanta l'Europa occidentale era una delle poste in gioco (con ogni probabilità la più importante) tra i due blocchi e che la stessa integrazione europea non poteva non dipendere da tale scontro, tanto è vero che subito dopo l'istituzione della Ceca si pose la questione della difesa europea, ritenuta indispensabile per arrivare ad una vera unione politica dell'Europa.
Dopo lo scoppio della guerra di Corea si era fatta più forte la pressione degli Stati Uniti sulla Francia perché si convincesse della necessità di un riarmo della Germania. Per la strategia della Nato (di cui la Germania ancora non faceva parte), incentrata com'era sul concetto di “difesa avanzata”, era essenziale che la Germania disponesse di un esercito forte ed efficiente. La Ced (ossia la Comunità di difesa europea) doveva comprendere la Germania e naturalmente essere integrata nella Nato. Ciononostante, l'Assemblea nazionale francese nell'agosto del 1954, proprio quando la Francia era traumatizzata per la notizia della caduta di Dien Bien Phu, decise di votare contro il trattato. Il fallimento della Ced dipese sia dal fatto che in Francia era ancora forte il timore di una rinascita della potenza militare (ed economica) tedesca sia dal fatto che molti francesi non vedevano affatto di buon occhio una struttura militare (e quindi inevitabilmente anche politica) sovranazionale. Sicché, mentre il successo della Ceca favorì la nascita del Mercato comune europeo (il trattato istituente il Mec venne firmato dai “Sei” a Roma nel marzo del 1957), il fallimento della Ced convinse non pochi europeisti che per arrivare ad una unione politica europea essenziali sarebbero stati i fattori economici, vale a dire che l'unione politica europea avrebbe dovuto essere la logica conseguenza di una unione economica europea. 
Comunque il fatto che gli Stati Uniti appoggiassero il progetto della Ced e vedessero perfino con favore (in un certo senso) l'europeismo non deve destare meraviglia. Da un lato, la crescita economica dell'Europa era necessaria se il “mondo occidentale” doveva vincere la sfida con l'Unione Sovietica; dall'altro, lo scopo degli Stati Uniti e, in generale, dei circoli atlantisti era quello di rendere il sistema europeo (i cosiddetti “Stati uniti d'Europa”) parte costitutiva di quello nordamericano, di modo da arrivare ad un “nuovo ordine mondiale” fondato sulla supremazia degli Stati Uniti. D'altronde, i reali limiti politici dell'Europa occidentale furono chiari a chiunque dopo lo scacco anglo-francese a Suez nel 1956. (Allorché Nasser decise di nazionalizzare del canale di Suez, la Francia e la Gran Bretagna, senza consultare gli Stati Uniti, si accordarono con Israele per un intervento militare; ma, anche se Israele raggiunse tutti i suoi obiettivi, gli anglo-francesi furono costretti a fare una ignominiosa marcia indietro, non solo per la netta opposizione dell'Unione Sovietica, ma anche per quella, altrettanto netta, degli Stati Uniti). 10 D'altra parte, l'anno precedente, esattamente il 6 maggio del 1955, anche la Germania era entrata a far parte della Nato (cui l'Unione Sovietica rispose dando vita al Patto di Varsavia, pochi giorni dopo, cioè il 14 maggio del 1955). A5% tale proposito, l'ambasciatore americano a Parigi poco prima che i francesi facessero fallire la Ced era stato assai chiaro: il riarmo tedesco andava fatto ad ogni costo, poco importava se dentro o fuori la Ced. 11 
Le vicende degli anni Cinquanta e ancor più quelle degli anni Sessanta avrebbero indotto parecchi europei (e non solo tra gli atlantisti) a ritenere che all'Europa conveniva non occuparsi di affari internazionali e militari. Tutto sommato (così si pensava), mentre la presenza degli americani in Europa garantiva la sicurezza del Vecchio Continente, il minore impegno degli europei sotto il profilo politico-militare rendeva disponibili molte più risorse per la crescita e lo sviluppo sociale. Perfino molti tra coloro che criticavano la politica imperialista degli Stati Uniti ritenevano che essenziali fossero le questioni economiche e sociali indipendentemente da quelle politico-strategiche, mentre la sinistra “occidentale” diventava sempre più critica nei confronti dei paesi comunisti (soprattutto dopo la fine della guerra del Vietnam) e sempre più disposta a valorizzare l'american way of life. Non tutti i politici europei però erano insensibili ai problemi politico-strategici e (soprattutto) alla questione dell'indipendenza dell'Europa. Certamente non lo era De Gaulle, che aveva maturato invece la convinzione che europeismo e atlantismo non fossero due facce della medesima medaglia, bensì si escludessero a vicenda, poiché la presenza degli Stati Uniti in Europa era incompatibile con la sovranità dei singoli Paesi europei e quindi con l'indipendenza della stessa Europa.
Già nel 1958 De Gaulle aveva proposto ad Eisenhower (che allora era il presidente degli Stati Uniti) di sostituire la direzione statunitense della Nato con una direzione composta dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. 12 Il rifiuto degli americani era scontato e contrari erano pure gli inglesi che, in specie dopo lo scacco di Suez, non volevano rinunciare al ruolo di “alleati privilegiati” degli americani (con i quali, in effetti, gli inglesi hanno più “legami” culturali di quanti ne abbiano con gli “europei continentali”). La risposta negativa di Eisenhower rafforzò il proposito di De Gaulle di andare avanti con il programma atomico militare sperimentale e, nel 1960, dallo stadio sperimentale la Francia passò allo stadio militare vero e proprio con la legge-quadro sulla “force de frappe”. De Gaulle inoltre non accettò la proposta di Kennedy di integrare le forze strategiche europee in quelle americane, cosicché i rapporti tra Francia e Stati Uniti continuarono a peggiorare, al punto che nel 1966 la Francia decise addirittura di abbandonare le organizzazioni militari della Nato e nello stesso anno De Gaulle incontrò i dirigenti sovietici a Mosca. Il comunicato finale annunciò l'istituzione di una commissione franco-sovietica per la cooperazione nel settore economico e in quello scientifico, che prevedeva il lancio di un satellite francese da parte dell'Unione Sovietica. 13 Né De Gaulle lesinò critiche agli Stati Uniti riguardo alla guerra del Vietnam e quando scoppiò la guerra arabo-israeliana del 1967 non esitò neppure a prendere le parti degli arabi. 
La politica di De Gaulle però non si limitò a mettere in discussione gli equilibri politici del “mondo bipolare” prendendo posizione contro l'atlantismo (sempre distinguendolo dall'europeismo, tanto da opporsi all'ingresso della Gran Bretagna nel Mec, considerata il “cavallo di Troia” degli Stati Uniti in Europa), contro l'imperialismo statunitense in Asia e contro il “colonialismo” israeliano nel Vicino Oriente. Egli si batté anche contro il sistema “dollarocentrico” fondato sul gold exchange standard. In un famosa conferenza stampa del febbraio 1965 definì tale sistema sorpassato, non solo perché le riserve auree dei “Sei” equivalevano a quelle degli Stati Uniti, ma perché si trattava di un sistema che contribuiva a diffondere l'idea che il dollaro fosse uno strumento imparziale mentre, sottolineava De Gaulle, non era che un mezzo di credito di un unico Stato. Alle parole seguirono i fatti: la Francia si affrettò a convertire in oro tutti i dollari che aveva nelle proprie riserve. L'azione della Francia però era “isolata”, dato che nessuno dei Paesi europei sosteneva la politica estera francese (la stessa Unione Sovietica si comportò con molta cautela), e il confronto tra franco e dollaro era impari, tanto più che la Francia doveva affrontare una difficile situazione interna, che sfociò nella rivolta studentesca del maggio del 1968. In questa situazione, in cui la politica estera francese era pure ostacolata dai legami sempre più forti tra la Germania Federale e gli Stati Uniti, il valore del franco subì due notevoli ribassi (nel luglio e nel novembre del 1968 ), finché nell'agosto del 1969 si arrivò alla svalutazione della moneta francese. 14
D'altra parte, sembrava che le cifre confermassero le critiche di chi riteneva la politica gollista non solo velleitaria ma anche “controproducente” per l'economia europea. Nel periodo 1948-1962  il tasso di crescita della produzione pro capite della Francia (3,4%) - come quello dell'Italia (5,6%) e della Germania Federale (6,8%) - era stato maggiore di quello degli Stati Uniti (1,6%) e nel 1970 la quota del prodotto mondiale lordo della Cee era del 24,3% contro il 23% degli Stati Uniti. 15 Al riparo dello “scudo americano” quindi i Paesi europei crescevano più degli stessi Stati Uniti. Eppure un decennio dopo il “quadro” era cambiato: nel 1983, ad esempio, il Pnl statunitense crebbe del 24% contro lo 0,8 % della Cee (comprendente dieci Paesi, tra cui la Gran Bretagna, entrata nella Cee negli anni Settanta).16 Anche sotto l'aspetto economico allora De Gaulle non aveva visto poi così male, privilegiando un'analisi di tipo politico-strategico. All'inizio degli anni Settanta la crisi del sistema economico internazionale e il declino relativo degli Stati Uniti che, avevano sostenuto costi altissimi per la guerra del Vietnam, non erano più una questione di punti di vista. Gli Stati Uniti, che tra l'altro erano consapevoli che la bilancia commerciale americana ormai si sarebbe caratterizzata per un passivo “strutturale”, seppero comunque sfruttare la loro posizione dominante: “sganciarono” il dollaro dall'oro, rompendo unilateralmente gli accordi di Bretton Woods, e di fatto “agganciarono” la moneta statunitense al petrolio, che poteva essere acquistato solo in dollari. Il forte aumento dei prezzi petroliferi, non disgiunto appunto dalla “mossa strategica” statunitense, 17 ebbe forti ripercussioni negative all'interno dei Paesi della Cee (ad esempio, tra il 1978 e il 1982, il numero delle persone che persero lavoro salì da 5,9 a 10,2 milioni).18 E degno di nota è pure che le enormi spese degli Stati Uniti nel settore militare ebbero decisive “ricadute” nei settori chiave dell'elettronica e dell'informatica. 
Negli anni Ottanta, anche alla luce della politica neoliberista di Reagan, si allargava dunque il gap strategico tra Europa e Stati Uniti, mentre anche la socialdemocrazia scandinava era messa “sotto pressione” da parte della oligarchia atlantista, di modo che quest'ultima, allorquando il sistema sovietico implose, non ebbe problemi a ristrutturare la Nato (nonostante la scomparsa del patto di Varsavia) in funzione degli interessi della potenza capitalistica predominante, non essendovi più alcuna forza politica che potesse o volesse opporsi a tale ristrutturazione. Inoltre, grazie anche al fatto che l'intellighenzia (compresi gli intellettuali  provenienti dall'area marxista o “paramarxista”) e la sinistra europea erano ormai decisamente favorevoli alla società di mercato, venne drasticamente ridotto l'intervento dei singoli Stati europei nell'economia e “liquidato” un settore pubblico di rilevanza strategica come quello italiano, che pure aveva avuto un ruolo essenziale nella crescita dell'Italia nel secondo dopoguerra. Non pare strano allora che nemmeno la disintegrazione della Iugoslavia (che ha consentito agli Stati Uniti di piantare saldamente le tende nei Balcani) abbia indotto gli europei a porsi seriamente la questione della differenza tra europeismo e atlantismo, al fine di potere svolgere un ruolo geopolitico non subalterno a quello degli americani. D'altro canto, perfino il tentativo (che ormai sembra fallito) di costruire un sistema internazionale di tipo unipolare (tentativo che gli Stati Uniti hanno giustificato con la necessità di combattere il cosiddetto “terrorismo internazionale”) non ha spinto l'Europa a difendere equilibri geopolitici diversi da quelli decisi dalla potenza nordamericana. 
Comunque sia, con la caduta del Muro di Berlino si veniva a delineare anche un'altra questione geopolitica, ossia quella della riunificazione della Germania, ritenuta però definitivamente risolta con il Trattato di Maastricht e l'introduzione dell'euro (il cui scopo fondamentale era appunto quello di “ancorare” la Germania all'Atlantico e - almeno così si affermava negli anni Novanta – di rafforzare l'Unione Europea). Al riguardo, non è affatto esagerato sostenere che tale concezione economicistica, che ha portato a mettere il carro (la moneta) davanti ai buoi (la politica), si è invece rivelata disastrosa per l'Europa. Con l'introduzione dell'euro (una sorta di “marco europeo”) non solo si è accentuata la differenza tra Paesi che non sono membri dell'Eurozona e Paesi che ne sono membri, ma si sono viepiù aggravati gli squilibri tra i Paesi dell'Europa Settentrionale e quelli dell'Europa Meridionale. E, quando è scoppiata la crisi finanziaria del 2007-2008, questi ultimi hanno dovuto subire una serie di attacchi da parte dei “mercati”, senza nemmeno potersi difendere, avendo ceduto gran parte della propria sovranità non all'Europa  ma alla Bce, ovvero ai “mercati” medesimi. Che cosa significhi questo è noto: povertà, disoccupazione, macelleria sociale, deindustrializzazione, fallimenti a catena, pressione fiscale insostenibile e così via. Un “quadro” reso ancor più drammatico da una redistribuzione della ricchezza verso l'alto, dalle politiche d'austerità e dalla debolezza e inefficienza di classi politiche che si limitano ad eseguire i diktat della troika (Fmi, Bce, Ue) e dei “mercati”. In questa situazione è naturale che si diffonda e si rafforzi l'euroscetticismo, tanto che gli atlantisti  hanno già messo le mani avanti, per così dire, proponendo il Tafta (Trans-Atlantic Free Trade Agreement), un accordo di libero scambio tra Ue e Stati Uniti che verosimilmente equivarrebbe a mettere una pietra tombale sull'indipendenza dell'Europa. E anche ciò conferma che “questa” Ue non è piovuta dal cielo, ma è la conseguenza di determinati disegni politici e di una “volontà di potenza” che ha nomi, cognomi e perfino soprannomi
Sembra ovvio perciò che l'euro, sebbene si sia rivelato un fallimento, non sia il problema ma parte del problema che si deve risolvere. Anche se vi sono diverse soluzioni “tecniche” per porre rimedio ai mali dell'Eurozona (che non si deve confondere con l'Unione Europea né, a maggior ragione, con l'Europa), 19  fondamentale allora è rendersi conto che l'europeismo criticato dagli euroscettici non è che quell'“euro-atlantismo” che, come aveva capito De Gaulle, nulla ha a che fare con l'europeismo. I limiti anche gravi del nazionalismo di De Gaulle non si possono negare, ma è pur vero che egli è stato l'unico statista europeo del dopoguerra a comprendere, avendo il coraggio di agire di conseguenza, che l'europeismo degli atlantisti avrebbe portato l'Europa ad essere una specie d'appendice degli Stati Uniti. Oggi comunque la questione dell'indipendenza dell'Europa e della sovranità dei singoli Paesi europei si pone in modo diverso, non solo perché non v'è nessun Paese europeo che sia talmente forte da poter fare a meno degli altri, ma perché una vera unione politica europea non può che basarsi su una (relativa) autonomia dei singoli Stati europei, in quanto necessaria “cerniera” tra il centro e la periferia (cioè tra i singoli cittadini o le comunità locali e un centro politico non anti-nazionale ma sovranazionale). Una “cerniera” che naturalmente presuppone la valorizzazione delle differenze tra le aree geopolitiche che caratterizzano l'Europa, in particolare quella baltica e quella mediterranea. In definitiva, è lecito affermare che solo partendo dal riconoscimento della cultura non imperialistica degli Stati extraeuropei e promuovendo un'alternativa multipolare fondata sulla cooperazione tra i diversi poli geopolitici vale ancora la pena di difendere una concezione europeista e impegnarsi per una rifondazione della stessa Unione Europea. In questa prospettiva, tuttavia, è palese che l'alternativa che conta davvero non è tanto quella tra euroscetticismo ed europeismo, quanto piuttosto quella tra (autentico) europeismo ed euro-atlantismo.

NOTE


1. Alistair Horne, A Savage War of Peace. Algeria 1954–1962, New York, The Viking Press, 1977, p. 27.
2. Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989, p. 506.
3. Ernesto Galli della Loggia, Il mondo contemporaneo (1945-1980), Il Mulino, Bologna, 1982, p. 27.
4. Giuseppe Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 53-62.
5. Paul Kennedy, op. cit., p. 507
6. Ivi, p. 502.
7. Valerio Castronovo (a cura di ), Storia dell'economia mondiale. Dalla grande crisi del 1929 ai giorni nostri, Rizzoli, Milano, 1982, p. 74.
8. Ivi, pp. 57-58.
9 Jean-Baptiste Duroselle, Storia diplomatica, dal 1919 al 1970, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1972, p. 448.
10. Sull'incontro segreto tra israeliani, francesi e inglesi a Sèvres e sull'intera operazione vedi, ad esempio, Benny Morris, Vittime, Rizzoli, Milano, 2001, pp. 366 e ss.
11. Giuseppe Mammarella, op. cit., p. 234.
12 Jean-Baptiste Duroselle, op. cit., p. 625.
13. Ivi, p. 638.
14. Ivi, p. 641.
15. Paul Kennedy, op. cit., p.590 e p.594.
16. Ivi, p. 642.
17. Si veda William Engdahl, A century of war. Anglo-american oil politics and the new world order, Pluto Press, Londra, 2004.
18. Paul Kennedy, op. cit., p. 643.
19. Si veda, ad esempio, Bruno Amoroso-Jesper Ispersen, L'Europa oltre l'euro. Le ragioni del disastro economico e la ricostruzione del progetto comunitario, Castelvecchi, Roma, 2012.

Articolo pubblicato su "Eurasia. Rivista di studi geopolitici", 1/2014







mercoledì 8 luglio 2015

CHE SIGNIFICA LA VITTORIA DEL NO IN GRECIA


Indubbiamente ci vorrà ancora un po' di tempo per capire come finirà il braccio di ferro fra la Troika (Ue, Bce e Fmi) e Tsipras, anche se quest'ultimo ha avuto quel consenso popolare di cui aveva bisogno per far valere con forza le ragioni della Grecia. La vittoria del No ai “figli di Troika” è stata netta, anzi decisamente maggiore del previsto. In ogni caso, per la piccola e, tutto sommato, fragile Grecia la strada è tutta in salita. Del resto, il governo greco non ha mai sostenuto che il suo obiettivo è quello di fare uscire la Grecia da Eurolandia o addirittura dalla Ue, consapevole pure del fatto che per i greci “rimanere in Europa” è di fondamentale importanza. Si sa, infatti, che tuttora per la Grecia il nemico “numero uno” è la Turchia e che di conseguenza i greci considerano l'Ue e la stessa Nato come una “barriera difensiva” essenziale contro la minaccia turca. Questo non significa necessariamente che la concezione politica di Tsipras e Syriza sia esente da critiche o che la strategia del governo greco sia talmente chiara da non suscitare dubbi o interrogativi di alcun genere. 

Da qui però a sostenere che dietro la scelta di Tsipras vi siano certi ambienti anglo-americani desiderosi di mettere i bastoni fra le ruote alla Germania ve ne corre parecchio. Se questa non è fanta(geo)politica poco ci manca. Tra l'altro, chi fa tale ipotesi non considera che è proprio la “timida” apertura della Grecia alla Russia (e in particolare l'accordo tra Atene e Mosca sul gasdotto Turkish Stream, che dovrebbe sostituire il gasdotto South Stream visto dagli Usa come il fumo negli occhi) ad avere scatenato i media degli oligarchi occidentali contro la Grecia. (1) Comunque sia, anche in questo caso (assai poco probabile) si sarebbero dovute sostenere le ragioni del No alla Troika. La ragione è semplice. Senza la Troika non è in pratica possibile per gli Usa articolare la propria strategia in Europa. In definitiva, è evidente che per gli europei opporsi alle decisioni della Troika è il solo modo possibile di opporsi agli Stati Uniti. D'altra parte, anche se la Russia e la Cina possono aiutare economicamente la Grecia, è ben difficile che siano disposte a rischiare uno scontro con le potenze occidentali per la Grecia. Né si capisce, tenendo conto che la Grecia è un Paese membro della Nato, come potrebbero aiutarla sul piano politico-militare o contro delle quinte colonne atlantiste, che, com'è logico, sono presenti in tutte le più importanti istituzioni greche (apparati coercitivi e servizi di sicurezza inclusi) 

Quanto al referendum, è pacifico che le decisioni che contano le prendono sempre delle élites, ma il consenso popolare in certi passaggi storici è indispensabile. Per questo le masse vanno manipolate o meglio le si deve saper manipolare o perlomeno “orientare”. Che farà Tsipras lo sanno solo i veggenti, ma la vittoria del No prova che quando sono in gioco i bisogni primari delle persone anche il potere dei media è decisamente minore. Insomma, Tsipras adesso può pure andare negli Usa a chiedere che la Grecia diventi uno Stato americano, sostituire la lingua greca con quella inglese e demolire il Partenone per far posto a un gigantesco McDonald's, ma quel che conta davvero è comprendere il significato politico di questo “Oki” in una prospettiva europea. Ovviamente non vogliamo affermare che le decisioni che il governo greco prenderà siano irrilevanti, soprattutto per il popolo greco. (Comunque, è probabile, benché non affatto sicuro, che si seguirà la politica del bastone e la carota concedendo alla Grecia “una qualche” ristrutturazione del debito, onde non ignorare del tutto il responso delle urne; se invece la Grecia di Tsipras saprà rafforzare ulteriormente il suo legame con la Russia e la Cina, tanto meglio per chi combatte contro l'euroatlantismo). Ma il significato politico che più rileva di questo referendum è la conferma che in Europa si stanno aprendo “spazi politici”, che richiedono nuove categorie politiche e culturali, anziché concentrarsi sulla mediocrità (se non peggio) dei politici che si fanno interpreti di questa nuova “domanda politica”, quasi che tutto si riducesse a sapere che farà Tsipras, o Grillo, o Salvini o la Le Pen od Orban e così via. Mentre quello che dovrebbe interessare davvero sono i fenomeni sociali che hanno dato la possibilità a costoro (peraltro neppure tutti personaggi mediocri) di emergere come politici.

Al riguardo, si dovrebbe avere ben chiaro che sottrarre l'Italia e in generale il continente europeo alla morsa dei mercati e delle politiche criminali della Troika e smarcarsi dagli Stati Uniti sul piano geopolitico sono due facce della medesima medaglia. La stessa questione di Eurolandia dovrebbe essere compresa alla luce di questo nesso tra geopolitica e trasformazione sociale, onde evitare il cosiddetto “cretinismo economicistico”. Vale a dire che sarebbe necessario tornare a mettere al centro della attenzione i problemi reali delle persone (non solo economici). L'“economia di carta” è governata da logiche di potere che ben poco hanno a che fare con i problemi della stragrande maggioranza della popolazione. Statistiche, cifre e tabelle poco o nulla spiegano della concrete dinamiche storiche e geopolitiche. O qualcuno pensa davvero che si possa risolvere la questione siriana o quella ucraina con formule e diagrammi? Peraltro, come scrive Pierre Bourdieu: «La scienza che si chiama “economia” riposa su un’astrazione originaria, che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa». (2) Si tratta cioè di una sorta di “finzione produttiva”. Essenziale è allora comprendere che cosa si produce , come si produce e perché si produce. Se ci si dimentica di questo è inevitabile andare incontro a catastrofi generate da forze autodistruttive che nessuno potrà più “governare”. Come ci ricorda Karl Polanyi, agendo senza tener conto dei bisogni fondamentali degli esseri umani e di quei legami comunitari senza i quali nessuna società può sopravvivere nel “lungo periodo”, «l’intero meccanismo è destinato a incepparsi, ponendo l’umanità di fronte all’immediato pericolo della disoccupazione di massa, dell’interruzione della produzione, della perdita dei redditi e, conseguentemente, dell’anarchia sociale e del caos». (3)

Imperativo quindi, al di là di qualsiasi altra considerazione, è non ostacolare quelle forze che cercano di evitare che i popoli europei finiscano nel tritacarne euroatlantista. D'altronde è noto che le rivoluzioni coronate da successo nel Novecento si sono verificate solo in Paesi extraeuropei, con un settore industriale ancora poco sviluppato e in condizioni storiche che vedevano masse di contadini in armi. (Né questo è smentito dal successo del fascismo italiano, che non prese il potere ma si alleò con il potere, agendo poi, di fatto, come un movimento imperialista e nazional-capitalista). Nulla quindi di più lontano dalle condizioni dei Paesi industriali avanzati. Qui un radicale mutamento politico e sociale richiede con ogni probabilità percorsi diversi. Certo non è (solo) con la dialettica parlamentare che si possa davvero cambiare qualcosa. Eppure il consenso delle masse popolari è decisivo per chi voglia rovesciare i rapporti di forza esistenti. Sotto questo aspetto, il risultato del referendum indetto da Tsipras può incoraggiare e far crescere politicamente quei movimenti che in diversi Paesi europei sono nettamente contrari alla Troika. Da qui dunque si dovrebbe ripartire se si vuole che il vento euroscettico che sta soffiando sul nostro continente dia vita a qualcosa di nuovo e non si limiti ad una generica protesta contro l'euro.

Nessun “buonismo” quindi, più o meno peloso. Né pacifismo imbelle né ingenua difesa della “democrazia”. Anzi, rigorosa e lucida determinazione nel combattere ed eliminare tutti quei gruppi di interesse che sulla riduzione della politica a pubblica amministrazione fondano il loro potere. Nella situazione attuale non vi è altro da fare che favorire un populismo “duro” e “cattivo”, facendo leva sul malcontento popolare per le politiche di Eurolandia e la subalternità dell'Europa alle scelte strategiche dei centri di potere euroatlantisti. Eppure questo non basta. Bisognerebbe agganciare la protesta popolare ad una visione geopolitica coerente e che tenga conto della lotta sulla scacchiera globale. Il populismo di per sé è cieco e rischia di innescare reazioni a catena che possono favorire anziché danneggiare il sistema attuale fondato sul predominio dei cosiddetti “mercati” e del polo atlantico. In ogni caso, solo nella lotta politica e nella trasformazione del populismo in una  autentica forza social-rivoluzionaria si deve vedere la “chiave strategica” per evadere dalla gabbia di un Occidente che è esattamente l'opposto di quel che dice o perfino crede di essere. In quest'ottica la vittoria del No nel referendum svoltosi in Grecia domenica scorsa è solo una battaglia vinta in una guerra che sarà lunga e difficile. Ci si deve pertanto preparare ad assistere a tradimenti, voltafaccia repentini, agguati e imboscate di ogni specie. Ma una vittoria è una vittoria, non una disfatta.


1. Vedi http://www.ilgiornale.it/news/economia/accordo-grecia-russia-gasdotto-turkish-stream-1142512.html
2. Pierre Bourdieu, Le strutture sociali dell’economia, Asterios, Trieste, 2004, p. 17
3. Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente, Il Saggiatore, Milano , 2013, p. 274.


martedì 9 giugno 2015

giovedì 4 giugno 2015

FABIO FALCHI, "IL POLITICO E LA GUERRA. VOL. I, TERRA E MARE" (ANTEO EDIZIONI)

È innegabile che categorie metapolitiche, quali Terra, Mare, Eurasia, Occidente, talassocrazia o “grande spazio”, in quanto rimandano al nostro “Essere-nel-Mondo”, necessitino di essere interpretate non solo in chiave geofilosofica, ma anche in chiave storico-geopolitica, se è vero che destino degli uomini è di “Essere-insieme”, vale a dire che l’uomo è, in primo luogo, un animale politico. Ne Il Politico e la Guerra si cerca quindi di tracciare una sorta di “mappa” dei conflitti dall’antichità ai nostri giorni mettendo a fuoco l’“intreccio” tra il Politico, l’Economico e la Guerra. L’opera è suddivisa in due parti distinte: “Terra e Mare” (volume I), che tratta dei conflitti fino alle guerre napoleoniche, e “Maschera e Volto dell’Occidente” (volume II, di prossima pubblicazione), in cui l’accento cade sulla stretta connessione tra la funzione politico-strategica dell”Economico e la “pre-potenza” della grande talassocrazia d’oltreoceano. Una connessione così stretta che “pax americana” e barbarie occidentale appaiono ormai come due facce della medesima medaglia.
http://www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/store/products/il-politico-e-la-guerra/