sabato 25 aprile 2020

COVID-19 E DEMOCRAZIA

Il Covid-19 ha riproposto in forma drammatica la questione della irrazionalità delle masse, un problema che concerne, com'è noto, la questione della stessa democrazia. Non a caso i critici della democrazia hanno sempre insistito sul fatto che è assurdo basarsi sul potere del demos, giacché il demos sarebbe l'animale dalle mille teste in conflitto tra di loro, pronto a sacrificare il bene comune per un vantaggio immediato, privo del principio di realtà e facile preda di ciarlatani, imbroglioni, mistificatori e demagoghi.
Insomma il demos sarebbe privo di ciò che i Greci definivano φρόνησις, la saggezza, che invece contraddistingue l'agire degli uomini assennati.
Per Platone è compito della φρόνησις orientare l'uomo nella scelta del bene, conciliando sapere teoretico e sapere pratico.
Secondo Aristotele φρόνησις e politica costituiscono un'unica disposizione, ossia la politica stessa è saggezza nella misura in cui spetta a quest'ultima determinare e regolare i rapporti tra i membri della Polis.
Significativo al riguardo è l'articolo 1 della nostra Costituzione che recita: la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Il popolo (demos) è quindi sovrano, ma non sovrano assoluto. La "demo-crazia" è cioè solo il soggetto, non il predicato (liberale, socialista, ecc.) del soggetto, ed è il predicato che dovrebbe svolgere il ruolo di quel che appunto i Greci definivano φρόνησις.
Cade così l'obiezione secondo cui la democrazia altro non sarebbe che un regime fondato sulla tirannia di masse irrazionali e al tempo stesso si evita che il popolo possa agire contro sé medesimo.
Nondimeno, una costituzione è necessariamente figlia del proprio tempo e sorge quindi il problema che la costituzione letterale può essere assai diversa da quella effettivamente vigente, al punto che può addirittura, di fatto, cancellare quasi del tutto la sovranità popolare, ovvero la democrazia. E' questo, del resto, il caso tipico degli attuali regimi neoliberali. Tuttavia, non si tratta di un problema di diritto bensì di un problema politico.
La φρόνησις, benché necessaria, da sola non basta, perché il bene che il Politico deve difendere lo si può definire in modi diversi e perfino opposti. Quel che allora conta è la dottrina dello Stato su cui si basa la φρόνησις.
E' sotto questo aspetto che la differenza tra (neo)liberalismo e socialismo è massima. Difatti, per il (neo)liberalismo il bene che conta è quello del singolo individuo - l'ego cioè viene prima del noi.
Per il socialismo invece è il bene comune che conta ovverosia l'individuo conta ma non come singolo ego isolato e potenzialmente ostile agli altri membri della comunità, ma come individuo di necessità incastrato in un ampio ventaglio di relazioni sociali, economiche e culturali.
In definitiva, è proprio tale differenza che anche in questa emergenza sanitaria ed economica si è rivelata essere la differenza decisiva sotto il profilo politico.

25 APRILE 1945, UNA VITTORIA PERDUTA

Un conto è la memoria storica, che varia a seconda di chi ricorda e di chi si ricorda, un altro la storia. Vale a dire che non si dovrebbe confondere il 25 aprile con l'inizio della caccia al fascista. Quest'ultima fu solo la conseguenza della guerra civile che si combatté in Italia dopo l'8 settembre del 1943. Del resto, chi semina vento raccoglie tempesta. Lo stesso popolo tedesco pagò duramente il comportamento disumano dei nazisti in terra di Russia. Pagine tristi, ma pagine di storia e che non si capiscono se ci si basa solo sulla memoria storica ignorando o, peggio, negando la storia
Il regime fascista peraltro non cadde il 25 aprile del 1945 ma il 25 luglio del 1943. Il 25 aprile segnò la fine della occupazione nazista del nostro Paese e di conseguenza la sconfitta dei fascisti alleati dei nazisti. Eppure quella vittoria fu tradita.
Il fatto è che l'antifascismo comprendeva forze politiche assai diverse. Alcune formazioni partigiane bianche cercarono perfino un accordo con i tedeschi in funzione anticomunista - accordo che non ci fu solo perché era evidente che i tedeschi ormai erano sul punto di essere sconfitti. Ed è noto che i partigiani comunisti (ossia le brigate Garibaldi, che svolsero la parte del leone nella Resistenza) avevano come scopo la trasformazione della lotta di liberazione nazionale in una lotta per la creazione di uno Stato socialista.
Tuttavia, i rapporti di forza non lo consentivano. Ma non fu solo questione di rapporti di forza. Quanto era accaduto l’8 settembre del 1943 aveva, difatti, compromesso il potere contrattuale dell’Italia nei confronti degli Alleati. La fuga dei vertici politici e militari portò al crollo dello Stato italiano e la mancata difesa di Roma fu l’occasione persa dal nostro Paese per uscire e testa alta da una alleanza con la Germania, che di fatto aveva trasformato lo Stato italiano Italia in una sorta di Stato vassallo del Terzo Reich. L’esercito e il popolo italiano furono quindi abbandonati a sé stessi.
Otre 600.000 soldati nei Balcani si trovarono senza ordini, stretti tra le formazioni partigiane iugoslave o greche e i soldati tedeschi, che chiesero agli italiani di combattere al loro fianco o di arrendersi e venire rimpatriati. La maggior parte scelse di arrendersi, altri (pochi) si ribellarono. Quelli che si arresero non vennero rimpatriati ma furono selvaggiamente malmenati, umiliati e portati nei campi di prigionia in Germania e trattati come schiavi. Solo allora molti italiani compresero l’odio che la maggior parte dei tedeschi nutriva verso il nostro popolo, tanto che i nazisti non nascondevano di disprezzare perfino gli stessi fascisti.
La mancata di difesa di Roma costrinse pure gli americani ad annullare l’invio della loro migliore divisione, l’82° Airborne, nella zona di Roma, e avrebbe anche indotto gli Alleati ad impiegare un corpo di spedizione francese nella campagna d’Italia anziché un corpo d’armata italiano. Solo nella primavera 1945 alcuni gruppi di combattimento italiani svolsero una parte significativa nelle operazioni militari nella nostra Penisola. Ma il contributo italiano venne poco apprezzato. Eppure in Corsica i soldati italiani avevano contribuito alla liberazione dell’isola, a Rodi e a Lero gli italiani si erano battuti con gli inglesi contro i tedeschi, a Cefalonia si erano ribellati ai tedeschi (e per questo furono massacrati), in Iugoslavia dei soldati italiani aveva combattuto con onore e il battaglione Garibaldi, insieme con il battaglione Matteotti, aveva perfino partecipato alla liberazione di Belgrado. E soprattutto i partigiani avevano non poco logorato l’esercito tedesco in Italia, non dandogli tregua fino alla primavera del 1945.
Tuttavia, finita la guerra, per le classi sociali dominanti contava soprattutto sconfiggere i comunisti e i socialisti. Ma non era tanto la difesa della democrazia liberale che a loro premeva, quanto piuttosto la difesa dei propri interessi. Avevano, infatti, appoggiato il regime fascista finché non aveva portato il Paese allo sfacelo. Solo allora, ossia solo quando per loro non era più conveniente appoggiare il regime fascista, avevano scelto di stare dalla parte degli anglo-americani.
Sconfitta la Germania, non cercarono quindi di difendere la sovranità nazionale dell’Italia, ma cercarono solo la protezione del potente alleato d’oltreoceano. Così l’Italia passò da un padrone ad un altro, certo meno ottuso e brutale dei nazisti, ma non meno duro ed esigente, e pronto a compiere qualsiasi nefandezza e prepotenza pur di difendere la propria posizione di predominio. E da allora per la nostra classe dirigente è diventato un “imperativo strategico” mettersi al servizio di poteri stranieri, pur di tutelare i propri privilegi (e se c’era un debito di nei confronti degli americani, questo è stato ripagato con gli interessi da un pezzo).
Invero, c’è stata e c’è anche un’altra Italia, ovverosia l’Italia di Mattei, di Adriano Olivetti, del movimento dei lavoratori e delle lotte operaie, di Dalla Chiesa, di Falcone e di Borsellino e soprattutto l’Italia di coloro che si guadagnano il pane lavorando onestamente, studiando seriamente, che indossano la divisa servendo lo Stato con lealtà, che fanno il proprio dovere negli ospedali, talvolta sacrificando pure la propria vita per salvare la vita degli altri. Ma non è questa l’Italia che ha vinto.
L’Italia che ha vinto è quella che ha sconfitto quelli che il 25 aprile del 1945 credettero in buonafede di avere liberato l’Italia. Certo, le classi dominanti oggi non parlano solo inglese, ma pure una lingua diversa, che peraltro non era affatto sconosciuta ai partigiani. Nondimeno, non è questione di lingua bensì di rapporti di classe o di egemonia. In definitiva, la storia della liberazione del nostro Paese è ancora tutta da scrivere.