venerdì 29 aprile 2011

QUALE LIBERAZIONE?

Mai dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia ha conosciuto crisi più grave: crisi sociale, economica, morale e soprattutto politica, nel senso forte del termine. Aver cercato di cambiare classe dirigente per via giudiziaria, ignorando la reale composizione sociale del Paese e i mutamenti geopolitici derivanti dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, ha impedito all’Italia di maturare, nel corso di questi ultimi due decenni, una cultura politica tale da permettere al Paese di liberarsi definitivamente di un passato che, comunque la si pensi, non può essere più in grado di fungere da fondamento della vita politica e sociale della nazione. Non si tratta di mettere in questione la memoria storica ma appunto di considerarla per quello che è, ossia “memoria”, e di comprendere che se non può forse essere “condivisa”, deve purtuttavia essere accettata o meglio, per usare un lessico tipicamente hegeliano, “tolta e conservata”. Invece la strumentalizzazione ideologica del passato, ha contribuito in modo determinante a rafforzare una società di mercato che non è che un “sottosistema” della potenza occidentale predominante, l’America, che da decenni occupa militarmente (e non solo militarmente) l’Italia. Ed è questo il vero problema del nostro Paese, che ha condotto alla degenerazione del sistema politico, trasformandolo in un campo di battaglia tra organizzazioni affaristico-criminali, i cui membri non esitano, pur di guadagnarsi i favori del padrone d’oltreoceano e di far dimenticare il loro passato di comunisti o di neofascisti, a fare scempio sia del patrimonio pubblico sia di quel minimo di sovranità nazionale che ancora rimane. Tanto che si è giunti a condannare ogni critica di “questo sistema”, in nome di una democrazia che si vuole liberale e che altro non è che un metodo di istituzionalizzazione del conflitto, affinché nessuno possa cambiare le regole del gioco, su cui si basa il potere del denaro e del grande capitale internazionale. Un potere che è l’altra faccia della medaglia dell’Occidente, vale dire degli Usa e dell’oligarchia atlantista che governa “Eurolandia”. Sicché, fino a quando si continuerà ad interpretare la lotta politica e sociale dell’attuale fase storica con categorie ideologiche del passato, è inevitabile che, nel caso si sia in buonafede, si reciti la parte degli idioti politicamente e socialmente utili. Mentre chi è in malafede, ossia i rinnegati e i voltagabbana di ogni colore e di ogni specie, da un pezzo sono la “guardia bianca” dei cosiddetti “poteri forti”, al fine di garantire che vengano attuate e rispettate le direttive delle “forze occidentali”.

Pertanto, anziché celebrare acriticamente il cosiddetto “giorno della liberazione” – in realtà della vittoria degli angloamericani contro l’esercito tedesco nella campagna d’Italia, dato il ruolo del tutto marginale, sotto il profilo politico e militare, sia dei fascisti che dei partigiani o dei badogliani – si dovrebbe considerare che la “guerra civile italiana”, per quanto tragica possa essere stata, appartiene ad una fase politica che era già superata dagli eventi che decidevano il corso della storia negli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale. (Una guerra che, per comprenderla, si deve giudicare, principalmente, con categorie politiche, non con categorie morali o “pseudomorali”, come quelle fatte valere nel processo Norimberga, consapevoli che la barbarie è l’inevitabile conseguenza della guerra totale più che la causa di essa; causa che è invece da ricercarsi piuttosto nei processi di trasformazione e modernizzazione che hanno modificato dapprima i fondamenti della civiltà europea e poi quelli di qualsiasi altra civiltà; senza per questo che si debbano giustificare le stragi o le sofferenze dei civili o negare le responsabilità dei singoli contendenti in una guerra nella quale – è opportuno rammentarlo – perirono circa cinquanta milioni di essere umani, in buona parte civili). Infatti, con l’ingresso degli Usa nella Seconda guerra mondiale, la guerra aveva di fatto cambiato radicalmente “senso”: non più guerra “imperialistica“ tra Paesi europei, come era stata fino al giugno del 1941, né guerra “ideologica”, come era diventata allorché la Germania stracciò il patto di non aggressione con l’Urss, per impadronirsi delle risorse petrolifere russe e costringere la Gran Bretagna a gettare la spugna, ma guerra contro l’Asse (in particolare contro la Germania), allo scopo di stabilire su basi nuove lo scontro tra “socialismo reale” e capitalismo, o, secondo un punto di vista geostrategico, tra la grande potenza eurasiatica e la talassocrazia americana (per tale periodizzazione della Seconda guerra mondiale e per ciò che ne è derivato per i popoli europei, si veda il fondamentale saggio di Costanzo Preve, “La quarta guerra mondiale”, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008). D’altronde, dopo la follia geopolitica e militare dell’Operazione Barbarossa difficilmente si sarebbe potuti tornare indietro, nonostante le “aperture”, almeno fino alla primavera del 1943, di Stalin e dello stesso Mussolini, ma non di Hitler, ormai prigioniero di quel darwinismo sociale e di quell’estremismo nazionalista che si sarebbero rivelati essere tra le maggiori cause della decadenza dell’Europa, consentendo, tra l’altro, agli Usa di mettere saldamente le tende nel Vecchio Continente. Ciò che era cambiato era “l’equilibrio geopolitico mondiale”, che vedeva tramontare l’impero britannico, insieme a quello della Francia, e iniziarsi il periodo della decolonizzazione e della contrapposizione tra Usa e Urss, che soprattutto in Europa si configurò come conflitto tra lavoro e capitale, sia pure con tutti gli opportuni distinguo, celando il fatto che l’Europa occidentale (e in particolare l’Italia), anche se si registrava un notevole miglioramento delle condizioni materiali delle classi sociali meno abbienti, non era stato affatto “liberata” dagli angloamericani, ma era diventata una “provincia americana”. In questa situazione, l’ideologia fascista, non poteva che mutarsi in neo-fascismo, vale a dire che doveva, per sopravvivere, cancellare progressivamente ogni connotazione “rivoluzionaria” e difendere l’atlantismo, il sionismo, la cosiddetta ”razza bianca”, i valori dell’Occidente, la civiltà (giudaico)cristiana, ed altre simili “amenità”. Mentre i tratti “socialisti”del fascismo (in una certa misura, perlomeno come “fattori di modernizzazione”, presenti perfino nel “fascismo regime”, che pure fu, nella sostanza, un regime autoritario, fondato sul “compromesso” tra Mussolini e la “vecchia” classe dirigente, sì che i militari, carabinieri compresi, giuravano fedeltà al re, mentre la milizia tutto era tranne un’organizzazione militare efficiente; il che non si può certo trascurare se si vuol capire ciò che accadde in Italia nell’estate del 1943, sebbene non “assolva” né Mussolini né il regime per quanto concerne la disfatta militare) non potevano certo essere più pensati in opposizione al “socialismo”, dopo il fallimento non solo del regime, ma dell’ideologia imperialista e nazionalista, che indubbiamente aveva contraddistinto anche lo stesso movimento fascista. Quindi, indipendentemente dall’azione di coloro che non ritenevano nemmeno di essere di destra e che avrebbero cercato (vanamente) di correggere l’orientamento del neofascismo in senso anticapitalista e antiatlantista, facendo leva sia su quella “mistica del lavoro” che da Giovanni Gentile a Ugo Spirito aveva caratterizzato in profondità una certa concezione di “sinistra” del fascismo, sia sul “sansepolcrismo” e sul “fascismo rosso”, non v’è dubbio che, se veramente ci si voleva battere per gli ideali di un “socialismo antimaterialista”, sebbene distinto dal comunismo, ma non per questo anticomunista “a priori”, la soluzione di continuità con il passato – “regime” e “movimento”, per intendersi – si imponeva. (Una “rottura” però che, per molti giovani, che pure non potevano non criticare la “civilizzazione del mercante”, era resa ancor più difficile dal fatto che la “destra spirituale”, pur impegnandosi in una “rifondazione metapolitica” dell’umanità europea, per porre rimedio alle patologie della “civiltà occidentale”, condannava non solo il liberalismo ma ogni forma di “socialismo” e difendeva forme politiche ormai del tutto anacronistiche, sì da configurarsi, sotto il profilo politico, più come un “rifiuto antistorico” della modernità, che non come una “rivolta contro il mondo moderno”). Del tutto logico allora che il neofascismo si riducesse (tranne appunto eccezioni, anche se certamente significative), proprio perché tale, a rappresentare una variante “autoritaria” dell’atlantismo o comunque a sostenere posizioni meramente “nostalgiche”, con esiti il più delle volte grotteschi, fornendo un alibi a quell’antifascismo senza fascismo, che, dopo aver preparato la strada alla trasformazione del partito comunista italiano in una forza politica al servizio del sistema che avrebbe dovuto combattere, è degenerato al punto da diventare strumento di oppressione e di propaganda dell’imperialismo americano e del sionismo, nonché la classica foglia di fico per coprire le vergogne peggiori di un ceto politico ed intellettuale mercenario, corrotto e corruttore. (E si badi che lo scopo di questo articolo non è di esprimere un giudizio, positivo o negativo, sul fascismo o sulla componente “sociale e rivoluzionaria” del fascismo, bensì quello di mostrare che il fascismo terminò, se non nel 1943, nel 1945, e che non si sa o non si vuole distinguere tra fascismo e neofascismo, a causa di disonestà intellettuale e/o di pregiudizi ideologici radicati, che non solo non permettono di comprendere adeguatamente la storia politica del secondo dopoguerra, e soprattutto quella degli ultimi decenni, ma autorizzano gli americani e i loro “complici”, dato che avrebbero debellato il “male assoluto” – nazionalsocialismo, fascismo e comunismo – , a compiere ogni nefandezza possibile, ad aggredire qualsiasi Paese che non voglia farsi “occidentalizzare” e a criminalizzare chiunque si opponga all’americanismo ed al sionismo).


D’altra parte, se sia il fascismo che il comunismo volevano “oltrepassare” la società di mercato e di necessità la sua forma politica, cioè la democrazia liberale (un problema ignorato dalla socialdemocrazia, che si illudeva di mutare la struttura sociale senza mutare né la forma politica dello Stato né la cultura delle “masse”), prendere atto del loro fallimento non significa affatto né ritenere che fossero movimenti politici simili, né che il “socialismo” appartenga ormai al museo degli errori e degli orrori della storia, ammesso che lo si possa intendere in chiave “identitaria” e “comunitaria”, ossia che significhi una concezione olistica della società, antitetica rispetto all’individualismo della società capitalistica e incentrata su una “prassi politica” volta alla difesa del bene comune. Al riguardo, ha recentemente affermato Alexsandr Dugin (si veda http://rivistastrategos.wordpress.com/2011/03/22/intervista-aleksandr-dugin-profeta-di-russia/ ) che «l’alternativa al liberalismo la si deve cercare non nel passato ma nel futuro», anche se si deve «recepire […] il carattere olistico del socialismo» e che non si deve sottovalutare l’importanza del comunismo in quanto «nega il liberalismo e richiama il combattimento contro il capitalismo». Tuttavia, il pensatore russo giustamente non solo precisa che «materialismo, progressismo e ateismo sono irrilevanti e bisogna abbandonarli», ma pure che neocomunismo e neofascismo, oltre ad essere ideologie obsolete, nonostante il prefisso “neo”, «vengono sfruttati dal nemico», giacché i veri nemici dell’Europa sono gli Usa e l’atlantismo, vale a dire «l’universalismo, il tecnicismo, l’economicismo», mentre i veri amici dell’Europa sono la giustizia sociale e la tradizione, ovvero «le radici culturali europee e le loro origini [nonché] il continentalismo, il pluralismo dei valori, la multipolarità». Peraltro, egli ritiene che, oltre al movimento eurasiatista, si debba prendere in seria considerazione il “comunitarismo” di Alain de Benoist; giudizio che non si può non condividere, ché de Benoist è sicuramente uno dei critici più acuti dell’individualismo e del liberalismo, anche se si deve tener pure conto dell’interpretazione del comunitarismo difesa da Costanzo Preve, la cui biografia politica è assai diversa da quella di de Benoist, ma che da tempo (e non si deve dimenticare che Preve seppe confrontarsi con intelligenza anche con Carlo Terracciano) va elaborando una filosofia politica che contribuisce in misura essenziale, al di là delle diverse “curvature prospettiche”, ad arricchire e ad ampliare il medesimo “universo del discorso” del pensatore francese. L’accento sembra cadere pertanto sulla mancanza di un movimento politico in grado di valorizzare sia una “trascendenza sociale” sia una “trascendenza esistenziale e spirituale”, e che riconosca il valore della lotta di liberazione dei popoli (si pensi al popolo palestinese, ad esempio), ma senza lasciarsi sedurre né dalle “sirene” del cosmopolitismo, né da quelle del “relativismo assoluto” e veda invece nelle “differenti identità” il modo concreto in cui si articola la “forma uomo”, intesa non come astratto e vuoto universale logico, bensì come principio di “autoformazione”, tanto del singolo individuo quanto di una determinata comunità, nella molteplicità delle sue manifestazioni, ovverosia l’uomo come animale sociale, politico e culturale.

Ciononostante, non si può fare a meno di prendere in esame l’imperialismo americano e le sfide geopolitiche se si vuole comprendere il “senso” della lotta politica nel nostro tempo. Anzi, uno degli insegnamenti da trarre dalla storia del Novecento è quello che “comunitarismo”, “trascendenza sociale” e termini o sintagmi analoghi rischiano di essere “concetti vuoti”, senza i “contenuti politici e sociali” che di volta in volta si originano dalla resistenza che si riesce ad opporre alla talassocrazia americana (ed alla ideologia liberale/liberista). Ed è ormai la strategia che “misura” la distanza (possibile) dall’atlantismo che deve essere a fondamento anche della lotta sociale e della stessa teoria del politico, come dimostrano anche gli scritti del teorico “postmarxista” Gianfranco la Grassa, che ritiene inevitabile una ridefinizione della critica marxiana del capitalismo e della teoria leninista della rivoluzione, non perché siano prive di fondamento, ma perché, una volta riconosciuto che non vi sono leggi storiche in base a cui si possa sostenere che il capitalismo è destinato a lasciare il posto ad una società socialista, solo una analisi “disincantata”, ovvero non dogmatica e in continua “evoluzione concettuale”, della strategia della potenza capitalista predominante e del conflitto tra potenze può “mediare” tra il discorso filosofico sul politico – che ovviamente è non solo “legittimo”, ma necessario – e la “prassi politica”. Un’analisi lucida e realista che ha anche il merito di sollevare, direttamente e indirettamente, sia la questione del ruolo del politico (e in generale quello delle élites) come fattore di sviluppo, di trasformazione sociale e di rinnovamento culturale, sia quella della relazione tra “Stato e potenza” nell’epoca della cosiddetta “globalizzazione”. Sotto questo punto di vista, è certo lecito affermare che il conflitto sociale è “sovradeterminato” dal conflitto (geo)politico – nel senso che è il secondo che struttura il sistema sociale, di modo che una critica meramente “ideologica” e/o economicistica della società di mercato, non può non essere del tutto fuorviante – e che le nozioni stesse di “comunità” e di “giustizia sociale” le si deve articolare secondo una prospettiva (geo)politica che sappia contrapporsi al “mondialismo”, favorendo il più possibile la formazione di un mondo realmente multipolare (“poli-centrico”). Si tratta cioè di privilegiare una visione politica del mondo che non sia né incapacitante né mistificante, se è vero che in politica (e con ogni probabilità non solo in politica) si sa chi si è, soltanto se si sa dove si va, lasciando che i morti seppelliscano i morti, dacché il passato è, in primo luogo, la terra su cui si deve camminare, benché il cammino, come dice il poeta spagnolo Antonio Machado, lo si possa fare solo camminando: «Caminante non hay camino, el camino se hace caminando». Decisivo perciò per i popoli europei (e per quello italiano in particolare) sarebbe liberarsi dai “liberatori”, per riguadagnare quella libertà di azione, senza la quale qualsiasi altra libertà non è che la libertà vigilata dei sudditi del “mercato occidentale”.