martedì 30 ottobre 2018

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”

La vittoria di Bolsonaro difficilmente potrà riportare l’America Latina ai tempi dell’operazione Condor, ma certo segna l’inizio di una nuova fase storica per il continente americano dopo la breve fase del cosiddetto “socialismo dell’America Latina”, che comunque non potrà essere cancellata. Facile prevedere perciò anche per l’America Latina un periodo contrassegnato da nuove lotte e aspri conflitti, ma si può pure ritenere che la politica degli Usa nel continente americano dipenderà sempre più dai gruppi subdominanti latino-americani.
In ogni caso, la partita decisiva nei prossimi decenni sarà (salvo che non vi siano mutamenti improvvisi e di portata mondiale) quella in Estremo Oriente, che assorbirà sempre più le limitate risorse degli Usa. Pure in Medio Oriente del resto gli Usa si vedono già costretti a dipendere sempre più dai loro alleati (Israele e Arabia Saudita - non a caso Obama, con l’accordo sul nucleare con l'Iran, aveva cercato di evitare che la politica di questi Paesi potesse compromettere gli interessi degli Usa a livello globale) e qualcosa di simile vale pure per l'Europa.
Lo scontro in atto ai vertici della potenza egemone peraltro riguarda la ridefinizione del ruolo degli Usa anche a livello geopolitico (che non si può separare dalla questione dell'economia degli Usa) e in particolare il confronto con la Russia che per la parte del gruppo dominante ostile a Trump è ancora il nemico principale, anche se al riguardo la stessa politica di Trump è tutt’altro che coerente e chiara. Di fatto, gli Usa a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso hanno cercato di risolvere il problema del loro declino relativo (Paul Kennedy) mediante l’espansione del capitalismo finanziario (Giovanni Arrighi), puntando tutto sulla globalizzazione made in Usa. Il crollo dell’Urss favorì una “accelerazione” di questa politica e la prima guerra del Golfo illuse gli Usa di potere pure ridefinire la carta geopolitica mondiale con interventi di carattere militare. Invero, questa politica - confermando il giudizio di Fernand Braudel secondo cui la prevalenza del capitalismo finanziario è il segnale dell’autunno della potenza egemone - ha favorito l’eccezionale crescita della Cina, ha generato instabilità a livello mondiale, ha indebolito il sistema socio-economico americano, ha evidenziato la debolezza del sistema militare degli Usa per quanto concerne il controllo diretto di un Paese (Afghanistan e Iraq) e ha creato un caos che è stato sfruttato sul piano geopolitico sia dalla Russia che da potenze regionali, e su quello economico (oltre alla Cina e altri Paesi asiatici) soprattutto dalla Germania, cui tutto o quasi era stato concesso per saldarla all’Atlantico dopo il crollo dell’Urss.
In questo contesto non sarà facile quindi per gli Usa gestire la crisi della Ue, che non è altro che una aggregazione di Stati nazionali in lotta tra di loro (ossia una nullità geopolitica e militare) ed è prevedibile che anche in Europa gli Usa dovranno contare sempre più su gruppi subdominanti. Tuttavia, mentre il gruppo obamiano-clintoniano (per capirsi) sostiene decisamente l'euroatlantismo in funzione antirussa, secondo la logica deterritorializzante tipica del predominio del capitalismo finanziario, viceversa la politica di Trump cerca (non senza contraddizioni) di conciliare la politica di potenza degli Usa con una forma di riterritorializzazione della politica e dell’economia che vada a vantaggio della società americana nel suo complesso.
Comunque, sia che prevalga la politica di Trump sia che prevalga quella dei suoi avversari, è inevitabile che gli Usa si imbattano nei limiti della propria potenza, limiti che dipendono sia da una “sovraesposizione imperiale” dell'America sia dalla crescita di altre potenze. In altri termini, Trump o non Trump, il multipolarismo non solo è già una realtà, ma è pure una realtà che genererà nuovi conflitti e numerose scosse di terremoto geopolitico e geo-economico. Che questo possa pure essere occasione di crescita politica ed economica per diversi Paesi lo si può concedere, ma certo sempre più si evidenzieranno i difetti dell'architettura politica ed economica della stessa Ue, i cui centri di potere sono legati a doppio filo con la parte dello Stato profondo americano ostile a Trump.
 D’altronde l’Ue è imperniata sulla supremazia dell’area baltica, mentre l’area mediterranea è quella ormai che conta di più sotto il profilo geopolitico e geostrategico. E nei prossimi decenni l’“esplosione” demografica dell’Africa, potrebbe avere effetti devastanti per il continente europeo, tanto più se si considera il totale e vergognoso fallimento della Ue nel controllare l’immigrazione irregolare. In pratica, l’unica strategia degli eurocrati per quel che riguarda l'area mediterranea pare consistere nel dare carta bianca alla Francia, la cui politica nel continente africano oltre ad aver già danneggiato gravemente l’Italia è del tutto inadeguata a risolvere gli attuali problemi dell’Africa. Invero, l’ambiziosa e velleitaria politica della Francia, che da tempo non è più una grande potenza, potrà solo rendere ancora più difficili i rapporti tra l’Europa e l’Africa.
Pertanto, pare logico che la politica di un Paese come l’Italia nella presente fase storica dovrebbe essere il più possibile “pragmatica”. Nondimeno, è difficile non riconoscere che la politica dei giallo-verdi, benché sia attenta, a differenza dei governi precedenti, a difendere l’interesse nazionale, mostra già molteplici carenze sotto il profilo strategico. La mancanza di una vera strategia politica da parte dei giallo-verdi del resto è confermata dalla manovra del governo, che punta soprattutto sul consenso elettorale.
Una legislatura dura (in teoria) cinque anni. Vi era quindi tutto il tempo per rivedere la riforma delle pensioni e per introdurre il reddito di cittadinanza (al riguardo si sarebbe potuto agire in “modo graduale”) mentre essenziale sarebbe stato puntare subito su investimenti nella R&S, nelle infrastrutture e soprattutto nei settori strategici (energia, robotica, sistemi di difesa ecc.) e al tempo stesso ridefinire gli equilibri di potere nel nostro Paese, adottando nuovi dispositivi di legge e una serie di misure di carattere politico-culturale (a cominciare dal settore della comunicazione, sostenendo la piccola editoria e moltiplicando centri studi e di ricerca in funzione di un nuovo corso politico e culturale).
In questa prospettiva, lo scontro con gli eurocrati avrebbe avuto ben altro significato (e lo stesso vale per la possibile adozione di nuovi strumenti finanziari). In sostanza, barcamenarsi tra Scilla e Cariddi non significa essere “pragmatici” ma solo navigare a vista.














sabato 6 ottobre 2018

L’ITALIA, L’EUROPA E LA “GRANDE SCACCHIERA”





Smarcare l’Europa dall’egemonia degli Stati Uniti o, se si preferisce, dal polo atlantico, di per sé significa poco se non si chiarisce qual è lo scopo che si intende perseguire mettendo in discussione l’egemonia degli Stati Uniti sul Vecchio Continente. Pure i nazisti avevano come scopo quello di smarcarsi dalle potenze occidentali, ma non per questo si può definire il nazismo come una forma di eurasiatismo - termine con cui oggi nell’Europa occidentale si designano soprattutto quelle correnti di pensiero che giustamente ritengono che la contrapposizione tra Europa e Asia, oltre ad ignorare i molteplici rapporti (culturali, economici, ecc.) che comunque ci sono sempre stati tra l’Europa e l’Asia, non abbia più alcuna ragione di sussistere neanche sotto il profilo geopolitico. Questo non ha però nulla a che vedere con un progetto politico incentrato su una Europa egemonizzata dalla Germania, tanto più che, comunque la si pensi, la Germania attuale non avrebbe alcuna capacità di realizzare un simile progetto (che del resto non riuscì a realizzare nemmeno quando era una grande potenza militare e non solo economica). In quest’ottica difendere l’UE contro l’America di Trump equivale solo a difendere quei gruppi (sub)dominanti europei che sono tra i principali “agenti geopolitici” di quella parte del deep State americano, che fa apertamente la guerra a Trump.



Tuttavia, è innegabile che chi dice Eurasia dica pure Europa. Ma l’Europa non è l’UE, né si può pensare che il “neomercantilismo” della Germania o il neocolonialismo della Francia siano espressione di una autentica potenza continentale. Non a caso un analista intelligente e preparato come John Mearsheimer ritiene non solo che l’Estremo Oriente (e in specie l’area del Pacifico) sia destinato ad essere lo spazio geopolitico “decisivo” in questo secolo, ma che perfino il Medio Oriente nel prossimo futuro sarà più importante dell’Europa. A Mearsheimer non sfugge infatti che l’UE è una “nullità geopolitica”, dato che di fatto non è che una “aggregazione” di Stati nazionali, ciascuno con il proprio debito “sovrano”, la propria bilancia commerciale, la propria politica economica, la propria politica estera, il proprio apparato militare e produttivo, la propria lingua e le proprie istituzioni, al punto che gli Stati più forti della UE non hanno nemmeno esitato a difendere i propri interessi a scapito di quelli degli Stati europei più deboli. Ragion per cui, se fino a qualche decennio fa si poteva pure credere che l’UE fosse comunque necessaria per creare una “grande Europa”, libera e sovrana, oggi difficilmente si può ritenere che sia in buonafede o nel pieno possesso delle sue facoltà mentali chi si definisce eurasiatista ma al tempo stesso sostiene (più o meno esplicitamente) che ad un Paese come l’Italia convenga farsi dominare o addirittura massacrare dalla Francia e/o dalla Germania, perché questa sarebbe l’unica strategia possibile per giungere ad un’Europa non più sottomessa agli Stati Uniti e quindi perfino in grado di “stringere” un’alleanza stabile e vantaggiosa con la Russia.



Ovviamente non si deve neppure credere che basti difendere la sovranità nazionale per dar vita ad un nuovo corso geopolitico. Invero, il cosiddetto “sovranismo” (ben diverso da una equilibrata e “realistica” difesa della sovranità nazionale) non è altro che una forma di nazionalismo rozzo e ottuso. È chiaro infatti che i singoli Paesi europei (Germania e Francia comprese) in quanto tali sono spazi geopolitici di secondaria importanza e che in un mondo multipolare (ovvero caratterizzato dalla presenza di diversi e potenti poli geopolitici) non sarebbero altro che mere province di grandi potenze extraeuropee. D’altra parte, nessuna grande potenza europea è mai riuscita a conquistare l’egemonia su tutta l’Europa. Non vi riuscì la Spagna, non vi riuscì la Francia e nel secolo scorso non vi riuscì la Germania. Difatti, una potenza europea può sempre evitare di essere dominata da un’altra potenza europea alleandosi con altre potenze europee e/o con una grande potenza non europea. Peraltro, è pure evidente che un grande spazio europeo non può che essere un grande spazio policentrico e multidimensionale, a differenza non soltanto della Russia o della Cina ma anche degli Stati Uniti, dacché i diversi Stati degli USA non si possono certo paragonare ai diversi Stati europei. Ed è proprio questa “differenza” (che gli euro-atlantisti, in primis i “tecnici”, sembrano ignorare) che ha impedito e impedisce che l’UE possa diventare uno Stato federale europeo (i cosiddetti “Stati Uniti d’Europa”), nonostante che il continente europeo sotto il profilo culturale sia ormai una sorta di “colonia americana”. Un problema che non si può risolvere sognando “chimere geopolitiche” (se non si riesce neppure a creare un polo geopolitico europeo è davvero assurdo credere che si possa creare un polo geopolitico eurasiatico, da Brest a Vladivostok), ma che dimostra la necessità di fare i conti con le dure repliche della storia (e della geopolitica!).



Che l’Europa sia in primo luogo una molteplicità di “differenti identità politico-culturali” e che perciò non sia possibile, almeno in questa fase storica, creare una autentica unione (geo)politica europea non implica però che l’Europa sia comunque destinata ad un declino geopolitico (anche se non pochi europei se lo augurano, senza rendersi conto delle conseguenze disastrose sul piano politico, sociale ed economico – e perfino militare - che ciò avrebbe non solo per i ceti sociali subalterni ma per la stragrande maggioranza dei cittadini europei). Quel che si deve tenere presente è che l’Europa comprende perlomeno tre distinte aree geopolitiche e geo-economiche: quella baltica, quella danubiana e quella mediterranea, ciascuna delle quali esige ordini, misure e proporzioni particolari. Pertanto, è lecito ritenere che una confederazione europea (da non confondere con l’UE né a maggior ragione con gli “Stati Uniti d’Europa”) potrebbe non solo rispettare la sovranità nazionale (e popolare!) dei singoli Stati europei perché possano meglio tutelare i propri interessi (sia pure in un quadro di cooperazione con gli altri Paesi europei - che era quanto accadeva allorché vi era ancora il MEC) ma pure permettersi di giocare contemporaneamente su più tavoli e di conseguenza dipendere sempre meno dal polo atlantico.



Invero, da tempo la Russia e la Cina hanno compreso che nella cosiddetta “età della globalizzazione” non ha più senso ragionare come se vi fossero solo due blocchi geopolitici contrapposti (benché non si possa escludere che la crisi dell’egemonia statunitense possa portare ad un conflitto internazionale che renda invitabile una “scelta di campo” netta). Il multipolarismo difatti evidenzia non solo i limiti della potenza dell’attuale centro egemonico occidentale, ma pure quelli delle grandi potenze, a vantaggio sia delle potenze regionali che di “formazioni geopolitiche” complesse, come potrebbe essere una confederazione europea (o anche un polo geopolitico “mediterraneo”). In sostanza, i Paesi europei avrebbero ottime carte da giocare, qualora potessero agire sul piano internazionale secondo una “logica geopolitica polivalente”, pur condividendo una serie di principi e regole comuni.



Certamente, una formazione geopolitica di questo genere sarebbe più “instabile” di una grande potenza continentale, sia sotto l’aspetto economico che sotto quello politico-militare. In effetti, la mancanza di un unico centro di potenza, ovverosia in grado cioè agire come centro propulsore geopolitico e geo-economico, renderebbe assai difficile poter contare su una coerente “direzione strategica” sovranazionale, necessaria per potere affrontare una crisi (politica e/o economica) internazionale senza dovere risolvere al tempo stesso pericolosi contrasti tra i diversi membri della medesima formazione geopolitica. Tuttavia, anche in questo caso si tratta di capire che non basta distruggere la UE per risolvere i problemi di quei Paesi che come l’Italia sono stati gravemente penalizzati dalle scelte degli eurocrati, ma occorre sapere quale “modello geopolitico” dovrebbe sostituire la UE. Non si può neppure escludere che mutando radicalmente l’“architettura politica” della UE si possa giungere, in un periodo di tempo non eccessivamente lungo, a ridefinire in modo più coerente il profilo geopolitico del Vecchio Continente o perlomeno a creare le condizioni che permettano ad alcuni Paesi europei di elaborare una strategia (geo)politica non più subalterna agli interessi della grande potenza d’oltreoceano. Al riguardo però si devono fare diverse considerazioni.



In primo luogo, oggi il nemico più pericoloso dell’Europa è il “nemico interno”. L’americanizzazione dell’“anima europea” è un fenomeno assai più preoccupante delle presenza di numerosi basi americane in Europa. Il “panciafichismo” e il “nichilismo frivolo” sembrano ormai i tratti distintivi della middle class europea, sedicente cosmopolita ma di fatto sempre più incapace di confrontarsi con un mondo in rapida trasformazione. D’altra parte, l’America oggi non impone con le armi la sua politica ai Paesi europei né gli europei che “si sentono” più americani che europei (anche se pensano che debbano essere gli americani a combattere per gli europei) sono costretti ad esserlo da Washington. E questo non è un problema che si possa risolvere con la “fantageopolitica”, tanto più che si deve riconoscere che anche in settori culturali decisivi, come quelli che concernono la geopolitica e gli “affari militari”, l’America sopravanza di gran lunga il Vecchio Continente. Nondimeno, è innegabile che il declino (relativo, si intende) degli Stati Uniti rende possibili scenari geopolitici (e quindi pure culturali ed economici) fino a pochi anni fa impensabili. Il durissimo scontro ai vertici del potere pubblico che dopo il successo di Trump caratterizza la politica americana è solo l’effetto non certo la causa della profonda crisi del sistema politico e sociale della potenza egemone dell’Occidente. Da diversi anni la base produttiva degli Stati Uniti non è più in grado di “alimentare” la politica di potenza di Washington, che a partire dalla fine del secolo scorso si è rivelata sempre meno vantaggiosa per il popolo americano, benché sia proprio il ruolo di gendarme del grande capitale occidentale che ha permesso all’America di diventare la maggiore potenza mondiale.



Comunque sia, è pacifico che neanche l’America First sognata da Trump potrà fermare la crescita di centri (potenzialmente) anti-egemonici sia a livello mondiale che a livello regionale. La fase multipolare però è solo agli inizi e ci vorrà tempo prima che la Russia e la stessa Cina possano confrontarsi con l’America su un piano di sostanziale parità. L’eccezionale crescita economica della Cina consente sì a Pechino di sviluppare una serie di programmi militari che possono trasformare la Cina in una grande potenza aeronavale, ma verosimilmente dovrà ancora passare qualche lustro prima che la Cina possa realizzare questo ambizioso progetto. Nel frattempo la scacchiera geopolitica potrà mutare considerevolmente e offrire non poche opportunità agli attori geopolitici che meglio sapranno sfruttare i “nuovi spazi” generati proprio dal fatto che un “ordine mondiale multipolare” (ammesso che un tale “ordine” sia davvero possibile) è ancora tutto da realizzare. Perciò non è affatto assurdo ritenere che pure l’Italia potrebbe giocare un ruolo geopolitico di non secondaria importanza.



Si dovrebbe capire che è interesse non solo dell’Italia ma pure dell’Europa che l’Italia prema per cambiare l’UE. Certo, giocare la “carta americana” contro gli eurocrati è rischioso, ma necessario, dacché se non cambia l’UE il declino sia dell’Italia che dell’Europa con ogni probabilità sarà inevitabile. L’Italia peraltro nonostante l’elevato debito pubblico, dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (tranne il 2009, l’“anno nero” di questo inizio di secolo) vanta avanzi primari, una ricchezza nazionale che è oltre il triplo del debito pubblico, una liquidità che è di quasi mille miliardi di euro, una bilancia commerciale in attivo, punte di eccellenza in diversi settori strategici (basti pensare ad aziende come Leonardo-Finmeccanica, Fincantieri, Eni, Enel, senza dimenticare l’ITT ossia l’Istituto italiano di tecnologia che è all’avanguardia nel settore della robotica) e potrebbe sempre dotarsi di nuovi strumenti finanziari (come i Certificati di credito fiscale). In pratica, la posizione dell’Italia in Europa non è ancora quella di un vaso di coccio tra vasi di ferro, nonostante i danni inflitti al nostro Paese da una classe dirigente nazionale assai più attenta a difendere i propri privilegi anziché l’interesse nazionale e il benessere, morale e materiale, del popolo italiano. Se è vero quindi che l’errore che l’Italia adesso deve assolutamente evitare è quello di farsi strumentalizzare dalla Casa Bianca (la cosiddetta “trappola di Bannon”), è pur vero che per l’Italia sarebbe disastroso cercare lo scontro con l’America di Trump. Il nostro Paese paga ancora oggi le conseguenze della “fantageopolitica” del regime fascista, che, dopo l’entrata in guerra dell’Italia al fianco del III Reich il 10 giugno 1940, nella convinzione che l’impero britannico fosse già sconfitto e che perciò la guerra sarebbe stata di “rapido corso”, commise un errore più grave dell’altro per rimediare a quella “sconsiderata” decisione. Solo chi si ostina a “leggere” la geopolitica con categorie ideologiche “incapacitanti” (se non addirittura aberranti) o chi è completamente “digiuno” di storia politico-militare può ritenere che per l’Italia sia venuto il tempo di sbattere la porta in faccia sia alla Ue che all’America.



D’altronde, gli obiettivi a breve termine di Washington sono più di carattere economico che geopolitico. Le questioni geopolitiche più “spinose” attualmente sembrano essere quella delle sanzioni alla Russia e quella delle sanzioni all’Iran. Riguardo alle prime però è l’UE che si dimostra assai più “rigida” dell’America di Trump, al punto da essere “in linea” con quella parte del gruppo dominante americano “ferocemente” ostile a Trump e soprattutto alla Russia (ma non si deve nemmeno dimenticare che la Germania, in questi anni di egemonia economica sull’Europa, non ha mai ostacolato l’espansione verso Est della Nato). Diverso il discorso per quanto concerne l’Iran, ma è evidente che se sulla questione dell’accordo relativo al nucleare iraniano si dovesse arrivare ad un vero e proprio scontro tra gli USA e l’UE, ben difficilmente quest’ultima potrebbe sopravvivere senza mutare completamente la propria architettura (geo)politica.



Comunque, è quanto sostiene Mearsheimer riguardo alla Cina come centro di potenza anti-egemonico più pericoloso per gli Usa che si deve tenere nella massima considerazione. “Trump o non Trump”, nel medio-lungo periodo (ma più nel medio che nel lungo periodo) è inevitabile che sarà proprio questo il problema geopolitico più difficile da risolvere per gli USA (sempre che, come qualcuno afferma o si augura, gli USA o la Cina non “collassino” prima – ma è ipotesi assai poco probabile). La sfida con la Cina impegnerà quindi sempre più l’America, tanto è vero che destinare sempre maggiori risorse per non perdere la sfida con il gigante asiatico sarebbe necessario perfino nel caso che per i dirigenti americani la “pressione” più forte si dovesse esercitare non nei confronti della Cina bensì della Russia (una strategia “cara” a Brzezinski). Ma si può pure supporre che quanto più dovesse aumentare la “pressione” degli USA sulla Russia, tanto più forte diventerebbe l’alleanza tra la Russia e la Cina, i cui dirigenti sono comunque consapevoli delle ambizioni di egemonia globale che almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale caratterizzano la Weltanschauung dell’élite nordamericana. D’altro canto è difficile credere che per i dirigenti cinesi la Cina si dovrebbe accontentare di interpretare il ruolo di “comprimario” dell’America.



È logico quindi che nei prossimi anni, indipendentemente da chi sarà l’“inquilino” della Casa Bianca, gli USA (a condizione che l’America non sia disposta a scatenare una guerra mondiale, pur di non rinunciare ai propri progetti di egemonia globale) dovranno sempre più impiegare le loro risorse (tutt’altro che illimitate) per “reggere” il confronto con la Cina e di conseguenza, volenti o nolenti, dovranno limitare i loro impegni in altre aree del globo, lasciando così maggiore spazio ad altri attori geopolitici (Paesi europei compresi), sebbene sia ovvio che l’America e la Russia (che attualmente è il maggiore centro di potenza anti-egemonico) continueranno a “confrontarsi” sia nell’Europa orientale che in Medio Oriente e che i principali attori geopolitici dovranno tener conto delle ambizioni e degli interessi di potenze regionali che a loro volta potranno facilmente condizionare la politica delle grandi potenze. Perciò non si dovrebbe neppure sottovalutare il rischio che un conflitto regionale possa mutarsi in un pericoloso conflitto internazionale. E questo può verificarsi soprattutto in Medio Oriente, che è ancora l’area geopolitica più “calda” del pianeta e una regione in cui l’Europa conta assai poco.

Ma un’altra area geopolitica assai “calda” è l’intero continente africano, in cui la Cina ha messo salde radici, grazie ad una intelligente strategia politica ed economica, ben diversa da quella del capitalismo predatore occidentale e pure da quella della Francia, che – tenendo anche presente la straordinaria crescita demografica dei Paesi africani - potrebbe avere conseguenze catastrofiche per l’Europa e in specie per l’Italia (come la criminale e irresponsabile aggressione contro la Libia di Gheddafi ha già dimostrato). Non meraviglia allora che anche gli Usa abbiano rafforzato la loro presenza in Africa, mentre l’UE si è dimostrata incapace perfino di elaborare una strategia comune per gestire al meglio il fenomeno della immigrazione irregolare. Insomma, pure nel continente africano si gioca una complessa “partita geopolitica” che potrebbe e dovrebbe vedere l’Italia ricoprire un ruolo assai maggiore di quello che ha saputo svolgere in questi ultimi anni.



Pertanto, sarà sulla “grande scacchiera” (ma il termine “scacchiera” non inganni perché né la politica né la geopolitica sono un gioco che si svolge con regole precise e condivise, e in realtà non sono neppure un gioco, dato che la caratteristica di un gioco è proprio quella che consente ad un giocatore  dismettere di giocare quando vuole) che si deciderà il destino non solo dell’Europa ma anche e soprattutto dell’Italia, la cui invidiabile posizione geostrategica è diventata perfino più rilevante dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. Ma che l’area mediterranea da allora abbia acquisito sempre più importanza non è un mistero per nessuno, tranne per gli eurocrati per i quali l’area baltica e, in generale, l’Europa settentrionale sarebbero ancora il “cuore geopolitico” del Vecchio Continente se non addirittura del mondo. Una tale ristrettezza di vedute penalizza non poco l’Italia ma pure l’Europa, che già si trova relegata in una posizione di secondo piano a livello geopolitico, nonostante che la Francia si illuda di essere ancora una grande potenza.



Pare ovvio dunque che solo una saggia strategia di lungo termine potrebbe consentire all’Italia (e alla stessa Europa) di smarcarsi progressivamente dagli Stati Uniti, anche se questo può dispiacere a chi disprezza ogni forma di compromesso e di “mediazione” (benché saper “mediare” tra gli opposti e trovare la “giusta mescolanza” sia una caratteristica essenziale della civiltà e della cultura europea). Vale a dire che una tale strategia può dispiacere a quell’“anima bella” raffigurata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito e che per il filosofo tedesco non è altro che il “rifiuto dell’azione nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé”, poiché è sì un’anima “pura” ma proprio per questo motivo è completamente incapace di agire nel mondo. In altri termini, la politica non è astratto “dover essere”, contrapposto a “ciò che è”, bensì “poter essere”. Già oggi del resto il rapporto di sudditanza geopolitica dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti dipende più dagli europei che dagli americani. In definitiva, quel che l’Europa o l’Italia saranno dipenderà anche e soprattutto da quel che gli europei e in particolare gli italiani sapranno essere. Una ragione in più per non abbandonarsi ad un facile ottimismo.