giovedì 12 dicembre 2013

LO SPAZIO INTERIORE DEL MONDO. GEOFILOSOFIA DELL'EURASIA.

La modernità ha mutato la relazione tra terra e mare nell’altra, mare contro terra, creando così quelle condizioni che hanno permesso all’Economico di scorporarsi dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui esso prima era “incastrato”. Tuttavia, il primato della funzione politico-strategica ricompare inevitabilmente nell’analisi che intercetta anche il mercato come espressione di una particolare volontà politica. Questo libro intende non solo (di)mostrare la necessità della funzione egemone ed equilibratrice della politica (ossia del Politico-katechon), ma anche, se conflitto e “squilibrio” sono inevitabili, la necessità di passare dal problema geopolitico e sociale a quello metapolitico e geofilosofico di uno spazio differenziato e orientante. La riconquista di un legame tra terra, abitazione e lavoro, che permetta un universale riconoscimento delle differenze (prodotte da quel legame), trova dunque nell’Eurasia l’antagonista di quella “Grande Isola” d’oltreoceano che è il centro propulsore del capitalismo e dello sradicamento.

Il libro, nella sostanza, è una "risposta" alle tesi difese da Cacciari in "Geo-filosofia dell'Europa" e "Arcipelago" . Le numerose note e i riferimenti bibliografici intendono offrire al lettore la possibilità di approfondire l'argomento e di avere anche una visione critica, oltre che più ampia e articolata, delle posizioni difese dall'autore. Comunque anche questo è un libro che ne richiede un altro, che prenda in esame quella trasformazione del conflitto che ha portato alla guerra asimmetrica dei nostri giorni,  in cui il "regolamento bellico dei conti" in senso stretto è solo parte di quella lotta assai più vasta che Costanzo Preve definisce come la "quarta guerra mondiale".

lunedì 25 novembre 2013

QUALE "SOVRANISMO"?

A nostro giudizio non si può non condividere quanto sostiene Gianfranco la Grassa in un suo recente articolo, vale a dire che «si deve puntare nella fase attuale in modo speciale su ciò che viene al momento definito […] come sovranismo. Ma in che modo? E fino a quale punto? Con quali mezzi, strategie e forze in campo? Tutto da discutere, ma non fra secoli» (1). A questo proposito, occorre precisare che con il neologismo “sovranismo” ci si riferisce all’istanza di riconquista della sovranità nazionale, ceduta quasi completamente dai “nostri” politici non all’Europa (che come soggetto politico non esiste) bensì all’UE, o meglio ad alcune istituzioni dell’UE quali ad esempio la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea (che in realtà non è affatto una banca centrale). Purtuttavia, bisogna riconoscere che nell’attuale fase storica i singoli Stati non possono non rinunciare a una certa sovranità, giacché è evidente che lo “spazio” politico ed economico dei singoli Paesi è troppo piccolo perché uno Stato possa fare a meno di essere parte di un’area geopolitica più ampia e complessa. In questo senso, difendere il “sovranismo” (che ovviamente non deve essere scambiato per una forma di nazionalismo) non significa mettere in questione la necessità di un “grande spazio” europeo, tanto più che la questione della sovranità non può non concernere, oltre al rapporto tra l’UE e i singoli Stati europei, l’indipendenza del continente europeo, posto che il vero problema da risolvere sia quello di poter riguadagnare una certa sovranità nazionale innanzi tutto (non solo) allo scopo di ridefinire obiettivi e funzioni dell’Europa. E’ comunque lo stesso Gianfranco La Grassa che ci offre la possibilità di mettere a fuoco meglio questo aspetto essenziale, allorché giustamente sostiene che «non si tratta affatto di lesinare le critiche all’atteggiamento spesso arrogante della Germania [...] nemmeno si chiede di non mettere in luce la trappola in cui siamo caduti con l’euro, le direttive UE, ecc. L’importante è che non si dimentichi l’ordine gerarchico in seno all’“occidente”».

Pertanto, solo tenendo conto dei reali “rapporti di forza”, nonché degli equilibri geopolitici che da tali rapporti derivano e che di necessità sono a fondamento della stessa UE, è possibile comprendere le strategie dei gruppi dominanti d’oltreoceano e quelle dei gruppi subdominanti europei (Germania inclusa). E non vi è dubbio che i legami di dipendenza dell’Europa dagli USA dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e la riunificazione della Germania, anziché indebolirsi, siano diventati ancor più stretti e forti. Né l’euro, che avrebbe dovuto rendere più salda l’unione tra i diversi Stati europei, si è rivelato essere quella moneta in grado di mettere realmente in discussione l’egemonia del dollaro come alcuni ritenevano. Un “fallimento” allora quello dell’euro (se di “fallimento” veramente si tratta) non affatto strano dacché l’euro non è la moneta di nessuno Stato, né nazionale né “sovra-nazionale”. In realtà, mettendo il carro davanti ai buoi, ovvero la finanza “davanti” alla politica, si è soltanto riusciti a dividere l’UE in tre parti: Stati che non sono membri dell’Eurozona (come l’Inghilterra e la Danimarca.), Stati dentro l’Eurozona che sono sempre più forti (in specie la Germania) e Stati dentro l’Eurozona che invece sono sempre più deboli (come la Grecia, l’Italia, la Spagna e ora anche la Francia). Ciò nonostante, è difficile negare che i circoli filo-atlantisti siano riusciti ad ottenere quel che più premeva loro, ossia (come abbiamo più volte sottolineato in altri articoli, ma ripetita iuvant) “ancorare” la Germania all’Atlantico. Sicché, alla situazione che si è venuta a creare in Europa, soprattutto a causa della crisi che ha avuto origine negli Stati Uniti (ma pare che questo molti l’abbiano già dimenticato), gli “euroamericani”, consapevoli dei rischi che corre l’Eurozona, vorrebbero porre rimedio con il mercato transatlantico. Una soluzione che segnerebbe la fine di qualunque progetto di (autentica) unione politica europea.

Del resto, quello che La Grassa definisce come “l’ordine gerarchico in seno all’Occidente” spiega in buona misura anche il comportamento della “nostra” classe dirigente verso l’UE e la Germania in questi ultimi anni (un comportamento altrimenti incomprensibile – e questo lo si deve far notare in particolare a chi, secondo una ottusa prospettiva economicistica, si limita a ripetere che i “nostri” politici ci hanno consegnato nella mani dei tedeschi, evitando però di dare una spiegazione seria di questo “tradimento”). In realtà, la “nostra” classe dirigente, sempre disposta ad eseguire le direttive strategiche degli USA, non per intima convinzione ma solo per convenienza (sì da rendere superfluo qualsiasi “complotto”), è sì incapace di dirigere alcunché, ma sa bene da che parte conviene stare e chi detiene il “bastone del comando”. Certo, non pochi dei “nostri” politici e dei “nostri” tecnici contavano sul fatto che la Germania prima o poi avrebbe acconsentito a “mutare rotta”, rivedendo il ruolo della BCE, anche se credevano (come Marta Dassù) che i tedeschi in cambio avrebbero probabilmente chiesto una sorta di diritto di veto sulle decisioni della BCE. Invece la Germania non ha concesso nulla, anche perché ha compreso che può alzare il prezzo, dato che adesso per Washington il problema principale è impedire (soprattutto mediante la cosiddetta “geopolitica del caos”) che si formi una vera “alternativa multipolare” (un obiettivo comunque non facile ma addirittura impossibile da raggiungere nel caso che gli Stati Uniti dovessero perdere l’egemonia sull’Europa).

In questo contesto, è abbastanza scontato che le rivalità tra singoli Paesi e il “risentimento” contro la Germania aumentino in tutta Europa. D’altronde, il timore che la Germania diventi il “sergente di ferro” d’oltreoceano, o come afferma La Grassa il “maggiordomo” degli USA in Europa, non è affatto infondato. Già nel 1945 il filosofo Alexandre Kojève temeva che l’Europa “latina” rimanesse schiacciata sotto la potenza politico-economica tedesca e anglosassone. (2) Al riguardo, bisogna tuttavia notare che se la Germania diventasse il “maggiordomo” degli USA in Europa, non potrebbe mai avere un ruolo politico-strategico di primo piano: troppo debole per unificare l’Europa – anche se troppo forte per non riuscire ad impedirlo – dovrebbe rassegnarsi, volente o nolente, ad essere un centro di potere “dipendente” dagli USA e quindi, di fatto, a non poter modificare gli equilibri (o gli squilibri) internazionali, senza il consenso degli Stati Uniti. Invero, una potenza geoeconomica che non è una potenza militare non è una vera potenza geopolitica, e questo è un limite che la Germania rischia di pagare caro, anche sotto il profilo economico, se non adesso nel prossimo futuro. Solo rinunciando a disegni egemonici che sono al di là delle possibilità di qualsiasi potenza europea, come insegna la storia del vecchio continente, e contribuendo invece ad ampliare la sfera d’azione geopolitica dell’Europa, la Germania potrebbe liberarsi definitivamente dal “peso” del suo passato e crescere politicamente.

Il fatto però che proprio tra i cosiddetti “europeisti” vi siano i più entusiasti sostenitori del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non solo è una ulteriore conferma che la UE è strumento, nella sostanza, della politica di potenza degli USA, ma dimostra anche che l’iniziativa strategica purtroppo è ancora saldamente nelle mani dei circoli atlantisti. Nondimeno, proprio in Francia il “sovranismo” sta mettendo radici fortissime, in un’ottica geopolitica favorevole al multipolarismo e ad uno “spostamento” verso est del continente europeo (un cambiamento di “orientamento” geopolitico che non dovrebbe dispiacere ad “influenti ambienti” tedeschi, consapevoli dei vantaggi che potrebbero derivare alla Germania da una nuova Ostpolitik). Inoltre, è degno di nota che uno studioso di fama come Jacques Sapir sia giunto addirittura a dichiarare che «bisogna riunire le forze di sinistra e di destra che hanno capito il pericolo che rappresenta l’euro, unirli non in un solo partito ma all’interno di un’alleanza in grado di sostenere una politica di rottura». (3) Ciò comunque non pare implicare necessariamente che si debba ritornare all’“Europa delle nazioni” cara a De Gaulle, ma piuttosto che da quella “idea d’Europa” si dovrebbe ripartire, nel senso che la battaglia per la riconquista di una certa sovranità dei singoli Stati europei non la si può separare da quella per una effettiva indipendenza dell’Europa dagli Usa. D’altra parte, è pur vero che solo se ci si oppone all’Eurozona e di conseguenza ci si impegna a “rifondare” la stessa UE, è possibile sottrarre i singoli Stati europei alla morsa dei “mercati” (e quindi cominciare a sganciarsi dagli USA e a sfruttare i “percorsi geoeconomici” che si potrebbero creare mediante accordi “strategici” con i BRICS) ed evitare la catastrofe sociale ed economica dell’Europa meridionale. Pare quindi logico, che in una prospettiva “sovranista” i singoli Stati europei non solo non dovrebbero scomparire, ma dovrebbero svolgere un fondamentale ruolo di “cerniera” tra singoli cittadini e comunità locali da un lato e “macroregioni” geopolitiche (mediterranea, baltica e danubiana) e istituzioni europee “sovra-nazionali” dall’altro, al fine di mettere al primo posto, anziché gli “affari” e la finanza, la politica e l’economia reale. Perché questo possa avverarsi si dovrà però combattere una “guerra” lunga e difficile. E si badi che il termine “guerra” non lo si deve intendere solo in senso figurato, ché da un pezzo la “forma” della guerra è cambiata.





1) http://www.conflittiestrategie.it/pantomima-continua-di-glg-19-novembre-13

2) http://www.eurasia-rivista.org/lutopia-geopolitica-dell-impero-latino/19771/

3) http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=6&pg=5595

http://www.eurasia-rivista.org/quale-sovranismo/20396/

PS. Sulla questione di una "vera" banca centrale europea, Luciano Gallino ha giustamente scritto: «Dal punto di vista delle istituzioni la Ue sembra davvero un edificio sgangherato. Avrebbe quindi bisogno di meccanismi istituzionali di compensazione degli squilibri di produttività, del valore reale dell’euro nei diversi paesi, del costo del lavoro, di legislazione fiscale. E di una banca centrale che fosse una vera banca centrale, in luogo di essere un istituto finanziario che si preoccupa per statuto solo della stabilità dei prezzi» (Luciano Gallino, "Repubblica", 6 dicembre 2013).

martedì 5 novembre 2013

USA VERSUS GERMANIA?

In rete vi è un dibattito sulla "questione tedesca". Dato che sto scrivendo un libro, mi sono limitato a scrivere sul tema una breve nota anziché un articolo.

La Germania sta traendo il massimo profitto da condizioni geopolitiche che la favoriscono e che rendono  necessario che la sua economia rimanga “ancorata” all'Atlantico. Politicamente, dalla fine della IIGM, conta poco o nulla (altro che Cina!) né ha alcuna intenzione di contare qualcosa, consapevole com'è che appena dovesse mettere fuori la testa dal "guscio (geo)economico" gliela mozzerebbero. L'unico modo perché la Germania possa crescere politicamente sarebbe quello di realizzare una Unione Politico-militare  Europea, che è proprio quello che la Germania non intende fare, dacché le riuscirebbe solo se l'Ue fosse guidata da una sorta di direttorio franco-tedesco. Inoltre la  Germania per  promuovere tale unione dovrebbe porre fine agli squilibri creati dall'euro, accollarsi l'onere di una radicale trasformazione della struttura socio-economica dell'Europa, mettere un freno ai "mercati english speaking" e trasformare la Bce in una vera Banca Centrale. 
Se si crede che la Germana si stia adoperando per questo, allora esistono certamente pure gli unicorni!
Del resto, se è vero che la  Germania non esegue nessun compitino d'Oltreoceano, è vero che lo esegue la nostra classe dirigente che deve evitare che la geoeconomia tedesca possa mettere in moto meccanismi politici non facilmente controllabili dagli Usa. Il che spiega non solo perché la nostra classe dirigente , o meglio quelli che contano tra i membri della nostra classe dirigente (Napolitano, Amato etc.) non si oppongano ad una politica economica che sta distruggendo la nostra base produttiva (e perché addirittura si taccia quando la Bundesbank mente pubblicamente sui disastri che sarebbero stati causati dall'inflazione  dopo il 1929  - in realtà l'inflazione in Germania ci fu dopo la Grande Guerra, mentre dopo la crisi del 1929 fu la disoccupazione a mettere in ginocchio la Germania), ma anche perché si sta facendo strada il progetto del mercato transatlantico (non a caso sostenuto dalla Germania), che equivale a porre una "pietra tombale" sull'Europa politica.
Infatti, se gli Usa sono riusciti a neutralizzare la minaccia dell'euro, sono consapevoli degli squilibri generati dall'euro e del fatto che l'euro ha diviso l'Ue in tre parti: Paesi fuori dall'euro, Paesi di Eurolandia forti e Paesi di Eurolandia sempre più deboli (con l'euro la Germania ha realizzato un surplus della propria bilancia commerciale di oltre 1000 mld). A questa situazione si pensava di porre rimedio (come scrisse la Dassù in un articolo da me analizzato in un mio scritto - e su questo tema ne ho scritti parecchi di articoli sia per S&P che per Eurasia)  contando sul fatto che la Germania prima o poi avrebbe mutato passo o con gli eurobond o cambiando la struttura della Bce, anche se per questo avrebbe chiesto una sorta di diritto di veto. Invece la Germania non ha concesso nulla, anche perché ha compreso che per gli Usa è di fondamentale importanza una Germania forte economicamente e un Mediterraneo debole politicamente. Tanto più adesso che con la fine dell'unipolarismo Usa, per Washington il problema è evitare che si formi una vera "alternativa multipolare". 
Certo il pericolo che Eurolandia non regga esiste e per questo si gioca la carta del mercato  transatlantico. In definitiva un polo geoconomico baltico privo di pungiglione politico-strategico è un prezzo che gli Usa obtorto collo possono pagare in cambio di un'Europa sicura e affidabile per la politica atlantista. L'importante per gli Usa è che i "perieci europei" continuino ad essere privi di diritti politici. In quest'ottica, è il legame tra gli Usa e la Germania che si deve spezzare per evitare la catastrofe. L'anello debole è Eurolandia. Gli Usa stanno già prendendo le contromisure e la Germania non si oppone ma alza ancora il prezzo. Eppure le contraddizioni non mancano non potendo gli Usa rinunciare ad una egemonia che implica pure di recuperare terreno sotto il profilo economico  rispetto ai tedeschi (è dalla guerra in Iugoslavia che va avanti questa storia: alla penetrazione economica tedesca è seguito un intervento militare che ha chiarito qual è il Paese egemone nell'area; si pensi poi alla questione dei missili in Polonia - in funzione anti-russa ma anche per “bloccare” ogni puntata verso est della Germania - e ora anche alla questione dello "spionaggio").
Del resto, una moneta senza Stato è una "follia". Mettere in discussione Eurolandia significa oggi mettere in discussione l'egemonia Usa in Europa, sia pure indirettamente , ma  è l'unico modo serio di farlo. Attendere un cambiamento di rotta da parte di Berlino è come attendere che gli Usa chiudano le basi in Italia per rispettare la nostra sovranità! Nel migliore dei casi ci sarà un polo baltico ricco e atlantista e un'Europa mediterranea subalterna agli Usa (anche nel caso che Eurolandia si sfasci) e sottosviluppata: "carne mediterranea" da dare in pasto alla “tigre teutonica” purché non interferisca con i progetti egemonici degli Usa. Nel caso peggiore ci sarà un mercato transatlantico con gli Usa in posizione dominante anche sotto l'aspetto geoeconomico. 
 Non si tratta di ragionare in un'ottica nazionalistica, ma nemmeno ci si deve inventare un'Europa che non esisterà mai. L'Europa è unità nella diversità, non distruzione delle differenze. La miopia strategica tedesca porterà alla rovina l'Europa un'altra volta se si continuerà a favorire una politica di potenza economica della Germania che sta trascinando nell'abisso l'Europa mediterranea. Europei lo si è già culturalmente, per esserlo politicamente bisogna mettere fine all'euroatlantismo di cui oggi la Germania (se ne sia consapevoli o no) è il pilastro fondamentale, favorevole com'è ad una politica che avvantaggia solo gli strateghi del capitale, cioè i cosiddetti "mercati".
L'alternativa ad uno scenario atlantista va costruita costringendo la Germania a fare scelte geopolitiche diverse. Lo si può fare facendo leva sulle contraddizioni sopraccitate - e anche con l'introduzione di due euro purché l'impegno per un polo geopolitico mediterraneo sia netto. Ma occorre fare presto, altrimenti ci sarà un'Europa senza l'Italia, senza la Grecia etc. Ovvero non ci sarà più alcuna Europa, ma solo l'Unione euro-americana.

venerdì 4 ottobre 2013

OLTRE L'EURO E L'ERA (ANTI)BERLUSCONIANA

Mentre va in scena l’ultimo (?) atto di “Finale di partita all’italiana”, una commedia dell’assurdo che rischia di finire in tragedia per milioni di italiani, si moltiplicano gli articoli e le prese di posizione contro l’Eurozona (e non solo in rete). Su questo argomento, se particolare importanza hanno le analisi di Alberto Bagnai o Bruno Amoroso, si deve a Jacques Sapir l’aver fatto, con grande chiarezza e semplicità, il punto della situazione nel suo recente articolo “Lo scioglimento dell’euro, un’idea che si imporrà nei fatti”. (1) Sapir infatti dimostra che, mentre i media per ragioni politiche e ideologiche cercano di mettere in evidenza il fatto che la cosiddetta “ripresa” dovrebbe essere già cominciata, in realtà tutti gli indicatori economici provano il contrario.

Invero ciò non dovrebbe stupire granché gli italiani che vivono quotidianamente gli effetti della crisi sula loro pelle. Con l’indice della produzione industriale che ha perso ben venti punti percentuali dal 2007 (2), con il tasso di disoccupazione giovanile che ha superato addirittura il 40% (3), con una pressione tributaria simile a quella dei Paesi scandinavi ma con servizi da “terzo mondo”, (4) resi ancora più inefficienti o carenti dalla “macelleria sociale” degli ultimi governi, con il potere d’acquisto delle famiglia diminuito del 4,7% (5) e con il diffondersi della povertà in ampi strati della popolazione, anche a causa di una continua redistribuzione della ricchezza verso l’alto, pare ovvio che a un numero crescente di italiani non possa sfuggire quale sia la reale condizione del nostro Paese.

D’altronde, sarebbe difficile mettere in dubbio i vantaggi che l’euro ha arrecato alla Germania, la quale, grazie ad una politica (che alcuni hanno definito “clandestina” o anche “beggar the neighbour”, ossia “frega il tuo vicino”) incentrata sulle riforme del lavoro firmate da Peter Hartz (già capo del personale della Volkswagen), ha “esportato” tra i quattro e cinque milioni di disoccupati nei Paesi più “deboli” dell’Eurozona e incrementato enormemente il surplus della propria bilancia commerciale. In sostanza, fruendo di un cambio favorevole (l’euro di fatto è un “marco leggero”) e aumentando i profitti delle imprese a scapito del reddito dei lavoratori, la Germania, dopo l’inizio della crisi, ha triplicato il saldo positivo della bilancia commerciale con l’Italia, la Francia e la Spagna, che è passato dall’8,44% alla cifra stratosferica del 26,03%.

Un costo pagato anche da molti tedeschi, dato che il 10% della popolazione tedesca possiede il 53% della ricchezza nazionale (cresciuta tra il 2001 e il 2012 di circa 1400 miliardi di euro), mentre i “mini jobs”, contratti iperflessibili da circa 20 ore settimanali con uno stipendio di 450 euro netti, ormai riguardano 7,3 milioni di persone (il 70% delle quali non ha alcun altro reddito). (6) Eppure in Germania – in cui comunque vi è ancora uno Stato sociale tutt’altro che insignificante o inefficiente (non si deve dimenticare che la Germania ha potuto fare certe scelte partendo da posizioni di altissimo livello per quanto concerne la politica sociale) – è ampiamente diffusa dai media (che possono far leva su alcuni noti pregiudizi che caratterizzano la cultura tedesca) la concezione secondo cui i sacrifici dei tedeschi dipenderebbero dai danni compiuti delle “cicale” mediterranee. Un quadro ben distante dalla realtà, nonostante non si possano ignorare le gravi responsabilità delle classi dirigenti dell’Europa del sud.

Tra l’altro non è nemmeno vero che gli europei con l’introduzione dell’euro starebbero meglio o che la Germania sia la locomotiva d’Europa. Come scrive Bagnai, i dati provano che l’Eurozona si sta rivelando una sorta di gioco a somma zero in cui la Germania tira da una parte e gli altri da quella opposta. Inevitabile quindi ritenere che «la leadership tedesca abbia portato il nostro subcontinente alla catastrofe, allontanandoci in modo persistente e, nel prossimo futuro, irreversibile, dal tenore di vita dei paesi avanzati ai quali avremmo la legittima aspettativa di appartenere». (7)

Tuttavia, quel che più rileva non è tanto la valutazione dei costi economici e sociali derivanti dall’introduzione dell’euro quanto piuttosto il fatto che non è possibile porre rimedio agli squilibri che si sono generati nell’Eurozona finché si continuerà a difendere la moneta unica europea. Al riguardo, si deve tener presente che il “federalismo europeo” (“bandiera” di quegli europeisti che non sanno neppure distinguere l’Europa dall’Eurozona), oltre ai problemi politici che presenta (com’è noto un buon numero di Paesi dell’Ue, tra cui la Gran Bretagna, la Danimarca, la Svezia e la Polonia, non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla propria sovranità nazionale – ma in realtà ciò vale anche per la Francia e la stessa Germania), implicherebbe un gigantesco trasferimento di ricchezza dall’Europa del nord a quella del sud. E la Germania dovrebbe sopportare il 90 % del finanziamento di questa operazione, equivalente a circa 230 miliardi di ​​euro all’anno (circa 2.300 miliardi in dieci anni), ossia tra l’8 % e il 9 % del suo Pil (altre stime arrivano perfino al 12,7 % del suo Pil). Chiunque può pertanto rendersi conto che sarebbe assai più facile che un cammello passasse attraverso la cruna di un ago.

Logico dunque che Jacques Sapir ritenga inevitabile l’abbandono della moneta unica europea e che, dopo aver preso in esame i possibili scenari che possono derivare dalla fine di Eurolandia, concluda: «Lo scioglimento dell’euro, in queste condizioni, non segnerebbe la fine dell’Europa, come si pretende, ma al contrario la sua rimonta nell’economia globale, e per di più una rimonta da cui potrebbero trarre beneficio in maniera massiccia, sia per la crescita che la nascita nel tempo di uno strumento di riserva, i paesi in via di sviluppo dell’Asia e dell’Africa». (8)

Considerazioni e conclusioni – quelle di Sapir e Bagnai – che nella sostanza, a nostro giudizio, non si possono non condividere, anche perché fondate su analisi rigorose, nonché sull’ovvia constatazione che una moneta senza uno Stato è nel migliore dei casi un’assurdità (si badi che buona parte degli economisti che oggi difendono l’euro a spada tratta prima dell’introduzione dell’euro erano decisamente contrari alla moneta unica europea), così com’è assurdo pensare che sia possibile costruire il “federalismo europeo” tramite scelte politiche ed economiche del tutto contrarie agli interessi “reali” di chi dovrebbe compierle. E se ciò non bastasse si potrebbe pure ricordare che senza un “federalismo europeo” nulla o quasi si potrebbe fare contro la “speculazione finanziaria”.

Nondimeno, è palese che non è sufficiente, per comprendere la crisi di Eurolandia, considerare solo le questioni attinenti all’economia e alla finanza. Come spiegare altrimenti il fatto che una classe dirigente come quella italiana non cerchi in alcun modo di contrastare ma anzi favorisca una politica che sta devastando il nostro Paese? Per quale motivo cioè i nostri politici o meglio quei membri della nostra classe dirigente – politici o tecnocrati che siano – che tirano effettivamente le fila della politica italiana non si sono opposti né si oppongono nemmeno adesso a decisioni le cui conseguenze disastrose per l’Italia ormai sono evidenti a tutti coloro che hanno occhi per vedere? Insomma è certo che la Germania riesce a trarre il massimo profitto da una situazione geopolitica estremamente favorevole per la sua economia e che quindi l’euro è solo un aspetto, benché non marginale, del problema che si dovrebbe risolvere.

Non è certo un caso che l’introduzione dell’euro sia avvenuta il più rapidamente possibile dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione della Germania, il cui significato politico può sfuggire solo a coloro che non conoscono (o fanno finta di non conoscere) gli ultimi centocinquanta anni della storia europea. In definitiva, è lecito affermare che la soluzione della “questione tedesca” era e rimane ancora il principale obiettivo dei “circoli euroatlantisti”, i quali non potrebbero tollerare che Eurolandia si sfasci e la Germania venga tentata – anche solo seguendo delle “direttrici geoeconomiche” – di “sbilanciarsi” dalla parte dei Brics (soprattutto in una fase storica in cui l’America, oltre ad avere serie difficoltà economiche, sembra priva di “iniziativa strategica” e incapace di contrastare con successo la crescita di altre potenze o di altri “poli geopolitici”, che cominciano pure a “fare pressione” per una radicale ridefinizione degli equilibri mondiali).

Da qui la necessità, secondo le “direttive strategiche” d’oltreoceano, per la classe dirigente italiana – che a partire dagli anni Novanta ha consapevolmente scelto di “liquidare” il patrimonio strategico nazionale a vantaggio dei “mercati” – di contribuire a qualsiasi costo alla soluzione della “questione tedesca”. E il compito fondamentale dell’Italia, secondo gli “strateghi euroatlantisti” consiste proprio nel favorire il più possibile la Germania (onde “saldarla” all’Atlantico), cedendo la propria sovranità non all’Europa (come invece molti intellettuali e giornalisti italiani affermano, scagliandosi contro gli italiani “brutti, sporchi e cattivi” ma “ignorando” che per milioni di italiani è un problema perfino, come si suol dire, mettere il pranzo insieme con la cena o che parecchie scuole non solo hanno”lesioni strutturali” ma hanno perfino problemi per acquistare la carta igienica), bensì ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce (la cui vera funzione non è un mistero per nessuno, tanto è vero che non occorre precisare a quali poteri la Bce debba rispondere).

Peraltro, si deve tener presente che non si tratta solo di “tradimento” del proprio Paese da parte della nostra classe dirigente (o almeno dei suoi membri più importanti), dato che quest’ultima condivide valori e stili di vita che la portano ad anteporre il cosiddetto ”mondo occidentale” all’Italia (problema estremamente serio se si considera pure l’americanizzazione della nostra società, in specie delle nuove generazioni). Inoltre la nostra classe dirigente e, in generale, le classi sociali più abbienti sono perfettamente consapevoli che mettere in discussione l’euro, rebus sic stantibus, comporterebbe anche mettere in discussione quei meccanismi di redistribuzione della ricchezza e quella “riforma” dello Stato sociale in base ai quali sarebbe assai poco significativa per le fasce sociali più deboli (ceti medio-bassi inclusi) perfino una crescita del Pil (che in ogni caso sarebbe assai modesta).

Ma appunto per questo l’euro costituisce quell’anello debole su cui bisognerebbe premere per poter spezzare la “catena geopolitica” che lega il nostro Paese a scelte e decisioni strategiche del tutto opposte a quelle che si dovrebbero prendere se si avesse veramente di mira l’interesse dell’Italia (e di conseguenza della stragrande maggioranza degli italiani), mentre continuando di questo passo tra qualche anno si rischia di non poter nemmeno più difendere alcuna sovranità nazionale, semplicemente perché con ogni probabilità non vi sarà più alcuno Stato italiano, ma solo un territorio deindustrializzato, utile come riserva di manodopera qualificata a basso costo.

E’ indubbio allora che prendere posizione contro l’Eurozona e le misure d’austerità imposte dalla Bce e dai tecnocrati di Bruxelles (indipendentemente dalla questione se sia meglio optare per due euro o tornare alla lira o scegliere altre soluzioni) sia essenziale per recuperare quella sovranità che è il presupposto necessario di ogni autentica politica (antiatlantista) che abbia come scopo quello di sottrarre lo Stato alla morsa dei “mercati”. Questo però è possibile – vale la pena di rimarcarlo – solo a patto che non si perdano di vista i reali rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Ue e si comprenda qual è la vera posta in gioco sotto il profilo geopolitico e geoeconomico, tanto più adesso che in Europa si sta facendo strada la proposta statunitense di creare un “mercato transatlantico”, che renderebbe impossibile una autentica unione politica europea, trasformando l’intera Europa in una “appendice occidentale” degli Usa – ad ulteriore conferma del ruolo determinante del “politico” se non lo si intende come sinonimo di “politica” ma (correttamente) come strategia per la soluzione dei conflitti tra diversi attori (geo)politici e/o sociali.

Si può pertanto ritenere che l’attuale crisi politica italiana possa influire ben poco sulle sorti del nostro Paese, mentre decisivo sarebbe sfruttare la (probabile) fine dell’era (anti)berlusconiana, mettendo da parte lo spirito di fazione, al fine di dar vita ad una nuova forza politica di tipo “nazional-popolare” (che tenga conto cioè anche dei codici culturali ancora, nonostante tutto, condivisi da non pochi italiani), il cui compito principale dovrebbe essere quello di impedire il declino dell’Italia (le cui conseguenze sarebbero gravissime, in primo luogo, proprio per i ceti popolari e medio-bassi). In quest’ottica si dovrebbero cercare collegamenti con altre forze politiche europee, anch’esse interessate ad un rifondazione dell’Europa che non implichi la dissoluzione della identità nazionale nel “mercato globale”, ossia evitando gli eccessi del nazionalismo e di qualsiasi forma di narcisismo identitario, e promuovendo invece sia la nascita di un “polo geopolitico e geoeconomico mediterraneo” distinto da (non opposto a) un “polo baltico” sia una alternativa alle dissennate politiche liberiste. Certo oggi la politica italiana non offre nulla di questo genere, ma una volta che si sia compresa la necessità di difendere le ragioni del cosiddetto “sovranismo” (che pure Jacques Sapir difende) non dovrebbe essere particolarmente arduo poter valutare e giudicare la situazione politica italiana ed europea sulla base di una coerente e “corretta” visione geopolitica, senza lasciarsi fuorviare da “ottusi” schemi concettuali economicistici.











1)http://www.sinistrainrete.info/europa/3054-jacques-sapir-lo-scioglimento-delleuro-unidea-che-si-imporra-nei-fatti.html

2)http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/09/24/Industria-rapporto-Ue-Italia-calo-20-2007_9354164.html

3) http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/associata/2013/10/01/Disoccupazione-giovani-balza-40-1-record-storico-_9387536.html

4)http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/05/04/tasse-Italia-piu-alte-Ue-ma-gap-servizi-Paesi-scandinavi_8652137.html

5)http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/10/03/picco-potere-acquisto-famiglie_9399768.html

6)http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/09/23/germania-ricchezza-dai-lavoratori-alle-imprese-cosi-nasce-locomotiva/717973/

7)http://goofynomics.blogspot.it/2013/09/gli-europei-stanno-meglio.html

8) Vedi nota 1.


martedì 17 settembre 2013

GEOPOLITICA DELLE LINGUE, "EURASIA" 3/2013



GEOFILOSOFIA


IMMAGINAZIONE GEOFILOSOFICA E REALISMO GEOPOLITICO di Fabio Falchi

È merito dell’epistemologia postpositivistica avere dimostrato che non vi è un’unica descrizione scientifica del mondo cui tutte le altre descrizioni della realtà possano essere “ridotte”. La metafora e il simbolo, lungi dal contrapporsi al linguaggio della conoscenza scientifica, si devono invece considerare come manifestazione di alcuni aspetti irriducibili, benché “relazionali”, dell’essere. Ne deriva quindi la possibilità di rivalutare l’immaginazione, in quanto definita da una posizione mediana e mediatrice tra intelligibile e sensibile, ovvero la possibilità di “pensare per immagini”, ma senza perdere il contatto con la realtà, in virtù di un linguaggio “fondativo” che permetta un radicamento nella terra in cui si “dimora” e di convivere con l’Altro secondo “comuni differenze”.






http://www.eurasia-rivista.org/la-geopolitica-delle-lingue-3/20028/




sabato 27 luglio 2013

SOVRANITA' NAZIONALE E CRISI ECONOMICA





Il debito pubblico italiano, nonostante la “cura Monti”, il “commissario tecnico” imposto al nostro Paese dai “mercati” e dalla Bce, “vola” ormai oltre il 130% del Pil, che quest'anno dovrebbe diminuire dell'1,9%. Ovvio pertanto che Standard & Poor's abbia abbassato pochi giorni fa il rating di lungo termine dell'Italia, da BBB+ a BBB, con outlook negativo. Il che ha indotto il ministro dell'Economia e delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, ad affermare che per ridurre il debito pubblico il Tesoro potrebbe decidere di vendere quote di società pubbliche - incluse Eni, Enel e Finmeccanica - o usare gli asset come collaterali. «Queste società - ha detto Saccomanni, che si trovava a Mosca per il G20 dei ministri finanziari - sono profittevoli e danno dividendi al Tesoro, quindi dobbiamo considerare anche la possibilità di utilizzarle come collaterale per gli schemi di riduzione del debito pubblico su cui stiamo ragionando. Ci sono una serie di ipotesi che stiamo prendendo in considerazione». (1) Come a dire che sarebbe necessario tagliarsi le gambe per poter correre più velocemente! Subito dopo è arrivata la solita smentita, che fa temere che la decisione di vendere sia stata già presa. Evidentemente non ha insegnato nulla la vendita delle nostre principali imprese pubbliche negli anni Novanta – anche allora motivata con la necessità di ridurre il debito pubblico, ma con i risultati disastrosi noti a chiunque – , tanto che Saccomanni, sempre secondo “Il Sole 24 Ore”, ha sostenuto che la vendita di quote delle nostre ultime imprese strategiche sarebbe «una delle nostre iniziative strategiche chiave»(sic!) per ridurre il debito e favorire la crescita.

Orbene, sia o non sia credibile la smentita di Saccomanni, non solo ormai si sa che il problema del debito pubblico dipende in gran parte dal fatto che non vi è alcuna “unione politica europea” (è palese infatti che l'andamento dello spread dipenda in gran parte dalla debolezza e dal rischio di disintegrazione di Eurolandia), ma che tale problema è diventato ancora più grave con l'introduzione dell'euro, in quanto la moneta europea ha enormemente accentuato gli squilibri tra il Nord e il Sud dell'Europa – squilibri, tra l'altro, che le stesse politiche di austerity non riducono ma accrescono. Non meraviglia affatto quindi che il presidente della Svimez, Adriano Giannola, abbia dichiarato: «Noi calcoliamo che nel 2013 ci sarà una caduta del prodotto interno lordo di circa il 2% e il Sud rischia di continuare ad esser più rapido in questa caduta con circa il 2,5%, quasi il 3% se va bene. Stiamo strutturalmente messi peggio rispetto a come ci raccontano. Molto peggio. Non si capisce che noi stiamo precipitando senza paracadute se si continua di questo passo. In meno di 10 anni, in questi ultimi due-tre anni, gli investimenti industriali sono caduti del 50% [e] un Paese che distrugge la base produttiva non ha destini rosei all'orizzonte». (2)

Facile quindi capire quali potrebbero essere le conseguenze derivanti dalle “iniziative strategiche” di Saccomanni e dei suoi colleghi di governo. Più difficile credere che nessuno di loro comprenda qual è la reale situazione in cui si trova l'Italia, che rischia di trasformarsi in un Paese “in via di sottosviluppo”, cedendo continuamente “quote di sovranità” non all'Europa, ma ai tecnocrati di Bruxelles e alla Bce. Ossia a dei centri di potere che tutelano determinati interessi, che non sono certo quelli della stragrande maggioranza degli italiani. Peraltro, prendendo in considerazione le “scelte strategiche” della nostra classe dirigente in questi ultimi due decenni, Roberto Buffagni ha giustamente ricordato che, pur con tutti i difetti e i limiti che aveva, la classe dirigente della Prima Repubblica «nel contesto di Yalta, cercava comunque di conservare un margine di sovranità (e infatti aveva, per esempio, una politica mediterranea rispondente agli interessi nazionali); e disponeva di strumenti di politica economica e monetaria. Poi, certo, faceva la cresta sulla spesa: però la spesa la portava a casa. Dopo il lancio delle monetine e la moralizzazione della vita politica nazionale, abbiamo un'Italia a) più debole b) più asservita a potenze straniere c) più corrotta d) più povera e) più oligarchica: e che dopo aver svenduto, nel corso di Mani Pulite, buona parte delle industrie pubbliche italiane, si prepara adesso, in questa operazione Mani Pulite 2, a svendere anche l'Eni». (3)

Posizioni non dissimili da quelle di Gianfranco La Grassa (uno dei primi, se non addirittura il primo insieme con Costanzo Preve, a “svelare” il significato politico di Mani Pulite, che Buffagni definisce «una delle operazioni più sporche dell'intera storia italiana» - ,(4) il quale nel 2009 scriveva che la sinistra «non farebbe un metro, sarebbe già stata distrutta dal “crollo del muro”, se dietro non ci fosse (fin dal 1992-93) una finanza di emeriti parassiti (come ricordo spesso: weimariana, cioè testa di ponte della finanza e politica statunitense) e l’industria decotta tipo Fiat, che dovrebbe essere fallita da anni, ma sopravvive appunto come i parassiti, dandosi agli Usa e adattandosi alle loro vecchie e nuove strategie di predominio». (5) E a La Grassa si deve pure il merito di aver elaborato un impianto teorico assai flessibile, che può essere sviluppato in diverse direzioni, ma che offre alcune delle chiavi strategiche essenziali per comprendere i processi reali che “regolano” i conflitti sociali, economici e (geo)politici in una fase storica contraddistinta dal declino relativo della potenza capitalistica predominante, vale a dire una fase storica contrassegnata dalla fine dell'unipolarismo statunitense e dalla nascita di un sistema che tende ad evolversi “in senso multipolare” (benché si debba ammettere che si è ben lungi dal poter impedire quella geopolitica del caos su cui si basa tuttora la strategia statunitense). Si tratta di un mutamento geopolitico fondamentale (successivo – non lo si deve dimenticare - a due eventi epocali come la disintegrazione dell'Unione Sovietica e la riunificazione della Germania) e che si deve sempre tener presente, se non ci si vuole limitare a vedere i singoli alberi senza vedere il bosco.

E' necessario dunque abbandonare definitivamente qualsiasi ottica di tipo economicistico, secondo la lezione di La Grassa che ha messo in luce la funzione eminentemente politica dell'economico, altrimenti le scelte e i comportamenti della “classe politica” italiana risultano del tutto incomprensibili. D'altra parte, è la totale subordinazione del nostro Paese alla volontà d'oltreoceano a dimostrare che l'interesse principale della nostra classe dirigente è quello di salvare sé stessa (nonché i ceti sociali più abbienti che rappresenta), sacrificando ogni interesse nazionale per garantire l'obiettivo principale dei circoli atlantisti, che ovviamente consiste nel saldare la Germania all'Atlantico evitando al tempo stesso sia che si possa formare un autentico polo geopolitico europeo sia che i Paesi dell'Europa meridionale possano cercare di riguadagnare la propria sovranità (in primo luogo geostrategica e geoeconomica). Sotto questo aspetto, trova pure la sua ragion d'essere la proposta di creare un mercato transatlantico, che consentirebbe agli Stati Uniti di non perdere la “posizione dominante” confrontandosi con un molteplicità di appetiti, egoismi e interessi in contrasto tra di loro. Una proposta che è pure inconciliabile con quei luoghi comuni della peggiore retorica “europeista” con cui politici e giornalisti “embedded” cercano di giustificare la cancellazione dei diritti sociali ed economici di decine di milioni di europei. Comunque sia, al di là dei dubbi e certamente “minori” vantaggi economici (perlomeno per i Paesi europei più deboli), è logico che un siffatto mercato sarebbe fondato sulla supremazia del diritto statunitense, come prova il “caso Snowden” che dovrebbe chiarire anche ai sordi e ai ciechi quali sono gli effettivi rapporti di forza tra gli Stati Uniti e i Paesi dell'Unione Europea.

Con tutto ciò, non si deve giustificare nessuna visione semplicistica delle relazioni politiche tra i Paesi europei e gli Stati Uniti. Non è questione né di complotti né necessariamente di operazioni colorate. D'altronde, non pare nemmeno che sia necessario. Basta pensare alla vicenda grottesca degli F-35 (voluti ad “ogni costo”, trascurando non solo che il know-how di questi aerei, che non servono alla difesa nazionale, rimarrà saldamente nelle mani degli angloamericani, ma che l'Italia partecipa alla produzione dell'Eurofighter, un caccia europeo in grado di svolgere anche il ruolo di cacciabombardiere - ma si sa che l'Europa per la stragrande maggioranza dei nostri politici e giornalisti è solo un'appendice degli Stati Uniti) (6) o a quella dell'ex capocentro della Cia a Milano, Robert Seldom Lady (condannato dalla magistratura italiana per il rapimento di Abu Omar, ma già al sicuro negli Stati Uniti).

Due vicende che gettano ulteriore luce (casomai fosse necessario) sul grado di asservimento dell'Italia agli interessi d'oltreoceano, benché in qualche modo entrambe le vicende siano già state “coperte” dal “caso Ablyazov”. Al riguardo, quasi a confermare quel disordine mentale e quella “deriva intellettiva” che caratterizzano il nostro Paese, (7) è significativo che il parlamentare pentastellato Alessandro Di Battista abbia scritto: «Ho avuto negli ultimi giorni diversi incontri privati con numerosi Ambasciatori. Tutti quanti ragazzi, tutti quanti, mi hanno sollevato la questione kazaka [...] Se non ci fossimo noi (parlo di cittadini a 5 stelle, non solo di deputati e senatori) chi svelerebbe queste porcate? Chi avrebbe il coraggio di definire Paolo Scaroni, il padrone dell’Eni, il “vero ministro degli Esteri”?[…] Chi avrebbe il coraggio di dire la verità, di dire che da Paese a sovranità limitata nei confronti degli Usa ci stiamo trasformando, contemporaneamente, a Paese a sovranità limitata nei confronti della Russia?» (8) A parte il riferimento alla Russia anziché al Kazakistan, vi è da chiedersi non solo se Di Battista viva in Italia, in cui vi sono decine di basi militari statunitensi, ma come sia possibile che, indipendentemente dalla questione del “dissidente” kazako (in realtà un oligarca ricercato per gravissimi reati finanziari e con rapporti tutt'altro che chiari con i servizi inglesi e italiani), un parlamentare italiano ignori (o faccia finta di ignorare) il significato dei termini che usa (dato che definire l'Italia «Paese a sovranità limitata nei confronti della Russia» equivale a sostenere che in Sicilia nel 1943 e in Normandia nel 1944 sbarcarono non gli angloamericani ma i sovietici travestiti da angloamericani), senza neppure che ciò susciti alcuna reazione da parte degli altri parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Ma ancora più grave forse è il riferimento all'Eni, che mostra quale assurda idea della nostra sovranità e della nostra economia abbiano il “cittadino” Di Battista e la maggior parte dei pentastellati.

A questo proposito, può essere interessante ricordare che il Kazakistan non è una “dittatura” (termine con cui i media mainstream designano qualsiasi sistema politico diverso da quello angloamericano), ma un Paese in via di sviluppo, che ha pure dovuto far fronte ai terribili problemi derivanti dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica. Nondimeno, il Kazakistan sta conoscendo tassi di crescita elevati (circa il 5%) e presenta un tasso di disoccupazione del 5,3%, cioè ben inferiore al tasso di disoccupazione a due cifre degli anni Novanta. Per quanto concerne invece la situazione politica di questo Paese, è da notare che nel gennaio 2012 il partito Nur Otan (il partito di Nazarbayev) ha nuovamente vinto le elezioni con l'80,7% dei voti (conquistando 83 seggi). Altre due formazioni politiche hanno superato lo sbarramento del 7%: Ak Zhol (partito della destra liberale), che con il 7,47% ha ottenuto 8 seggi ed il Partito Comunista del Popolo, che con il 7,19% ha ottenuto 7 seggi. L'Osce (che rappresenta gli interessi della Nato) ha denunciato alcune irregolarità, mentre gli osservatori della Csi hanno confermato la correttezza delle consultazioni elettorali. In definitiva, nulla di nuovo sotto il sole e gioco delle parti rispettato. Quello che però non si deve assolutamente ignorare è il fatto che il Kazakistan è una pedina fondamentale dell'Unione Eurasiatica e della Sco (Shanghai Cooperation Organisation), nonché “perno geografico” di quella zona dell'Eurasia che il geopolitico britannico Halford Mackinder definisce Heartland, il “cuore della terra”. Ma non è un mistero che il futuro della geopolitica energetica mondiale passa lungo la direttrice Russia-Kazakistan-Cina Se poi si tiene conto che i rapporti con il Kazakistan sono comunque essenziali per il nostro interesse nazionale, non è difficile intuire quali fossero gli ambasciatori preoccupati per i “diritti umani” della moglie del “dissidente” kazako (qui, sia chiaro, non ci interessa entrare nel merito di questo ennesimo “pasticciaccio all'italiana”, ci preme invece solo rilevare come viene trattato un “caso” così delicato per l'interesse nazionale, ossia in modo tale da offrire persino una immagine totalmente deformata della realtà pur di difendere sé stessi o, peggio, pur di danneggiare l'Eni e di conseguenza - piaccia o non piaccia, se ne sia consapevoli o no - gli stessi interessi del nostro Paese). (9)

Lo scopo di queste brevi considerazioni sulla “colonia Italia” e sui rapporti tra il nostro Paese e il Kazakistan, come si sarà capito, è soprattutto quello di mettere in evidenza come la crisi economica che minaccia di ridurre, mutatis mutandis, la Penisola come la città di Detroit (simbolo del “fordismo” - cioè di un modello di sviluppo obsoleto, incentrato sul settore automobilistico - e perciò anche di quello che può accadere ad un Paese industrializzato se non è in grado di affrontare con intelligenza strategica le difficili sfide della ”globalizzazione”, passando dal “centro” alla “periferia” del sistema produttivo mondiale) sia inseparabile dalla questione della sovranità in un'epoca che sarebbe forse meglio definire come l'epoca della complessità (geopolitica e geoeconomica). Non a caso, sono proprio gli economisti non “embedded”, ossia che non sono disposti a seguire pedissequamente gli schemi ideologici del politicamente corretto, a sottolineare l'importanza decisiva della sovranità per porre rimedio ai drammatici squilibri che caratterizzano Eurolandia. A tale proposito scrive Jacques Sapir, uno dei critici più intelligenti e seri dell'Eurozona, occorre riconoscere che non vi è opposizione «tra un sovranismo “di destra” e uno “di sinistra”: non c’è che un sovranismo». E, una volta rifiutato ogni estremismo nazionalista (che è tipico di una certa destra), si deve ammettere che «la sinistra, quella vera, avrebbe tutto l’interesse a riappropriarsi della Nazione come condizione necessaria all’esistenza della democrazia e della Res Publica. Beninteso, questa Nazione non è costituita su basi etniche ed è pronta ad accogliere in sé tutti coloro che vengono a farla vivere col loro lavoro ed energia, nel rispetto di leggi alla formazione delle quali contribuiscono». (10) Insistendo sulla necessità di far valere dei “confini” e sul fatto che la sovranità nazionale è condizione indispensabile per opporsi alla “pre-potenza” dei “mercati” e di attori geopolitici e geoeconomici al di fuori di ogni controllo da parte delle istituzioni politiche nazionali, Sapir non esita ad affermare che «l’esistenza della democrazia implica la chiusura dello spazio politico e che questa chiusura implica una “frontiera”. Dire questo non implica che non abbiamo niente in comune o che ci dobbiamo disinteressare di coloro che si trovano dall’altra parte del confine, che esso delimiti un’organizzazione o un paese. Ciò però consente di attribuire un senso alla distinzione membro/non membro, di conferirgli una pertinenza e quindi, per contrapposizione, di ritenere pericolose le idee che rifiutano questa distinzione». (11)

Se il riferirsi ancora ad una “sinistra vera” ad alcuni può apparire anacronistico, è tuttavia di estrema importanza rendersi conto che il “sovranismo” non può non essere a fondamento di qualunque posizione che si contrapponga seriamente ai progetti dei tecnocrati di Bruxelles e alla dittatura dei “mercati”. Un “sovranismo” che in nessun senso però (vale la pena ribadirlo) si deve confondere con quella “mistica della nazione” che ha causato innumerevoli sofferenze e immani disastri in Europa, ma che invece è il presupposto necessario di un autentico sistema policentrico, che non può non essere basato sul diritto alla differenza e sulla necessità di una cooperazione strategica tra diversi poli geopolitici. Ciononostante, si deve pur essere consapevoli che è inevitabile che non vi sia “equilibrio” che non sia in funzione di determinati interessi. Si tratta quindi di sapere quali sono gli interessi che si vogliono tutelare, perché li si deve tutelare, contro chi li si deve tutelare e come li si deve tutelare. E questo prova non solo che è proprio la molteplicità “irriducibile” degli interessi contrapposti che rende necessaria la funzione politica (e di conseguenza che vi è differenza tra razionalità strategica e razionalità strumentale, intesa come mero calcolo dei mezzi più “economici” per il raggiungimento di un determinato fine), ma anche e soprattutto che “dietro” l'apparente neutralità delle scelte dei “tecnici” vi è necessariamente una precisa “volontà di potenza”(e quella cui la Bce deve “rendere conto” non può certamente essere quella dell'Europa).

Battersi per la sovranità nazionale significa allora cercare, innanzi tutto, di restituire lo “scettro al principe”, e sotto questo aspetto il riferimento di Sapir alla democrazia e alla Res Publica sarà pure retorico ma oggi più che mai ci sembra utile e prezioso. In quest'ottica, la stessa Unione Europea dovrebbe configurarsi in modo nuovo, non essendo più possibile prescindere da una ridefinizione politico-strategica (e quindi economica) delle istituzioni europee, ossia da una rivalutazione di quelle aree geopolitiche e geoeconomiche (baltica, danubiana e mediterranea) che sono parti costitutive dell'Europa, in quanto ciascuna di esse è caratterizzata da specifici fattori culturali ed economici. (12) Certo comprendere l'importanza decisiva della questione della sovranità di per sé non basta per trasformare la realtà politica ed economica dell'Europa. Eppure è logico che fare chiarezza su tale questione dovrebbe almeno permettere di sapere su quale base è possibile costruire una (seria) alternativa all'euroatlantismo e di evitare di fidarsi di coloro che sul “sovranismo” mostrano di avere le idee confuse, anche perché, com'è noto, la strada che porta all'inferno è lastricata di buone intenzioni. Vi sarebbe invece bisogno di un'etica della responsabilità, che tenesse conto delle conseguenze delle nostre azioni, e di elaborare una razionalità strategica “adeguata” alle sfide del nostro tempo. Del resto, che la stessa crisi economica vada interpretata alla luce dei conflitti geopolitici (e sociali) dovrebbe essere pacifico una volta che ci si sia sbarazzati di “incapacitanti” schemi concettuali economicistici e si sia preso atto che la questione della sovranità nazionale è decisiva anche sotto il profilo economico, sempre che il “sovranismo” venga inteso correttamente, ovvero secondo una prospettiva multipolare fondata su un “equilibrato” realismo geopolitico.



4) Ibidem.
6) Scrive un esperto come Gianandrea Gaiani, non sospettabile di nutrire “antipatie” per il mondo occidentale, che «forze aeree ben più ricche come quella francese e tedesca disporranno di un solo velivolo da combattimento (il Rafale in Francia e il Typhoon in Germania) impiegati sia come caccia sia per l’attacco al suolo. Il programma Typhoon, che all’Italia costa anche quest’anno oltre un miliardo di euro, sta subendo tagli consistenti per liberare risorse da destinare all’F-35. [...]. Il paradosso è quindi che rinunceremo a un cacciabombardiere europeo del quale abbiamo già pagato i costi di sviluppo e produzione per prenderne uno americano il cui sviluppo è ancora tecnologicamente immaturo e i cui costi continuano a crescere» (http://www.analisidifesa.it/2013/07/f-35-chi-ha-paura-di-metterci-la-faccia/). Nettamente contrario all'acquisto degli F35 è pure Fulvio Gagliardi - un generale dell'aeronautica militare, ma non più in servizio e anche questo significa “qualcosa” se si considera quali sono i “centri di potere” a cui i nostri vertici militari, di fatto, “devono rispondere” (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/16/f35-aereo-di-attacco-non-ne-abbiamo-bisogno-ex-generale-raccoglie-firme-online/656308/).
8) Si tratta di un post pubblicato su facebook.
9) Sul Kazakistan, si veda Il perno geografica della storia,“Eurasia”, 3/2012 (numero dedicato appunto al Kazakistan), nonché il volume di Andrea Fais, L’aquila della steppa. Volti e prospettive del Kazakistan, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2012. Sull'Heartland si veda il nuovo libro di Alessandro Lattanzio, Heartland. Energia e politica nell'Eurasia del XXI secolo, Anteo, Cavriago (Re), 2013 Per quanto riguarda quest'ultimo “pasticciaccio all'italiana” (naturalmente l'intera vicenda avrebbe un significato assai diverso se fosse stato espulso Ablyazov, anziché sua moglie e sua figlia) si veda anche il recente comunicato dell'ambasciata del Kazakistan in Italia, http://www.eurasia-rivista.org/informazione-del-ministero-degli-affari-esteri-della-repubblica-del-kazakhstan/19880/.
11) Ibidem.
12) Su questo punto insiste a ragione Bruno Amoroso, di cui vedi Europa e Mediterraneo. Le sfide del futuro, Dedalo, Bari, 2000.

martedì 4 giugno 2013

IL "FILM GEOPOLITICO" DELLA CRISI

A differenza di molti commentatori, interessati in particolar modo ad evidenziare gli squilibri del sistema finanziario internazionale per comprendere l’attuale crisi del capitalismo occidentale, noi abbiamo sempre cercato di comprendere tali squilibri alla luce del conflitto geopolitico. Per questo motivo, siamo convinti che anche un libro, indubbiamente utile e prezioso, come Il film della crisi, di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, (1) non colga appieno il significato di quella mutazione del capitalismo che Luciano Gallino definisce come “finanzcapitalismo”. (2) Ovverosia quell’enorme espansione del capitalismo finanziario, favorita dalla deregolamentazione dei movimenti internazionali dei capitali che si iniziò negli anni Ottanta con la Thatcher e Reagan e che portò, nel 1999, all’abolizione della legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, da parte dell’amministrazione Clinton.

Vero che anche Ruffolo e Sylos Labini hanno ben presente l’importanza dalla controffensiva capitalistica sferrata dalla “élite del potere” statunitense allo scopo di porre rimedio al declino dell’economia americana. Una controffensiva che segna la fine dell’Età dell’Oro (espressione che Ruffolo e Sylos Labini riprendono dallo storico Eric Hobswam e che designa il periodo compreso tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e i primi anni Settanta) e l’avvio di una nuova fase storica, che Ruffolo e Sylos Labini denominano l’Età del Capitalismo Finanziario e che potrebbe portare ad una nuova Età dei Torbidi (la prima essendo il periodo compreso tra l’inizio del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale). Nondimeno, in questo “film della crisi”, rimangono quasi del tutto “fuori campo” non solo le ragioni della lotta politica del capitalismo occidentale “a guida” statunitense contro il socialismo sovietico (e ancora prima contro la Germania nazionalsocialista – la cui sconfitta, insieme a quella del Giappone, permise agli Stati Uniti di liquidare definitivamente la potenza inglese e di diventare, di fatto, i padroni del mondo dal punto di vista economico), ma anche e soprattutto quelle strategie politico-militari ed economiche tramite le quali gli Stati Uniti, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, hanno cercato (e continuano a cercare) di realizzare il loro disegno di dominio globale. In altri termini, ci sembra che Ruffolo e Sylos Labini, nel prendere in esame il processo di globalizzazione, non tengano sufficientemente conto delle ragioni geopolitiche del “soggetto” che globalizza.

L’alleanza medesima tra capitalismo e democrazia liberale che avrebbe contraddistinto gli anni dell’Età dell’Oro, in effetti, non pare comprensibile senza tener conto della necessità per gli Stati Uniti, nel secondo dopoguerra, di piantare stabilmente le tende in Europa onde mantenere salda la “presa” sull’intera aerea occidentale. Né fu certo per generosità che gli Stati Uniti si impegnarono in un programma di aiuti economici ai Paesi europei, ma naturalmente per interesse politico ed economico, dacché la domanda interna non poteva da sola “alimentare” il gigantesco sistema produttivo statunitense. La ripresa dell’Europa, anche se non v’è alcun dubbio che sia stata favorita dagli Stati Uniti, dipese da vari fattori (e non si deve nemmeno dimenticare che ebbe a trarre notevole vantaggio sia dalla guerra di Corea sia dalla creazione della Ceca, ossia la “Comunità europea del carbone e dell’acciaio”), compresa una situazione internazionale che vedeva gli Stati Uniti svolgere la funzione di “centro regolatore” dell’economia mondiale, come si era stabilito, nell’estate del 1944, a Bretton Woods, ove, com’è noto, si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale che riservava agli Stati Uniti sia la funzione politico-strategica sia quella economico-finanziaria. Agli Stati Uniti si riconosceva cioè una funzione di indirizzo e di controllo dell’intera vita politica ed economica dell’Occidente, anche per garantire l’istituzionalizzazione del conflitto sociale e impedire così la crescita di movimenti rivoluzionari, comunisti e socialisti, in specie nell’Europa Occidentale.

D’altra parte è significativo (pur dovendo tener presenti tutti i distinguo, le varianti e le sottovarianti possibili) che l’alleanza tra capitalismo e democrazia liberale (che tramite il Welfare assicurò sviluppo sociale e benessere economico negli anni del secondo dopoguerra) non sia mai venuta meno, in Occidente, neanche dopo la fine dell’Età dell’Oro. E’ evidente quindi, anche sotto questo aspetto, che è semplicistico e fuorviante considerare il “finanzcapitalismo” (che pure è fenomeno di fondamentale importanza) come la “variante cattiva” del capitalismo. Invero, si dovrebbero abbandonare degli schemi concettuali basati su una visione meramente “economicistica” del capitalismo e comprendere che il sistema capitalistico (che, a nostro avviso, si fonda su quella che Karl Polanyi definisce come “società di mercato”) ha necessariamente bisogno di un “centro regolatore” per la risoluzione dei conflitti internazionali e sociali. Un ruolo svolto appunto dagli Stati Uniti a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, avvalendosi anche di organizzazioni “internazionali” (come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e così via), benché insieme con altri centri potere “subdominanti” (si pensi alla cosiddetta “Trilaterale” – Usa, Ue, o meglio l’Europa Settentrionale, e  Giappone – ma anche alle particolari relazioni tra gli Usa e Israele e tra gli Usa e le petromonarchie del Golfo). Fu questa “rete di potere” che consentì agli Stati Uniti di ristrutturare l’intero sistema internazionale, grazie anche ad una innovazione strategica e tecnologica che condusse, nel giro di un decennio, alla scomparsa dell’Unione Sovietica (la cui “spinta propulsiva” si deve ritenere già esaurita, grosso modo, alla fine degli anni Cinquanta, dato che l’Unione Sovietica era pressoché del tutto dipendente dall’industria pesante – che conobbe una formidabile espansione durante la Seconda Guerra Mondiale, allorché gli americani diedero ai russi tutti quei materiali che solo un’industria leggera e una media e piccola impresa privata possono produrre con efficienza – e “soffocata” dalla burocrazia, dall’ideologia e da una nomenklatura tanto ottusa quanto dispotica). E si trattò di una innovazione che, profittando della debolezza e poi del crollo dell’Urss, portò pure ad una radicale trasformazione del modo di produzione e dei rapporti sociali, eliminando in un batter d’occhio decenni di “retorica democratica”.

E’ innegabile, del resto, che lotta per la supremazia geopolitica, crisi del Welfare e abolizione di fondamentali diritti sociali ed economici siano aspetti essenziali di un unico “processo geopolitico” teso a consolidare l’egemonia atlantista e la struttura di potere della “società di mercato” occidentale. E’ affatto logico pertanto che l’economico venga usato come un mezzo per imporre delle strategie politiche (concernenti le regole del sistema – quelle cioè in base a cui è possibile scegliere tra diverse opzioni) miranti a rafforzare la potenza statunitense come centro egemonico mondiale, in quanto unica potenza che può effettivamente tutelare gli interessi dei gruppi dominanti nei singoli Paesi occidentali. E questo ovviamente vale sia nei confronti dei ceti popolari e dei “grossi” ceti medi (che, pur se di solito definiti ceti produttivi o riflessivi, sono ceti “subalterni” sia sotto il profilo economico che sotto quello culturale), sia, sul piano internazionale, nei confronti di altre potenze, tanto più se caratterizzate da un diverso sistema politico e socio-economico.

Di conseguenza, è naturale che anche il palese fallimento del capitalismo finanziario (che, anziché garantire la crescita, ha dato origine ad una crisi economica che ha aggravato enormemente il divario tra ricchi e poveri nello stesso mondo occidentale) assuma un significato del tutto particolare. Vale a dire che la crisi seguita al fallimento della Lehman Brothers si rivela essere prima di tutto una crisi geopolitica, nel senso che è, ad un tempo, effetto della controffensiva statunitense iniziatasi nella seconda metà del secolo scorso e del fatto che tale controffensiva non ha avuto quel pieno successo che invece dopo il crollo dell’Unione Sovietica sembrava a portata di mano. E ciò non solo per l’emergere di nuove potenze, quali la Cina o l’India, per gli insuccessi degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan o per il nuovo corso “socialista” di alcuni Paesi dell’America Latina, ma anche per la politica della Russia di Putin che ha impedito che la bandiera a stelle e strisce sventolasse su  quasi tutta l’Eurasia (e si può immaginare che cosa sarebbe accaduto se gli Stati Uniti, ovvero i “mercati”, si fossero impadroniti – come stavano per fare – delle immense risorse della Russia).

Da qui la necessità di una ulteriore ridefinizione della strategia globale statunitense imperniata, sull’alleanza (indipendentemente dai rapporti, tutt’altro che chiari, tra i servizi statunitensi e al-Qaeda) tra gli Stati Uniti e le forze islamiste al soldo delle petromonarchie del Golfo, protagoniste della cosiddetta “primavera araba”, che di fatto è consistita in una serie di “operazioni colorate”, che hanno sfruttato il malcontento popolare nei confronti del regime tunisino e di quello egiziano per fare spazio a gruppi di potere ritenuti più capaci di controllare il conflitto politico e sociale in funzione degli interessi delle “forze (filo)occidentali”, nonché per liquidare nell’area mediterranea ogni ostacolo alla politica di potenza degli Stati Uniti – Siria compresa, benché il regime di Assad si stia rivelando un “osso troppo duro” per le bande islamiste, appoggiate e finanziate dalle “forze (filo)occidentali”. Peraltro, non dovrebbe nemmeno stupire che anche l’offensiva dei “mercati” contro il “ventre molle” di Eurolandia sia parte integrante di tale strategia. Un’offensiva favorita da una classe dirigente europea il cui scopo principale pare essere quello di impedire che la Germania abbia la possibilità di “allontanarsi” dall’Unione Europea – e ciò nonostante che la Germania ancora non capisca (o faccia finta di non capire) che non è (solo) per virtù propria ma soprattutto per la situazione geopolitica generale che la sua economia (e in primo luogo la sua bilancia commerciale) può crescere a danno (ma ancora per quanto tempo?) dei Paesi europei più deboli.

Comunque sia, è alla luce di questo contesto geopolitico che si deve prendere in considerazione la tesi di Ruffolo e Sylos Labyni secondo cui è necessario «il ritorno non al disegno di Bretton Woods, ma al suo progetto rivale, quello proposto nella stessa sede da John M. Keynes, non basato sull’egemonia americana e che preveda un pari responsabilità dei Paesi creditori e dei Paesi debitori». (3) Non a caso è proprio la strategia statunitense nei confronti della Gran Bretagna subito dopo la fine della Seconda Guerra mondiale (strategia che i liberali tendono a dimenticare o a sottovalutare) che conferma appieno che il sistema capitalistico sarebbe un specie di hobbesiana “guerra di tutti contro tutti” qualora non vi fosse un unico centro di potenza (altro che mercato autoregolantesi!) a regolare il conflitto sia tra (sub)dominanti che tra (sub)dominanti e dominati (per spiegarsi in termini semplici ma chiari a tutti).

L’8 maggio del 1945, infatti, gli Stati Uniti non esitarono ad interrompere, di punto in bianco, gli aiuti concessi alla Gran Bretagna (tranne gli aiuti per la guerra del Pacifico che continuarono fino al 21 agosto) in base alla legge “Affitti e Prestiti” del marzo 1941. Londra fu subito costretta ad inviare a Washington una delegazione di cui faceva parte lo stesso John M. Keynes, ma senza ottenere alcun risultato. Gli Stati Uniti erano decisi a liquidare definitivamente l’impero britannico, perfettamente consapevoli di interpretare la parte più dinamica e aggressiva del sistema capitalistico. Le condizioni durissime imposte dagli Stati Uniti per un nuovo prestito (che prevedevano tra l’altro la ratifica degli accordi di Bretton Woods e la convertibilità della sterlina entro il luglio del 1947, con conseguenze pesantissime per la bilancia dei pagamenti inglese), aggravarono considerevolmente la già precaria situazione della Gran Bretagna (impegnata pure, dopo la vittoria del laburisti, nell’estate del 1945, nella costruzione del Welfare State), tanto che, durante il terribile inverno del ’46-’47, il governo dovette perfino razionare, oltre al pane, la corrente elettrica e sospendere la pubblicazione dei settimanali. L’economia inglese in seguito riuscì lentamente a risalire la china, anche grazie al Piano Marshall, ma i costi politici dello scontro con gli Stati Uniti furono salatissimi. E il ridimensionamento della potenza inglese fu chiaro a chiunque allorché Londra prese la decisione di abbandonare la Grecia per l’impossibilità di rifornire il corpo di spedizione di 16000 soldati britannici e di appoggiare l’esercito greco contro i partigiani comunisti di Markos. (4)

Eppure sarebbe decisamente errato vedere in questo solo l’arroganza di una particolare amministrazione statunitense, anziché un modo di procedere del  tutto “normale” per la potenza capitalistica predominante. Ne è ulteriore e decisiva conferma la politica di potenza statunitense subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, che invece secondo i sostenitori dell’alleanza tra capitalismo e democrazia liberale avrebbe dovuto portare ad una sorta di sistema occidentale multipolare (mentre era proprio la presenza del “blocco sovietico” a garantire un certo margine d’azione ai singoli Stati del “blocco occidentale” ed alle forze popolari e socialdemocratiche europee). Inoltre è particolarmente significativo che, negli anni Ottanta, un obiettivo di primaria importanza per i circoli (filo)atlantisti sia stato quello di spazzare via l’ostacolo rappresentato dalla socialdemocrazia scandinava (un’operazione che probabilmente costò la vita ad Olof Palme). Al riguardo, scrive Bruno Amoroso che «tolti di mezzo gli scomodi scandinavi la campagna di destabilizzazione si estende al Regno Unito, muove verso il Sud dell’Europa, passando per la Germania e la Francia. Fatto crollare il sistema dei Paesi socialisti e dei Paesi del “terzo mondo”, che ad essi si appoggiavano, nel corso degli anni ’80-’90 venne il momento dei Paesi del Sud, l’Italia e la Spagna in particolare. Inizia cioè l’operazione “mani pulite” che consegnerà il sistema politico italiano e spagnolo [...] alle nuove strategie del capitalismo e cioè alla loro adesione acritica e servile alla globalizzazione e a una Europa “occidentalizzata”». (5)

Si tratta appunto di quella strategia imperniata sul cosiddetto “unipolarismo statunitense” e che, come si è già ricordato, è entrata in crisi in questi ultimi anni, ma che non può essere seguita da una “fase multipolare” senza che gli Stati Uniti vi si oppongano in ogni modo. A tale proposito, si dovrebbe pure nettamente distinguere la questione di un sistema internazionale multipolare da quella concernente la possibilità di dar vita ad un sistema capitalistico policentrico. Se le considerazioni fin qui svolte sono corrette, è certo possibile che si formi un “polo geopolitico alternativo” (come potrebbe essere quello dei Brics) rispetto a quello occidentale, ma non è possibile che vi sia un sistema (liberal)capitalistico policentrico. Il sistema capitalistico occidentale può tollerare che via sia un certo equilibrio geopolitico multipolare (ossia che esista anche un sistema non capitalistico, o perlomeno non liberalcapitalistico, socialista o “dirigista” che sia), almeno fino a quando non sia in grado di eliminare il “polo antagonista” (e quindi tenterà in ogni modo di creare le condizioni perché ciò sia possibile), ma non può esso stesso essere un sistema multipolare senza rischiare di essere distrutto da “lotte intestine”. In sostanza, è inevitabile che vi sia una sola potenza capitalistica predominante e che la sua “sfera di potenza” sia tendenzialmente illimitata sotto ogni punto di vista (politico, militare, economico e culturale). Sicché, non sorprende che gli Stati Uniti, in specie con la cosiddetta “geopolitica del caos”, tentino di impedire con ogni mezzo che si possa dare origine ad un autentico sistema internazionale multipolare, né che già dagli anni Ottanta la strategia statunitense fosse attenta a “riformare” gli equilibri europei, per evitare che si potesse costituire un “polo geopolitico” europeo, che necessariamente si sarebbe scontrato con gli Stati Uniti.

D’altronde, si deve tener pure presente che nessun’altra potenza rappresenta una “società di mercato” meglio di quella statunitense, che si potrebbe definire una sorta di “talassocrazia assoluta” che mira al dominio della terra, e la cui caratteristica principale consiste in una volontà di potenza che si vuole “libera” «dalla natura, dal tempo e dalla storia» (6) per esportare ovunque la “religione” dell’homo oeconomicus. Va da sé che lo stesso Warfare State, l’immenso apparato militare statunitense – che ha permesso tra l’altro di finanziare con il denaro pubblico (nella patria del liberismo!) settori strategici come il settore della tecnologia aerospaziale, quello dell’elettronica e quello dell’informatica – (7) svolge un ruolo che ha ben poco a che vedere con la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, benché indubbiamente il “sistema occidentale” preferisca agire tramite i media mainstream (di cui il “grande capitale” detiene l’effettivo controllo) e la guerra economica per destabilizzare un Paese e/o distruggerne la base produttiva. (8) Ma si tratta di “cose note” su cui non occorre insistere.

Ciò su cui è invece necessario insistere è che il secolo da poco trascorso ben difficilmente lo si può comprendere senza prendere in esame il declino della potenza inglese (cominciato alla fine dell’Ottocento), la talassocrazia europea che svolse la funzione di “centro regolatore” del sistema capitalistico mondiale fino all’ascesa della Germania e degli stessi Stati Uniti. (9) La crisi economica di fine Ottocento e quella del ’29, ciascuna seguita da una guerra mondiale, non possono non essere messe in relazione al venir meno di quell’equilibrio internazionale che poggiava sul dominio dei mari (e dei “mercati”) da parte della potenza inglese. In definitiva, come insegna Gianfranco La Grassa, si deve tener conto che, se in certe fasi storiche una parte riesce a prevalere nettamente sulle altre e si ha un certo equilibrio, vi sono sempre dei conflitti di varia intensità, sì che prima o poi si passa ad una fase fortemente conflittuale tra i diversi centri di potenza. Ma ciò vale principalmente per il sistema capitalistico, in quanto «l’accentuarsi del combattimento interdominanti […] non ha affatto come scopo il profitto bensì quello della supremazia di certi gruppi su altri, uno scopo per il quale il profitto diventa mezzo [di modo che] il profitto non è fine se non per il singolo capitalista, mero portatore soggettivo di un processo oggettivo in corso di svolgimento nel campo di battaglia, eminentemente politico». (10) Si potrebbe allora affermare che il sistema capitalistico tende ad un equilibrio in cui vi sia un “centro regolatore” dei conflitti (cioè una sola potenza predominante, poiché non si può prescindere dalla potenza politico-militare, dagli apparati coercitivi e ideologici di uno Stato). Un equilibro sempre fluido e tale che, se vien meno, è inevitabile che il sistema capitalistico tenda a ripristinarlo anche con un regolamento bellico dei conti (benché possa anche solo trattarsi di una guerra economica, i cui effetti però possono essere perfino più devastanti di una guerra vera e propria).

In questa prospettiva, ci pare ovvio che anche la strategia alternativa proposta da Ruffolo e Sylos Labini, che dovrebbe portare ad una “nuova alleanza” tra capitalismo e democrazia, fondata su un’economia mista, non possa che essere destinata al fallimento. Certo, siamo i primi a riconoscere a Ruffolo e Sylos Labini il merito di aver compreso l’importanza delle obbligazioni Mefo grazie alle quali Hjalmar Schacht «fra il 1933 e il 1936 realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, persino più significativo del tanto celebrato “New Deal” di Franklin D. Roosevelt». (11) Tuttavia, è chiaro che nuovi strumenti finanziari e riconversione ecologica dell’economia perché non siano una mera “operazione di cosmesi” presuppongono un mutamento di “orientamento geopolitico”, che nessuna amministrazione statunitense né alcun centro di potere euroatlantista potranno mai promuovere. La riforma del sistema finanziario mondiale, ancora basato sull’egemonia del complesso “politico-militare-industriale-finanziario-culturale” degli Stati Uniti e di quei centri di potere che da questo “complesso” dipendono, sembra quindi presupporre quello che tale riforma dovrebbe ottenere, ovverosia la fine della potenza statunitense come “centro regolatore” del sistema capitalistico occidentale. D’altra parte, la lezione che si deve trarre dal fallimento del progetto di Olof Palme, che intendeva creare un “polo geopolitico socialista” nel cuore dell’Europa (e che, con ogni probabilità, avrebbe rappresentato anche una eccezionale chance per realizzare un “polo geopolitico mediterraneo”) è che la “forma Stato” liberale non può “incastonare” il mercato se non in circostanze geopolitiche particolari, derivanti dal conflitto tra “blocchi di potere” di contrapposti. Ragion per cui ogni Paese che si contrapponga alla politica capitalistica predominante dovrebbe necessariamente essere capace di difendersi dagli attacchi sferrati dai “mercati”, dai media mainstream e dalle “quinte colonne” che possono sempre contare sull’appoggio di gruppi di potere e organizzazioni “internazionali”.

Ciò non significa che l’Europa non abbia altra scelta che seguire i diktat dei “mercati”, ma se è necessario ridefinire l’architettura politica dell’Unione europea per sottrarre l’Europa alla morsa dei “mercati”, come sostengono gli stessi autori del Film della crisi, bisognerebbe ridefinire anche il sistema politico occidentale (pur dovendo evitare gli errori e gli orrori dei regimi totalitari; il problema, si badi, non è la democrazia, intesa come partecipazione del popolo alla vita politica – partecipazione però che può essere garantita in modi assai diversi – , bensì come sia possibile restituire lo scettro al “principe”, come sia cioè possibile interpretare e difendere l’interesse della collettività evitando che “sovrani” siano i “mercati”). (12) Né ciò sarebbe sufficiente, poiché, in ogni caso, sarebbe necessario mutare l’”orientamento geopolitico” dell’Europa, perlomeno intensificando le relazioni politiche ed economiche con le potenze dell’Eurasia (senza le quali ogni riforma del sistema finanziario internazionale è pura fantasia), di modo da poter indebolire la “presa” statunitense e dei “mercati” sulla politica europea. Peraltro, è scontato che una “economia mista” raggiungerebbe appieno il proprio scopo – quello di porre l’economico (il mercato) al servizio dell’intera società e non viceversa come accade in una “società di mercato” – se (secondo la nota tesi di Karl Polanyi) lavoro, terra e moneta non venissero più considerati merci. Il che però sarebbe possibile solo se si creassero anche le condizioni geopolitiche e culturali per un definitivo superamento (ed era ciò cui mirava anche il progetto di Olof Palme) di un sistema internazionale basato sulla crescita illimitata della volontà di potenza economica del centro di potere predominante. Una “dismisura” che concerne l’essenza stessa del capitalismo, in quanto “ideologia e prassi” dell’homo oeconmicus. Facile dunque concludere che, rebus sic stantibus, è assai difficile che vi possa essere una Unione Europea realmente capace di sfidare o almeno di contrastare l’egemonia statunitense.







1) Giorgio Ruffolo e Sylos Labini, Il film della crisi, Einaudi, Torino, 2012.

2) Luciano Gallino, Finanazcapitalismo, Einaudi, Torino, 2011.

3) Giorgio Ruffolo e Sylos Labini, op. cit., p. 117. Per un’analisi geopolitica della controffensiva statunitense, a partire dall’inizio degli anni Settanta (esattamente dal 15 agosto 1971, ossia dalla dichiarazione di Nixon sullo sganciamento del dollaro dall’oro, che segna la fine del sistema internazionale cui si era dato inizio con gli accordi di Bretton Woods) fino ai nostri giorni, si veda Giacomo Gabellini, Shock, Anteo Edizioni, 2013.

4) Si veda Giuseppe Mammarella, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 1980, pp. 53-62.

5) Bruno Amoroso, L’apartheid globale, Lavoro, Roma, 1999, citato in Giacomo Gabellini, op. cit., p. 42.

6) Harold Bloom, La religione americana, Milano, Garzanti, 1994, p. 52

7) Si pensi che cosa sarebbe stata l’Olivetti se avesse potuto contare su tali finanziamenti allorquando, alla fine degli Sessanta, era all’avanguardia nel settore dell’informatica (su questo tema si veda l’intervista a Giorgio Panattoni di Giuseppe Germinario http: //www. Conflittiestrategie. it/lolivetti-vista-da-un-suo-protagonista-giorgio-panattoni-2 ).

8) Su questo argomento è veramente prezioso il già citato libro di Gabellini. Per quanto concerne il mondo dell’informazione, mai come oggi sarebbe necessario distinguere tra libertà della stampa e libertà di stampa e di espressione (garantita soprattutto da Internet e dalla piccola editoria e minacciata invece dal potere dei media mainstream).

9) Ovviamente, qui non intendiamo tentare alcuna ricostruzione storica di eventi estremamente complessi, ma cercare solo di comprendere l’attuale fase storica sotto l’aspetto geopolitico, nonché, in un certo  senso, sotto quello “metapolitico”.

10) Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte, Besa, Lecce, 2011, pp. 62 e 109.

11) Gorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, op. cit., pp. 78-79. Per la strategia alternativa proposta di Ruffolo e Sylos Labini si veda Ivi, pp. 85-111.

12) Che il sistema politico liberale sia sempre più dipendente da altri centri di potere, crediamo che non possa essere messo seriamente in discussione da nessuno. Perfino il pluralismo della società occidentale è in larga misura in funzione della struttura dell’apparato tecnico-produttivo.

venerdì 10 maggio 2013

LO SPECCHIO DELLA SAPIENZA. GIORGIO COLLI E L'EURASIATISMO

Il mio scritto "Lo specchio della sapienza. Giorgio Colli e l'eurasiatismo" ("Eurasia" 3/2010)  è disponibile sul sito dell'Archivio Giorgio Colli:
http://www.giorgiocolli.it/it/biblioteca/lo-specchio-della-sapienza-giorgio-colli-e-leurasiatismo

lunedì 29 aprile 2013

MASCHERA E VOLTO DELLA POLITICA ITALIANA


Il ciclo politico iniziatosi con l’”operazione colorata” Mani Pulite si sta per compiere con un colpo di scena più apparente che reale, ovvero con il Governo del Presidente, garante degli interessi dei “mercati” e vera manina d’oltreoceano in versione tricolore, che ha benedetto l’alleanza tra Berlusconi – il “nano malefico” che voleva distruggere l’Europa, secondo l’”Economist” (il settimanale preferito dai “centro-sinistri” che considerano “populista” chiunque non riesca a guadagnare almeno 10000 euro al mese), e che “rappresenta”, in particolare, i propri interessi e quelli dei suoi compagni (e “compagne”) di merende – e Bersani, un politico di seconda categoria, “rappresentante” degli interessi del ceto medio “semicolto”, ma soprattutto di quelli della grande industria (decotta) e della finanza (fellona) tricolori, anche se probabilmente non li “rappresenta” bene come il suo rivale, il “giovane” sindaco di Firenze, quel Renzi che come Nanni Moretti pare sia sempre sul punto di affogare in un barattolo di nutella. Eppure si tratta solo del finale di una commedia dell’assurdo per il “popolo bue”, che evidentemente, dopo oltre vent’anni di teatrino politico di infimo ordine, lo si ritiene talmente rincitrullito da poter fargli ingoiare qualsiasi rospo. Infatti, quel che in realtà sta accadendo (perché in politica, se non sempre, quasi sempre l’apparenza inganna) è non opposto a quel che appare, ma un po’ più complesso di che quel che appare, giacché è l’intero che conta, se si vuol comprendere il senso delle singole parti).



Non vogliamo certo sostenere che l’analisi della situazione in cui si trova il nostro Paese non debba tener conto della suddetta “operazione colorata” che diede origine ad uno nuovo corso politico, “simbolo” del quale si può considerare il noto incontro tra “gentiluomini” (o se si preferisce, il gentlemen’s agreement) a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992. Nondimeno, si deve tener presente che se i mezzi di cui si sono avvalsi e si avvalgano gli strateghi dei centri egemonici euroatlantisti (notare il plurale) sono stati e sono gli “agenti” che rappresentano i diversi gruppi d’interesse “indigeni”, tali “attori politici” (da Berlusconi a D’Alema, da Amato a Prodi e così via), anche se ben remunerati per i loro “servigi”, sono solo “strumenti”(spesso perfino inconsapevoli, esattamente come i gazzettieri al soldo dei diversi gruppi d’interesse in lotta tra di loro) di strategie geopolitiche il cui scopo non lo si deve certo confondere con i mezzi che si usano per raggiungerlo. Non ci vuole molto allora per capire qual è il “fine reale” che tali centri egemonici perseguono con tenacia e coerenza almeno dagli anni Settanta, ma che solo le “mani pulite” della magistratura italiana hanno reso assai meno difficile conseguire. Vediamo brevemente perché.



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L’Italia, nel secondo dopoguerra – vuoi per il ruolo di una solida e dinamica impresa pubblica, soprattutto nei settori strategici (Eni, Iri etc.), vuoi per una miriade di intraprendenti piccole e medie imprese, diffuse a macchia di leopardo in buona parte del territorio nazionale, vuoi per la presenza della Chiesa cattolica e di un forte partito comunista, assai ben organizzato e ben radicato nella struttura sociale- era uno Stato a sovranità limitata, ma con caratteristiche tali da renderlo “anomalo” rispetto agli altri Stati occidentali (ossia non conforme alla regola generale, alla norma, alla struttura tipica dell’Occidente), e da permettere alla classe dirigente italiana, o meglio ad alcuni membri di essa, di avere un certa libertà di manovra, anche a livello internazionale. Il tutto reso in qualche modo ancora più significativo dal fatto che la società italiana, pur conoscendo un massiccio fenomeno di migrazione interna negli anni Cinquanta e Sessanta (specialmente dal Sud al Nord, verso il triangolo industriale i cui vertici erano Torino Milano e Genova), era ancora contraddistinta da principi e valori di una cultura plurisecolare (e ancora legata al mondo contadino), e dal fatto che la grande industria a gestione pubblica coesisteva con un capitalismo di tipo sostanzialmente familiare e borghese, ossia con poche grande aziende private (benché assai diverse per quanto concerne il modo di intendere la funzione sociale del capitale, sì che non è un caso che oggi sia ancora presente la Fiat, ma non l’Olivetti). Un capitalismo pertanto differente da quello basato sui funzionari del capitale (e che era presente già da tempo in Occidente), dato che la particolare formazione sociale italiana comportava appunto che la maggior parte dei manager fossero al servizio non tanto del capitale quanto dello Stato, inteso come insieme di apparati coercitivi e ideologici (non necessariamente in senso negativo), in grado di svolgere una funzione pubblica e strategica nettamente distinta da (benché, lo si deve riconoscere, non necessariamente contrapposta a) quella di interessi privati, nazionali o stranieri. Una differenza non da poco sia sul piano politico che su quello economico (Enrico Mattei docet).



D’altronde, a partire dagli anni Settanta, con la fine del Gold Standard, il capitalismo occidentale dovendo far fronte alla crisi geopolitica del centro regolatore mondiale del capitalismo, cioè gli Stati Uniti, seppe reagire con una innovazione strategica (che traeva profitto dalla “rivoluzione tecnologica” nel campo dell’elettronica e in quello dell’informatica), incentrata sulla ridefinizione della potenza statunitense in chiave non solo politico-militare, ma anche in chiave finanziaria, e che doveva obbligare, nel giro di pochi anni, i singoli Stati a dipendere dalle decisioni del “mercato”, sfruttando in primo luogo le “disfunzioni” del Welfare State (clientelismo, assistenzialismo, inefficienza etc.), non allo scopo di “curarlo” ma di liquidarlo definitivamente. Un mutamento quindi che non avrebbe potuto non avere “pesanti” conseguenze per la struttura sociale ed economica italiana, qualora l’Italia non si fosse dotata rapidamente di una nuova “corazza” politico-economica, sfruttando quei margini di manovra di cui ancor godeva. Tuttavia, il sistema politico italiano già reso inefficiente dal diffondersi della corruzione e scosso dalla strategia della tensione, nonché dal terrorismo, rosso e nero, aveva enormi difficoltà a rinnovarsi. Tanto che fu il referendum sul divorzio a mostrare al Pci (che, convinto della necessità di un’alleanza con le masse popolari democristiane, temeva che tale referendum fosse un grave errore) che i tempi stavano cambiando anche in Italia e che il vento dell’Ovest avrebbe soffiato molto più forte, considerando pure le evidenti e non contingenti patologie che affliggevano il sistema sovietico. Cominciò così il lungo cammino del più grande e forte partito comunista occidentale verso Washington. Un percorso non “lineare”, né privo di difficoltà o di incertezze – sia per il caso Moro, sia per contrastare la politica del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani), sia per non allarmare troppo la propria “base” – ma che venne a configurasi sempre più chiaramente come un passaggio  – accelerato ma non causato dal crollo dell’Unione Sovietica – dall’eurocomunismo all’euroatlantismo.



Ragion per cui, negli anni Ottanta, da un lato, venne completamente a mancare quella spinta ideale che negli anni precedenti, nonostante tutto, era ancora presente anche in certi ambienti politici, non solo di sinistra o cattolici, e a consolidarsi un regime partitocratico imperniato sul (già menzionato) CAF, ma pure sulla partecipazione alla gestione della “cosa pubblica” del Pci mentre continuava la sua ”lunga marcia” verso Ovest. Dall’altro, con la rinuncia al controllo politico del settore strategico nazionale e l’abbandono di un’idea di bene comune (e di giustizia sociale) condivisa da tutti gli strati della popolazione, in particolare dai ceti medio-bassi e popolari, si sancì il definitivo distacco di gran parte della intellighenzia italiana da ogni concezione socialista.  Un mutamento di “paradigma” politico-culturale favorito non poco dall’onda lunga del Sessantotto che spazzò via nel medesimo tempo la “vecchia” morale borghese e le strutture sociali e culturali ancora legate al mondo contadino – ma unicamente al fine di “glorificare” una sorta di “fondamentalismo laico e liberista” (assai ben rappresentato dal quotidiano “La Repubblica”) che, in quanto “espressione” di un egualitarismo astratto e formale, “maschera” le reali e sostanziali diseguaglianze sociali ed economiche, promuovendo quella forma di individualismo, secondo cui lo Stato deve essere neutrale rispetto ai valori, mentre si deve lasciare che sia il “mercato” a decidere quali siano i valori fondanti di una società.



Si badi però che ciò non significa che non fosse necessario modernizzare il sistema sociale italiano; anzi è vero l’opposto, giacché la modernizzazione del sistema italiano era ormai inevitabile. Il problema era come modernizzare. Un problema che la classe politica di allora non si pose nemmeno, tranne qualche lodevole eccezione, essendo interessata a chi doveva modernizzare – allorché fu palese, soprattutto dopo il risultato del referendum sul divorzio, che si doveva modernizzare – ma non a come si doveva modernizzare. Epperò, non è assurdo ipotizzare che la necessità di modernizzare il sistema sociale italiano, avrebbe potuto anche dare origine ad un corso politico diverso da quello neoliberista, evitando di svellere quelle “radici culturali” che di fatto erano a fondamento del “particolare sviluppo” del nostro Paese – una questione tutt’altro che irrilevante come dimostra il “fallimento” politico, e non solo politico, di una Unione Europea che, privilegiando una “demenziale” ottica economicistica, non tiene neanche conto delle differenze tra l’area mediterranea e quella baltica). Comunque sia, è innegabile che – allorquando si attuava una ristrutturazione della megamacchina capitalistica occidentale tramite le politiche di deregolamentazione e di liberalizzazione del movimento dei capitali, che rendevano possibile ciò che si suole denominare – assai genericamente – mondializzazione o globalizzazione – “ignorando” il “soggetto (geo)politico che mondializza o globalizza) – la cultura politica italiana, anziché concentrarsi sulla funzione della politica della potenza capitalistica predominante e del conflitto (geo)politico, preferì rivolgere la propria attenzione alla “soggettività”, alla microfisica del potere, all’economia libidinale e così via (una “svolta” le cui coneguenze cominciano a vedersi solo oggi che la finanziarizzazione dell’economia mondiale sta rivelando il suo volto (geo)politico).



Non sorprende quindi che, proprio quando era necessario avere un “classe politica” capace di “giocare la carta” della ”peculiarità” del sistema italiano in un contesto geopolitico del tutto diverso da quello che aveva contrassegnato fino ad allora il secondo dopoguerra, con la vicenda di Mani Pulite si siano venute a creare le condizioni per poter smantellare la nostra unica macchina da guerra che – sebbene non fosse del tutto “gioiosa” e fosse pure da ammodernare – sarebbe stata indubbiamente in grado di difendere l’interesse generale se comandata da abili condottieri. Sicché, si può ritenere che, in un certo senso, la stessa “operazione colorata” Mani Pulite sia stata generata, per così dire, dalla “marcia delle cose” più che dalla volontà dei singoli attori (geo)politici (e con ciò si elimina pure, in radice, qualsiasi “complottismo” da bar dello sport), consentendo ai diversi gruppi politici “locali” (invero bande di mercenari al servizio di potentati stranieri tutti filo-atlantisti) di lottare tra di loro per aggiudicarsi l’“osso migliore”, mentre venivano gettate le fondamenta della nuova Nato e della nuova Unione Europea (una ”ristrutturazione” assolutamente necessaria dopo il crollo del Muro e la riunificazione della Germania).



Facile dunque comprendere il “fine reale” dei centri egemonici atlantisti adesso che il loro disegno si è quasi completamente realizzato: se la Nato è il braccio violento della legge del “mercato occidentale” e l’Unione Europea, dopo l’introduzione dell’euro (anche allo scopo di saldare la Germania all’Atlantico), è uno zombie geopolitico alla mercé dei “mercati”, lo Stato italiano si è definitivamente (o quasi) trasformato (senza che nessuno dei diversi schieramenti in lotta tra di loro vi si sia mai opposto, al di là di alcuni giri di valzer con Putin e Gheddafi da parte del “nano” – in senso politico, s’intende – di Arcore) in un funzionario del capitale euroatlantista che deve svolgere bene i compiti (assai importanti, al contrario di quanto pensano parecchi italiani “ingenui”) assegnatigli dai “mercati”. D’altra parte, dovrebbe essere manifesto a chiunque che se negli anni Novanta il debito pubblico (cresciuto a dismisura dopo il divorzio tra Bankitalia e Tesoro) fu usato per (s)vendere il nostro settore strategico ai potentati stranieri, ancora una volta i “mercati” possono far leva sul debito pubblico per trarre il massimo profitto dalla situazione originatasi dopo lo tsunami finanziario del 2008 (e costato all’Italia, secondo lo stesso Draghi, il 5% del Pil). Il che per i centri egemonici euroatlantisti e i loro zelanti servitori (politici, gazzettieri e intellettuali) è “cosa buona e giusta”, ma non per quei “molti” ormai quasi del tutto privi di diritti sociali ed economici. Ma anche il teatrino della politica italiana, del resto, non può più nascondere il fatto che il berlusconismo e l’antiberlusconismo sono, in realtà, due “effetti di superficie” della medesima “struttura profonda”.



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Naturalmente vi sono molte altre questioni di cui si dovrebbe tener conto per spiegare il rapporto tra siffatta “struttura profonda” ed suoi “effetti di superficie”, passati e presenti. Lo scopo di questa breve nota, tuttavia, è solo quello di mostrare, sia pure a grande linee, alcune delle ragioni (geo)politiche, onde capire meglio la tendenza fondamentale della politica italiana adesso che il nostro Paese si trova nella morsa di una gravissima crisi economica (e la “pressione” dei “mercati” e dei loro “agenti” sui ceti medio-bassi e popolari ha raggiunto livelli intollerabili). Anche noi ci rendiamo però perfettamente conto che un’analisi approfondita non deve limitarsi ad alcune considerazioni a volo d’uccello su una fase storica così difficile e densa di eventi, alcuni dei quali perfino di portata epocale. Sotto questo punto di vista, di “lavoro” ve n’è certo ancora molto da fare, e a maggior ragione lo si deve fare per interpretare bene i “singoli particolari”. Ma non è tanto l’aspetto meramente storico che rileva e nemmeno (anche se può sembrare blasfemo considerando la crisi che colpisce milioni di italiani) quello meramente economico, quanto piuttosto evidenziare i lineamenti fondamentali della strategia di quei “centri di potenza” che hanno messo in ginocchio lo Stato italiano trasformandolo in un funzionario del capitale euroatlantista. Sarebbe dunque necessario liberarsi al più presto di schemi concettuali obsoleti e/o “politicamente corretti”, nonché di ogni forma di economicismo, marxista o liberista che sia, e ciò proprio per interpretare correttamente il rapporto tra il Politico – inteso come funzione strategica per “regolare” i conflitti tra (sub)dominanti o tra (sub)dominanti e “dominati” – e l’Economico (secondo la “lezione” di Gianfranco La Grassa, i cui scritti sono di gran lunga i migliori su questo delicato argomento). Vale a dire che è essenziale comprendere la funzione dello Stato alla luce della supremazia del Politico, giacché oggi più che mai la vera “posta in gioco” è la (ri)conquista dello Stato, se si vuole delineare una prospettiva opposta a quella dell’euroatlantismo, sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello culturale e socio-economico.