lunedì 25 novembre 2013

QUALE "SOVRANISMO"?

A nostro giudizio non si può non condividere quanto sostiene Gianfranco la Grassa in un suo recente articolo, vale a dire che «si deve puntare nella fase attuale in modo speciale su ciò che viene al momento definito […] come sovranismo. Ma in che modo? E fino a quale punto? Con quali mezzi, strategie e forze in campo? Tutto da discutere, ma non fra secoli» (1). A questo proposito, occorre precisare che con il neologismo “sovranismo” ci si riferisce all’istanza di riconquista della sovranità nazionale, ceduta quasi completamente dai “nostri” politici non all’Europa (che come soggetto politico non esiste) bensì all’UE, o meglio ad alcune istituzioni dell’UE quali ad esempio la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea (che in realtà non è affatto una banca centrale). Purtuttavia, bisogna riconoscere che nell’attuale fase storica i singoli Stati non possono non rinunciare a una certa sovranità, giacché è evidente che lo “spazio” politico ed economico dei singoli Paesi è troppo piccolo perché uno Stato possa fare a meno di essere parte di un’area geopolitica più ampia e complessa. In questo senso, difendere il “sovranismo” (che ovviamente non deve essere scambiato per una forma di nazionalismo) non significa mettere in questione la necessità di un “grande spazio” europeo, tanto più che la questione della sovranità non può non concernere, oltre al rapporto tra l’UE e i singoli Stati europei, l’indipendenza del continente europeo, posto che il vero problema da risolvere sia quello di poter riguadagnare una certa sovranità nazionale innanzi tutto (non solo) allo scopo di ridefinire obiettivi e funzioni dell’Europa. E’ comunque lo stesso Gianfranco La Grassa che ci offre la possibilità di mettere a fuoco meglio questo aspetto essenziale, allorché giustamente sostiene che «non si tratta affatto di lesinare le critiche all’atteggiamento spesso arrogante della Germania [...] nemmeno si chiede di non mettere in luce la trappola in cui siamo caduti con l’euro, le direttive UE, ecc. L’importante è che non si dimentichi l’ordine gerarchico in seno all’“occidente”».

Pertanto, solo tenendo conto dei reali “rapporti di forza”, nonché degli equilibri geopolitici che da tali rapporti derivano e che di necessità sono a fondamento della stessa UE, è possibile comprendere le strategie dei gruppi dominanti d’oltreoceano e quelle dei gruppi subdominanti europei (Germania inclusa). E non vi è dubbio che i legami di dipendenza dell’Europa dagli USA dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica e la riunificazione della Germania, anziché indebolirsi, siano diventati ancor più stretti e forti. Né l’euro, che avrebbe dovuto rendere più salda l’unione tra i diversi Stati europei, si è rivelato essere quella moneta in grado di mettere realmente in discussione l’egemonia del dollaro come alcuni ritenevano. Un “fallimento” allora quello dell’euro (se di “fallimento” veramente si tratta) non affatto strano dacché l’euro non è la moneta di nessuno Stato, né nazionale né “sovra-nazionale”. In realtà, mettendo il carro davanti ai buoi, ovvero la finanza “davanti” alla politica, si è soltanto riusciti a dividere l’UE in tre parti: Stati che non sono membri dell’Eurozona (come l’Inghilterra e la Danimarca.), Stati dentro l’Eurozona che sono sempre più forti (in specie la Germania) e Stati dentro l’Eurozona che invece sono sempre più deboli (come la Grecia, l’Italia, la Spagna e ora anche la Francia). Ciò nonostante, è difficile negare che i circoli filo-atlantisti siano riusciti ad ottenere quel che più premeva loro, ossia (come abbiamo più volte sottolineato in altri articoli, ma ripetita iuvant) “ancorare” la Germania all’Atlantico. Sicché, alla situazione che si è venuta a creare in Europa, soprattutto a causa della crisi che ha avuto origine negli Stati Uniti (ma pare che questo molti l’abbiano già dimenticato), gli “euroamericani”, consapevoli dei rischi che corre l’Eurozona, vorrebbero porre rimedio con il mercato transatlantico. Una soluzione che segnerebbe la fine di qualunque progetto di (autentica) unione politica europea.

Del resto, quello che La Grassa definisce come “l’ordine gerarchico in seno all’Occidente” spiega in buona misura anche il comportamento della “nostra” classe dirigente verso l’UE e la Germania in questi ultimi anni (un comportamento altrimenti incomprensibile – e questo lo si deve far notare in particolare a chi, secondo una ottusa prospettiva economicistica, si limita a ripetere che i “nostri” politici ci hanno consegnato nella mani dei tedeschi, evitando però di dare una spiegazione seria di questo “tradimento”). In realtà, la “nostra” classe dirigente, sempre disposta ad eseguire le direttive strategiche degli USA, non per intima convinzione ma solo per convenienza (sì da rendere superfluo qualsiasi “complotto”), è sì incapace di dirigere alcunché, ma sa bene da che parte conviene stare e chi detiene il “bastone del comando”. Certo, non pochi dei “nostri” politici e dei “nostri” tecnici contavano sul fatto che la Germania prima o poi avrebbe acconsentito a “mutare rotta”, rivedendo il ruolo della BCE, anche se credevano (come Marta Dassù) che i tedeschi in cambio avrebbero probabilmente chiesto una sorta di diritto di veto sulle decisioni della BCE. Invece la Germania non ha concesso nulla, anche perché ha compreso che può alzare il prezzo, dato che adesso per Washington il problema principale è impedire (soprattutto mediante la cosiddetta “geopolitica del caos”) che si formi una vera “alternativa multipolare” (un obiettivo comunque non facile ma addirittura impossibile da raggiungere nel caso che gli Stati Uniti dovessero perdere l’egemonia sull’Europa).

In questo contesto, è abbastanza scontato che le rivalità tra singoli Paesi e il “risentimento” contro la Germania aumentino in tutta Europa. D’altronde, il timore che la Germania diventi il “sergente di ferro” d’oltreoceano, o come afferma La Grassa il “maggiordomo” degli USA in Europa, non è affatto infondato. Già nel 1945 il filosofo Alexandre Kojève temeva che l’Europa “latina” rimanesse schiacciata sotto la potenza politico-economica tedesca e anglosassone. (2) Al riguardo, bisogna tuttavia notare che se la Germania diventasse il “maggiordomo” degli USA in Europa, non potrebbe mai avere un ruolo politico-strategico di primo piano: troppo debole per unificare l’Europa – anche se troppo forte per non riuscire ad impedirlo – dovrebbe rassegnarsi, volente o nolente, ad essere un centro di potere “dipendente” dagli USA e quindi, di fatto, a non poter modificare gli equilibri (o gli squilibri) internazionali, senza il consenso degli Stati Uniti. Invero, una potenza geoeconomica che non è una potenza militare non è una vera potenza geopolitica, e questo è un limite che la Germania rischia di pagare caro, anche sotto il profilo economico, se non adesso nel prossimo futuro. Solo rinunciando a disegni egemonici che sono al di là delle possibilità di qualsiasi potenza europea, come insegna la storia del vecchio continente, e contribuendo invece ad ampliare la sfera d’azione geopolitica dell’Europa, la Germania potrebbe liberarsi definitivamente dal “peso” del suo passato e crescere politicamente.

Il fatto però che proprio tra i cosiddetti “europeisti” vi siano i più entusiasti sostenitori del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) non solo è una ulteriore conferma che la UE è strumento, nella sostanza, della politica di potenza degli USA, ma dimostra anche che l’iniziativa strategica purtroppo è ancora saldamente nelle mani dei circoli atlantisti. Nondimeno, proprio in Francia il “sovranismo” sta mettendo radici fortissime, in un’ottica geopolitica favorevole al multipolarismo e ad uno “spostamento” verso est del continente europeo (un cambiamento di “orientamento” geopolitico che non dovrebbe dispiacere ad “influenti ambienti” tedeschi, consapevoli dei vantaggi che potrebbero derivare alla Germania da una nuova Ostpolitik). Inoltre, è degno di nota che uno studioso di fama come Jacques Sapir sia giunto addirittura a dichiarare che «bisogna riunire le forze di sinistra e di destra che hanno capito il pericolo che rappresenta l’euro, unirli non in un solo partito ma all’interno di un’alleanza in grado di sostenere una politica di rottura». (3) Ciò comunque non pare implicare necessariamente che si debba ritornare all’“Europa delle nazioni” cara a De Gaulle, ma piuttosto che da quella “idea d’Europa” si dovrebbe ripartire, nel senso che la battaglia per la riconquista di una certa sovranità dei singoli Stati europei non la si può separare da quella per una effettiva indipendenza dell’Europa dagli Usa. D’altra parte, è pur vero che solo se ci si oppone all’Eurozona e di conseguenza ci si impegna a “rifondare” la stessa UE, è possibile sottrarre i singoli Stati europei alla morsa dei “mercati” (e quindi cominciare a sganciarsi dagli USA e a sfruttare i “percorsi geoeconomici” che si potrebbero creare mediante accordi “strategici” con i BRICS) ed evitare la catastrofe sociale ed economica dell’Europa meridionale. Pare quindi logico, che in una prospettiva “sovranista” i singoli Stati europei non solo non dovrebbero scomparire, ma dovrebbero svolgere un fondamentale ruolo di “cerniera” tra singoli cittadini e comunità locali da un lato e “macroregioni” geopolitiche (mediterranea, baltica e danubiana) e istituzioni europee “sovra-nazionali” dall’altro, al fine di mettere al primo posto, anziché gli “affari” e la finanza, la politica e l’economia reale. Perché questo possa avverarsi si dovrà però combattere una “guerra” lunga e difficile. E si badi che il termine “guerra” non lo si deve intendere solo in senso figurato, ché da un pezzo la “forma” della guerra è cambiata.





1) http://www.conflittiestrategie.it/pantomima-continua-di-glg-19-novembre-13

2) http://www.eurasia-rivista.org/lutopia-geopolitica-dell-impero-latino/19771/

3) http://www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=6&pg=5595

http://www.eurasia-rivista.org/quale-sovranismo/20396/

PS. Sulla questione di una "vera" banca centrale europea, Luciano Gallino ha giustamente scritto: «Dal punto di vista delle istituzioni la Ue sembra davvero un edificio sgangherato. Avrebbe quindi bisogno di meccanismi istituzionali di compensazione degli squilibri di produttività, del valore reale dell’euro nei diversi paesi, del costo del lavoro, di legislazione fiscale. E di una banca centrale che fosse una vera banca centrale, in luogo di essere un istituto finanziario che si preoccupa per statuto solo della stabilità dei prezzi» (Luciano Gallino, "Repubblica", 6 dicembre 2013).

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