martedì 31 gennaio 2023

LA GUERRA RUSSO-UCRAINA IN UNA PROSPETTIVA GEOPOLITICA “REALISTICA”

È noto che secondo Zbignew Brzezinski se l’Ucraina non avesse fatto più parte dello spazio geopolitico russo, la Russia non avrebbe potuto più essere un “impero” ma solo una potenza (eur)asiatica, non in grado quindi di influenzare in modo significativo la politica dell’Europa o, a maggior ragione, di conquistare una posizione egemonica in Europa. La Russia sarebbe stata comunque una grande potenza, dato che, grazie al suo gigantesco arsenale nucleare, avrebbe sempre potuto distruggere qualsiasi altra potenza, America inclusa, ma la sua sfera di influenza sarebbe stata fortemente limitata anche in Asia, in specie da una Cina sempre più forte e potente. Si può quindi ritenere che la questione ucraina dopo il crollo dell’Unione Sovietica sia stata sostanzialmente “gestita” sia da Mosca sia da Washington, ovviamente per ragioni opposte,  tenendo conto dell’analisi dello studioso di origine polacca.

Ciò nonostante, i rapporti economici tra la Russia e l’Europa e in particolare con la Germania avevano creato delle condizioni tali che si poteva giungere ad inserire la Russia nel contesto (non solo economico ma politico) europeo e quindi consentire di ridefinire le relazioni tra la Germania e altri Paesi europei (tra cui la Francia e l’Italia) con la stessa America. In pratica, si trattava di una nuova Ostpolitik, che da un lato consentiva alla Ue una maggiore autonomia strategica rispetto all’America e dall’altro la possibilità per la Russia di ottenere, in cambio di energia e materie prime (vendute a basso prezzo), tecnologia occidentale e implementare dei programmi di sviluppo industriale e sociale, tanto più necessari per un Paese come la Russia che era uscita con le “ossa rotte” dall’ultimo decennio del secolo scorso.

Naturalmente, un tale corso politico incontrava non pochi ostacoli, non solo a causa della rivalità tra l’America e la Russia ma per la stessa debolezza geopolitica della Ue, che rendeva assai difficile a dei Paesi europei non seguire le direttive politico-strategiche di Washington, e per il fatto che i Paesi dell’Europa orientale continuavano a considerare la Russia come un Paese ostile o addirittura un vero e proprio nemico (geo)politico. In questo contesto, era inevitabile che la cosiddetta “rivoluzione ucraina” del 2014 (ossia Euromaidan) ponesse il Cremlino nella condizione di dovere scegliere tra continuare ad avere buone relazioni con l’Ue oppure cercare di inglobare l’Ucraina nello spazio geopolitico russo ad ogni costo, mettendo così fine alla Ostpolitik (una scelta tanto più importante in quanto il Cremlino considerava già una minaccia l’espansione ad est della Nato, cominciata con l’adozione della politica della “porta aperta” al vertice della Nato di Madrid nel 1997). 

In un certo senso si può affermare che il Cremlino scelse allora una “soluzione di compromesso”, annettendo la Crimea (che pure Mosca, con il Memorandum di Budapest del 1994, aveva riconosciuto appartenere all’Ucraina, in cambio della consegna alla Russia delle testate nucleari possedute degli ucraini), istigando una rivolta dei filorussi del Donbas contro il governo di Kiev e poi (nell’estate del 2014) intervenendo militarmente in loro appoggio, ma rinunciando a scatenare una guerra contro l’Ucraina per insediare un governo filorusso a Kiev, sebbene i nazionalisti russi “premessero” in questo senso. Pertanto, anche grazie agli accordi di Minsk, i buoni rapporti con l’Ue e soprattutto con la Germania sono continuati fino allo scorso febbraio, benché in un contesto geopolitico del tutto diverso. Difatti, oltre alle sanzioni imposte alla Russia per l’annessione della Crimea, la pressione della Nato ai confini della Russia è diventata ancora più forte, e l’esercito ucraino ha potuto essere addestrato dalla Nato e rafforzarsi in previsione di una aggressione russa, benché la Casa Bianca (con buona pace degli estremisti atlantisti, neocon inclusi) si sia sempre rifiutata di consegnare all’esercito ucraino delle armi (aerei da combattimento e carri armati, sistemi di artiglieria a lunga gittata ecc.) che potessero mettere seriamente a repentaglio la sicurezza della Federazione Russa.

Tuttavia, il fatto che il Cremlino usasse le proprie risorse per incrementare la propria potenza militare anche e soprattutto a scapito dello sviluppo economico e sociale del Paese, al punto di cercare di estendere la propria sfera di influenza politico-militare non solo in Medio Oriente ma anche in Africa avvalendosi dei mercenari del famigerato Gruppo Wagner, era per molti occidentali un chiaro segno delle ambizioni imperiali del Cremlino. In quest’ ottica è ovvio, proprio a causa dei motivi ben chiariti da Zbignew Brzezinski, che prima o poi Mosca avrebbe usato anche la forza pur di inglobare l’Ucraina nello spazio geopolitico russo, anziché limitarsi a cercare di influire sulla politica di Kiev, sfruttando anche la presenza (fino all’invasione russa dello scorso 24 febbraio) di alcuni partiti filorussi nella vita politica ucraina.

In altri termini, dopo Euromaidan la politica del Cremlino si è sempre più orientata secondo una prospettiva geopolitica che, sebbene fosse anche condizionata dalla pressione della Nato ai confini della Russia, dipendeva sempre meno dalla “soluzione di compromesso” scelta da Mosca nel 2014-2015, dato che quest’ultima non poteva comunque risolvere la questione ucraina nella misura in cui tale soluzione dipendeva appunto dalla decisione di Mosca di soddisfare le proprie ambizioni imperiali ad ogni costo oppure cercare di favorire  l’Ostpolitik per rafforzare sempre più i rapporti con l’Europa, contando pure sullo stesso declino (relativo) dell’egemonia americana, evidenziato dalla crescita della Cina e in generale dalla nuova fase geopolitica “multipolare” ossia il fatto che esiste una molteplicità di Paesi che non sono più disposti a seguire le direttive strategiche di Washington.

 Pertanto, decidendo di invadere l’Ucraina*, Mosca ha, per così dire “scoperto le carte”, anche se sotto il profilo geopolitico ha già dimostrato - comunque finisca questa disastrosa guerra - di non avere né la forza né la capacità di costruire un “impero” in grado di sfidare l'America o l’Occidente, nonostante che la Russia rimanga pur sempre una superpotenza nucleare. Comunque sia, la decisone russa di risolvere la questione ucraina con la forza può essere condivisa da chi ritiene non solo che si debba limitare la politica di potenza dell’America o addirittura sconfiggere l’“impero” americano, ma che, per ottenere questo risultato, sia necessario costruire un altro “impero”, costi quel che costi. Chiaramente sotto questo aspetto l’opinione degli ucraini conta poco o nulla, giacché il fine giustificherebbe i mezzi. Paradossalmente, i “putiniani” che affermano di essere favorevoli alla pace (chi non lo è?) e alla cooperazione internazionale ma al tempo stesso ritengono necessario che vi sia un “impero” che possa spezzare i denti a quello americano, dimostrano perlomeno di avere una scarsa comprensione degli affari geopolitici, giacché una potenza egemone - il cui declino è solo relativo e in ogni caso non dipende da un declino della sua potenza militare - non può che reagire con la forza se una potenza anti-egemonica pretende di ridefinire con la forza gli equilibri geopolitici mondiali (non a caso la stessa Unione Sovietica si astenne dall’agire in questo senso, come dimostrò perfino la “crisi dei missili di Cuba”).

Non può quindi neppure sorprendere il modo in cui la Nato ha reagito all’invasione dell’Ucraina, benché sia evidente, tranne ai “putiniani”, che Washington, almeno per ora, ha cercato di evitare una pericolosa escalation, anche a costo di penalizzare l’esercito ucraino (ad esempio Washington, oltre a rifiutarsi ancora di consegnare aerei da combattimento occidentali, ha deciso solo adesso che vengano inviati dalla Nato carri armati e blindati all’Ucraina, che, come sa ogni serio analista militare, se invece fossero stati consegnati all’Ucraina nel giugno scorso, avrebbero permesso alla controffensiva ucraina dei mesi scorsi di conseguire risultati assai maggiori). La politica di Washington si spiega probabilmente tenendo presente non solo che una escalation comporta il rischio di una guerra nucleare (che non conviene a nessuno) ma pure che la debolezza politico-militare (sotto il profilo convenzionale, s’intende) della Russia è tale da non costituire una seria minaccia per la Nato e che non è nemmeno interesse dell’America – che ha già raggiunto l’obiettivo di tagliare i ponti tra l’Ue e la Russia - una “disgregazione” della Federazione Russa (non fosse altro che per la presenza del gigantesco arsenale nucleare russo).

Al riguardo, è davvero significativo uno studio della guerra russo-ucraina da parte degli analisti della Rand Corporation**. Secondo questo studio una guerra lunga non è affatto conveniente per l'America (che ora deve soprattutto confrontarsi con la Cina). Del resto, ben difficilmente l’Ucraina può ottenere una “vittoria totale” contro la Russia e viceversa. Pertanto, gli Usa dovrebbero impegnarsi perché si arrivi ad una soluzione negoziale perlomeno nel medio termine (verosimilmente entro la fine di quest'anno). In sostanza, l’America dovrebbe chiarire bene qual è il (migliore) programma di aiuti (in particolare quelli militari) per la difesa dell’Ucraina, impegnarsi per garantire la sicurezza e l’indipendenza dell'Ucraina giocando anche la carta di una Ucraina neutrale (si tratta praticamente di una soluzione negoziale di cui si era già discusso nell'incontro tra russi e ucraini ad Istanbul), e stabilire delle condizioni per l’abolizione delle sanzioni che sono state imposte alla Russia. Insomma, secondo gli analisti della Rand Corporation la stessa questione territoriale, benché non la si possa ignorare, deve dipendere da questioni più importanti, che concernono cioè sia la sicurezza e l'indipendenza dell'Ucraina (che si devono comunque garantire) sia l’eliminazione del rischio di una guerra tra la Nato e la Russia.

Si tratta di un’analisi che - la si condivida o no (giacché è indubbio che alcuni punti siano “controversi”)*** - tiene comunque conto degli interessi di tutti gli attori geopolitici coinvolti in questa guerra, inclusi quelli dell’Ucraina, com’è ovvio e giusto dato che non è possibile chiedere all’Occidente di sacrificare gli interessi dell’Ucraina sull’altare di un realismo geopolitico assai male inteso, ma considerando che i costi di una guerra lunga anche per Kiev potrebbero essere decisamente superiori ai benefici. D’altra parte, in questa guerra sono in gioco più che le sorti del regime di Putin, che sono nelle mani dei russi, le ambizioni imperiali del regime di Putin (non è cioè certo in gioco l’esistenza della Russia). In definitiva, la difesa della sovranità e della indipendenza dell’Ucraina in una prospettiva “realistica” la si può ottenere “anche” (benché non soltanto) con una soluzione negoziale di questo conflitto, sempre che pure il Cremlino sappia e voglia agire secondo una concezione geopolitica “realistica” e “razionale”.



*La questione del conflitto del Donbas c’entra poco con tale decisione (il cui scopo del resto era insediare un governo filorusso a Kiev e mettere la Nato di fronte al “fatto compiuto” ovverosia non darle il tempo di aiutare in modo significativo l’esercito ucraino). Difatti, secondo un documento dell’Onu (“Conflict-related civilian casualties in Ukraine”, OHCHR, 27 gennaio 2022 - disponibile in rete) dal 14 aprile 2014 al 31 dicembre 2021 sono morti a causa del conflitto tra lesercito di Kiev e le milizie filorusse 3.404 civili, 4.400 soldati ucraini e 6.500 membri delle milizie del Donbas. Per quanto concerne i civili 3.039 sono morti nel 2014-15, una cifra che dimostra che dopo il 2015 lintensità del conflitto, nonostante le numerose violazioni del cessate il fuoco da parte di entrambi i belligeranti, era notevolmente diminuita. In particolare, le vittime civili nel 2021 sono state 25 (27 nel 2019 e 26 nel 2020), di cui 12 a causa di esplosione di mine. Insomma, i fatti più gravi durante il conflitto del Donbas sono accaduti sei anni prima dellinvasione russa dell'Ucraina.

**Questo studio è disponibile sul sito della Rand Corporation.

***Oltre alla “difficile” questione della neutralità dell’Ucraina, che richiederebbe comunque ampie garanzie politiche e militari (ragion per cui per alcuni ormai è impossibile impedire all’Ucraina di entrare nella Nato), si deve considerare che gli analisti militari occidentali ritengono che si possa arrivare ad una situazione di stallo il più possibile favorevole all’Ucraina anche sotto il profilo “territoriale” ma al tempo stesso sostengono che la Federazione Russa può (finché “regge” il fronte interno) tollerare perdite decisamente maggiori di quelle ucraine e che è in grado di condurre una guerra lunga, anche perché la Russia non è affatto del tutto isolata sul piano internazionale, sebbene adesso sia ancora più dipendente dalla Cina e dall’India (a tale proposito si vedano i seguenti articoli pubblicati il 31 gennaio di quest’anno sul New York Times: “Russia sidesteps western punishments, with help from friends” e “Russia’s economic growth suggests western sanctions are having a limited impact”).



venerdì 27 gennaio 2023

UNA SFIDA POLITICO-CULTURALE, NON SOLO GEOPOLITICA

Il secolo scorso ha insegnato che senza Stato di diritto non c’è alcun socialismo ma solo collettivismo, autocrazia, totalitarismo e via dicendo. Ed è indubbio che lo Stato di diritto sia una forma di Stato di matrice liberale, necessaria per impedire l’arbitrio del potere. Ma una lezione fondamentale del secolo scorso è pure che senza una economia di mercato non si produce quella ricchezza necessaria per difendere e rafforzare i diritti sociali ed economici. Pertanto, è necessario riconoscere che il socialismo (ovviamente inteso non più nel senso marxista, che com’è noto prescinde pressoché del tutto dalla questione decisiva della dottrina dello Stato e della difesa del pluralismo, ma appunto inteso come sinonimo di democrazia sociale) presuppone alcuni tratti essenziali del liberalismo. 

Tuttavia, è pure evidente che il socialismo è incompatibile sia con il liberismo (giacché, ad esempio, in un’ottica socialista la stessa produzione di ricchezza è in funzione di una democrazia sociale, che presuppone che il lavoro  - ma pure l’ambiente - non possa essere trattato come una mera merce e in cui praticamente il mercato, benché sia anche “matrice di pluralismo”, è soprattutto uno “strumento” del Politico per produrre ricchezza)*, sia con l’atomismo sociale, ossia quella forma di individualismo secondo cui l’individuo non è in primo luogo un individuo sociale o, se si preferisce, una persona, nel senso forte del termine (quindi non solo in senso morale ma anche, almeno sotto certi aspetti, “ontologico”, come ritiene la stessa dottrina sociale del cattolicesimo)

Sotto questo profilo è però essenziale anche il rapporto del socialismo con il comunitarismo. Benché si tratti di una categoria politica “vischiosa” e ambigua, in quanto può designare pure una concezione totalitaria e/o organicistica” tipica di concezioni politiche illiberali, non è un caso che il comunitarismo sia una categoria politica al centro del dibattitto della filosofia politica da decenni anche e soprattutto nel mondo di lingua inglese. Vale a dire che, anche ammesso che il comunitarismo sia una categoria politica da “maneggiare con cautela”, una concezione non illiberale del comunitarismo è necessaria proprio per evitare di scindere la questione dei diritti sociali ed economici da quella dei diritti civili (una scissione che fa apparire la stessa democrazia liberale come una sorta di ossimoro). 

Il comunitarismo, inteso in questo senso, dovrebbe pertanto funzionare come un “collante” tra libertà e giustizia sociale (e quindi anche tra libertà e democrazia), rafforzando le “forme di diaframma umano tra individuo e Stato”, per usare il lessico di Adriano Olivetti. In questa prospettiva - ossia in una prospettiva socialista non illiberale o, se si preferisce, democratica – è lecito affermare che il comunitarismo è necessario per ridefinire e rafforzare la relazione tra  giustizia sociale - senza la quale nell’età tecnoscienza non è possibile alcuna autentica “fioritura umana” (che, del resto, era la caratteristica essenziale del liberalismo antico ossia quello dei Greci) - e libertà individuale (pure l'uguaglianza dei singoli individui di fronte alla legge presuppone comunque che l'individuo conti anche in quanto tale; perciò  non si può nemmeno condividere la distinzione tra libertas maior e libertas minor, nella misura in cui sminuisce l'importanza dei diritti individuali fondamentali).

D’altronde, una concezione comunitarista non illiberale è anche necessaria per contrastare con successo quella ideologia del progresso (da non confondere, si badi, con la nozione di progresso) in base a cui lo sviluppo “illimitato” delle forze tecnico-produttive dovrebbe generare pressoché necessariamente un progresso politico, sociale, economico e culturale, mentre non solo una tale ideologia ha trasformato o perlomeno contribuito  a trasformare la stessa socialdemocrazia in una forma di neoliberalismo e di neoliberismo ma ha reso possibile anche un “distorto” e perfino disastroso rapporto dell’uomo con l’ambiente, in cui e grazie a cui è possibile la vita, inclusa ovviamente quella degli esseri umani.

***

Ciò nonostante, il fallimento del marxismo (un fallimento “sostanziale”, si intende, dato che comunque il pensiero di Marx e lo stesso marxismo offrono alcune utili “chiavi di lettura” della realtà sociale contemporanea) sembra avere aperto una sorta di “falla pericolosa” nella cultura politica europea che favorisce (a prescindere da patetici, anche se non affatto innocui, “esercizi di nostalgia”) nuove e diverse concezioni politiche che, benché siano difficili da definire, dato che non raramente si caratterizzano per una mescolanza di categorie politiche e culturali non solo differenti ma perfino opposte, hanno però in comune l’avversione nei confronti dell’Occidente e in particolare nei confronti della potenza egemone occidentale. Facile dunque essere sedotti dal “fascino geopolitico” di autocrazie che si contrappongono al liberal-capitalismo occidentale o ai cosiddetti “valori occidentali”, sebbene, di fatto, condividano gli stessi obiettivi del capitalismo predatore occidentale e non siano neppure costrette a fare i conti con un sistema di contropoteri, giacché la loro azione politica non è  limitata da “vincoli” liberali o democratici.

Al riguardo, si dovrebbe tener conto che già nella prima metà del secolo scorso vi erano ottime ragioni per opporsi all’imperialismo occidentale e alle storture del liberal-capitalismo. Legittima e necessaria era cioè la critica dell'imperialismo anglo-americano e francese. Nondimeno, riconoscere la legittimità e necessità di questa critica non equivale certo a giustificare la politica delle potenze dell'Asse o lo stalinismo. Insomma, vi erano mille ragioni per opporsi all’imperialismo occidentale e al sistema di potere liberal-capitalista ma non ve n’era nessuna per difendere il cosiddetto “socialismo reale” (nel senso che non costituiva una alternativa valida all'Occidente liberal-democratico, benché non sia possibile mettere sullo stesso piano il comunismo o l'Unione Sovietica - la cui storia non è neppure solo la storia dello stalinismo - e il nazismo, che, del resto, venne sconfitto grazie anche al contributo e al sacrificio dei popoli dell'Unione Sovietica) o la politica di prepotenza delle potenze “have not”, che miravano a rovesciare la scacchiera geopolitica al fine di istituire un nuovo ordine mondiale di gran lunga peggiore e più feroce di quello liberal-capitalista*. 

Peraltro, anche oggi anzi oggi più che mai è necessario opporsi alla prepotenza del capitalismo predatore e alla tracotanza dell'Occidente neoliberale. Mai come ai nostri giorni, infatti, il processo di civilizzazione rischia di degenerare in una terrificante forma di barbarie, che solo una politica capace di difendere libertà e giustizia sociale e che non ignori il diritto dei popoli può impedire. Ma la storia del secolo scorso sembra non avere insegnato nulla. Si ripetono così gli ignominiosi e grotteschi luoghi comuni contro le cosiddette "demoplutocrazie", quasi che libertà, Stato di diritto e democrazia (democrazia sociale inclusa, si intende) non si dovessero difendere e rafforzare ma abolire del tutto, e come se gli orrori dello stalinismo e il fallimento dell’Unione Sovietica e in generale dei regimi comunisti non fossero mai esistiti. (La Cina rappresenta, in effetti, un caso a sé ma, benché sia discutibile - come ha insegnato Giovanni Arrighi - definire il cosiddetto “socialismo di mercato” con caratteristiche cinesi un sistema capitalista, è innegabile che, nonostante i notevoli successi sotto il profilo economico, il regime politico cinese sia anche nazionalista e presenti marcati tratti illiberali, tanto che attualmente è difficile capire se anche il gigante cinese si lascerà tentare da una politica di potenza e, in sostanza, imperialista). 

***

In questo senso, la guerra che si combatte in Ucraina è una tragedia che impone scelte difficili e dolorose. Difatti, è palese ormai che la Russia di Putin mira a creare un impero in grado di contrapporsi alla Nato e perfino alla civiltà europeo-occidentale nella misura in cui è caratterizzata da una concezione non illiberale della vita. L'Ucraina non può quindi, per il Cremlino, che essere una "regione" della Grande Russia, ovverosia dovrebbe rassegnarsi ad essere inglobata nello spazio geopolitico della Russia e sottomettersi alla volontà del nuovo “zar russo”.

Invero, il regime di Putin (che non si deve assolutamente confondere con la Russia o il popolo russo, giacché la russofobia è un veleno che non deve scorrere nelle vene dell'Occidente) non è stalinista e nemmeno fascista. Il cosiddetto “putinismo” - che manda in solluchero non pochi nazional-populisti, neofascisti o neocomunisti occidentali - è una sorta di mescolanza di tradizionalismo, stalinismo, militarismo e nazional-populismo, ovverosia un’ideologia mortifera che esige che le madri russe siano fiere che i loro figli muoiano “per la patria”, ossia per le ambizioni imperiali del regime di Putin, anziché condure una vita di stenti o annegare nella vodka. 

Che fare allora? Non è forse l’idea stessa di un'Europa come ponte necessario tra Occidente e Oriente che proprio lo “zar russo” ha distrutto con la sua improvvida e scellerata decisione di aggredire l’Ucraina nello scorso febbraio? Naturalmente non si possono ignorare, come invece fanno i neoliberali, nemmeno le responsabilità dell’America, della Nato, dell’Unione europea e dello stesso regime nazionalista ucraino. Il mondo, si sa, non si divide tra buoni e cattivi, anche se talvolta si divide tra amici e nemici, e dunque vi è chi sostiene che anche questa volta deve prevalere la logica secondo cui il nemico del mio nemico è mio amico. Ma chi sarebbe il nemico?

Nel secolo scorso si seppe rispondere a questa domanda, anche se forse allora era meno difficile decidere chi fosse se non il nemico almeno il nemico principale. Tuttavia, è indubbio che gli ucraini adesso stiano combattendo una guerra di liberazione nazionale (indipendentemente dal fatto che si combatta anche una guerra civile e vi sia pure un  “braccio di ferro” tra la Nato o l'America e la Russia)**. D'altra parte, perfino più che la presenza di estremisti nazionalisti e banderisti nelle file ucraine (si pensi, ad esempio, all’Azov, ma come ignorare la presenza nelle file russe del Gruppo Wagner?)***, è il fatto che al fianco degli ucraini vi sia la Nato (e in specie l’America) che impedisce a molti di riconoscere le ragioni del popolo ucraino. Questo è certo un problema serio, sebbene sia ignorato dagli euro-atlantisti, ma chi si batte per liberare il proprio Paese dall’invasore si batte comunque per la libertà (una lotta di liberazione nazionale è comunque una lotta per la libertà, anche se sotto il profilo ideologico il conflitto tra la Russia e l'Occidente si può configurare come un conflitto tra autocrazia e oligarchia neoliberale), tanto è vero che si sono sostenuti anche regimi assai peggiori di quello di Kiev solo perché si battevano contro l’invasore.

Alla domanda “Che fare?”, quindi, chi condivide una concezione politica non illiberale del socialismo e del comunitarismo non può che rispondere che bisogna battersi sì per la pace, ma per una pace “giusta”. E “giusto” in politica è in primo luogo fare ciò che è necessario per tutelare il “ben-essere” della propria comunità, non solo materiale ma anche “morale”. In altri termini, si deve difendere la vita contro la morte ma senza dimenticare che la vita è “più che vita”. D’altronde, nonostante che la “pulsione di morte” sembri avere preso il sopravvento nelle relazioni internazionali, una pace “giusta” non è impossibile, giacché pure in Occidente non mancano coloro che in questi terribili undici mesi di guerra hanno dimostrato di sapere che la necessità di aiutare l’Ucraina a difendersi (certo con la diplomazia ma anche, nella misura in cui è necessario, con le armi) non significa che si debba superare quel “confine” oltre il quale nessuna pace sarebbe più possibile.


*Meglio usare questo termine piuttosto che quello di Stato, a meno che per Stato si intenda uno Stato di diritto che garantisca una forma di autentico pluralismo. In altri termini il Politico, ossia la funzione politica, deve essere tale da garantire tanto i diritti individuali quanto quelli economici e sociali. 

**Si deve anche riconoscere che la posta in gioco in questa guerra concerne la ridefinizione sia delle relazioni tra l'America e l'Ue sia quelle tra l'Europa (continentale) occidentale e l'Europa orientale, nonché i rapporti tra l'Ue e la Russia, poiché pure la Russia è parte costitutiva dell'Europa. Ma è proprio l'aggressione russa contro l'Ucraina che ha creato le condizioni per ridefinire certi rapporti secondo una prospettiva che non è vantaggiosa per Paesi come la Germania, la Francia e l'Italia.

***Si ritiene che il Gruppo Wagner (che è una sorta di braccio armato “privato” del Cremlino) sia stato costituito nel maggio del 2014 proprio per combattere contro l’esercito di Kiev nel Donbas, ma oggi è presente, oltre che in Ucraina, in Siria e anche in Africa, grazie all’ostilità (più che motivata) degli africani nei confronti degli occidentali e in particolare nei confronti dei francesi. Il Gruppo Wagner garantisce a diversi governi africani, che combattono contro il terrorismo islamista, “ordine e sicurezza”, impiegando però metodi brutali (eccidi, omicidi extragiudiziali, torture ecc.), in cambio di denaro o di concessioni per lo sfruttamento di miniere di uranio, oro e diamanti. Il fallimento dell’Occidente in Africa ha quindi nuovamente “aperto le porte” ai mercenari e reso possibile un “differente” modo di depredare le risorse del continente africano.


martedì 24 gennaio 2023

UNA GUERRA ESISTENZIALE?

Lucio Caracciolo qualche giorno fa ha sostenuto (giustamente) che l'America in un certo senso intende “salvare” la Federazione Russa non certo distruggerla o “disgregarla”, sia perché l’esistenza di un “nemico” come la Russia giustifica l’esistenza stessa della Nato sia perché, se la Federazione Russa si sfasciasse,  si creerebbe uno scenario “da incubo”, in quanto è impossibile sapere chi controllerebbe l’enorme arsenale nucleare russo (non a caso all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso furono proprio gli americani a convincere gli ucraini a consegnare le loro testate nucleari alla Russia, in cambio del riconoscimento da parte di Mosca dei confini dell’Ucraina, Crimea inclusa).


Tuttavia, in un articolo pubblicato su La Stampa (il cui senso, peraltro, è stato frainteso da molti, compreso chi ha scritto il titolo di quest’articolo), Caracciolo ha sostenuto che sia per l’Ucraina che per la Russia questa guerra è una guerra esistenziale. Orbene, se la guerra che si combatte in Ucraina è una guerra esistenziale per la Russia allora in questa guerra è in gioco la stessa esistenza della Russia e quindi non si può sostenere che lo scopo dell’America non è la distruzione o la “disgregazione” della Federazione Russa. Si tratta cioè di una evidente contraddizione, che probabilmente è la conseguenza del fatto che non si chiarisce bene che significa una guerra o una minaccia esistenziale per la Russia.


In altri termini, se per la Russia questa guerra rappresentasse davvero una minaccia esistenziale, l’unico modo per eliminarla sarebbe non sconfiggere l’Ucraina (che certo in quanto tale non rappresenta una minaccia esistenziale per la Russia) ma cacciare l’America dall’Europa, o perlomeno cacciare la Nato dall’Europa orientale (ossia eliminare del tutto la presenza della Nato ai confini occidentali della Russia), dato che solo la Nato può costituire una minaccia esistenziale per la Russia. In sostanza, se la guerra che la Russia sta combattendo in Ucraina è una guerra esistenziale allora pure per la Nato, non solo per l’Ucraina, si tratterebbe di una guerra esistenziale. Pertanto, una disastrosa escalation – ossia una guerra tra la Nato e la Russia – sarebbe inevitabile. 

Nondimeno, è proprio Caracciolo che ha chiarito assai bene che per l’America (e quindi per la Nato, dato che è fuori discussione che sia l’America a possedere le “chiavi strategiche” della Nato e quindi in un certo senso anche - insieme ovviamente con la Russia - di questa guerra) non è affatto in gioco l’esistenza stessa della Russia nella guerra che si combatte in Ucraina. Del resto, se l’Ucraina dovesse riuscire a riconquistare i territori perduti in questi undici mesi di guerra, non sarebbe certo messa a repentaglio l’integrità territoriale (quella esistente prima del 24 febbraio, si intende) della Federazione Russa, che continuerebbe anche ad essere una superpotenza nucleare e quindi nessuno (tranne dei folli) potrebbe mettere in serio pericolo la sua sicurezza nazionale. Casomai sarebbe messo a repentaglio il regime di Putin.

Certo questo è un problema assai serio, anche perché non è affatto irrilevante che questa guerra la si stia combattendo ai confini della Russia, in cui sono in gioco le ambizioni imperiali o, se si preferisce, gli interessi vitali del regime di Putin. Ed è pure un problema assai serio il fatto che la Russia potrebbe infliggere una sconfitta tale all’esercito ucraino che solo un intervento militare della Nato potrebbe evitare il collasso dell’Ucraina*. Quando si parla di escalation, dunque, si deve tenere presente che esistono entrambi questi pericoli, benché sia proprio l’idea che in Ucraina la Russia stia combattendo una guerra esistenziale che potrebbe favorire una disastrosa escalation.

*Non sarebbe un disastro per la Nato neppure un crollo della difesa ucraina, sia perché i russi dovrebbero gestire un Paese ostile e debellare l'inevitabile resistenza ucraina  (uno scenario che, benché diverso, ricorda quello dell'Afghanistan), sia perché la pressione della Nato sulla Russia aumenterebbe. Sarebbe quindi folle un intervento della Nato perché appunto non vi sarebbe una minaccia esistenziale per la Nato e comunque sarebbe una vittoria di Pirro per la Russia, che ben difficilmente potrebbe annettere pure la regione di Leopoli (questa sì che potrebbe essere difesa da truppe della Nato).

lunedì 23 gennaio 2023

NEBBIA DI GUERRA

Ormai solo chi crede alla propaganda di Mosca può sostenere che il Cremlino non ha fallito il suo scopo politico e strategico aggredendo l’Ucraina, che consisteva nell’inglobare con la forza l’Ucraina nello spazio geopolitico russo, instaurando un governo filorusso a Kiev e impedendo alla Nato di rafforzarsi ai confini occidentali della Russia. Tuttavia, dopo una serie di sconfitte e umiliazioni inflitte dall’esercito ucraino a quello russo, Mosca ha deciso di prolungare la guerra per annettere almeno alcune regioni dell’Ucraina e infliggere al popolo ucraino la massima punizione possibile, giacché la Russia ha i mezzi e le risorse per continuare questa guerra, sia perché non è isolata, sia perché Mosca ha praticamente messo “sul piede di guerra” l’intero Paese, sia perché, finché il fronte interno “regge”, può permettersi perdite enormemente superiori a quelle ucraine, tanto più che la guerra si combatte non in Russia ma in Ucraina.

Difatti, il vantaggio sotto il profilo del “potenziale umano” che gode la Russia rispetto all’Ucraina è indubbio, e la “quantità” in guerra conta, anche se può non essere il fattore decisivo. Per di più, adesso la punta di diamante dell’esercito russo, oltre ad alcune unità di élite (in specie paracadutisti e forze speciali), è costituita dal Gruppo Wagner, ossia da una formazione militare di mercenari e detenuti che possono essere mandati al macello senza particolari problemi. Non sorprende quindi che la Russia sia disposta a qualsiasi sacrificio per conseguire anche solo una vittoria di Pirro. 

Peraltro, non solo l’Ucraina ha già pagato un costo enorme per resistere all’offensiva russa ma l’esercito ucraino combatte ormai in condizioni di grave inferiorità anche per quanto concerne il numero dei principali mezzi di combattimento, nonostante che sia un esercito assai più motivato e preparato di quello russo, e possa pure contare, grazie all’aiuto della Nato, su una netta superiorità tecnologica rispetto all’esercito russo. D’altra parte, per comprensibili ragioni politiche e militari, l’esercito ucraino non può attaccare direttamente le unità militari o le strutture logistiche e i centri di comando che si trovano all’interno della Federazione Russa. 

In sostanza, adesso che la Russia dispone di più uomini e mezzi per l’Ucraina è certo difficile riuscire a riconquistare tutti i territori perduti in questa guerra. D’altronde, l’Ucraina sta combattendo una guerra di liberazione nazionale, mentre (sebbene non sia affatto irrilevante che la Russia sta combattendo “alle porte di casa”) è non la Russia, al contrario di quanto alcuni affermano, bensì solo il regime di Putin che, almeno in un certo senso, sta combattendo una guerra esistenziale, dato che l’America – nonostante l’ambiguità di Washington per quanto concerne la delicata questione della Crimea - non ha alcuna intenzione di attaccare direttamente la Russia, tanto che si è rifiutata di consegnare all’esercito di Kiev armi in grado colpire “in profondità” il territorio della Federazione Russa. 

Comunque sia, è Kiev - che gode ancora del sostegno della stragrande maggioranza degli ucraini - a dover decidere se vale la pena di continuare a combattere per riconquistare i territori perduti, rischiando pure una sconfitta militare, o se non ne vale la pena poiché comunque quel che conta per l’Ucraina è conservare la propria indipendenza grazie all’aiuto della Nato. E non c’è dubbio che, almeno per ora, Kiev non abbia alcuna intenzione di gettare la spugna.

Ma nella misura in cui le decisioni di Kiev dipendono dall’Occidente, è di fondamentale importanza il modo in cui la Nato intende continuare ad aiutare Kiev. Scartata l’ipotesi demenziale - anche se sostenuta da alcuni “falchi” occidentali, che sarebbe meglio definire “neuro-atlantisti” anziché euro-atlantisti - di un intervento di truppe o aerei da combattimento della Nato in Ucraina, è evidente che degli aiuti militari “a spizzico” non sono più in grado di permettere all’esercito di Kiev di lanciare una nuova controffensiva e forse nemmeno di opporre una valida resistenza all’esercito russo nei prossimi mesi.

Quindi, l’Occidente o, meglio, l’America da un lato non può più permettersi di voltare le spalle all’Ucraina senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa della Nato, dall’altro deve necessariamente evitare una pericolosa escalation, che rischierebbe di trasformare davvero questa guerra in una guerra esistenziale anche per la Russia. Si può ritenere, pertanto, che la Nato - nonostante le differenti posizioni tra i vari Paesi membri dell’Alleanza Atlantica - consegnerà all’Ucraina le armi necessarie per continuare a combattere, sperando che, pur senza minacciare l’integrità territoriale della Federazione Russa, si possa ad arrivare ad una situazione di stallo entro la fine di quest’anno che sia la più possibile favorevole all’esercito di Kiev, e lasciando quindi che la questione del regime di Putin venga risolta dal popolo russo.

Ciò nonostante, si deve riconoscere che attualmente è impossibile sapere come finirà questa guerra, non solo perché con ogni probabilità si devono ancora combattere le battaglie decisive o perché i conflitti all'interno della Nato potrebbero diventare più aspri nei prossimi mesi, ma anche perché non si sa né quanto il Cremlino sia disposto a rischiare pur di non perdere questa guerra né fino che punto il popolo russo sia disposto a sostenere il regime di Putin o a subire le conseguenze di una guerra in cui  - rebus sic stantibus, si intende - non è gioco l’esistenza stessa della Russia.


domenica 22 gennaio 2023

I CARRI ARMATI TEDESCHI E LA DIFESA (NECESSARIA) DELL’UCRAINA

Non sembra affatto esagerato sostenere che gli insuccessi politico-militari degli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale sono dipesi non certo da inefficienza militare o da mancanza di potenza di fuoco, ma proprio dalla incapacità o dalla impossibilità di perseguire uno scopo politico con mezzi militari. Invero, se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, allora scopo politico e obiettivo militare devono necessariamente essere “convergenti”. In altri termini, il piano militare, benché distinto da quello politico-diplomatico, deve essere sempre in funzione di quest’ultimo.

Peraltro, sotto questo profilo, è poco significativo quanto accadde nella Seconda guerra mondiale, in cui praticamente questo problema non esisteva, giacché alle principali potenze dell’Asse si era a deciso di imporre una resa senza condizioni. Allora lo scopo politico – ossia il cambio di regime e perfino del sistema sociale ed economico delle potenze dell’Asse - si poteva perseguire anche con una guerra di annientamento se necessario. Nulla di simile è ovviamente possibile nei confronti della Russia, uno Stato che possiede circa 6.000 testate nucleari.

È in questa prospettiva, quindi, che si devono considerare i “tentennamenti tedeschi” per quanto riguarda la consegna dei carri armati Leopard 2 all’Ucraina. Vale a dire che il problema che questi “tentennamenti” della Germania hanno sollevato concerne soprattutto lo scopo politico-strategico della guerra che l’Ucraina sta combattendo contro la Russia, perlomeno nella misura in cui la guerra russo-ucraina è “anche” un conflitto tra la Nato e la Russia. (Non si deve, infatti, dimenticare che gli ucraini stanno pure combattendo una guerra di liberazione nazionale – ossia una “guerra patriottica” – contro la Russia, che è anche, in un certa misura, una guerra civile, il che del resto è la regola non l’eccezione in una guerra di liberazione nazionale).

Naturalmente, anche per la Germania è fuori discussione che l’Ucraina abbia il diritto di difendersi e quindi che si debba negare alla Russia una vittoria militare contro l’Ucraina. Nondimeno, lo scopo politico della Germania è evitare che si eriga una nuova cortina di ferro in Europa, non solo per ragioni economiche, come alcuni affermano, dato che la Germania- sebbene intenda difendere i suoi interessi economici (Nord Stream incluso) e quindi non abbia intenzione di “tagliare tutti i ponti” con la Russia (e ovviamente neppure di compromettere le sue buone relazioni con la Cina) - praticamente ritiene che avere dei buoni rapporti con la Russia (se non ora almeno dopo che sarà terminata questa guerra) sia comunque essenziale anche sotto il profilo geostrategico e geopolitico. D’altronde, non si può nemmeno dimenticare che il rapporto tra la Germania e la Russia è ancora “condizionato” da quel che è successo durante la Seconda guerra mondiale. 

Comunque sia, la Russia - in quanto tale, si intende – non solo per la Germania ma anche per altri Paesi europei (inclusa la Francia) è pur sempre parte costitutiva dell’Europa e i rapporti con la Russia costituiscono un “sovrappiù” (non solo economico ma anche politico e culturale) di fondamentale importanza per la stessa autonomia politico-strategica dell’Europa. Del tutto differente però è lo scopo politico di altri Paesi europei e in particolare della Polonia, dei Paesi baltici e pure della stessa Gran Bretagna, che mirano ad infliggere una sconfitta disastrosa alla Russia giacché considerano la Russia in quanto tale un loro nemico e perfino un nemico della civiltà occidentale o dei valori occidentali. La Russia, pertanto, anche quando sarà terminata questa guerra continuerà ad essere il nemico principale di questi Paesi e di coloro che ne condividono gli attuali principi (geo)politici o politico-culturali. Ed è proprio un simile scenario che la Germania vuole evitare.

Non meraviglia, pertanto, che gli Stati Uniti abbiano cercato di “mediare” tra queste due diverse e perfino opposte posizioni, ragion per cui si sono limitati a sostenere che è Kiev che deve decidere come difendersi. Affermazione comprensibile ma che in realtà significa ben poco dato che l’Ucraina dipende del tutto dagli aiuti economici e militari dei Paesi membri della Nato, che appunto hanno interessi economici e scopi politici differenti che adesso però rischiano di diventare un problema politico e militare assai grave all’interno della Nato, anche perché è evidente che degli aiuti militari per così dire “a spizzico” penalizzano non poco l’esercito ucraino.

In questo senso, è lecito ritenere che contino più i “tentennamenti” americani che quelli tedeschi. Gli americani, difatti, si sono rifiutati di consegnare agli ucraini aerei da combattimento occidentali e sistemi di artiglieria in grado di colpire “in profondità” il territorio russo, ossia dei mezzi militari che avrebbero permesso alla controffensiva ucraina di conseguire risultati assai maggiori di quelli, pur notevoli, conseguiti nel settembre scorso. D’altra parte, è indubbio che per l’esercito di Kiev per respingere l’attacco russo sia necessario disporre di un “pugno corazzato” nonché poter colpire le “arterie logistiche” dell’esercito russo che passano anche dalla Crimea (una operazione militare che, si badi, non equivale ad una invasione della Crimea). 

La questione dei mezzi militari necessari per la difesa dell’Ucraina, dunque, dipende da quel che si intende per difesa dell’Ucraina ovverosia dallo scopo politico che si vuole perseguire. Insomma, un conto è dare agli ucraini i mezzi necessari per costringere i russi a tornare sulle posizioni che occupavano prima del 24 febbraio scorso, un altro è puntare alla riconquista (con mezzi militari, non politico-diplomatici) anche della Crimea (o addirittura infliggere una sconfitta militare alla Russia tale da causare la caduta del regime del Putin o perfino la disgregazione della Federazione Russa). Quel che i tedeschi (e non solo loro) temono cioè è che si arrivi ad una escalation che potrebbe avere conseguenze disastrose per l’Europa o comunque tali da compromettere definitivamente i rapporti dell’Unione europea con la Russia.

Non è tanto allora la questione della consegna all’esercito ucraino dei Leopard 2 che conta, quanto piuttosto la mancanza di una chiara definizione dello scopo politico della Nato in questa guerra. Vale a dire che ora si deve decidere quale debba essere la strategia politica e militare della Nato contro la Russia.  E non c’è dubbio che questa decisione spetti a Washington, giacché non è un mistero che sia l’America a detenere non solo le “chiavi strategiche” dell’Ucraina ma pure quelle della Nato. In sostanza, è Washington che adesso dovrebbe tracciare una “linea rossa”, stabilendo qual è lo scopo politico della Nato in questa guerra, anche per chiarire bene all’opinione pubblica russa - non al Cremlino che lo sa perfettamente nonostante che menta spudoratamente per indurre il popolo russo a credere che sia la Russia ad essere aggredita e che quindi il popolo russo dovrebbe combattere una “guerra patriottica” contro l’Occidente - che lo scopo politico della Nato o, meglio, dell’America non è certo quello di distruggere la Russia ma di difendere l'indipendenza e la sovranità dell’Ucraina.

D’altronde, negare una vittoria alla Russia è sì necessario (anche se non è affatto facile) ma significa evitare che l’Ucraina venga inglobata con la forza nello spazio geopolitico russo e permettere agli ucraini di decidere liberamente del loro futuro. Consegnare allora dei carri armati di produzione tedesca all’Ucraina non sarebbe una decisione improvvida ma necessaria se appunto lo scopo politico della Nato fosse non quello di infliggere un colpo letale alla Russia (ammesso e non concesso che sia possibile), come si augurano i “falchi” della Nato, ma quello più limitato, anche se di gran lunga più “realistico”, di dare la possibilità all’esercito di Kiev di ripristinare “grosso modo” la situazione che esisteva prima del 24 febbraio scorso, e di garantire, una volta che si giungesse ad un cessate il fuoco, la difesa (anche con mezzi militari, si intende) dell’indipendenza dell’Ucraina.

In definitiva, è possibile difendere le “sacrosante ragioni” dell’Ucraina (anche consegnando dei carri armati tedeschi all'esercito ucraino, dato che si deve riconoscere che ne ha bisogno soprattutto se si tiene conto della capacità di mobilitazione e della produzione di armi della Russia)* senza rischiare di compromettere la sicurezza dell’Europa, che peraltro è essenziale per l’America stessa, qualora prevalga un agire strategico basato su una concezione “realistica” anziché meramente ideologica della “questione russa”, sempre che lo scopo politico dell’Occidente non sia quello di mettere la Federazione Russa con le spalle al muro “sfruttando” la scellerata e, sotto certi aspetti, perfino criminale decisione del Cremlino di aggredire l’Ucraina.

*Ovviamente è Kiev che deve decidere se vale la pena di continuare a combattere per riconquistare i territori perduti, rischiando pure una sconfitta militare, o se non ne vale la pena poiché comunque quel che conta per l’Ucraina è conservare la propria indipendenza, anche considerando che Mosca non è riuscita né ad insediare un governo filorusso a Kiev né ad impedire che la Nato si rafforzasse ai confini occidentali della Russia.

sabato 14 gennaio 2023

GEOPOLITICA ED EGEMONIA

È diventato un luogo comune affermare che l’attuale fase storica si configura come una fase di transizione egemonica. Tuttavia, benché sia innegabile che l’attuale fase storica sia caratterizzata dalla crisi dell’egemonia americana, non vi è una lotta tra potenze per stabilire quale sia la nuova potenza egemone, come accadde nel secolo scorso. L’attuale fase storica, infatti, è caratterizzata piuttosto dalla crescita di molteplici centri di potenza, a livello mondiale e regionale, e di conseguenza dalla formazione di un’area geoeconomica non più egemonizzata dagli Stati Uniti (e che può favorire pure l'impiego di monete diverse dal dollaro). 

Nondimeno, se da un lato questi nuovi centri di potenza (Cina, India, Russia, Turchia, Pakistan, Iran, ma anche Paesi come l’Arabia Saudita, il Vietnam, l’Algeria, il Brasile ecc.) hanno acquisito un’autonomia strategica tale da non permettere più agli Stati Uniti di essere gli indiscussi “arbitri” della politica internazionale e di conseguenza dell’economia mondiale, dall’altro non costituiscono alcun blocco anti-egemonico, dato che alcuni di essi sono perfino in lotta tra di loro.

Va da sé allora che la crisi dell’egemonia americana non si può comprendere “invertendo” il rapporto tra il Politico e l’Economico, come se non fosse stata l’eccezionale crescita della potenza militare dell’America nella Seconda guerra mondiale a creare le condizioni (in particolare già con gli accordi di Bretton Woods, nell’estate del 1944) per stabilire l’egemonia del dollaro. In sostanza, senza egemonia politico-militare non ci può essere un’autentica egemonia economica, anche se la potenza economica è indubbiamente condizione necessaria per acquisire una egemonia politico-militare, come dimostra la stessa crescita della potenza militare americana nel secolo scorso.

Ciò nonostante, ci si potrebbe chiedere se la Cina non abbia le “carte in regola” per prendere il posto dell’America in questo secolo, considerando la sua eccezionale crescita economica negli ultimi decenni. 

Che la Cina sia un gigante economico e pure geopolitico, tale da rappresentare l’avversario più pericoloso per gli Stati Uniti, è indubbio. Ma notevoli sono pure i limiti geopolitici della Cina che - a differenza dell’America che non subisce alcuna pressione geopolitica ai propri confini e non ha alcun problema a “proiettare” la propria potenza nell’Oceano Pacifico e nell’Oceano Atlantico, al punto che sotto il profilo geopolitico l’America si può considerare come una “grande isola” - subisce una fortissima pressione geopolitica sia da terra che dal mare.

 Difatti, la Cina confina non solo con la Russia e il Pakistan ma con l’India e il Vietnam (due Paesi con cui la Cina non è certo in ottimi rapporti) e al tempo stesso subisce la pressione (dal mare) del Giappone, di Taiwan e dell’Australia, ossia tre Paesi (cui si deve aggiungere pure la Corea del Sud) che fanno parte del “sistema geopolitico” egemonizzato dagli Stati Uniti, che del resto comprende anche la quasi totalità dei Paesi europei.

Pertanto, a prescindere dai problemi politici, sociali e anche, sotto certi aspetti, economici che Pechino deve ancora risolvere, evidenti sono i limiti geopolitici (e geografici) che – rebus sic stantibus - impediscono alla Cina una proiezione di potenza simile a quella degli Stati Uniti. D’altronde, il declino dell’America è soltanto un declino relativo. Non solo gli Usa, grazie al loro ruolo di “gendarme” del sistema liberal-capitalista internazionale, possono limitare i danni derivanti da una minore potenza economica (deficit della bilancia commerciale ecc.) e quindi anche “sfruttare” le risorse (economiche e militari) dei propri alleati (ossia, considerando i rapporti di forza, dei propri “vassalli”), ma sono ancora una potenza industriale di primaria importanza in settori strategici - si pensi, ad esempio, all'industria  aereospaziale, a quella dell’elettronica e a quella delle comunicazioni (satelliti inclusi) -, che contano anche e soprattutto sotto il profilo militare.

Casomai - benché non vi sia attualmente (un avverbio necessario) un’alternativa valida al liberal-capitalismo, sempre che non si ritenga tale un regime autocratico o comunque autoritario, “nazionalista” o “imperialista” che sia, ben diverso quindi da un sistema politico-sociale democratico e non “illiberale” ma “con mercato” anziché “di mercato”-, sono dei “fattori endogeni”, per così dire, che sembrano costituire non solo per l’America ma per il mondo occidentale il problema più difficile da risolvere, dato che è proprio il sistema liberal-capitalista che genera sempre più squilibri e problemi (anche di carattere geopolitico, ovviamente) che non riesce a risolvere.

In definitiva, gli ordinamenti politici e sociali dei diversi attori geopolitici incidono pure sul modo in cui questi ultimi agiscono sulla scacchiera mondiale (come ha dimostrato anche la guerra che si combatte in Ucraina), ragion per cui un’analisi geopolitica deve necessariamente tener conto anche del contesto storico e politico-culturale che caratterizza il declino (relativo) dell’attuale potenza egemone nonché la stessa formazione di un “mondo multipolare”.

giovedì 12 gennaio 2023

UN RIMEDIO PEGGIORE DEL MALE

Sostenere che in Ucraina si combatte "solo" una guerra per procura significa né più né meno considerare decine di milioni di ucraini (ossia la stragrande maggioranza del popolo ucraino) degli zombi al servizio di Washington.

In realtà, indipendentemente dal giudizio sul regime di Kiev, gli ucraini (piaccia o no) stanno combattendo una guerra patriottica o di liberazione nazionale contro la Russia, che è "anche" una guerra civile (ma questa è la regola non l'eccezione nelle guerre di liberazione nazionale) e una guerra per procura, nel senso che la Nato o, se si preferisce, l'America ha interesse ad indebolire il più possibile la Russia di Putin.

Insomma, il fatto che la guerra russo-ucraina sia o sia diventata, per gli ucraini, una guerra di liberazione nazionale non si può ignorare - se non per ragioni meramente ideologiche o, per così dire, per "analfabetismo politico" spacciato per "realismo geopolitico" -, anche se si riconosce che questa guerra si configura come uno scontro, sia pure "indiretto", tra potenze liberal-capitalistiche e una potenza nazional-capitalista.

 Sotto questo aspetto si deve certo anche considerare la questione della crisi di egemonia della principale potenza liberal-capitalista e della formazione di nuovi centri di potenza. Nondimeno, se è vero che questi centri di potenza anti-egemonici ambiscono ("giustamente") ad acquisire una maggiore autonomia strategica e limitare la prepotenza della potenza egemone, è pur vero che alcuni di essi (tra cui certamente la Russia di Putin) nutrono delle palesi "ambizioni imperiali", non diversamente - sia pure solo sotto certi aspetti, s'intende - dalle potenze dell'Asse, la cui politica era certamente caratterizzata da una forma di imperialismo di gran lunga più aggressivo e feroce di quello delle potenze occidentali. 

In definitiva, anche sotto il profilo geopolitico si conferma che la politica di potenza di un regime politico autocratico e illiberale non costituisce una alternativa al capitalismo predatore occidentale, ma rappresenta, in sostanza, solo una forma di capitalismo predatore perfino più aggressivo di quello (neo)liberale, in quanto non limitato, a differenza di un regime politico liberal-capitalista, da nessuna forma di "contropotere".

giovedì 5 gennaio 2023

UNA GUERRA DI LIBERAZIONE NAZIONALE

 Non sembra errato ritenere che la violenza dell'esercito russo nei confronti dei civili ucraini sia soprattutto il frutto avvelenato della cosiddetta "denazificazione" dell'Ucraina, che a sua volta è conseguenza di una immagine fasulla dell'Ucraina e della sua storia. 

Del resto, con ogni probabilità la maggior parte dei soldati russi sa poco o nulla  della storia dell'Ucraina, di modo che è facile per la propaganda russa sostenere che gli ucraini sono una massa di "nazisti" o  dei "collaborazionisti" solo perché non accettano che l'Ucraina sia parte della Russia.

Nondimeno, questa violenza "istituzionalizzata" dell'esercito russo nei confronti dei civili ucraini  si è rivelata essere il cemento che unisce il popolo ucraino e il regime di Kiev (in cui certo sono presenti estremisti nazionalisti di varia specie), tanto è vero che la guerra contro la Russia  si è trasformata in una guerra di liberazione nazionale (benché sotto certi aspetti si configuri anche come una guerra civile, come è accaduto in altre guerre di liberazione nazionale), in cui le differenze ideologiche contano assai meno della volontà di sconfiggere l'invasore. Perfino Bandera, che per molti ucraini non era affatto un eroe positivo prima della guerra, ora da molti ucraini è considerato un eroe soltanto perché combatté per l'indipendenza dell'Ucraina.

Certo, che il regime di Kiev sia appoggiato dalla Nato e che nelle file dell'esercito ucraino vi siano formazioni "paranaziste" (come il reggimento Azov) o comunque ultranazionaliste non è politicamente irrilevante, anche se i media occidentali cercano di ignorare questo problema (peraltro è chiaro che la condanna del regime di Putin non implica l'apologia della prepotenza dell'Occidente neoliberale). 

Nondimeno, il fatto che per la maggior parte degli ucraini la guerra contro la Russia adesso è soprattutto una guerra di liberazione nazionale ha mutato i "parametri" con cui si giudicava la questione ucraina prima del 24 febbraio scorso. Non si tratta più cioè solo dello scontro tra la Nato (in pratica l'America) e la Russia per il "controllo" dell'Ucraina, perlomeno nella misura in cui le ambizioni imperiali del regime di Putin implicano la negazione della stessa identità politico-culturale ucraina.

In definitiva, stando così le cose, l'errore più grave che i nazionalisti di Kiev (e l'America) potrebbero commettere è cercare di mettere la Russia con le spalle al muro, dando così al regime di Putin la possibilità di trasformare l'invasione dell'Ucraina in una "guerra patriottica" contro l'Ucraina e la Nato. Tuttavia, nonostante che in Occidente vi sia chi vuole, per così dire, "giocare alla roulette russa", almeno per ora è l'Ucraina che sta combattendo la sua "grande guerra patriottica" (ed è proprio la politica di Putin ad avere creato le condizioni perché ciò fosse possibile). Sotto questo aspetto, dunque, la questione del regime nazionalista ucraino conta tanto quanto poteva contare la questione del regime di Stalin nella Seconda guerra mondiale, indipendentemente dalla differenza macroscopica tra l'attuale regime di Kiev e quello stalinista.