lunedì 29 ottobre 2012

IL MEDITERRANEO FATTO A PEZZI


Sorprende che il direttore di “Stratfor”, George Friedman, nella sua analisi (1) dell’assassinio dell’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens, non prenda in alcuna considerazione la strategia dell’amministrazione Obama, ma si concentri invece sul fatto, abbastanza scontato, che la caduta di un regime ostile ai “valori” della democrazia liberale occidentale non comporta necessariamente che si producano delle condizioni più favorevoli per gli interessi dell’Occidente, ossia, in primo luogo, per gli interessi degli Stati Uniti. In particolare, a Friedman sembra premere di mettere in evidenza che la situazione che si è venuta a creare in Libia potrebbe ripetersi anche in Sira, qualora dovesse cadere il regime di Assad, dato che per il direttore di “Stratfor” è palese che la retorica dei diritti umani senza “realismo politico” può facilmente generare l’opposto di quel che gli attivisti per i diritti umani si propongono di realizzare.

Nondimeno, questo non significa che Friedman sia così ingenuo da ritenere che la contrapposizione tra essere e dover essere sia la vera questione geopolitica che gli Usa devono attualmente risolvere. Piuttosto, al di là del senso letterale delle sue parole,è lecito supporre che egli si faccia portavoce, in qualche modo, delle preoccupazioni di certi ambienti statunitensi che temono che l’alleanza degli Usa con l’islamismo radicale e il ruolo sempre maggiore delle monarchie del Golfo sulla scena internazionale possano condurre gli Stati Uniti a trovarsi in situazioni ancor più complesse e pericolose di quelle che, con l’amministrazione di Bush junior, hanno di fatto mostrato i limiti della potenza americana, sancendo il definitivo tramonto dell’unipolarismo statunitense.

Ma è proprio tale declino relativo (e l’accento si deve porre tanto sul sostantivo quanto sull’aggettivo) che non lascia molto spazio all’azione strategica della maggiore potenza occidentale (e mondiale), che pur si deve necessariamente confrontare con una realtà multipolare, benché ancora allo “stato nascente”, se non vuole  collassare sotto il peso, per così dire, del proprio gigantesco apparato militare. Un apparato – si badi – senza il quale verrebbe meno quella funzione di gendarme dell’oligarchia occidentale che gli Stati Uniti svolgono da decenni e che garantisce al grande Paese nordamericano di poter continuare a finanziare con capitali stranieri un debito pubblico enorme, con una bilancia commerciale in passivo a partire addirittura dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso.

In quest’ottica, allora, si dovrebbe comprendere che le conseguenze “non volute” di quella che si suole definire come la geopolitica del caos sono, in un certo senso, un rischio che gli Usa non possono permettersi di non correre, potendo anzi esse stesse configurare degli scenari tali da offrire all’America l’opportunità di nuovi “interventi umanitari”, anche laddove altrimenti sarebbe, se non  impossibile, indubbiamente assai più difficile intervenire. Del resto, è noto che l’America si è fatta “sorprendere” così tante volte (da Pearl Harbor all’ 11 settembre 2001) da rendere plausibili perfino le ipotesi complottiste più strane ed assurde, anche per aver quasi sempre saputo sfruttare al meglio siffatte “sorprese strategiche”. Comunque sia – indipendentemente dall’affermazione di Friedman secondo cui «it is simply not clear [...] that removing a dictator automatically improves matters. What is clear to me is that if you wage war for moral ends, you are morally bound to manage the consequences» – (2) avendo preferito un “approccio indiretto” allo “scontro frontale” (o, se si preferisce, una guerra di movimento ad una guerra di posizione) che caratterizzava l’amministrazione neocon di Bush junior, è inevitabile che l’America possa, suo malgrado, trovarsi ad interpretare il ruolo dell’apprendista stregone che evoca forze che non è in grado di controllare.

Ecco perché, a nostro avviso, è necessario considerare la strategia globale degli Stati Uniti, in una fase storica in cui non si sono ancora delineati gli equilibri di un ordine mondiale multipolare, per capire che  cosa spinge gli Usa a impegnarsi così a fondo nell’area mediterranea, nonostante la sfida con la Cina sia più decisiva ogni giorno che passa. E quale sia la ragione che spinge gli Stati Uniti a cercare ad ogni costo di ridisegnare l’intera mappa geopolitica dell’area mediterranea lo ha chiarito, con la consueta lucidità intellettuale, Gianfranco La Grassa, a cui non sfugge che la strategia mediterranea degli Stati Uniti è da mettere in relazione con il fatto che per i “centri egemonici” atlantisti il nemico principale è ancora la Russia. Tanto è vero che La Grassa rimprovera, giustamente, alla Maglie (che ha scritto un articolo dal titolo significativo: Ci siamo portati Al Qaeda in casa. Ecco il risultato della folle guerra voluta da Sarkò, Obama e Napolitano) (3) di non aver capito «gran che della differenza tra strategia di impegno diretto (che nel Pacifico ha solo scopi di “contenimento” rispetto alla Cina) e strategia di attacco indiretto tramite appunto il caos e il pantano, in cui si mira come obiettivo primario alla piena subordinazione dell’Europa in funzione anti-russa».(4)

Infatti, se da un lato l’articolo della Maglie ci induce a tener presente quanto siano forti le tensioni all’interno del “gruppo dominante” statunitense a meno di due mesi dalle elezioni presidenziali  americane e soprattutto quanto possa essere forte la pressione delle lobby (filo)sioniste perché Washington appoggi nella maggior misura possibile Israele (in specie nei confronti dell’Iran -  sebbene al riguardo si debba constatare la convergenza “oggettiva” della politica israeliana con quella delle petromonarchie), di modo che gli Usa possano venire coinvolti direttamente nel Medio  e Vicino Oriente per sostenere la politica di potenza dello Stato sionista, dall’altro è di vitale importanza per gli Stati Uniti agire in una prospettiva geostrategica che non può non essere globale. Il che dovrebbe farci riflettere anche sul ruolo determinante (e politico!) dei tecnocrati cosiddetti “europeisti” nell’azzerare la civiltà sociale europea e nel dissolvere le identità nazionali del Vecchio Continente nel mercato globale.

Di fatto, è indubbio che si sia in presenza di un’unica strategia di attacco che si sviluppa su diversi fronti, relativamente indipendenti l’uno dall’altro (è per questo che le vere cause della rivolta contro il regime di Assad sono di natura geopolitica, contando molto più l’azione di potenze straniere che non quella dell’opposizione “interna”). Epperò è il disegno complessivo (certo in continua evoluzione e soggetto anche a notevoli cambiamenti) che conferisce una reale unità d’azione alla politica statunitense, sì che si deve ritenere che lo stesso conflitto tra “dominanti”, benché possa essere assai duro, concerna nella sostanza non tanto il fine quanto i mezzi per conseguire il fine (pur tenendo conto di tutto ciò che questa lotta può implicare sotto il profilo delle differenti sfere di influenza, della distribuzione delle quote di potere e così via).

Pertanto, a nostro giudizio, sono pienamente condivisibili le considerazioni di La Grassa, il quale sostiene esplicitamente che «l’utilizzazione dell’area nord-africana e medio-orientale e di quella europea (entrambe da non considerarsi in una loro, inesistente, indifferenziata unità) [...] ha sue finalità specifiche in merito alla lotta per la supremazia in vista di una fase di crescente multipolarismo (se non ancora di accentuato policentrismo conflittuale) [e] tutto ciò è fondamentale per capire quanto accade in Italia» (5). Insomma, come dicono i francesi, tout se tient, anche se solo  i prossimi mesi ci potranno aiutare a distinguere l’essenziale dal contingente, in specie una volta che si conoscerà l’orientamento geopolitico in base a cui la Casa Bianca prenderà le sue decisioni.

Tuttavia, appare evidente che se per l’America può valere il detto che “chi semina tempesta, raccoglie vento”, i maggiori danni verranno subiti non tanto dall’America quanto dall’Europa – e soprattutto da Paesi mediterranei, come la Grecia, la Spagna e l’Italia. Peraltro, contrariamente a quel che le “anime semplici” possono pensare, ne sono una dolorosa conferma proprio le ripetute dichiarazioni di stima nei confronti di Monti da parte di Obama. E siamo sicuri che sia facile intuire i motivi che ci portano a questa conclusione, a patto che si sappia leggere correttamente la storia recente del nostro Paese. Una storia di cui non si conosce tutto, ma abbastanza per valutare e giudicare, ora che, “defenestrato” il clown di Arcore, è il popolo italiano che deve subire le conseguenze drammatiche di una crisi geopolitica ed economica che sta facendo a pezzi l’intera regione del Mediterraneo allo scopo di salvaguardare gli interessi della grande isola d’Oltreoceano e dei suoi principali alleati.





(1)https://mail.google.com/mail/u/0/hl=it&zx=1timxn745yvmz&shva=1#inbox/139d8d93bc67db4b

(2)Ibidem.

(3)”Libero”, giovedì 13 settembre 2012, p.9.

(4)http://www.conflittiestrategie.it/chi-semina-vento-scritto-da-giellegi-il-16-settembre-12

lunedì 8 ottobre 2012

EURASIATISMO E SOVRANITA’ NAZIONALE




In due articoli, pubblicati circa un anno fa (1), avevamo sollevato la questione della sovranità nazionale nell’epoca che Carl Schmitt denomina l’epoca dei “grandi spazi” (ci riferiamo cioè alla cosiddetta Grossraumteorie), mettendo in evidenza che indipendenza dell’Europa e sovranità dei singoli Stati europei sono due facce della medesima medaglia. Una concezione che non solo esclude di per sé ogni “tentazione” di carattere nazionalista, ma che soprattutto non lascia dubbi su quale sia l’autentico nemico dell’Europa, tanto è vero che siamo ancora fermamente convinti che sia «della massima importanza capire che uno Stato europeo dovrebbe esercitare la propria sovranità “nei limiti e nelle forme” di uno “blocco geopolitico continentale”, ammesso che l’Europa non voglia rassegnarsi ad essere una provincia degli Stati Uniti». (2)

Non possiamo quindi non condividere quanto afferma Claudio Mutti, in una recente intervista rilasciata a Michele De Feudis, secondo cui «la sovranità italiana, che è inseparabile da quella tedesca ed europea, può essere recuperata solo ricacciando l’occupante statunitense oltre l’oceano dal quale è arrivato una settantina d’anni fa» (3). Al riguardo, è  degno di nota che anche Gianfranco La Grassa, sia pure in un’ottica culturale diversa, metta in guardia dal «seguire ambienti falsamente sovranisti» giacché, se non si deve (giustamente) fare «nessuna concessione al vecchio nazionalismo e al mero concetto di Patria, tanto meno all’idea di superiorità di un qualche popolo o di una qualche cultura» (4), è fondamentale pure comprendere che la critica dell’europeismo si può considerare in funzione di una reale sovranità nazionale se e solo se si individua l’obiettivo principale di questa critica negli Stati Uniti e di conseguenza nella pressoché totale subalternità dell’Unione Europea agli interessi d’Oltreoceano. Con le parole di La Grassa: «La UE è nata in definitiva sotto l’egida, e quasi continuazione, dell’opera compiuta ben prima tramite la Nato». (5) Sotto questo punto vista, è evidente che l’indipendenza dell’Europa presuppone la critica “in radice” dell’europeismo dei tecnocrati al servizio dei “mercati», ossia dei vari Draghi e Monti.

Ci si dovrebbe allora rendere conto della necessità di appoggiare tutti quei movimenti “sovranisti” a cui non sfugga che in questa fase storica la stessa lotta sociale dipende in primo luogo dal conflitto per il controllo di aree di vitale importanza sotto il profilo geopolitico e geoeconomico. Non a caso, è proprio la classe dirigente italiana – ovvero la più anti-nazionale ed anti-sovranista d’Europa – a svolgere un ruolo essenziale nell’Europa occidentale in qualità di “agente” della potenza predominante e al tempo stesso ad essere “in prima linea” contro il sistema sociale europeo per adeguarlo agli standard del capitalismo angloamericano. Sotto questo aspetto, affermare con La Grassa che «solo una lotta sempre più acuta tra [...] dominanti, come avevano capito Lenin e Mao, può scardinare le loro strutture di potere e aprire varchi a effettivamente radicali mutamenti storici» (6), significa riconoscere che è indispensabile saper agire in base ai reali rapporti di forza, individuando correttamente lo Schwerpunkt nel dispositivo nemico, secondo la lezione di Von Clausewitz, il grande teorico della guerra: «[...] come il centro di gravità si trova sempre là dove è concentrata la maggior parte della massa, ed ogni urto contro tale centro ha la massima efficacia sull’insieme, così deve avvenire in guerra e perciò l’urto più forte deve avvenire contro il centro di gravità».(7) Sicché colpire lo Schwerpunkt equivale a poter dissolvere la coesione del dispositivo nemico e creare nuove “sfere di azione”, non solo per quanto concerne la geopolitica, ma appunto anche per quanto concerne le relazioni sociali ed economiche.

In questa prospettiva, ci pare che siano “più avanti”, almeno in un certo senso, quei movimenti politici – denominati, assai genericamente, “populisti” – che, pur non potendo essere considerati “socialisti”, mostrano di essere delle forze effettivamente “antagoniste” nei confronti degli Stati Uniti e, in generale, dell’oligarchia atlantista, sulla base di un orientamento che si potrebbe denominare ”nazionalpopolare”. Non meraviglia pertanto che Mutti osservi che «sarebbe già sufficiente se l’Italia potesse prendere a modello l’esperienza politica ungherese. Ma nella classe politica italiana non si riesce a vedere nessuno che abbia gli attributi di Viktor Orbán». (8) Tuttavia, si deve prendere atto che anche negli altri Paesi europei si è ancora in presenza di una protesta nei confronti dell’europeismo (made in Usa, per intendersi), in particolare per motivi socio-economici (peraltro più che condivisibili), da parte di gruppi politici scarsamente collegati tra loro, mentre oggi più che mai occorrerebbe una strategia imperniata sull’esigenza di difendersi da un nemico comune. In ogni caso, decisivo è non cadere nell’errore di demonizzare la Germania, avendo ben presente qual è la potenza che i “mercati” sovrani rappresentano o che comunque permette ai “mercati” di essere sovrani – dato che senza lo Stato verrebbe meno proprio quella funzione  che Gramsci definisce l’egemonia corazzata di coercizione. (9)

Nondimeno, l’enorme incremento della potenza distruttiva dell’apparato bellico statunitense, sembra mascherare in qualche modo (giacché è solo apparentemente un paradosso) l’indebolimento degli Stati Uniti come unico “centro regolatore” a livello mondiale; un indebolimento che, lasciando ampi margini d’azione a centri (sub)dominanti, potrebbe generare anche le premesse per un’azione politica e culturale che abbia di mira una ridefinizione della sovranità nazionale, secondo un’immagine dell’Europa che sia espressione delle diverse identità che la costituiscono. Il che è possibile non solo riconoscendo la più ampia autonomia possibile ai singoli Stati europei (nonché valorizzando la specificità delle diverse aree europee, come quella mediterranea e quella baltica), ma anche (a conferma che la geopolitica è necessaria, ma non sufficiente) facendo valere un’idea di bene comune , di “giusta misura”, contro la prepotenza dei “mercati”. Vale a dire un progetto che sarebbe realizzabile solo dando  vita ad una alternativa multipolare che mettesse fine all’egemonia atlantista. Perciò è innegabile che «la via da percorrere [...] non è quella del pollaio nazionalistico, ma quella della liberazione dell’Europa, in sinergia coi grandi Stati eurasiatici che si oppongono all’unipolarismo americano». (10) Ed è proprio l’esigenza di combattere contro un nemico comune, per tutelare le proprie radici e per promuovere la giustizia sociale, che richiede di superare ogni forma di nazionalismo, al punto che non è azzardato ritenere che un movimento europeo che voglia essere davvero sovranista dovrebbe anche far leva su quella dimensione spirituale della storia che ci rende impossibile non considerare l’Oriente come parte costitutiva del nostro essere europei. In questo senso, l’eurasiatismo, mostrandosi solidale con un’idea di Europa intesa come un tutto differenziato e non come un’appendice occidentale del “mercato americanocentrico”, permette di difendere una forma equilibrata di “sovranismo”, a partire dal quale sia possibile riprendere insieme con le genti dell’Eurasia un cammino iniziatosi molti secoli fa e che, in verità, non si è mai del tutto interrotto.





NOTE:

1.http://www.cpeurasia.eu/1724/sovranita-nazionale-e-alternativa-multipolar;
http://www.cpeurasia.eu/1762/indipendenza-delleuropa-sovranita-nazionale-e-crisi-globale .

2.http://www.cpeurasia.eu/1762/indipendenza-delleuropa-sovranita-nazionale-e-crisi-globale .

3.http://www.eurasia-rivista.org/oltre-il-nazionalismo-per-difendere-il-soggetto-europa/17102/ .

4.http://www.conflittiestrategie.it/difficile-lettura-della-fase-scritto-da-giellegi-25-sett-12

5.Ibidem.

6.Ibidem.

7.Von Clausewitz, Della guerra, l. 6, cap.XXVII.

8.Claudio Mutti, cit.

9.Gramsci, Quaderni dal carcere, 4 voll., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, pp. 763-764.

10.Claudio Mutti, cit.

http://www.eurasia-rivista.org/eurasiatismo-e-sovranita-nazionale/17146/

lunedì 27 agosto 2012

INTERVISTA A FABIO FALCHI, REDATTORE DI "EURASIA"

Intervista a cura di N. Speranskaja e A. Bovdunov (Movimento Evrazija, Mosca)


D.- Qual è la tua visione del mondo di oggi e dell’attuale sistema globale? Lo reputi giusto? Se sì, perché? Altrimenti, come pensi che dovrebbe trasformarsi? Si sta già trasformando?

R.- Per rispondere a questa domanda, si deve tener conto che secondo Carl Schmitt lo spazio “vuoto”, neutro ed in-definito che segna l’inizio della talassocrazia inglese viene ad essere sostituito nel XX secolo dal nuovo spazio “globale” di-segnato dai moderni mezzi di comunicazione di massa e di trasporto. L’ hybris talassocratica degli inglesi cioè sfocerebbe nella conquista dell’aequor infinito dell’aria. Una concatenazione logica collegherebbe questi diversi momenti. E la potenza che li avrebbe compresi e fatti propri è la potenza egemone della nostra età: gli Stati Uniti. Ma in quanto espressione più coerente della illimitata volontà di potenza che caratterizza una talassocrazia, si tratta di una potenza che si fonda e non può non fondarsi sullo sradicamento di ogni altro ethos: perfetto “rovesciamento” dell’idea di “limite”, di “giusta misura”, che è a fondamento della Grecità e di conseguenza della civiltà europea. Una volontà di potenza che, scomparsa l’Unione Sovietica (che fungeva da katechon, poiché in qualche modo, “tratteneva” e impediva il dilagare del “negativo”) ha mostrato il suo vero volto, cercando di assoggettare tempi, luoghi e popoli “diversi”. E tuttavia, il furor dell’homo occidentalis, proprio perché si converte necessariamente nella distruzione di ogni prossimità, non può non incontrare la resistenza di chi non è disposto a svellere le proprie radici in cambio di una illusoria ed effimera libertà. Anche la potentissima macchina mediatica di Hollywood, sotto questo profilo, incontra (per fortuna) ostacoli insuperabili. Si spiega allora perché il “modello unipolare” neo-atlantista, a soli venti anni dalla caduta del muro di Berlino, è con ogni probabilità già fallito. Ciò significa che allo spazio omogeneo-totalitario della globalizzazione made in Usa, del “rizoma” perfettamente integrato nel mercato globale, che “fonda” la propria identità sulla negazione di ogni altra identità e di ogni altra differenza, è ancora possibile – e necessario se non ci si vuole “annullare” nella massa globalizzata ed eterodiretta dei “consumatori” – contrapporre tanto il “dia-logo” basato sul riconoscimento reciproco delle “differenti identità”, quanto il prendersi cura delle proprie radici.

D.- Cosa pensi delle idee di globalizzazione (ad esempio, un “mondo con governo unico”) o di una capacità di governo mondiale? È possibile o auspicabile?

R.- L’idea di un governo mondiale, oltre ad essere detestabile in sé, si basa sulla convinzione che il Politico e quindi il conflitto non siano il “destino” dell’uomo. Il che è manifestamente falso. Oggi invece si è presenza di nuovi attori geopolitici – i Brics, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, l’Unione Eurasiatica e naturalmente la stessa Unione Europea – che, se non hanno sostituito gli Stati nazione, certo sono la prova che questi ultimi sono ormai troppo piccoli per confrontarsi con le sfide del XXI secolo. Si conferma quindi la validità della Grossraumteorie sostenuta da Schmitt, secondo cui «tra l’unità del mondo, per ora utopica, e l’èra, passata, delle precedenti dimensioni spaziali si intercala per qualche tempo lo stadio della formazione dei grandi spazi» (L’unità del mondo e altri saggi). Il che, peraltro, induce Schmitt a valorizzare significativamente l’iconografia ( differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni e tradizioni) delle diverse entità poltitico-geografiche.

D.- È possibile un ordine multipolare? Come potrebbe delinearsi un mondo multipolare ai giorni d’oggi? Sarebbe preferibile a un mondo unipolare o bipolare? Se sì, perché?

R.- E’ alla fine degli anni Ottanta che atlantismo e sionismo si sono venuti a configurare come pilastri cardine del nuovo modello unipolare americano, allo scopo di imporre, su scala planetaria, la logica del “turbocapitalismo” e di impedire a nuovi “soggetti politici” di poter cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio. Oggi ci troviamo invece in un situazione contrassegnata dal fallimento dell’unipolarismo, ma senza che vi sia ancora un autentico multipolarismo. Ciononostante, è innegabile che, rispetto a due decenni fa, il ruolo degli Usa sia nettamente cambiato: la superpotenza protesa verso il dominio dell’Eurasia e quindi dell’intero pianeta, mostra di avere una base economica insufficiente per “sostenere” il gigantesco Warfare State che permette agli Usa di svolgere il ruolo di gendarme mondiale e poter così non solo continuare a finanziare il proprio debito con capitali stranieri, ma anche evitare che la “tendenza multipolare” che si va profilando sullo scacchiere globale possa mettere in discussione l’egemonia americana. Al riguardo, però occorre precisare che non si conosce nessuna legge della storia in base a cui si possa affermare che la talassocrazia americana sia sul punto di collassare. E’ invece lecito affermare che, con ogni probabilità, l’iniziativa strategica rimarrà saldamente nelle mani degli Usa, fino a quando non vi sarà un blocco di alleanze tale da interdire agli Stati Uniti l’accesso alle direttrici geostrategiche che consentono di dominare l’Eurasia.

D. Cosa descrive un “polo” nella teoria delle relazioni internazionali? Come colleghi il concetto di “polo” con altri concetti strutturali dell’analisi delle relazioni internazionali come “Stato sovrano” o “Impero” o “Civiltà”? La sovranità, intesa come concetto, è oggi messa in discussione dalla globalizzazione e dall’idea di governo mondiale? La Teoria delle Civiltà è un valido strumento nello studio delle relazioni internazionali?

R.- Di fatto, se in questi ultimi anni si è confermata l’ipotesi schmittiana della formazione di “grandi spazi”, intermedi tra lo Stato mondiale e i singoli Paesi, si è anche assistito, oltre alla “rinascita” della Russia dopo gli anni bui dell’era Eltsin, al consolidamento ed al rafforzamento di Stati nazione quali, ad esempio, la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia ed il Brasile; ossia ad un fenomeno storico che pare problematico definire “semplicemente” come una “specie di occidentalizzazione”. Ché sarebbe una definizione – al di là della relazione tra modernizzazione e “occidentalizzazione” e di quella tra modernità e postmodernità, o, in altre parole, al di là dei problemi concernenti l’essenza di quel che si intende per “Occidente” – certo assai poco convincente sotto l’aspetto politico; e non solo politico, giacché ciascuna di queste “resistenze” nei confronti del mercato globale è anche il “pro-dotto” di un determinato “sub-stratum culturale” che, nonostante le molteplici fratture che contrassegnano ogni tradizione, continua a condizionare la lotta politica e sociale. Del resto, la stessa “krisis europea”, in quanto è essenzialmente un fenomeno politico e culturale, non si è affatto risolta con la fine del socialismo (“reale” o no che fosse), come attesta il ripetersi, benché in modi diversi, del conflitto tra le esigenze di una “ragione pubblica” – interprete di “iconografie identitarie”, di legami comunitari e di molteplici mondi vitali e quindi in grado articolare un determinato “polo geopolitico – e gli interessi del “mondo occidentale”. Gli interessi cioè di un aberrante Wille zur Macht, che deve contrastare l’azione di quelle “energie storiche” che, sebbene siano latenti (perciò non immediatamente riconoscibili e tali da alimentare differenti e perfino “contraddittori” percorsi politici e culturali), costituiscono ancora un orizzonte di senso possibile, nettamente opposto rispetto al “caos organizzato” (la “geopolitica del caos” appunto) che “in-forma” il sistema di potere “occidentale”.

D. Come vedi il ruolo del tuo Paese in un possibile sistema multipolare?

R.- Se si prende in esame il nostro Paese, è evidente non solo che il degrado istituzionale è giunto al punto di minare le fondamenta stesse dello Stato, ma che i partiti non rappresentano altri interessi se non quelli di alcune lobbies, di cui fanno parte non pochi di coloro che dovrebbero servire lo Stato e che invece non si fanno alcuno scrupolo di porsi al servizio di potentati economici stranieri. Una situazione resa ancor più drammatica dalla crisi del debito pubblico, che ha portato al commissariamento dell’Italia, da parte della Bce e dei cosiddetti “mercati”, che paventano che la crisi dei “debiti sovrani” possa avviare un nuovo corso della politica europea, dato che non v’è dubbio che la soluzione della crisi – intesa come “krisis”, cioè come scelta, “decisione” – consiste nel riconoscere che l’indipendenza del continente europeo dagli Usa è condicio sine qua non di ogni altra autonomia dei popoli europei. In questa prospettiva, il futuro del nostro Paese sembrerebbe già deciso. Nondimeno, com’è noto, si tratta di una crisi che concerne l’intera Europa e che è connessa al declino “relativo” degli Stati Uniti, di cui è parte costitutiva lo stesso sistema finanziario. Pertanto, è logico che l’attrito, l’eterogenesi dei fini, le lotte all’interno del gruppo dominante e tra i subdominanti, le scelte che inevitabilmente l’Europa dovrà fare per evitare di collassare e la necessità di confrontarsi con nuove “realtà geopolitiche” possano “interagire” in modo del tutto imprevedibile con la crisi dell’unipolarismo americano. In ogni caso, se, come giustamente sostiene Aleksandr Dugin, l’alternativa all’atlantismo e al liberalismo si deve cercare non nel passato, qualunque esso sia, bensì nel futuro, allora non è affatto impossibile che quel che oggi pare essere “destinato” alla sconfitta, possa invece capovolgere la situazione a proprio vantaggio. Vale a dire che non è affatto impossibile che si producano delle condizioni che permettano di contrapporre alla “pre-potenza” dell’atlantismo ed ai “mercati sovrani” i diritti e la sovranità delle genti dell’Eurasia. Se così fosse però non sarebbe l’Economico, ma il Politico a “decidere”. Ed è questo forse l’unico motivo per cui, nonostante tutto, vale ancora la pena di continuare a lottare per un’Italia “diversa”, in un prospettiva non solo europea, ma anche e soprattutto eurasiatica.

http://www.eurasia-rivista.org/intervista-a-fabio-falchi-redattore-di-eurasia/15019/



mercoledì 25 aprile 2012

INNOVAZIONE STRATEGICA E CONFLITTO GEOPOLITICO


Uno dei meriti indiscutibili dello studioso austriaco Joseph Schumpeter è quello di aver compreso il ruolo centrale della figura dell'imprenditore in un'economia capitalistica. Favorendo l'innovazione tecnologica, il mutamento dell'organizzazione della struttura produttiva e la diffusione di nuovi prodotti l'imprenditore promuove quella “distruzione creatrice” senza la quale la società di mercato sarebbe destinata a collassare. Ciononostante, secondo Schumpeter, lo stesso sviluppo del capitalismo, non avrebbe potuto non comportare, oltre ad una sempre maggiore ostilità nei confronti del “mercato” da parte dell'intellighenzia, la dissoluzione del legame sociale e al tempo stesso l'affermazione di una forma mentis burocratica - naturalmente contraria al mutamento sociale – , dacché per Schumpeter era inevitabile che i “capitani d'industria” venissero sostituiti da “tecnocrati” e burocrati che avrebbero soffocato l'iniziativa privata. (1)

Tuttavia, sotto questo aspetto, la storia non ha certo dato ragione allo studioso austriaco e il capitalismo, anche se oggi non gode di ottima salute, difficilmente si può ritenere sia sul punto di essere sconfitto dal socialismo. In effetti, gran parte dell'intellighenzia occidentale, una volta liquidati i valori della borghesia, si è mostrata tutt'altro che refrattaria all'ideologia della merce (ideologia che articola ormai la visione del mondo di qualsiasi strato sociale e che, mistificando l'idea stessa di libertà, riesce ad occultare gli effetti negativi della dissoluzione del legame sociale), tanto da fare l'apologia della società di mercato anche nelle sue forme più aberranti e ripugnanti. Inoltre, la rivoluzione dei manager, benché non abbia impedito la burocratizzazione del sistema sociale e la nascita di gigantesche tecnostrutture, ha saputo garantire all'economia capitalistica un “dinamismo” sufficiente per vincere tutte le sfide e le "guerre" del Novecento, compresa quella contro il "socialismo reale".

D'altronde, è indubbio che il concetto di “distruzione creatrice” sia essenziale per capire la storia (geo)politica del Novecento, nonché la stessa fase (geo)politica che contraddistingue il nostro presente storico, poiché si può facilmente osservare che in quanto esso può significare non solo innovazione tecnologica e produttiva, ma anche e soprattutto innovazione strategica, non è affatto un concetto che valga unicamente per spiegare fenomeni socioeconomici, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere limitandosi all'interpretazione della teoria (economica e sociale) di Schumpeter. Al riguardo, anche Giuseppe Bedeschi, recensendo l'opera di Schumpeter Passato e futuro nelle scienze sociali, nota che lo studioso austriaco, che non era affatto un “nemico” del capitalismo pur prevedendone il declino, consiste nell'avere sottovalutato sia il ruolo dei ricercatori sia quello delle piccole imprese. (2) Ma, pur riconoscendo che si tratta di una critica almeno in parte condivisibile, è evidente che anche Bedeschi privilegia un'ottica economicistica che, non prendendo in esame i conflitti (geo)strategici, rende incomprensibile la storia del Novecento. Per rendersene conto, basta tener presente che la Grande Depressione della prima metà del secolo scorso terminò solo con la Seconda guerra mondiale (e analogo discorso si potrebbe fare, mutatis mutandis, per quanto concerne la relazione tra la Grande Depressione di fine Ottocento e la Grande Guerra). Ovverosia con una immensa (e terribile) "distruzione creatrice", che di fatto fu una rivoluzione geopolitica che condusse al dominio degli Usa sul Vecchio Continente e alla contrapposizione tra la (nuova) talassocrazia d'Oltreoceano e la (nuova) potenza tellurica del "Continente Eurasiatico", l'Unione Sovietica.

A tale proposito, si deve ricordare (anche a costo di ripetersi) che la Seconda guerra mondiale generò pure una rivoluzione (geo)economica e tecnologica. Dal punto vista (geo)economico, se la guerra fu una catastrofe per tutti i Paesi belligeranti, per gli Usa (e quindi per la potenza capitalistica dominante) invece fu un business eccezionale. Mentre l'Unione Sovietica (unica potenza , insieme con gli Usa, a potersi considerare veramente vincitrice) aveva subito colossali danni di guerra, che furono stimati a 128 miliardi di dollari, stando ai prezzi prebellici, tanto che nel 1945 il reddito nazionale dell'Urss era del 15-20% inferiore rispetto a quello del 1940, negli Stati Uniti dal 1941 al 1945 nacquero oltre 500.000 nuove aziende ed alla fine della guerra c’erano 18,7 milioni di occupati in più rispetto al 1939. Se il Pil dli Usa, che nel 1939 era poco meno di 100 miliardi di dollari, superava i 200 miliardi di dollari, i redditi degli americani sotto 1.000 dollari diminuirono dal 24% (1941) al 5,6% (1944) e quelli fra 3 e 4.000 dollari passarono dall11% al 21,5%, sicché non sorprende che i consumi complessivi degli americani aumentarono da 70 a circa 120 miliardi di dollari (caso unico tra i belligeranti) Ed è noto che a Bretton Woods (agosto 1944) si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale, liquidando il “blocco della sterlina”, che prima della guerra controllava un terzo del commercio mondiale. In sostanza, gli Usa erano diventati una “superpotenza” politica, militare ed economica e poterono quindi ristrutturare l’economia capitalistica mondiale in funzione dei propri interessi, senza correre il rischio di vedere annullati i “guadagni” ottenuti durante la guerra (e grazie alla guerra). (3)

D'altra parte, la battaglia dell'Atlantico, la (quasi totalmente sconosciuta dai "non esperti") guerra aerea contro Germania e la "guerra dei codici" fecero compiere, nel giro di qualche anno, un balzo prodigioso alla tecnoscienza: non solo aerei e missili, ma apparati elettronici, radar, calcolatori ed una miriade di nuove macchine e nuovi congegni sofisticati cambiarono radicalmente l'organizzazione produttiva - e quindi sociale - dell'Occidente. Fu però la capacità di "combinare" i diversi fattori, tecnologici ed economici, secondo un disegno geopolitico coerente e di "ampio respiro" ad assicurare agli Usa una posizione predominante. Ne è prova lo stesso fatto che, allorquando lo squilibrio tra impegni strategici e risorse disponibili minacciava di far perdere agli Stati Uniti il confronto con l'Unione Sovietica - tanto che a giudizio di non pochi intellettuali la "pressione" endogena (contestazione e crisi economica - la cosiddetta "stagflazione") e quella esogena (guerra del Vietnam) potevano innescare un processo che avrebbe portato al crollo del capitalismo (da qui l'espressione "capitalismo maturo" - da intendersi "maturo per la rivoluzione") -, fu proprio la nuova strategia di Nixon e Kissinger a rilanciare il "modello americano": non solo "sganciando" il dollaro dal gold standard e "agganciandolo" al petrolio, per rimediare ad un deficit della bilancia commerciale che si sapeva essere non meramente "congiunturale"; ma specialmente mediante una applicazione spregiudicata della logica del divide et impera, che portò sì gli Usa a gettare la spugna in Vietnam (sebbene Nixon avesse promesso che l'aviazione Usa avrebbe impedito al Vietnam del Nord di sconfiggere "in campo aperto" il Vietnam del Sud), ma pure a un avvicinamento tra Washington e Pechino in funzione antisovietica, dividendo in tal modo il "campo nemico" ed evitando che si venisse a costituire un blocco eurasiatico, in grado di sfruttare le gravissime difficoltà in cui gli Usa si trovavano per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale.

E fu questo approccio geopolitico a "sostenere" sia la ristrutturazione del Warfare State sia il turbocapitalismo americano, all'epoca di Reagan, e a permettere agli Usa (e ai centri di potere dipendenti, in diversa misura, dal potere degli Usa) di trarre il massimo profitto dalle innovazioni tecnologiche in ogni settore della vita politica, sociale, economica e culturale dei Paesi occidentali. E non solo occidentali, in quanto si trattò di un mutamento non estraneo allo stesso crollo dell'Urss, non fosse altro perché rese ancor più problematico porre rimedio alle debolezze strutturali dell'Urss e dei Paesi dell'Europa orientale (immobilismo, burocratizzazione, fragilità dell'industria leggera ed eccessiva espansione dell'industria pesante, problemi derivanti dalle "aspettative crescenti" del ceto medio e dalle differenti nazionalità e così via). E non si può mettere in discussione nemmeno che, scomparsa l'Unione Sovietica, sia stato l'unipolarismo americano a "guidare" sia il processo di globalizzazione sia lo stesso sistema finanziario internazionale (con tutto quello che ciò implica sul piano sociale e politico), fino a quando si è giunti al “terremoto” del 2008 - logica conseguenza, in un certo senso, del fatto che la conquista dell'Heartland si è dimostrata essere al di là delle possibilità dell'America e dei suoi alleati, (4)

In questa prospettiva, è particolarmente significativo che anche un teorico come Gianfranco La Grassa, che analizza il rapporto tra economia e politica alla luce del conflitto strategico che contraddistingue il sistema capitalistico nelle sue molteplici configurazioni, osservi che «privilegiare l’aspetto finanziario rispetto all’industriale è comunque una scelta strategica, non dipende dall’intrinseca “bontà di comando” del denaro [...] Dopo il crack borsistico del ’29, le prime misure furono di fatto finanziarie. La crisi divenne terribile e nel ’31-’32 si fece la fame, la disoccupazione raggiunse oltre un terzo della forza lavoro, il reddito reale crollò. Il New Deal (che comunque attenuò ma non risolse la crisi, superata solo con la guerra mondiale) non fu semplice operazione finanziaria. Si stampò moneta al fine di metterla in circolazione tramite la spesa pubblica (in deficit di bilancio). Ma questa manovra partiva dal presupposto della presenza di imprese industriali chiuse e di mano d’opera disoccupata, fenomeni giudicati effetto della carenza di domanda».(5) Inoltre, già negli anni Novanta La Grassa sosteneva che «il periodo attuale – e il nostro paese è paradigmatico al riguardo – vede gli apparati finanziari, cioè degli interessi afferenti alle loro funzioni e ruoli, più interessati alla globale circolazione di merci e denaro e ad una considerevole redistribuzione del reddito verso l’alto, con la conseguente distruzione, o drastico ridimensionamento, del Welfare State», e di conseguenza «la richiesta, tipica non solo dell’Italia, di governi “tecnici” non deve ingannare nessuno; si tratta semplicemente di tecnici finanziari [...] non certo di dirigenti interessati, in senso schumpeteriano (corsivo nostro), all’innovazione, alla creatività ecc.».(6) In definitiva, secondo La Grassa, il fattore finanziario, in quanto tale, conta poco, qualora non vi sia una vera strategia di crescita dell’economia reale; crescita però che non è possibile se ne mancano i fattori o se questi sono “depressi” dall’asservimento di un Paese all’economia di un sistema sociale e (soprattutto) politico predominante.

Se questo però vale per un Paese, come l'Italia, "dominato" dai centri di potere atlantisti, è anche vero che il fallimento del modello unipolare statunitense ha generato un "contraccolpo geopolitico" di cui è pressoché impossibile prevedere quali saranno gli effetti, ma che non sembra potersi definire come una situazione internazionale caratterizzata da una "distruzione creatrice" tale da consentire agli Usa di costruire un nuovo ordine mondiale. Si è piuttosto in presenza, come più volte rilevato, di una sorta di “geopolitica del caos” che ostacola la formazione di un autentico multipolarismo, allo scopo di perpetuare l'egemonia americana (e, in generale, dei "circoli atlantisti"), sia pure a costo di una continua destabilizzazione tanto sotto il profilo (geo)politico quanto sotto il profilo sociale ed economico. Decisivo allora è mettere in evidenza che, dato che la "distruzione creatrice" - che in primo luogo (come si è cercato di mostrare) si deve intendere come innovazione strategica - è un tratto costitutivo del conflitto geopolitico, è quest'ultimo che sempre più condiziona il conflitto sociale e economico. Vale a dire che il conflitto sociale ed economico non può non essere "sovradeterminato" dalla geopolitica (nel senso che esso fa parte di una totalità di rapporti e di contraddizioni di carattere geopolitico che ne qualificano i modi e le variazioni), la quale, lungi dall'essere soltanto il terreno su cui si confrontano diverse "volontà di potenza", in realtà struttura lo "spazio sociale e politico" anche in funzione di diverse Weltanschauungen e di diversi "pro-getti" sociali e modi di "essere-nel-mondo".

E' innegabile allora, se la nostra riflessione (si badi, solo riflessione, non certo analisi storica di fenomeni così complessi da richiedere ben altro spazio e ben altre competenze) è corretta, che oggi la "contrapposizione principale", cioè la contrapposizione che attualmente conferisce "senso e orientamento" al conflitto strategico e che dovrebbe essere a fondamento dell'innovazione strategica, sia quella tra eurasiatismo e atlantismo. Il che poi altro non è che una particolare espressione di quella opposizione fra Terra e Mare che il processo di occidentalizzazione mostra di non essere in grado di cancellare o superare, benché si debba riconoscere che la “geopolitica del caos” non pare "destinata" a dar vita ad un nuovo Nomos, né ad originare un nuova guerra mondiale (ma si dovrà anche concedere che “non necessariamente” non significa né impossibile né improbabile). Comunque sia, non è affatto sicuro nemmeno che, ove si verificasse una autentica "distruzione creatrice", quest'ultima porterà ad una definitiva occidentalizzazione del pianeta, posto che ritenere che l'innovazione strategica sia soltanto una caratteristica della società di mercato o della cultura “occidentale” significhi che non ci si è liberati da una ideologia economicistica, cioè dai pregiudizi tipici dell'homo oeconomicus



Note

(1) Si veda Joseph A. Schumpeter, Il capitalismo può sopravvivere? La distruzione creatrice e il futuro dell'economia globale, ETAS, Milano, 2010.
(2) Giuseppe Bedeschi, Il rivoluzionario più audace è l'imprenditore, «Corriere della Sera», 7 marzo 2011, p. 32.
(4) Sulla questione dello squilibrio tra risorse economiche e potenza politico-militare come causa del declino relativo degli Usa, sempre utile, anche se in parte datato, Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.
(5) Si veda http://www.conflittiestrategie.it/2012/04/16/agenti-strategici-e-miopia-degli-economisti/
(6) Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve, Oltre la gabbia di acciaio, Vangelista, Milano, 1994, specialmente pp. 103 e ss.  

venerdì 17 febbraio 2012

BREVE NOTA SULLA COSIDDETTA "NEUTRALITA' SCIENTIFICA"





E' indubbio che da Kant in poi la questione dell'oggettività si sia rivelata inseparabile da quella della intersoggettività, nel senso che, una volta riconosciuto che non può essere oggetto di esperienza un mondo totalmente indipendente dal soggetto della conoscenza, "essere oggettivo" non può che significare "essere valido per tutti", cioè conforme ad un metodo. Inevitabile quindi che si sia dovuto prendere coscienza che le singole osservazioni delle scienze empiriche non sono "puri" dati dì esperienza, bensì particolari “asserzioni” e che proprio la questione del “linguaggio” sia stata a fondamento della crisi del neopositivismo logico e della nascita della epistemologia "post-positivistica" (rappresentata soprattutto, ma non solo, da Kuhn, Lakatos e Feyerabend).(1)

Ed è opportuno sottolineare che si tratta di una epistemologia "post-popperiana", in quanto viene messo in discussione il fatto che vi sia una base empirica “neutrale” come criterio di "falsificabilità" delle teorie scientifiche, non essendo possibile considerare il contesto della giustificazione e il linguaggio osservativo indipendenti, rispettivamente, dal contesto della scoperta e dal linguaggio teorico. Da qui, la negazione dell'esistenza di un metodo scientifico universalmente valido (Feyerabend) e il sempre maggiore rilievo, più che alle singole teorie scientifiche, ai programmi di ricerca (Lakatos) oppure ai paradigmi (Kuhn), nonché alle strategie argomentative, per capire le decisioni della comunità scientifica. Ma soprattutto la necessità di una nuova e approfondita riflessione sui problemi dell'olismo (Quine) e su quegli aspetti della scienza contemporanea, come le descrizioni equivalenti e i paradossi della logica matematica, che hanno radicalmente cambiato la visione scientifica del mondo - anzi che sono all'origine delle diverse immagini scientifiche del mondo (Goodman).

Non a caso, uno dei più importanti filosofi della scienza, Hilary Putnam, pur criticando il relativismo e l'incommensurabilità dei paradigmi scientifici, sostiene l'impossibilità gnoseologica del realismo “esterno” (secondo cui la realtà consiste di una precisa totalità di oggetti, è “esterna” rispetto alla mente umana - non dipende cioè in alcun modo dalle categorie impiegate dal soggetto della conoscenza - e di essa vi è solo un'unica descrizione vera), dato che non vi è nessun criterio che permetterebbe di ridurre le diverse visioni/interpretazioni del mondo ad una sola (corretta) visione/interpretazione del mondo. Tanto è vero, osserva Putnam, che se ci si domanda quanti oggetti ci sono, è possibile, dal punto di vista della matematica, rispondere perlomeno in due modi differenti (ed analoghe considerazioni valgono per la definizione del punto e così via), ad ulteriore conferma che non si può paragonare nessuna descrizione della realtà alla realtà in sé, bensì unicamente ad un'altra descrizione della realtà. In definitiva, non si può descrivere il mondo senza descriverlo: « Parlare di “fatti” senza aver specificato in quale linguaggio stiamo parlando è parlare di nulla; la parola “fatto” non ha un uso fissato nella Realtà in Sé più di quanto lo abbiano la parola “esiste” o la parola “oggetto”».(2)

Di conseguenza, è pure del tutto logico che la ricerca epistemologica contemporanea venga a rafforzare quella concezione del rapporto tra intepretandum e intepretans che si suole definire "circolo ermeneutico" (messo chiaramente in luce per la prima volta da Heidegger nel § 32 di Essere e tempo),(3) in quanto la struttura della comprensione si contraddistingue per non poter non muovere da una serie di "pre-giudizi" su cui si fonda la stessa comprensione, di modo che quel che si deve comprendere, in una certa misura, si è già compreso. Ciò però non implica che il "circolo ermeneutico" debba essere ritenuto un circolo vitiosus, poiché, come precisa Heidegger, ritenendolo già indice di quell'apertura linguistica del mondo che contraddistingue la “seconda fase” del suo pensiero, «in esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario».(4) Infatti, non si può neanche escludere che «chi cerca di comprendere, [sia] esposto agli errori derivati da pre-supposizioni che non trovano conferma nell'oggetto». Ad esempio, «chi vuol comprendere un testo deve lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all'alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un'obiettiva 'neutralità' [corsivo nostro] né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi».(5)

Del resto, argomenta Apel, «al criterio fornito dal paradigma di Kuhn corrisponde la Lichtung [radura, chiarita] di Heidegger, interpretabile come apertura linguistica del mondo, che libera l'orizzonte di senso entro il quale sono possibili le domande della scienza – e, come ha dimostrato Gadamer, dei giudizi giusti o sbagliati vanno per forza intesi come delle risposte a delle domande, attuali o almeno possibili». Per questo, conclude Apel, «tutti i risultati della scienza occidentale dipendono da orizzonti di senso o orizzonti interrogativi paradigmatici che non si sono potuti aprire ad altre culture, dotate di diverse aperture linguistiche del mondo (ad esempio, gli indiani Hopi del Nuovo Messico)».(6)


Essenziale è allora rendersi conto che si è sempre “radicati" in una certa tradizione, ossia che la nostra realtà dipende da ciò che Gadamer denomina "storia degli effetti" (Wirkungsgeschichte), di modo che non può che essere assurdo pretendere di studiare la storia da una prospettiva “neutrale”, metastorica e metaculturale. A tale proposito, si può ricordare che anche Pareyson (7) sottolinea l'aspetto rivelativo e al tempo stesso plurale della stessa nozione di verità, dato che la formulazione della verità non può che essere mediata dal linguaggio. In particolare, Pareyson non nega l'unicità della verità, ma la paragona a quella di un'opera musicale che rimane la stessa pur non essendo possibile comprenderla se non interpretandola. E ovviamente non vi è la possibilità di paragonare l'interpretazione di un'opera all'opera in sé, sebbene si possa condividere un insieme di regole, metodi, postulati e convinzioni che mostrano che è l'opera ad “orientare” l'interpretazione, sia pure in funzione dei nostri "interessi" (teorici, pratici o emancipativi che siano, in base alla celebre distinzione proposta da Habermas).(8) Il che tra l'altro spiega sia perché ormai tenda a prevalere una concezione strumentalistica della scienza, che, oltre a valorizzare gli aspetti pragmatistici presenti nel pensiero di autori quali Quine e Putnam, giustifica una determinata ontologia secondo il sistema di riferimento scelto e in base agli scopi del sistema medesimo; sia perché la retorica della scienza "pura" sembra aver lasciato posto alla convinzione secondo cui, come sostiene Heidegger, è la scienza moderna a fondarsi sulla tecnica moderna, e non viceversa. 

Naturalmente, i percorsi di ricerca che possono derivare da tale "svolta linguistica" (che qualcuno ha paragonato ad una sorta di nuova rivoluzione copernicana) sono diversi e perfino opposti tra di loro, giacché non può non essere questa stessa “svolta” (questione del relativismo inclusa) oggetto di differenti interpretazioni, ma è innegabile che essa sia un tratto distintivo ed essenziale non solo della filosofia della scienza, ma di ogni branca della filosofia contemporanea, compresa “la filosofia prima”, cioè quella che si occupa di questioni ontologiche e metafisiche. (Si badi che, anche se è evidente che non tutto è interpretazione, pure chi difende la concezione della cosiddetta "metafisica classica", su basi platoniche o "neoplatoniche", aristoteliche o aristotelico-tomiste, ritiene che l'identità intenzionale tra essere e pensiero si renda manifesta grazie al medium spirituale del linguaggio. Una posizione diversa sul linguaggio, nel senso stretto del termine, è invece sostenuta da Colli, per il quale comunque la stessa ragione è "es-pressione" di qualcos'altro, di modo che, in ogni caso, la nostra esperienza del mondo viene a costituirsi e a formarsi  nel "fiume delle interpretazioni").

Perciò, queste nostre considerazioni possono apparire, se si vuole, perfino banali, ovvero luoghi comuni della cultura contemporanea. Tuttavia, non è affatto raro che si tenda a confondere la - più che legittima e necessaria - critica dell'ideologia, intesa come sapere dogmatico e aprioristico, non aperto al confronto, con la difesa di una presunta “neutralità scientifica”, perlopiù in quei settori della conoscenza, che sono di gran lunga meno “strutturati” delle scienze della natura - e sono tali non perché ci si ostini a non impiegare linguaggi matematici (ché in molti testi di astrologia vi è più matematica che nei testi di fisica, ma non per questo l'astrologia viene considerata una scienza), bensì perché è l'oggetto stesso di certe scienze che si presta poco ad essere compreso mediante la matematica. Non necessariamente le scienze umane però sono meno rigorose di quelle della natura, al punto che Heidegger non esita ad affermare che «le presupposizioni del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l'idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all'ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti».(9) In ogni caso, si dovrebbe tenere sempre presente non solo l'oggettività ma anche l'adeguatezza della conoscenza, anche perché, come Gadamer ha più volte affermato, per quel che riguarda le scienze dello spirito non sono tanto le spiegazioni che contano quanto piuttosto la comprensione del nostro orizzonte storico (senza dimenticare che nella realtà storica è l'eccezione, per così dire, ad essere la regola), di modo da poter "cor-rispondere" all'appello che il presente storico ci rivolge in quanto esseri umani.


D'altra parte, che dalla “svolta linguistica”, che caratterizza la filosofia e l'epistemologia contemporanea, consegua un certa forma di relativismo, lo si deve pur concedere. Nondimeno, è significativo che l'ultimo Feyerabend - l'antimetodologo anarchico che i relativisti annoverano tra i loro “campioni” - «sostiene (o almeno scrive come se lo sostenesse) che ha senso parlare di una natura umana comune poiché ogni cultura (o tradizione) è in potenza tutte le altre».(10) Se, però, ciò da un lato pare avvalorare la tesi che le diverse tradizioni esprimono una “sostanza comune” (11) (sicché vi sarebbe la reale possibilità per i popoli di intendersi tra di loro, ciascun popolo potendo interpretare e rinnovare la propria tradizione “dia-logando” e “con-frontandosi” con altri popoli), dall'altro fa comprendere perché la “mondializzazione” sia un processo che rischia di annientare ogni stile di vita che non sia funzionale al sistema di potere occidentale.

Sotto questo profilo, non sembra azzardato ritenere che sia proprio la geopolitica a mostrare meglio di altre discipline come qualunque attività umana non possa prescindere né da un concreto riferimento spazio-temporale né dal “conflitto” delle interpretazioni, e ad evidenziare che la difesa di un punto di vista “neutrale”, in realtà, oggi, equivale a condividere i presupposti di quel pensiero “politicamente corretto”, che non è altro che l'espressione ideologica della società di mercato occidentale. Pertanto, anziché criticare l'ideologia, si finisce col fare l'inconsapevole apologia della peggiore forma di ideologia, se si pensa di evitare di “prendere posizione”; mentre, se si vuol essere veramente “obiettivi”, ciò che rileva è saper "prendere posizione". Vale a dire che conta “come” e “perché” si prende una determinata posizione.



Note

1. Oltre ai testi di questi autori, si vedano, per una comprensione perlomeno dei principali aspetti della ricerca epistemologica contemporanea, Nicola Abbagnano-Giovanni Fornero, Storia della filosofia, Utet, Torino, vol. IV, 1991/1994, Giovanni Fornero-Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2002, Storia della filosofia (diretta da Mario Dal Pra), Piccin Nuova Libraria, Padova, 1998 e Giulio Giorello, Introduzione alla filosofia della scienza, Bompiani, Milano, 1994. Ancora fondamentale è Paul K. Feyerabend-Giulio Giorello, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976. Utili e importanti anche i due libri di Marcello Pera, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Bari,1980 e Scienza e retorica, Laterza, Bari, 1991. Sul neopositivismo logico, si vedano la magistrale ricostruzione storico-filosofica di Francesco Barone, Il neopositivismo logico, Laterza, Bari, 1953 e l'analisi teoretica di Emanuele Severino, Legge e caso, Adelphi, Milano, 1979.
2. Hilary Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano, 1991, p. 51 In relazione a questo tema, di Putnam si veda anche Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano,1998, in specie il cap. 6.
3. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, § 32, pp. 188-195.
4. Ibidem, p. 195.
5. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 314 e 316.
6. Karl-Otto Apel, Autocritica o autoeliminazione della filosofia?, in Filosofia '91 (a cura di Gianni Vattimo), Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 35.
7. Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1972.
8. Hans Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, in Id., Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari, 1969, p. 9.
9. Martin Heidegger, op. cit., p 195.
10. Valerio Meattini, Natura umana, scetticismo, valori. Orientamenti, Giuseppe Laterza, Bari, 2009, p. 31. Meattini si riferisce al saggio di Paul.K. Feyerabend, Contro l'ineffabilità culturale, in "Volontà", 2-3, 1994, pp. 97-107.
11. E' interessante notare che anche per Toshihiko Izutsu, impegnato a delineare i contorni di una "metafilosofia", è indispensabile che uno studio comparato sia filologicamente fondato, onde evitare «di ricadere nel difetto positivista di pretendere che possa esistere un "occhio" neutrale [ovvero] che il soggetto indagante sia indifferente, immune, e neutrale rispetto ai problemi interni [agli oggetti assunti a tema dell'indagine]», Giangiorgio Pasqualotto, introduzione a Toshihiko Izutsu, Sufismo e taoismo, Mimesis, Milano, 2010, p. 10.