giovedì 21 gennaio 2021

CENTO ANNI FA

 Che la storia del PCI abbia segnato la storia del nostro Paese (e non solo) non lo si può certo negare, anche se è una storia finita con la fine del “socialismo reale”. Una storia fallimentare? Certamente no. Non solo quella del PCI ma pure quella del “socialismo reale” (basterebbe pensare alla Seconda guerra mondiale per rispondere di no). Tuttavia, è innegabile che un ciclo storico alla fine del secolo scorso si sia definitivamente chiuso. Come? Con una sconfitta. Non una battaglia perduta ma una guerra perduta (e qualcuno potrebbe pure parlare di vittorie perdute). Una guerra comunque che ha messo fine anche alla sinistra, ormai solo una “variante” del neoliberalismo, ossia ridotta ad essere una espressione del capitalismo internazionale e (sedicente) “cosmopolita”, così come la destra populista è espressione del capitalismo nazionale penalizzato dalla cosiddetta “globalizzazione”. 

“Oltre” il comunismo, pertanto, ci sarebbe solo il “nulla”, tranne il neoliberalismo, ovvero l’ideologia “mortifera” del capitalismo predatore? Eppure anche questo “nulla” non proviene dal “nulla”, ma appunto da una storia. E che storia! È un “nulla” che non si lascia facilmente liquidare come “non senso”. È sì una “aporia”, ma intesa non come “via senza uscita”, bensì come un luogo in cui non vi è una “uscita”, ossia uno “spazio aperto” come il deserto. Del resto, pure il deserto si può attraversare, benché occorra sapersi “orientare”.

Ma per sapere in quale direzione si deve andare, si deve pure sapere da dove si proviene. Ci si dovrebbe quindi chiedere: perché il comunismo è stato sconfitto? Domanda cui in parte molti hanno già risposto, anche se non sempre in modo convincente. Comunque sia, si è risposto solo in parte: la questione dell’ideologia, quella dell’economia, il problema del pluralismo, il mutamento sociale generato dalla terza rivoluzione industriale, la controffensiva neoliberale, la globalizzazione…Nondimeno, vi è anche altro, ossia l’antropologia, e in particolare l’antropologia politica. Ecco, è sotto questo aspetto, a giudizio di chi scrive, che il comunismo ha patito la sua sconfitta peggiore.

Questione difficile quella della antropologia politica, ma essenziale, perché non la si può risolvere con l’economicismo, e non perché l’economia non sia importante, anzi proprio perché lo è. Non è forse Marx ad avere dimostrato l’unità contraddittoria della merce, in quanto unità di valore d’uso e valore di scambio? E non è forse questa unità contraddittoria possibile solo in virtù del fatto che il lavoro o, meglio, il lavoratore (perché non c’è lavoro – predicato - senza lavoratore – soggetto) è e non è una merce? Come sarebbe lecito allora affermare che l’oggettivazione può essere un autentico processo di soggettivazione, ossia una oggettivazione non più alienante, senza prima interrogarsi sulla questione del soggetto, ovvero su quel particolare soggetto che è l’essere umano in quanto è insieme con altri esseri umani, e quindi di necessità è un animale politico? 

Certo, conta pure il sostantivo (animale) non solo l’aggettivo (politico). Eccome se conta! Ma proprio per questo occorre precisare che non si tratta solo di politica o di antropologia, bensì di antropologia politica. Il Politico, dunque, come questione fondamentale. Ma non in quanto mero esercizio del potere, bensì come ciò che “dà forma” all’abitare, all’essere nel mondo insieme con gli altri, e quindi alla stessa economia nella misura in cui è necessaria per soddisfare i bisogni sociali, che, tuttavia, non sono solo quelli “prodotti/indotti” dall’apparato tecnico-produttivo. In termini più chiari, anche se più “semplici”, vale a dire che c’è sempre il problema di un essere umano “a più dimensioni”, e quindi pure del conflitto - che non dipende solo dalla struttura economica della società proprio perché affonda le sue radici nella stessa struttura antropologica - che il Politico deve sapere “mettere in forma”. 

Ed è sotto questo aspetto, assai più che sotto altri aspetti, che il comunismo si è mostrato “perdente”, illudendosi di potere generare o addirittura di avere già generato l’uomo nuovo. Non perché la natura umana sia una essenza astorica e immutabile, ma proprio perché è “materia” suscettibile di assumere molteplici “forme”, anche e soprattutto nello stesso tempo. E non è mai una “materia pura” ma una “materia” che ha una storia. Insomma è una “materia viva”, capace di “interagire” con qualunque “forma” possa assumere. È cioè un “individuo sociale” che già di per sé esige che il Politico non sia mero esercizio di potere. 

Questo il “paradosso” del comunismo, perché non è un mistero che la nozione di individuo sociale sia, per così dire, il “pilastro portante” del comunismo. Ma allora è proprio questo paradosso o, meglio, questa contraddizione che dimostra che la storia del comunismo non solo non è stata fallimentare, ma può ancora indicare (non fosse altro “in negativo”, ma si tratterrebbe di un giudizio assai riduttivo, dato che non si possono ignorare le "ragioni" del comunismo) quale sia la direzione in cui si deve procedere, sempre che non ci si accontenti di scambiare una oggettivazione alienante (che si manifesta ormai anche come un paradossale sfruttamento di sé stessi) per un processo di autentica emancipazione e liberazione.