mercoledì 19 ottobre 2011

INDIPENDENZA DELL'EUROPA, SOVRANITA' NAZIONALE E CRISI GLOBALE

Più volte nei nostri articoli si è evidenziato che la difesa della sovranità di uno Stato è necessaria per opporsi al “mondialismo” dell’oligarchia finanziaria occidentale. Tuttavia, non si dovrebbe equivocare, dacché “necessaria” non significa “sufficiente”. Perciò si è sempre anche sottolineato che la nostra epoca è quella dei “grandi spazi”, in cui i singoli Stati nazionali sono troppo piccoli per potersi opporre al ”mondialismo” del Leviatano, ovvero che è della massima importanza capire che uno Stato europeo dovrebbe esercitare la propria sovranità “nei limiti e nelle forme” di uno “blocco geopolitico continentale”, ammesso che l’Europa non voglia rassegnarsi ad essere una provincia degli Stati Uniti. Del resto, il tratto distintivo dell’America è di essere uno Stato che, in quanto tale, è “de-limitato” da un determinato territorio, ma il cui “raggio d’azione”, politico ed economico, non può non travalicare ogni “con-fine”, dato che è espressione di una volontà di potenza che è la medesima volontà di potenza che “in-forma” l’agire del “turbocapitalismo” occidentale e dell’alta finanza. Sicché, è l’esigenza stessa di combattere un nemico comune, che richiede (e offre l’occasione) di dare vita, su fondamenti geopolitici, storici e culturali, ad un ordinamento istituzionale autenticamente “sovra-nazionale”.
Nondimeno, parrebbe che la questione di una Europa “sovrana” sia una sorta di “circolo vizioso” e che l’Ue, con tutti i suoi difetti, rimanga l’unica soluzione politica possibile, poiché, se da un lato si manifestano la debolezza e la miopia politica di chi non sa definire l’interesse nazionale secondo un ordine geopolitico che sia super partes, dall’altro è la mancanza di un siffatto ordine che favorisce comportamenti politici che tendono a dividere ancora di più non solo i Paesi europei ma addirittura i Paesi del continente eurasiatico. (Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, si pensi, ad esempio, alla Turchia di Erdogan, che ha il merito di prendere posizione contro l’entità sionista, ma che al tempo stesso si adopera contro la Siria di Assad, il quale deve difendersi da una rivolta supportata anche dagli americani e dagli israeliani; oppure all’Iran, che ha appoggiato i “cirenaici” e i tagliagole della Nato contro la “Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista”. E gli esempi, purtroppo, si potrebbero moltiplicare. Si assiste così a scelte che si vorrebbero giustificare come indispensabili per proteggere i propri interessi o per svolgere una politica di potenza regionale, ma che invece sembrano essere conseguenza del fatto che non ci si è ancora resi conto che la complessità del “sistema” internazionale non ammette che vi siano spazi geopolitici “isolati” dai rapporti di potenza che strutturano gli equilibri mondiali e “decidono” il livello e l’area del “confronto”). In realtà, non vi è alcun “circolo vizioso”, dato che è l’Ue medesima che si dovrebbe concepire come un campo di forze in lotta tra di loro, per stabilire quale deve essere il destino dell’Europa, alla luce di quella scelta fondamentale tra amico e nemico che si configura come opposizione tra “terra” e “mare” (per usare il lessico di Carl Schmitt, benché sia inevitabile che i due termini di questa opposizione possano cambiare di significato con il mutare dei tempi). Ed è il fatto che la caratteristica essenziale della talassocrazia americana consista nell’imporre la propria volontà con ogni mezzo a qualunque altro “soggetto politico”, a rendere necessario, per tutelare gli interessi delle differenti “patrie” (nazionali, locali o “ideali”che siano), che le diverse spinte nazionali concorrano alla costruzione di una struttura politica di “livello più alto” rispetto a quello nazionale, alla quale affidare il delicato e vitale compito della difesa dell’indipendenza continentale. Pertanto, una volta che sia riconosciuta l’origine (geo)politica dell’attuale crisi finanziaria – che è certo da mettere anche in relazione con la ridefinizione in chiave liberista del sistema sociale occidentale – non ci si dovrebbe stupire che l’obiettivo che i “mercati” perseguono sia, in primo luogo, quello di impedire che l’Europa possa smarcarsi dal dominio americano, profittando di una situazione internazionale che, con l’emergere di nuove potenze, “indica” nuove corsie geostrategiche e geoeconomiche, che dovrebbero “indirizzare” la politica europea verso Est e verso Sud. Non a caso gli Usa, dopo l’intervento nei Balcani (anche per non permettere alla Germania di svolgere un ‘azione politica autonoma nell’Europa orientale), hanno rivolto la loro attenzione all’area mediterranea, coinvolgendo il più possibile i Paesi europei in una aberrante e criminale politica neocolonialista, e non si fanno nemmeno scrupolo di usare – rischiando di evocare, come l’apprendista stregone, forze che non possono controllare – l’islamismo più radicale (fratellanza musulmana inclusa) per conservare e rafforzare la loro testa di ponte occidentale, tanto più necessaria e preziosa ora che la “sfida globale” riduce i margini di manovra delle “forze occidentali”, lasciando apparire le gravissime “contraddizioni” del gigantesco Warfare State americano. (Al riguardo, non si deve trascurare l’azione delle lobbies sioniste, che, oltre ad essere funzionali alla politica di Israele, sono parte costitutiva dell’oligarchia atlantista, che ha una delle armi più potenti e pericolose proprio nella “cultura” dell’intolleranza, della discriminazione, dell’arroganza, dell’intimidazione e della mistificazione che contraddistingue i circoli sionisti, i quali hanno tutto l’interesse a ricattare l’Europa. E ciò a prescindere dal fatto che Israele non può essere considerato un semplice spettatore degli eventi che stanno cambiando la mappa politica del mondo arabo, benché non sia facile capire quale sia effettivamente il ruolo dell’entità sionista e quale partita si stia giocando tra Washington e Tel Aviv).(1).
E’ affatto logico allora che si tema che la crisi dei “debiti sovrani” possa avviare un nuovo corso della politica europea, dato che non v’è dubbio che la soluzione della crisi – intesa come “krisis”, cioè come scelta, “decisione” – consiste nel riconoscere che l’indipendenza del continente europeo dagli Usa è condicio sine qua non di ogni altra autonomia dei popoli europei. In quest’ottica, la crisi dell’unipolarismo americano e la scelta di puntare sulla geopolitica del caos, per salvaguardare ad ogni costo l’egemonia atlantista, anche contro gli interessi di parte del popolo americano, sono con ogni probabilità alla base della proposta del noto “filantropo” George Soros, secondo cui bisogna delegare alla Bce e al Fesf (Fondo europeo per la stabilità finanziaria) il compito “di riportare la crisi sotto controllo”. (2) Il che è quanto si sostiene pure in una “lettera aperta” – firmata, oltre che dallo stesso Soros, da Emma Marcegaglia e da Massimo D’Alema – in cui si rivolge un appello ai “Parlamenti dei paesi dell’Eurozona affinché riconoscano che l’euro richiede una soluzione europea [dato che] la ricerca di soluzioni a livello nazionale può solo portare alla dissoluzione” (3). Sono parole che però non devono trarre inganno, dacché quello cui si mira, “invertendo” il rapporto tra causa (debolezza politica e strategica ) ed effetto (crisi economica), non è ciò che apparentemente si sostiene, bensì esattamente l’opposto. Lo comprende bene Rino Formica che scrive che “il rinvio sulla debolezza costituzionale (e quindi politica) dell’Europa segue l’antica logica dei due tempi: prima viene l’emergenza e dopo le riforme. Su questo terrreno sono sempre state sconfitte le forze del cambiamento”. (4) A tale proposito, scrive il sociologo Luciano Gallino non solo che “il passo più rischioso cui Sarkozy e Merkel stanno spingendo la Ue consiste nel salvare le banche senza compiere alcun tentativo per avviare una vera riforma del sistema finanziario”, ma pure che “i gruppi finanziari salvati dallo Stato a suon di trilioni di dollari e di euro spesi o impegnati (più di 15 in Usa, almeno 3 nella Ue) sono ora, in termini di attivi in bilancio, grandi il doppio [e ] i primi venti del mondo hanno ciascuno attivi tra 1 e 2 trilioni di dollari, cifre che si collocano, come equivalenza, tra il cinquanta e il cento per cento del Pil dell’Italia. Ci provi, un qualsiasi governo, a opporsi ai voleri di simili colossi”. (5) Anche se si può obiettare a Gallino di non prendere in esame il fatto che si tratta di “colossi” che agiscono secondo una particolare strategia politica (che altro non è se non quella che si suole, correttamente, definire atlantista), non potendo in alcun modo la finanza internazionale fare a meno dell’apparato di “comando e controllo” della potenza capitalistica dominante – egli ha comunque il merito di non mistificare la verità come invece fa Mario Monti (il tecnocrate che ha dichiarato che le misure draconiane adottate dal governo greco provano il successo dell’euro, in base alla logica che, anche se il paziente è morto, l’operazione è perfettamente riuscita), il quale afferma che “in Europa e negli Stati Uniti [...] si identifica proprio nell’Italia il possibile fattore scatenante nell’eurozona di dimensioni non ancora sperimentate e forse non fronteggiabili [mentre] in un’Europa e in un mondo sempre più interdipendenti sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno a Berlusconi [...] prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l’Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell’Unione europea”. (6) A parte l’assurdità di far dipendere dall’attuale governo italiano (sebbene sia innegabile che anche questo governo abbia “costruito” assai male) il terremoto finanziario che sta facendo vacillare l’intero Occidente, è evidente che, a giudizio di Monti, per non consentire ai “mercati” di attaccare un Paese sovrano – “già oggetto di ‘protettorato’ (tedesco-francese e della Banca centrale europea)” – e di far così affondare addirittura l’Europa, si dovrebbe accettare il diktat della Bce che, come anche Gallino riconosce, altro non è che il diktat dei “mercati” medesimi. E non v’è chi non s’accorga della somiglianza tra la “ricetta” del tecnocrate italiano “targato” Goldman Sachs (come “mister” Draghi) e la proposta del “sostenitore” delle rivoluzione colorate. Non è che vi sia un “complotto” dell’alta finanza contro l’Italia, ma è la realtà stessa che spinge in certe “direzioni”, dato che essa non piove dal cielo, ma è frutto di precise scelte strategiche. Insomma, la “vulnerabilità” dei singoli Stati europei – anche per errori (che nessuno nega) di gestione politica – diviene “strumento” di una strategia complessa, che deve impedire che la “crisi globale”, cioè l’interdipendenza cui si riferisce Monti, possa generare – anche allo scopo di risolvere una situazione economica che si aggrava sempre più – un radicale rinnovamento della politica europea o, in altre parole, quell’alternativa multipolare che metterebbe fine all’egemonia dei “mercati”.
Sono questi dunque i motivi che ci inducono a ritenere che si dovrebbe costruire nel nostro Paese (ma naturalmente non solo nel nostro Paese) un “polo nazionalpopolare”, per una rifondazione dell’Unione europea, senza la quale qualsiasi riforma finanziaria sarà “inutile”, e che rappresenti, anziché i diritti dei cosiddetti “mercati”, i diritti dei popoli europei. Epperò, la solidarietà tra le varie parti non solo del continente europeo, bensì dello stesso continente eurasiatico, consegue anche dalla necessità di difendere la propria “terra”, ovvero le proprie radici, che tanto più sono profonde, tanto più si intrecciano, per cui la loro connessione si dovrebbe considerare come effetto di un processo di integrazione che non annulla le “differenze”, ma anzi le conserva, sia pure in funzione di una sintesi politica e culturale realmente “sovra-nazionale”. Nel Novecento l’Europa ha dovuto pagare un prezzo troppo alto per non aver saputo mediare tra difesa delle “radici identitarie” e giustizia sociale, nel rispetto della persona umana. Ma se è vero che possono affermare di avere appreso le “dure” lezioni del Novecento soltanto coloro che sanno prendere le distanze da chi è disposto (per interesse personale, per conformismo, o per mera “degenerazione ideologica”) ad avallare i crimini dei sionisti o la “barbarie umanitaria” dell’Occidente, allora non dovrebbe essere difficile comprendere perché sia necessaria una forza “nazionalpopolare” e che cosa significhi oggi lottare per l’indipendenza del continente europeo, “saldandolo” alla massa eurasiatica, secondo una concezione antisionista e antiatlantista.

Note
1)Vedi http://aurorasito.wordpress.com/2011/10/14/israele-e-libia-preparare-lafrica-allo-scontro-di-civilta/.
2)Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-30/soros-salvare-eurozona-tesoro-231508.shtml?uuid=Aa3WM08D&fromSearch.
3)Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-10-11/appello-leuropa-202250.shtml?uuid=AaeDKBCE.
4) Vedi http://www.ilfoglio.it/soloqui/10743.
5)Vedi http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=40674
6)Vedi Corriere della sera, 16/10/11, p.1.

SOVRANITA' NAZIONALE ED ALTERNATIVA MULTIPOLARE


La nozione di sovranità non è affatto facile da definire, tanto che Alain de Benoist ritiene che non sia distante dalla verità l’affermazione di John Hoffman, secondo cui «la sovranità rappresenta un problema insolubile già da parecchio tempo prima che si volesse associarla ad ogni costo allo Stato». (1) D’altronde, lo stesso de Benoist osserva che di regola tale nozione è usata in due accezioni particolari: «Una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità. Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, ci si situa nella seconda». (2)
La questione della sovranità nazionale sembra quindi – sia in quanto “mezzo di indipendenza”, sia in quanto «non è legata né a una particolare forma di governo né a un tipo particolare di organizzazione politica [ma] al contrario, è inerente a qualsiasi forma di esercizio del comando politico», (3) – essere oggi tanto più rilevante per la presenza di organizzazioni in grado di limitare non poco la sfera di azione e la sovranità dei singoli Stati. Ne è una ulteriore conferma il fatto stesso che sono organizzazioni che vengono considerate internazionali o “sovranazionali”, ma che in realtà agiscono come “strumenti” dello Stato predominante, cioè gli Usa, o di “certi altri” Stati (come gli Stati che sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu o gli Stati più “forti” dell’Ue, ossia Germania, Francia e Gran Bretagna, a loro volta dipendenti, in misura più o meno grande, dagli Usa; e analoghe considerazioni valgono non solo per l’Onu o l’Ue, ma, ad esempio, per istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Corte penale internazionale e la Nato).
Posto che è di estrema importanza allora capire che cosa sia lo Stato e quale dovrebbe essere la “forma” dello Stato migliore per contrastare la politica di quei gruppi “tecno-plutocratici” che controllano lo Stato capitalistico dominante – benché, a causa della competizione e della rivalità all’interno del “nucleo” del sistema americano, anch’esso non sia un “monolito” – , è degno di nota che, come scrive Emilio Ricciardi, secondo Gianfranco La Grassa «lo Stato andrebbe concepito come un campo (costituito da correnti) di energia conflittuale permanente che, generatosi dallo scontro nella sfera politica fra gruppi dominanti volti alla reciproca sopraffazione per la supremazia su un’intera formazione sociale, troverebbe poi condensazione e precipitazione in apparati (tra cui, fondamentali, gli apparati della coercizione), istituzioni, corpi vari, i quali, pertanto, costituirebbero l’esito e risultante finali (ma giammai definitivi ed anzi sempre sostanziantisi in un equilibrio instabile, pronto a risolversi in ulteriori e diversi assetti di rapporti di forza) dell’azione combinata ed interazione di e tra siffatte correnti conflittuali. Insomma, lo Stato non come soggetto (tanto meno unitario) ma come processo» (4). Bisognerebbe allora evitare ogni “reificazione” del concetto di Stato, senza perdere di vista «la struttura dei rapporti sociali: sia in generale per quanto concerne l’odierna formazione capitalistica (non omogenea dappertutto, anzi l’esatto contrario) sia con specifico riferimento all’Italia». (5) In definitiva, facendo proprio il lessico epistemologico di Ernst Cassirer, si può sostenere che per La Grassa si dovrebbe considerare lo Stato non come sostanza, bensì come funzione.
Tuttavia, è della massima importanza rilevare che solo se una comunità non è la “semplice” somma delle parti, ma una “totalità” distinta dalle parti che la compongono – senza per questo che si debba sostenere che lo Stato è un “soggetto spirituale”, come lo Stato etico hegeliano – (6) si può effettivamente giustificare che lo Stato – che detiene il monopolio “legittimo” dell’uso della forza – rappresenti un’istanza unitaria e sovrana, “vincolante” per tutti i cittadini, in quanto “ap-partenenti” alla medesima comunità nazionale (e non è perciò casuale che “Stato” designi sia un Paese, una popolazione che occupa un ben definito territorio, sia l’organizzazione politica di una società, o in senso più specifico, l’apparato che consente l’organizzazione politica di una società). Se così non fosse, tra l’altro (ma è osservazione di non poco conto), un individuo potrebbe essere costretto a dare la vita per lo Stato, ma certo non avrebbe alcun “obbligo morale” di farlo, giacché «solamente dal valore superiore del tutto in confronto con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e, se necessario, di morire per il tutto». (7 ) E in guerra è lo Stato a svolgere un ruolo strategico fondamentale, quando tutte le forze produttive e tutte le “risorse umane” del Paese devono concorrere al raggiungimento dell’obiettivo comune. Sicché, la lezione che se ne dovrebbe trarre è che la “coesione” dello Stato non è “data a priori”, ma varia a seconda delle circostanze storiche, poiché una classe dirigente ha, perlomeno in linea di principio, la possibilità di “uni-ficare” l’azione dei molteplici apparati dello Stato, in funzione di un progetto politico condiviso dall’intera comunità.
Sotto questo profilo, le critiche che il comunitarismo rivolge al liberalismo ed all’individualismo, rivalutando l’idea greca, e soprattutto quella aristotelica, dell’ethos comunitario, paiono cogliere nel segno. Nondimeno, anche il comunitarismo , sebbene non sia una corrente di pensiero unitaria, ha il grave limite di sottovalutare il ruolo della sovranità nazionale nel contrastare il “mondialismo”, poiché si lascia sfuggire che il narcisismo identitario delle cosiddette “piccole patrie” (a prescindere dal modo in cui si sono formati gli Stati nazionali e dalla critica di una burocrazia inefficiente) non può non favorire, benché talora in modo inconsapevole, la politica di potenza atlantista. (Si può muovere questa obiezione anche ad Alain de Benoist, cui pure si deve forse la più articolata analisi delle patologie dell’individualismo moderno e della società liberale. Se lo Stato nazionale si è imposto a scapito dei tradizionali legami comunitari, si deve prendere anche in considerazione che le “diverse identità locali” sono ancora presenti come parti di uno Stato nazionale, che pare essere l’unico ostacolo che si frapponga tra l’oligarchia finanziaria “mondialista” e le comunità locali) (8). Si deve però anche ammettere che il tentativo di costruire una autentica entità politica “sovranazionale” non può non essere destinato a fallire (si pensi anche ai danni che derivano da un europeismo grossolano e superficiale, come quello che contraddistingue il nostro Paese), qualora non si capisca (o non si abbia interesse a capire) la necessità di elaborare una strategia geopolitica allo scopo di realizzare un’alternativa multipolare. Si dovrebbe di conseguenza evitare tanto il localismo quanto un ottuso centralismo e rafforzare la sovranità e il potenziale strategico di uno Stato, di modo da poter incastonare l’Economico in una struttura (geo)politica imperniata sui legami identitari e sociali.
Peraltro, la questione della sovranità nazionale, per quegli Stati, come l’Italia, che rischiano di perderla completamente, con conseguenze facilmente immaginabili, deve essere messa in relazione con quella inerente alla “forma” dello Stato, nel senso che la difesa della sovranità nazionale e dell’interesse generale, definito in base a criteri di “appartenenza” (e quindi secondo una concezione del Politico non economicistica, ma fondata su quei principi di giustizia sociale ed equità, senza i quali non vi possono essere né vero consenso né vera coesione sociale) non può non presupporre una”ri-forma” del sistema politico “liberale”. E’ innegabile, infatti, che quest’ultimo sia “veicolo” di quelle “forze mondialiste” che applicano la logica del “divide et impera” non solo a livello internazionale ma anche, e con notevole successo, all’interno di un singolo Paese, facendo leva sullo spirito di fazione, su “quinte colonne” e sulla mancanza di forze politiche “antagoniste”. Un’altra prova che è mera illusione pensare che la riduzione del Politico a pubblica amministrazione – come se un sistema sociale si potesse autoregolare in virtù di meccanismi teleologici, ad un tempo immanenti e metastorici – non sia funzionale alla strategia di determinati “centri di potenza”. Tanto che l’indebolimento della sovranità nazionale, come mostra chiaramente anche la recente storia del nostro Paese, oltre a implicare una gravissima “contrazione” dell’autonomia del Politico, non può non coincidere con la progressiva perdita anche dei diritti sociali e culturali di un popolo.
In particolare, se si prende in esame il nostro Paese, è sempre più manifesto non solo che il degrado istituzionale è giunto al punto di minare le fondamenta stesse dello Stato (il cui ruolo, in primo luogo, dovrebbe consistere nel garantire la convivenza civile mediante l’istituzionalizzazione del conflitto), ma che i partiti non rappresentano altri interessi se non quelli di alcune lobbies, di cui fanno parte non pochi di coloro che dovrebbero servire lo Stato e che invece non si fanno alcuno scrupolo di porsi al servizio di potentati economici stranieri. La lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto scorso al Governo italiano non lascia dubbi al riguardo: indipendentemente da ogni considerazione sull’attuale Governo italiano, il Consiglio direttivo della Bce “propone” (ed è “una proposta che non si può rifiutare”) ai politici italiani di «ritagliare» il nostro Paese in base alle «esigenze specifiche delle aziende» e “consiglia” pure come farlo: con decreto legge e una riforma costituzionale, senza guardare in faccia nessuno, tranne evidentemente gli “amici” della Goldman Sachs e gli “amici degli amici” (9). La democrazia occidentale si rivela “fiction”, mentre infuria la polemica sull’autonomia di Bankitalia, ché ormai quella del Paese la si vuole mettere in liquidazione.
Vero quindi che il re “liberaldemocratico” è nudo, ma, anche dal momento che per i media mainstream è “normale” che il bene comune e la sovranità di un Paese (del nostro Paese, ma certo non solo del nostro) siano “quotati in Borsa” e che siano i “mercati” a decidere ciò che è giusto per una collettività, si è ancora ben lontani dal rendersi pienamente conto che la crisi che attanaglia il “mondo occidentale” (resa ancor più “drammatica” dalla frammentazione sociale e dalla frustrazione delle aspettative dei ceti medi) è prima di tutto effetto di un “mutamento di fase” che penalizza non tanto (e non solo) i Paesi economicamente deboli quanto piuttosto i Paesi che hanno scarsa capacità di “manovra geostrategica”. Afferma perciò, giustamente, Gianfranco La Grassa che «la prima esigenza è quella della formazione in Italia di un polo nazionale [che però] non avrebbe ragione di esistere – nel senso che non avrebbe alcuna incidenza reale – se non fosse dotato degli strumenti tipici di uno stato d’eccezione» e che «esistono stati d’eccezione, in cui occorrono mezzi speciali e d’emergenza per governare i processi e renderli funzionali agli interessi della maggioranza della popolazione abitante in una di quelle zone in cui lo stato d’eccezione si è prodotto». (10) Ora, se non si vogliono ripetere gli errori del passato, è logico che non si possa avere di mira alcuna forma di sciovinismo o di xenofobia (esclusi comunque “a priori” dall’orientamento geopolitico che si vuol difendere), né si ignorino le aberrazioni del totalitarismo (anche se si dovrebbe notare che è proprio della “libera società totalmente amministrata” spogliare l’individuo di ogni “abito” sociale e culturale che non sia quello dell’anonimo e impersonale “si” delle tecnostrutture, sia pubbliche che private). Ma quel che è assolutamente necessario è stabilire «una politica di strategia italiana del tutto autonoma rispetto ad altri potentati stranieri [e controllare] con mezzi ineludibili e pene assai dure di coercizione, che simile politica venga applicata», di modo che la stessa distinzione tra pubblico e privato dipenda dal Politico, giacché «il “pubblico” non è affatto sinonimo di interesse collettivo, generale. Tutto dipende da chi ha le redini politiche e dagli scopi che si propone». (11) Non è allora difficile comprendere che, se si condividono le affermazioni di La Grassa, cade pure la possibile obiezione che quel che vale in guerra non può che valere solo in guerra, dacché lo stato d’eccezione cui si riferisce La Grassa, mostra, come sostiene Carl Schmitt, che vi è sì differenza ma non soluzione di continuità tra la guerra e la “normale” attività politica di uno Stato. In sostanza, quelle condizioni che permettono al Politico di prendere decisioni che impegnano una collettività, ben oltre la concezione liberale dello Stato, non sono solo quelle che valgono in guerra, ma pure, mutatis mutandis, quelle che caratterizzano lo stato d’eccezione.
Epperò non sembra una forzatura ritenere addirittura che sia lo stato d’eccezione ad essere la “regola”, allorquando non è possibile che vi sia un equilibrio (stabile) tra le diverse potenze, dato che una di esse (e la maggiore) persegue un disegno di egemonia globale. D’altra parte, la mediazione politica tra le differenti istanze sociali, nonché l’esigenza di garantire la relativa autonomia dei diversi mondi vitali, non possono non trovare sufficiente “spazio”, qualora l’azione del Politico sia realmente, ad un tempo, nazionale e popolare. Non è allora un problema di (mera) ingegneria costituzionale, ma di formazione di una volontà politica che sappia “ri-definire” ed articolare le istituzioni “democratiche” in vista dell’interesse generale. Inoltre, se da un lato, indubbiamente occorre “dar forma” alla propria “potenza” con mezzi adeguati e perfino “eccezionali”, dall’altro, non si può non tener conto della necessità di “connettere” gli orizzonti spirituali dei differenti popoli (e soprattutto di quelli dell’area mediterranea e dell’Eurasia). Né questo può considerarsi un compito di secondaria importanza (come fosse una sorta di “appendice ideologica” del realismo politico) ai fini di una costruzione culturale di un polo “nazionalpopolare”, avendo presente che questo termine, nella riflessione critica gramsciana, designa quei fenomeni che esprimono valori radicati nella tradizione di un intero popolo, in opposizione al cosmopolitismo e ad un “astratto” (nel senso hegeliano) universalismo. Vale a dire che la valorizzazione delle proprie radici, se non deve essere bolsa retorica, nazionalista o “europeista” che sia, non può essere disgiunta dal riconoscere che difendere l’identità e la dignità degli altri popoli, significa difendere la propria identità e la propria dignità (anche per il semplice fatto che vi è un “nemico comune” da combattere e che i singoli Stati nazionali, tranne eccezioni – quali la Russia o la Cina – , sono troppo piccoli per potersi opporre alla “pre-potenza” del Leviatano). Ed è su questa base che si potrebbe e si dovrebbe costruire un “grande spazio geopolitico”, per porre “termine” alla barbarie “mondialista”.
Pertanto, sebbene sia indubbio che vi è bisogno di aggiornare continuamente la “mappa”, anzi “le mappe” del mondo in cui viviamo, è urgente pure definire e promuovere un saldo ed organico “orientamento culturale” (anche, in un certo senso, “metapolitico”), che sostituisca definitivamente paradigmi ideologici obsoleti, se non si vuole “parlare al vento”, o peggio ancora essere radicalmente fraintesi, oggi che l’industria culturale diffonde una immagine “mistificata” e semplicistica del mondo. Ed a maggior ragione si corre questo rischio quando il sistema educativo “veicola” un sapere che si ritiene debba essere socialmente utile, ma che non pare essere affatto utile a formare degli “uomini completi”. Nell’antica Cina, quando tutto sembrava essere irrimediabilmente destinato a corrompersi, Confucio, non venendo ascoltato dai potenti, decise di ripiegare «su di un piano meno appariscente ma molto più efficace [dedicandosi] all’educazione dei giovani, intesa come preparazione di uomini completi utili al popolo e a sé stessi» (12). Cambiano gli uomini, i luoghi, i tempi e naturalmente le “proporzioni”. Ma l’insegnamento resta. Ed è chiaro. Non si tratta cioè di discutere sulla natura del fuoco, mentre la casa sta bruciando, come dicono i buddhisti, ma di sapere in che direzione si deve andare per mettersi al sicuro. Una prospettiva geopolitica e “geo-filosofica”, del resto, è il necessario “pre-supposto” non solo di un agire strategico consapevole e maturo, ma pure di una “corretta” distinzione tra amico e nemico; una distinzione che è l’essenza stessa, se non dello Stato, del suo fondamento, ovvero del Politico.

Note
1) Vedi http://temis.blog.tiscali.it/2011/01/10/sovranita-federalismo-sussidiarieta-by-de-benoist/ .
2) Ibidem.
3) Ibidem.
4) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/19/brevi-considerazioni-sul-possibile-rapporto-tra-le-presunte-%E2%80%9Cforze-nazionali-italiane%E2%80%9D-ed-il-compito-teorico-pratico-che-ci-siamo-assegnati/ .
5) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/20/fatti-e-riflessioni-i-20-sett-%E2%80%9911/ .
6) Si deve però stigmatizzare la critica volgare, come quella di Popper, della filosfia politica di Hegel, che, al contrario di quel che pensano i liberali “anglofoni” o “anglofili”, non si può considerare come una difesa del totalitarismo; sempre valido, al riguardo, è (a cura di) C. Cesa, Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Bari,1979.
7) Così Otto von Gierke, citato in N. Abbagnano e G. Fornero, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino, 1998, p.1043.
8) Assai attento invece a sottolineare l’importanza della sovranità nazionale è il discorso filosofico-politico di Costanzo Preve (di cui vedi anche http://www.eurasia-rivista.org/de-globalizzazione-e-recupero-della-sovranita-nazionale/11354/). Sul comunitarismo e su altri temi trattati in questo scritto ci siamo già espressi in precedenti articoli. In ogni caso, è preferibile peccare di ripetitività, piuttosto che non essere chiari, senza contare che il significato dei concetti cambia a seconda del contesto.
9) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/30/minacce-di-morte/ .
10) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/20/fatti-e-riflessioni-i-20-sett-%E2%80%9911/ .
11) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/30/che-pena/ .
12) P. Filippani Ronconi, Storia del pensiero cinese, Bollati Boringhieri, Torino, 192, p. 41.
http://www.cpeurasia.eu/1724/sovranita-nazionale-e-alternativa-multipolare