lunedì 28 settembre 2015

HYBRIS TALASSOCRATICA E GIUSTA MISURA*

Ai Meli, che confidano nella buona fortuna mandata dagli dei, replicano duramente gli Ateniesi: «Noi pensiamo che gli dei (per quel che se ne dice), gli uomini di certo, sempre, per una necessità di natura, comandino su coloro che riescono a sopraffare» (Tucidide, V, 104-105). Osserva Luciano Canfora che in questa frase vi è «la radice della scoperta tucididea della “necessità” del conflitto, della sua inevitabilità» (1). Scoperta quindi del conflitto come dimensione costitutiva del “politico”, ma anche esposizione che non si contenta dell'apparenza superficiale delle cose, al punto che Tucidide, a differenza di Erodoto, non solo «avverte il carattere strumentale della pretesa ateniese di brandire sempre i vecchi meriti acquisiti nelle guerre persiane», (2) ma comprende che è la crescita della potenza ateniese ad aver “costretto” (ἀναγκάσαι) Sparta ad optare per la guerra. Non a caso è la  “necessità di potenza” che, secondo gli Ateniesi, giustifica il loro agire verso gli abitanti di Melo. Coglie perfettamente questo aspetto del discorso degli Ateniesi anche Massimo Cacciari: «qui […] la hybris stessa ragiona, è logos, pretende di valere come necessaria. Giustizia, nel discorso degli Ateniesi, non è sinonimo di utile (come, a torto, credono i Meli), ma di necessario» (3) L'agire degli Ateniesi è giusto in quanto «fondato sulla necessaria natura delle cose umane e divine» (4) In nessun modo ci si deve opporre a chi è più forte e affidarsi a cieche speranze, dacché «chi è più forte fa ciò che può, e chi è più debole deve cedere» (Tucidide,V, 89) Gli Ateniesi quindi ritengono di agire secondo «necessità di natura» e che nessuna “opposizione” ci sia tra Dike ed il loro Wille zur Macht. Ma quale Nomos potrebbe “armonizzare” la «misura del Partenone e strage dei Meli»? (5). Non è forse al di là di ogni “misura” chi pretende di giudicare gli altri con il “metro” della propria volontà di potenza? “Im-mensa” è la distanza tra la “superbia” del logos degli Ateniesi, che conduce a trattare i nemici con disprezzo (Tucidide, II, 63), e l' ethos epico e tragico, secondo cui disprezzare il nemico è di per sé indubitabile segno di hybris. Non solo. Si tratta di una hybris che rende difficile, se non impossibile, distinguere tra “libertà” e “pre-potenza”. Una analisi “disincantata” della guerra del Peloponneso non può che “portare oltre” la contrapposizione tra il Greco libero e il Persiano suddito del principe, evidenziandone il “lato ideologico”. Così, infatti, Tucidide commenta l'attacco alla città di Naxos, sconfitta da Atene dopo un durissimo assedio: «Questa fu la prima città alleata fatta schiava dagli Ateniesi, contro giustizia» (Tucidide, I, 98). Quella “funzione salvatrice” di Atene, che Erodoto mette in luce convinto di dire «cosa odiosa ai più» (Erodoto, VII, 139), si è mutata in un imperialismo che Tucidide descrive con le stesse parole con cui i Greci descrivono la tracotanza dei Persiani, cioè il voler ridurre in schiavitù un popolo libero. Ancora più significativo però è che egli definisca il comportamento degli Ateniesi «contro giustizia». Ma se la “pre-potenza” della polis che a Maratona si coprì di gloria, è «contro giustizia», non può non essere anche giusta, in quanto necessaria. Aporia i cui effetti Tucidide osserva “scientificamente”, con l'occhio attento e la freddezza del medico, descrivendo «quello che ha visto come lo ha visto»(6).

D'altra parte, alla natura umana «come immutabile punto di riferimento per lo storico, si richiamano i personaggi [dell'opera di Tucidide] in momenti cruciali» (7); di modo che la scoperta dei meccanismi storici porta Tucidide ad affermare che «accaddero molte e terribili cose nelle città durante la lotta civile – cose che avvengono e sempre avverranno finché la natura umana sarà la stessa» (Tucidide, III, 82) e che «se, quanti vorranno vedere con chiarezza il passato e il futuro – che si ripeterà uguale o simile data la natura umana - , [quest'opera] la riterranno utile, questo mi basterà» (Tucidide, I, 22). Ciò non implica che la pace sia un'utopia, ma che non può non essere concepita che come equilibrio tra potenze. Ma se giusto è quel che si impone come necessario, necessario e giusto è pure impedire la rovina della città - impedire che polemos si muti in stasis, in guerra civile - ed agire in vista della pace, se la guerra, come afferma Aristotele, la si fa in vista della pace. Come può, allora, essere stabile un equilibrio fondato sulla natura umana, sempre cangiante, e al tempo stesso essere tale da non recar danno alla città? Questo domandare è affatto proprio della grecità, ma il legame tra “cose della natura” e “mondo degli uomini” pare essersi definitivamente spezzato. Se nell'età arcaica «la physis non costituiva un mondo separato e contrapposto al mondo umano […] la sofistica […] interrompe questa visione unitaria, e nettamente distingue i due mondi» (8). Il punto focale di conseguenza si è spostato dalla natura all'uomo, di modo che le leggi ormai non si sentono più «come qualcosa di venerabile e sacro, ma come una pura convenzione utilitaristica fatta dall'uomo» (9). Vero che un Anassagora «mai avrebbe supposto che le sue dottrine potessero portare ad un Alcibiade e ad ispirare profanatori di misteri e traditori della patria, come appunto si sarebbe verificato tra il 415 ed il 411» (10), ma pure vero che la degenerazione della sofistica non la si può considerare accidentale ed assai breve è il “passo” dal discorso degli Ateniesi a quello di Callicle nel Gorgia (482 e ss.) o a quello di Trasimaco nella Repubblica (338c), che fanno l'apologia della legge del più forte. Platone mostra che è comunque la forza dell'argomentazione che “misura“ il discorso che esalta la legge del più forte, in quanto discorso (se esso è giusto, lo è solo in quanto è l'argomentazione “più forte”, e non “del più forte”), ma è appunto la filosofia che ha il compito di “ri-cercare” la giusta misura, di “pro-durre” il discorso vero intorno allo Stato ed alla natura dell'uomo, la polis non potendosi più basare, perlomeno “im-mediatamente”, sulla “tradizione”. Un compito tanto più urgente e più difficile, se si tiene conto della condanna a morte di Socrate, ossia di colui che «aveva votato (unico nell'assemblea generale del popolo ateniese) contro la decisione illegale di processare in blocco quegli strateghi che non avevano soccorso i naufraghi dopo la battaglia delle Arginuse; [e] che, in altra occasione, opponendosi a un'azione illegale degli oligarchi, si era rifiutato di recarsi a Salamina per riportarne, verso sicura morte, un tale Leone» (11). D'altronde, anche se è innegabile che sia la filosofia di Platone a “rispondere” alla gigantesca sfida posta dalla sofistica, nonché agli interrogativi che inevitabilmente l'opera tucididea solleva, la stessa filosofia di Aristotele non la si può intendere appieno, senza considerare il contesto storico in cui, dopo la fine dell'epoca del mito, era pure maturata la crisi della religione e della stessa sapienza arcaica. E ciò non solo in relazione alla pur rilevante e significativa questione dell'intelletto agente, del nous, vale a dire di quella parte dell'anima che si potrebbe definire il “divino riflesso nella natura dell'uomo”. Tanto che Giovanni Reale afferma che la concezione aristotelica della polis è «la più radicale difesa dello Stato che nell'antichità sia stata fatta contro i tentativi di alcune correnti della sofistica di ridurre la polis a semplice frutto di artificiosa convenzione», e addirittura che «anche nella politica, in conclusione, la metempirica concezione dell'anima e dei valori dell'anima risulta la linea di forza secondo cui si svolge tutto il discorso aristotelico. Anche qui Aristotele è più vicino a Platone di quanto non si creda comunemente: sono certi aspetti aberranti della Repubblica platonica che lo Stagirita critica e respinge, non l'ideale di fondo che essa esprime» (12).

Nondimeno, se è vero che si deve prestare attenzione a non interpretare quel che i Greci denominano “anima” mediante le categorie del cristianesimo, a maggior ragione si deve tener conto che l'etica per i Greci, come mos per i Romani, a differenza della morale soggettiva ed individualistica dei moderni (impensabile senza il cristianesimo) è inseparabile dalla “terra” cui si appartiene, dal luogo in cui si “dimora”. Sotto questo profilo, essere uomini significa, prima di tutto, essere parte di una determinata comunità; né vi può essere conflitto tra “giustizia” e salvezza della polis ove il compito principale della politeia sia quello di svolgere la funzione del katechon onde “salvaguardare” l'intera comunità. E «il Greco fu sempre convinto (almeno fino all'età di Platone e di Aristotele) che lo Stato e la legge dello Stato costituissero il paradigma di ogni forma di vita [e che] il valore e le virtù dell'uomo [fossero] il valore e le virtù del cittadino». (13) Solo dunque con la definitiva rottura della «unità cosmologica e umana del mondo dei Greci» (14) e la radicale scissione tra cittadino e individuo, Machiavelli può scrivere che «dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso, anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita, e mantenghile la libertà» (Discorsi, III, 41). Quel che qui ha di mira Machiavelli è la una morale che non ha più il proprio baricentro nella comunità; perciò il pensatore fiorentino può nettamente distinguere, o meglio separare ciò che si considera giusto o ingiusto dalla “decisione” per la salvezza della patria, dacché lo Stato per Machiavelli non è più un «complesso “radicato” di organi e soggetti, ma […] uso “virtuoso” di violenza, immanenza reciproca di ordine e conflitto» (15). E' proprio invece la relazione tra uso “virtuoso” della forza e “salute” della patria che è al centro della riflessione di Sofocle - il grande tragediografo (ed uomo politico) ateniese - nell'Antigone, secondo cui è impossibile che l'agire in vista della “salute” della polis non sia giusto, a patto che sia effettivamente tale, ossia non lo sia solo apparentemente ed arrechi invece il massimo danno possibile alla polis, perdendo di vista quelle norme «non scritte ed incrollabili, e che i mortali non possono permettersi di trasgredire, in quanto non sono né di oggi né di ieri, ma vivono da sempre, e nessuno sa quando sono apparse» (Antigone, vv. 450-457). Per questo motivo, il rapporto tra diritti della polis (Creonte) e diritti del genos (Antigone) è posto da Sofocle alla pari: «La polis sì, ma una polis che rispetti le tradizioni sacre di cui è custode la famiglia e che trovano la loro più alta espressione nel culto dei morti» (16). Degno di nota è pure che Sofocle (anche) nell'Antigone si riferisca alla realtà politica dell'Atene contemporanea: non solo la definizione di Creonte – il tiranno di Tebe - come “stratego” non può non riferirsi a Pericle, ma vi è una «precisa concordanza dei concetti, esposti da Creonte nel suo discorso, con quelli che Tucidide mette in bocca a Pericle (Tucidide, II, 60)» (17). Quel che paventa Sofocle è che la progressiva dissoluzione dell'etica tradizionale dia origine a comportamenti talmente radicali ed irresponsabili da minare le fondamenta stesse della comunità: «L'intero significato etico e politico dell'Antigone si riassume [nel] contrasto tra l'hypsipolis che opera per il bene della città, attenendosi ai principi sanciti dagli dei, e l'apolis che invece la porta alla rovina, sostituendo quei principi con nomoi puramente umani [ovvero convenzionali e contingenti]» (18). La difesa della tradizione, in quanto necessario presupposto di un agire assennato e di una intelligenza politica matura e responsabile, la si fraintenderebbe però se si ritenesse unicamente indice del timore di uno spirito conservatore nei confronti del nuovo corso della politica ateniese, ché Antigone, seguendo la «giustizia che posa sui giuramenti agli dei» (vv. 367 s.), vuole onorare le «leggi della sua terra» (v. 367), prendersi cioè cura della propria radice, che invece la tracotanza di Creonte, che segue soltanto la ragion di Stato, rischia di svellere. Del resto, anche nell'Edipo re, il coro afferma: «La dismisura genera il tiranno; e quando essa si sia stoltamente saziata […] allora, salita sulla cima più alta, precipita in un fatale abisso […] Ecco perché l'ottima gara per la salvezza della città chiedo al dio che non la voglia mai interrompere, il dio che mai cesserò di tenermi come patrono. Chi invece in azioni e parole procede sprezzante, senza timore di Dike, senza venerare i luoghi dove gli dei hanno le loro sedi, costui una sorte infausta se lo prenda» (vv. 872 ss.). Sia o no Alcibiade il bersaglio del coro, queste parole non sono solo quelle di un uomo pio, ma quelle di un Greco, consapevole di quella legge dei contrari, la enantiodromia di cui parla il filosofo d'Efeso, secondo cui ogni cosa tende a sfociare nel suo contrario, e di un politico “realista” che, avendo ben presente quale sia la natura dell'uomo, si avvede della necessità di porre un freno agli “appetiti” del demos, facendo leva su quelle sacre “leggi della terra”, senza le quali la polis è destinata a corrompersi e ad autodistruggersi. (Lo stesso Euripide ammonisce gli Ateniesi - ne Le troiane, vv. 95-98, tragedia rappresentata nella primavera successiva all'assedio di Melo ed alla vigilia della disastrosa spedizione contro Siracusa - con queste parole: «Folle è colui che spiana città, templi, sepolcri e sacrari dedicati ai morti; poiché semina distruzione, perirà egli stesso»).

Comunque sia, anche per Sofocle, come per Tucidide e per Platone, la città non può crescere e progredire muovendo guerra contro le altre città, senza farla anche a sé stessa. «Così accade ad Atene. Muovendo guerra per il dominio, essa non suscita soltanto odio ed inimicizie (Tucidide, II, 64, 5), ma corrode necessariamente la propria stessa forma politica» (19). Sotto questo profilo, però, la difesa sofoclea del “paradigma tradizionale”, come “guardiano” di quei “termini” che il “politico” non deve oltrepassare, non può non essere “contraddetta” dalla impossibilità di arrestare l'impeto “sradicante” di Atene, dacché quest'ultimo è imposto dall'esigenza di dominare il mare. Talassocrazia, imperialismo e democrazia (nell'accezione negativa del termine, cioè intesa non tanto come partecipazione dei più agli affari pubblici, quanto piuttosto come demagogia) sono inseparabili, come comprendono il “Vecchio Oligarca” (20). e lo stesso Platone, il quale non si illude che i valori della tradizione - inclusa quella mantica che Creonte disprezza apertamente (Antigone, vv. 1033 ss.) - possano ancora essere un saldo punto di riferimento per chi si opponga alla “pre-potenza” del più forte. Perciò Platone ritiene necessario impegnarsi in una rifondazione dell'ethos tradizionale, ossia dell'uomo e dello Stato. Ma già la historia tucididea, in cui come nel mondo di Creonte, non hanno parte alcuna le divinità, poiché è un «mondo costruito sul metro dell'uomo e dello Stato» (21) - mostra chiaramente come lo sviluppo di Atene, la cui potenza risiede sul mare, dipenda dalla capacità di dominare le altre città con la propria flotta da guerra, ché  gli Ateniesi non sono “incatenati alla terra”, come gli opliti spartani. Dicono i Corinzi ai Lacedemoni per incitarli alla guerra, che gli Ateniesi «sono innovatori […] audaci oltre la propria forza […] risoluti di fronte a voi che temporeggiate, pronti ad abbandonare il proprio paese di fronte a voi che mai volete uscire dal vostro» (Tucidide, I, 70). E' quindi questo conatus - che spinge gli Ateniesi oltre i propri confini, che non si può limitare con patti o con la promessa di non ostacolarlo, come “ingenuamente” credono i Meli, e che è alla base della fortuna della città e del potere del demos – che nell'opera di Tucidide si rivela essere come ciò che ne costituisce il lato “tragico” (del tutto assente invece nel discorso del grande fiorentino), giacché «questo furente-razionale conatus risulta alla fine auto-distruttivo [e] la stessa linfa che reca in alto le città, deve finirle con l'abbatterle» (22). Tucidide, pertanto, lascia che l' hybris del logos della talassocrazia ateniese si manifesti per quello che effettivamente è. Vano però sarebbe contestare tale logos appellandosi a Dike, non solo perché pretende di essere giusto, anzi il solo logos giusto - proprio come Creonte è convinto che solo il suo discorso sia vero (Antigone, vv. 705 ss.) - e perché si presenta fondato sulla natura umana (e perfino su quella divina), ma perché è segno di una ben determinata “volontà di potenza”, non “mero” discorso. Sono allora le conseguenze del logos di questa determinata volontà di potenza che si debbono prendere in considerazione, sia i “mali” prodotti dalle lotte intestine e dallo spirito di fazione, sia la sconfitta di Atene, prima contro Siracusa, poi contro Sparta. Conseguenze inevitabili di quella “pre-potenza” che Sofocle nell'Antigone vede originarsi da un uso “distorto” del potere politico e che Platone lucidamente ritiene essere l'effetto della hybris talassocratica (Gorgia, 518e-519b).

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A giudizio di Massimo Cacciari, però una volta che la via sia stata tracciata sul mare non si può non percorrerla, “chiuderla”. Di fatto, è indubbio che nel “passaggio” dall'Antigone di Sofocle ai dialoghi platonici “il mondo tradizionale” sia definitivamente tramontato. Solo così si spiega per quale motivo occorra dar “forma” alla lotta politica mediante una politeia che in primo luogo sia in grado di “e-ducare” la natura dell'uomo, instaurando un “circolo virtuoso” tra città giusta e cittadini giusti. Epperò, scrive Cacciari, in un passo che vale la pena di citare quasi per intero, «inizia qui tra filosofia e mare un difficile rapporto […] La filosofia non può condividere la hybris della talassocrazia, ma non può non condividerne la forza sradicante. La filosofia deve “salpare” da ogni doxa, da ogni Nomos acquisito solo per forza di tradizione – ma, ad un tempo, e con tutte le sue energie, contrastare l'equivalenza tra giusto e utile, tra giusto e semplice equilibrio di potenza, tra giusto ed effettuale». Il mare non potendo essere che “met-odo”, via da seguire per «guadagnare una terra ancor più salda di quella abbandonata, un Nomos finalmente ben fondato» (23). Si viene così a configurare quella “tensione essenziale” fra terra e mare che contraddistingue la storia europea e che in età moderna sfocerà nel conflitto tra Landmächte e Seemächte. (24) Secondo Cacciari però tra la talassocrazia ateniese e quella americana - non vi sarebbe soluzione di continuità, poiché sarebbero connesse secondo «una concatenazione logica, inconfutabile» (25). In tal modo, però non solo si perde totalmente di vista che il demos ateniese è, prima di tutto, uno zoon politikòn - e che quindi l'ordinamento democratico ateniese è basato sul primato della funzione politica, tanto è vero che la ricchezza ha la funzione di incrementare la potenza militare della polis, ma anche di finanziare la costruzione di opere pubbliche e la partecipazione del demos agli affari e alla vita della città, e le attività commerciali sono esercitate perlopiù da residenti stranieri privi di diritti politici (i meteci) - , ma soprattutto si rischia di giustificare un'altra “volontà di potenza”, assai diversa ed assai più “pre-potente” di quella ateniese. Una conclusione però che sembra difficile rifiutare, qualora si assuma che l'Occidente sia il “destino” dell'Europa o addirittura dell'intero pianeta. Certo è innegabile che il termine “occidentalizzazione” possa riferirsi a quel che Martin Heidegger designa come “la fine della filosofia”, che «si mostra come il trionfo dell'organizzazione che manovra il mondo tecnico-scientifico e dell'ordinamento sociale corrispondente a tale mondo. Fine della filosofia significa: inizio della civilizzazione mondiale fondata sul pensiero occidentale-europeo» (26). Ciononostante, il trattino fra “occidentale” e “europeo”, in questa frase di Heidegger, non solo unisce, ma distingue. E' indice di “differenza”. Ed è questa “differenza” che conta allorché si deve prendere in esame l'origine della civiltà europea in relazione alla sua “occidentalizzazione”.

Di fatto, l'idea di Occidente è relativamente recente. Nasce tra Settecento e Ottocento per designare l'espansione dello “spazio europeo” verso Ovest, cioè verso il continente (nord)americano. E viene “progressivamente” a denotare, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale, il “nuovo mondo” americano, concepito come sintesi di tutta la “tradizione” europea, compresa la civiltà classica, greca e romana, il cristianesimo e il Rinascimento. Si cerca così di legittimare la proiezione universalistica e globalistica nordamericana, di un Occidente senza confini, rispetto all'Europa, «ancorata com'è alla dimensione mediterranea: una cultura del limes [corsivo nostro], del multilateralismo, del mare fra le terre, estranea alla dimensione cosmopolita delle potenze oceaniche». (27) Ossia una cultura come quella del mondo ellenico, caratterizzata - anche “in negativo”, per così dire, in quanto di ostacolo alla realizzazione di istituzioni politiche panelleniche, ritenendo i Greci accettabile solo la “di-mensione” della polis - dalla ricerca della giusta misura e della mediazione tra gli opposti, fra terra e mare, per “frenare” e imbrigliare l'illimitato. Peraltro, è proprio sulla base della distanza tra «l'estrema propaggine dell'Occidente e il suo originario spazio europeo» (28), che Robert Kagan ha potuto sostenere che «è tempo di smettere di pretendere che gli europei e gli americani condividano una stessa visione del mondo, o persino che essi abitino lo stesso mondo […] Su tutte le questioni essenziali relative al potere, le prospettive europee ed americane divergono […] Questo stato di cose non ha nulla di provvisorio […]. Le ragioni della frattura transatlantica sono profonde, esse vengono da lontano e sono destinate a perdurare» (29). Per Kagan, gli europei sarebbero kantiani, mentre gli americani sarebbero hobbesiani, poiché credono che le relazioni internazionali vadano gestite mediante i criteri della politica di potenza (30); tesi che deriva dalla convinzione che la “vecchia Europa” non rappresenti che la periferia dell'Occidente e che solo chi si trova in posizione di netta inferiorità contesta che i conflitti tra gli Stati siano da “regolare” secondo i principi della Machtpolitik e si appella al diritto internazionale (che i vincitori o i più forti invece possono far sì che valga soltanto “contro” i vinti o i più deboli). Kagan ammette esplicitamente che gli Stati Uniti hanno agito il più delle volte in dispregio del diritto internazionale e se talvolta  non l'hanno fatto, ciò è dipeso da considerazioni opportunistiche. Ma la legittimazione del loro agire strategico deriverebbe dal ruolo dell'America come leader del mondo libero, ovvero della civiltà occidentale. In realtà, anche in questo caso, si è in presenza di quella strumentalizzazione ideologica della cultura e della storia europea, che consiste nel ritenere tipicamente occidentale quello che conferma la visione liberale del mondo, e in particolare quella angloamericana. Il che, se porta l'Europa a percepire «sé stessa come arretrata rispetto al “vero” Occidente, costituito dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, i paesi più vicini ad un modello di “modernità liquida”, insulare ed oceanica», (31) favorisce pure una lettura apologetica del Novecento «che, nella sua miopia, moltiplica anziché risolvere i problemi. La cosiddetta vittoria della libertà sul totalitarismo non segna, infatti, il passaggio ad una fase superiore della storia, ma l'inizio di un nuovo periodo di conflitti, caratterizzato sì dal primato planetario degli Stati Uniti, ma anche dalla mutilazione della cultura occidentale e dalla conseguente drammatica contrazione della sua capacità di capire» (32) Si rafforza in tal modo la tendenza ad espungere dall'orizzonte culturale e politico dell'Occidente quelle tensioni strutturali che sono costitutive dell'identità europea e a recidere ogni “legame” dell'Europa con l'area mediterranea e l'Oriente. Si può allora giungere persino ad affermare che «il confine più naturale e generalmente riconosciuto è il grande spartiacque storico, che esiste da secoli e divide i popoli dell'Occidente cristiano da quelli musulmani e ortodossi» (33), quasi che l'Europa fosse un'appendice del mondo di lingua inglese, senza alcuno scambio culturale ed alcun rapporto commerciale con il mondo islamico e scrittori come Dostoevskij o Tolstoj non facessero parte della cultura europea. Non meraviglia perciò nemmeno che gli (anglo)americani, in generale, “oscillino” tra la pretesa di essere gli unici eredi legittimi dei Greci (soprattutto degli Ateniesi) e la critica della concezione greca del “politico”, in quanto, in ogni caso, fondata su principi olistici, se non addirittura totalitari, ovverosia nettamente anti-individualistici.

Affatto naturale, pertanto, che si cerchi anche di «imprimere il prestigioso marchio d'origine ateniese» sul sistema liberal-democratico occidentale, mediante paragoni più o meno zoppicanti. (34) E ai diversi “usi politici” di Tucidide si può ora aggiungere pure quello di Victor Hanson, autore di una importante analisi della guerra del Peloponneso, (35) dato che i suoi continui paralleli con l'attualità trascurano proprio quegli aspetti che sono decisivi per comprendere le differenze tra una società di mercato, come quella americana, ed una autentica comunità politica, come nonostante tutto si deve considerare Atene. Indipendentemente però dalle indubbie forzature, alcune analogie paiono essere plausibili, tanto più se si ritiene che non sia possibile comprendere il passato se non a partire dalle domande e dai problemi del presente, come lo stesso Hanson riconosce: «I nostri laeder politici e i nostri Soloni […] non sanno bene se il destino di Atene sarà anche il nostro, o se gli americani potranno ancora uguagliare la civiltà e l'influenza degli Ateniesi pur evitandone l'arroganza. La guerra del Peloponneso non è mai stata tanto rilevante per gli americani come oggi. Proprio come gli Ateniesi, siamo potentissimi ma insicuri, dichiaratamente pacifisti ma quasi sempre impegnati in qualche conflitto» (36). L'arroganza cui si riferisce Hanson (e che, in verità, caratterizza la storia degli Stati Uniti a partire dallo sterminio dei Pellerossa) non è altro, che quella hybris degli Ateniesi che si rivolgono ai Meli, sia pure “amputata” di un “retroterra” culturale affatto diverso, ed “immensamente” più aggressiva e potente. Pare perciò lecito – anche tenendo conto del nesso tra talassocrazia e “dis-misura”, e che l'opera di Tucidide, come egli stesso afferma (Tucidide, I, 22) vuole essere «un'acquisizione perenne, piuttosto che un pezzo di bravura composto per il successo immediato» - (37) ritenere che alla tracotanza dello zoon politikòn ateniese, corrisponda quella ben più terribile dell'homo oeconomicus, dell'illimitata volontà di potenza del “mercato”. Alla prima, i Meli assai poco possono opporre. Pensavano di poter rimanere neutrali, laddove si imponeva la scelta tra “amico o nemico”. Ed ora che gli Ateniesi li costringono a scegliere, non possono - al contrario dei Greci che non si erano piegati ai Persiani - che apparire “im-belli” e di conseguenza vengono irrisi dagli stessi ambasciatori ateniesi. Si potrebbe dire, secondo la nota metafora di Kagan, che sono venusiani, mentre gli Ateniesi provengono da Marte. Perciò ai Meli non rimane altro che farsi sterminare o essere ridotti in servitù. Anche se il paragone non deve trarre in inganno - ché, se l'America non è Atene, le “condizioni” dell'Europa non sono certo identiche a quelle di Melo – il senso però sembra chiaro: da un lato, una talassocrazia che non riconosce alcun confine, alcun “limite”; dall'altro, la necessità di opporsi ad una politica di potenza che tende ad annientare qualsiasi “spazio” – culturale, politico, economico e sociale – che non esegua gli “ordini del mercato” e della “grande democrazia occidentale”.

Tuttavia, anche se si ritiene che per l'Europa, «l'inseguimento mimetico del più forte coinciderebbe con un'avventura fuori tempo, con una perdita della specificità della sua identità» (38), non si deve commettere, mutatis mutandis, lo stesso errore dei Meli, che si devono criticare non per avere sostenuto che non è giusto imporre con la forza la propria volontà agli altri, ma per non aver compreso la necessità di agire affinché altri non ci impongano con la forza la propria volontà. E la necessità della cultura del limes (perfetta esemplificazione geopolitica dell'idea, tipicamente greca, di misura, di quel Misto che risulta dall'azione del principio limitante, del Limite, sull'Illimite) (39) è anche questa, ovvero la necessità di porre “termine” alla “barbarie atlantista”. Nell'età del nichilismo, secondo Heidegger, «appena l'uomo riflette sulla sradicatezza, questa non è più una miseria. Essa invece considerata giustamente e tenuta da conto, è l'unico appello che chiama i mortali all'abitare. Come possono però i mortali rispondere a questo appello se non cercando, per la loro parte, di portare se stessi l'abitare nella pienezza della sua essenza? Essi compiono ciò quando costruiscono a partire dall'abitare e pensano all'abitare» (40). Non c'è affatto bisogno allora di «un nuovo etnocentrismo imperiale, espansivo e concorrenziale rispetto a quello americano» (41). Ciò che invece è necessario - e proprio sul fondamento di quelle leggi che Sofocle denomina “leggi della propria terra” ,ossia l'ethos concepito come modo di abitare il mondo proprio dell'uomo - è contrapporre al “non luogo” della talassocrazia “atlantista”, alla «pre-potenza panoptica dell' “oceano del cielo”» (42), non l'utopia dell'unità “im-mediata” dei distinti o di una “terra senza il male”, bensì l' “eu-topia” di un blocco eurasiatico, radicato nella cultura del limes.







1. L. Canfora, Dalla logografia ionica alla storiografia attica, in AA.VV., La Grecia nell'età di Pericle, Bompiani, Milano, 1979, p. 366. Le parole degli Ateniesi acquistano un senso ancor più “sinistro” se si considera che la piccola Melo era condannata in partenza. Allorché capitolò, i maschi adulti furono uccisi, mentre donne e bambini furono venduti dagli Ateniesi come schiavi (per queste vicende vedi Tucidide, V, 87-111).
2. Ivi, p. 368.
3. M. Cacciari, Geo-filosofia dell'Europa, Adelphi, Milano, 1994, pp. 45-46.
4. Ivi, p. 44.
5. Ivi, p. 46.
6. A. Lesky, Storia della letteratura greca, Il Saggiatore, Milano, 1982, vol. II, p. 619. Lesky sostiene che Tucidide «non è  un teorico della volontà di potenza o un estremista della sofistica che abbia annullato nel suo pensiero i valori etici [...] Egli può dire con Esiodo che Aidos e Nemesis hanno abbandonato da gran tempo la terra e che le cose vanno male per Dike, ma non abbiamo alcun motivo per credere che egli considerasse giusto questo stato reale delle cose» (Ivi, p. 619). Del resto, il "realismo politico” non è il “cinismo”, dacché consiste non nel giustificare ciò che accade in quanto accade, ma nell'evitare di comportarsi come non potesse accadere ciò che è giusto che non accada.
7) L. Canfora, op. cit., nota 440, p. 365.
8) A. Jellamo, Il cammino di Dike: l’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli Editore, Roma, 2005. p. 84.
9) E. Degani, Democrazia ateniese e sviluppo del dramma attico, in  AA.VV., La Grecia nell'età di Pericle, cit., p. 284.
10. Ivi, p.285.
11. M. M. Sassi, “Apologia” e “Critone”, una vita filosofica, una morte “necessaria”, introduzione a Platone, Apologia di Socrate, Critone, Bur, Milano, 1993, pp. 23-24.
12. G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, vol. II, p. 524 e p. 540.
13. G. Reale, Il pensiero antico, Vita e Pensiero, MIlano, 2001, p. 159.
14. Vedi C. Preve, La saggezza dei Greci, Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, pp. 23-24 (petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1096/el_1096.pdf). Preve chiarisce bene che questa unità perdura, benché in modo differente, anche dopo la crisi della polis, per scomparire all'inizio del mondo moderno, con il tramontare di ogni idea di “cosmo”.
15. M. Cacciari, op. cit., nota 2, p. 49.
16. C. Diano, Sfondo sociale e politico della tragedia greca antica, «Dionisio», 39, 1965, p. 122.
17. Ivi, p. 124.
18. E. Degani, op. cit., p. 285.
19. M. Cacciari, op. cit., p 49.
20. Al riguardo, vedi l'analisi di C. Mutti, La “Costituzione” di Atene. Democrazia e talassocrazia, «Eurasia», 2, 2011. Evidenzia bene questa relazione anche Giuseppe Nenci: «La politica di potenza ateniese viene fondata sulla base di una visuale che non è più quella dell'espansione territoriale, ma […] quella del consenso ad un'impostazione ideologica che tendeva ad identificare la visione di un modo di vita greco cioè dell'hellenikòn, con quella ateniese. Di qui una battaglia ideologica e propagandistica, pro o contro la visione ateniese dei rapporti tra città rette da ordinamenti politici affini; di qui una politica di potenza della quale gli uomini politici ateniesi più illuminati si resero conto come di un fatto ineluttabile che obbediva alla logica di una difesa di una ideologia politica, identificata nell'espandersi della medesima all'esterno della città guida» (G. Nenci, Formazione e carattere dell'impero ateniese, in  AA.VV., La Grecia nell'età di Pericle, cit., pp. 45-46).
21. V. Ehrenberg, Sofocle e Pericle, Morcelliana, Brescia, 1959, p. 82.
22. M. Cacciari, op. cit., p. 49.
23. Ivi, pp. 54-55.
24. Per tale questione, nonché per quella relativa alla differenza tra lo zoon politikòn ateniese e l'homo oeconomicus moderno, mi sia consentito di rimandare, per evitare ripetizioni e per i riferimenti bibliografici, al mio scritto Homo Europaeus, «Eurasia», 2, 2010, pp. 11-23.
25. M. Cacciari, op. cit., p. 69.
26. M .Heidegger, La fine della filosofia, in Idem, Tempo e Essere, Longanesi Milano, 2000, p.77.
27. D. Zolo, Recensione del libro di G. Preterossi, L'Occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari, 2004, «Jura Gentium», I (2005) 1, (vedi juragentim.unifi.itbooks/it/preteros.htm).
28. Ibidem.
29. Vedi A. de Benoist, Gli Stati Uniti e l'Europa, http: // www. Alaindebenoist. Com/ pdf/ gli_stati_uniti_e_l_europa.pdf.
30. Vedi R. Kagan, Paradiso e potere: America ed Europa nel nuovo ordine mondiale, Mondadori, Milano, 2003.
31. F. Cassano, Un altro Occidente, «Jura Gentium», I (2005) 1, http: // www. Juragentium. unifi.it/topics/med/it/cassano.htm.
32. Ibidem.
33. Vedi S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997, p. 228.
34. Vedi C. Mutti, Un blocco militare nella Grecia del V secolo, in Idem, Gentes, Effepi, Genova, 2010, pp. 55-62.
35. Vedi V. D. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, Garzanti, Milano, 2008. Di V. D. Hanson, vedi anche L'arte occidentale della guerra, Garzanti, Milano, 2001.
36. V. Hanson, Una guerra diversa da tutte le altre, cit., p. 239.
37. L. Canfora , Introduzione a Tucidide, Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Marsilio, Padova, 1991, p. 19.
38.  F. Cassano, op. cit.
39. Sotto questo punto di vista, non pare esagerato quindi affermare che è Roma (neppure da considerare "altra" rispetto alla civiltà ellenica - vedi A. Toynbee, Il mondo ellenico, Einaudi, Torino, 1967) che "risolve", in un certo senso, il problema greco del "politico". Per quanto concerne il Misto, il riferimento è naturalmente al Filebo di Platone.
40. M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1985, p. 108.
41 F. Cassano, op. cit.
42. M. Cacciari, op. cit., pp. 68-69.

* Articolo pubblicato su "Eurasia", 4/2012, pp. 15-26