mercoledì 16 giugno 2021

POSTILLA A "GEO-POLITICAMENTE ABITA L’UOMO"*

 Molti anni fa, esattamente nel 1986 (in occasione di “Firenze capitale europea della cultura”), ebbi la possibilità di rivolgere alcune domande al filosofo Emmanuel Lévinas.

La prima domanda riguardava il problema del linguaggio e del logos in Derrida. Lévinas volle subito precisare che la sua concezione del logos era nettamente diversa da quella di Derrida. A tale proposito, egli affermò che riteneva invece che fosse possibile e necessaria una “transustanziazione del logos”. Assai diverso era , del resto,  anche il modo in cui Lévinas interpretava la filosofia di Husserl. (Si badi che Derrida, che pure conosceva assai bene il pensiero di Husserl, pare “cancellare” la differenza tra ritenzione e rammemorazione, che pure è essenziale nella filosofia di Husserl - si tratta, del resto, di una critica che diversi studiosi di Husserl hanno rivolto a Derrida; vedi, ad esempio, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma- Bari 2005).

A Lévinas comunque interessava soprattutto la questione del Mitsein in Heidegger, giacché egli riteneva che proprio il modo in cui Heidegger aveva trattato la questione del Mitsein e in generale la questione dell’Altro fosse l’aspetto più “pericoloso” della filosofia di Heidegger. In Essere e tempo cioè, secondo Lévinas, non si trova alcun “autentico” riferimento all’“altro uomo” ma solo alla folla anonima ed eterodiretta, ossia solo ad un “uomo senza volto”, e la questione della “intersoggettività” è solo quella del Man, del Si “inautentico” (si dice, si fa, si pensa, ecc.).

In effetti, è difficile negare che questa “lacuna” non solo sia presente nel pensiero di Heidegger ma che possa spiegare, sia pure in parte, sia l’adesione di Heidegger al nazismo sia il suo sostanziale “silenzio” riguardo al rapporto tra l’Etica e il Politico anche dopo la Seconda guerra mondiale. 

Com’è noto, negli anni Trenta del secolo scorso Heidegger ebbe anche a polemizzare con Carl Schmitt per quanto concerne l’essenza del Politico. Per Heidegger la contrapposizione tra amico e nemico è sì importante ma non “essenziale” od “originaria”. Il Politico cioè deve essere compreso in primo luogo alla luce dell’appartenenza ad una comunità, appartenenza che sola permette di “riconoscere” l’altro come amico o come nemico. La strada che si deve percorrere allora è quella che dal problema del Politico “risale”, sulla base dell’etimologia greca, fino alla questione della polis. Scrive perciò Heidegger:

“Cosa significa polis? Status significa stato, status rei publicae = stato della cosa pubblica (nell’accezione moderna, comparsa per prima nell’italiano stato). Questo stato non ha assolutamente niente a che vedere con la polis. Polis non è nemmeno la comunità della politeia. Cosa sia polis lo apprendiamo già da Omero, Odissea, libro VI, verso 9 e sgg. ‘e di mura circondò la polis, fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre’.

Polis è quindi il centro autentico dell’impero dell’esistenza. Questo centro è propriamente il tempio e il mercato, dove l’assemblea della politeia ha luogo. La polis è l’autentico e determinante centro storico di un popolo, di una razza, di un clan; ciò intorno al quale la vita si svolge; il centro al quale tutto si riferisce, la cui protezione come autoaffermazione è importante.

L’essenziale dell’esistenza è l’autoaffermazione. Muraglia, casa, terra, dei. E a partire da ciò che bisogna cogliere l’essenza del politico” (vedi E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’Oro, Roma 2012, p. 238).

Il problema dell’altro quindi non è affatto ignorato, anzi concerne l’essenza stessa del Politico (del resto, già nel paragrafo 37 di Essere e tempo si può leggere: “Unter der Maske des Füreinander spielt ein Gegeneinander”, ossia “sotto la maschera dell’essere-l’uno-per-l’Altro, domina l’essere-l’uno-contro-l’Altro” – vedi M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976). Ciò che ora è essenziale però è l’appartenenza ad un popolo, ad un clan, ad una “razza” e soprattutto l’autoaffermazione di un popolo, di un clan, di una “razza”.

In altri termini, se nella nota frase di Terenzio homo sum humani nihil alienum puto lo “straniero” o l’“estraneo” (che tale può essere pure chi appartiene alla nostra comunità) è prima di tutto - ancor prima cioè che lo si possa ritenere amico o nemico - un “altro uomo”, ossia hospes non è necessariamente hostis (la radice di questi due termini, non a caso, è la medesima), nel pensiero di Heidegger l’abitare (politicamente) la terra sembra implicare l’identificazione di hospes e hostis, dato che lo “straniero” o l’“estraneo” è comunque un nemico, in quanto “indebolisce” o addirittura minaccia di annientare la radice terranea di un popolo, di un clan o di una “razza”. 

Si capisce allora anche l’antisemitismo cosiddetto “metafisico” di Heidegger (che è comunque una forma di antisemitismo, di cui, ovviamente, non vi può essere alcuna giustificazione), dato che ciò che il filosofo tedesco definisce come desertificazione sarebbe una “figura dell’ebraismo [...] sia perché il deserto è il luogo simbolo del popolo ebraico, sia perché la desertificazione è l’impossibilità di essere in rapporto con l’inizio, è quello sradicamento che, mentre rischia di diventare planetario, è in grado di ‘annientare l’indistruttibile’, di erodere e minare ciò da cui può sorgere la luce di un altro inizio” (vedi D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati-Boringhieri, Torino 2014, p. 127).

Certo per Heidegger, e soprattutto per il cosiddetto “secondo Heidegger”, il problema fondamentale è l’oblio (dell’oblio) dell’Essere e il progressivo imporsi del pensiero calcolante, ovverosia l’assoggettamento della natura e dell’intera umanità ad una “logica di dominio”. Ancora prima dunque dell’abitare politicamente la terra, per Heidegger “rileva” la questione dell’abitare la terra. Occorrerebbe quindi pensare il Politico medesimo in una prospettiva non più condizionata dalla “logica di dominio” (e questo invece sarebbe stato il più grave errore del nazismo). 

Tuttavia, ciò che intende Heidegger per “dominazione” è sempre connesso con la questione del pensiero calcolante e dello sradicamento e quindi con il problema dell’Altro sotto il profilo sia politico che etico. Nondimeno, anche dopo la Seconda guerra mondiale il pensiero di Heidegger pare svilupparsi ancora secondo la “traiettoria” delineata nei suoi scritti degli anni Trenta e perfino nei suoi famigerati Quaderni neri, di modo che si potrebbe ritenere che egli si limiti ad una critica della “organizzazione totale del mondo”, dato che anche nei Quaderni neri si parla di Machenschaft, di “macchin(izz)azione” universale. 

D’altronde, nell’intervista rilasciata a “Der Spiegel” il 23 settembre 1967, ma pubblicata dopo la morte di Heidegger, il filosofo tedesco afferma: “Io non vedo la posizione dell’uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura inestricabile e inevitabile, anzi: vedo proprio il compito del pensiero nel dare mano, nei propri limiti, affinché l’uomo riesca innanzitutto proprio a conquistare un rapporto sufficiente con la tecnica. Il nazionalsocialismo andava bensì in questa direzione; ma questa gente era troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero, per ottenere un effettivo esplicito rapporto con ciò che oggi accade e da tre secoli è in cammino” (vedi M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 158-159).

Perché il nazismo andasse “in questa direzione” e che cosa effettivamente significhi “andare in questa direzione” Heidegger però non lo ha mai chiarito. Di per sé questo certamente non giustifica una interpretazione della filosofia di Heidegger come quella di Faye, ma è lecito chiedersi se l’adesione di Heidegger al nazismo non sia dipesa innanzi tutto proprio dal modo in cui il filosofo tedesco tratta la questione dell’oblio (dell’oblio) dell’Essere e forse pure da quel che egli scrive a proposito dell’Evento e di un “nuovo inizio”. 

Insomma, la statura intellettuale di Heidegger è “fuori discussione” (con buona pace di Faye e di coloro che condividono la sua interpretazione della filosofia di Heidegger), nonostante che il linguaggio dell’ultimo Heidegger - sempre più “allusivo” e “rarefatto” - non sia affatto facile da “decifrare”,** e nonostante la sua sostanziale “sfiducia” nella democrazia (infatti, anche nell’intervista rilasciata a “Der Spiegel” Heidegger afferma: “È per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico – e quale – all’età della tecnica. A questa domanda non so dare alcuna risposta. Non sono convinto che sia la democrazia” (ivi, pp. 143-144). 

Nondimeno, non si dovrebbe neppure ignorare l'importanza del rapporto tra la filosofia di Heidegger e il nazismo se (e nella misura in cui) concerne l'essenza stessa del pensiero di Heidegger.  Vale a dire che, a giudizio di chi scrive, non si può ignorare la critica che Lévinas rivolge ad Heidegger, indipendentemente dal modo in cui il filosofo di Altrimenti che essere tratta la questione dell’Essere e dell’Altro. In definitiva, ammesso che la filosofia di Heidegger sia comunque una filosofia della prassi come afferma Vattimo (vedi G. Vattimo, Essere e dintorni, La nave di Teseo, Milano 2018) ci si dovrebbe chiedere se l'adesione (sia pure, per così dire, “critica”) di Heidegger al nazismo, anziché “un colossale autofraintendimento” (come sostiene Vattimo), sia stata, sia pure solo in un certo senso, una conseguenza, non facile da evitare, della “ontologia ermeneutica” del filosofo tedesco. 

*  Vedi F. Falchi, Geo-politicamente abita l’uomo, Anteo, Cavriago (RE) 2018.

** Si deve riconoscere che probabilmente ciò dipende dal tentativo di Heidegger di elaborare un pensiero diverso da quello della metafisica o dell'ontologia occidentale, ossia il particolare modo di esprimersi dell'“ultimo Heidegger” non è senza relazione con ciò che Heidegger definisce come poesia pensante (denkende Dichtung) e pensiero poetante (dichtendes Denken). Comunque sia, sebbene in Geo-politicamente abita l'uomo ci si chieda se si può davvero rinunciare del tutto all’ontologia dello Stagirita per la comprensione del mondo quotidiano, si dovrebbero tenere presenti anche altri modi di pensare (si veda, ad esempio, F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2017).



venerdì 4 giugno 2021

BREVE NOTA SU ALCUNI ASPETTI DEL PENSIERO DI GYÖRGY LUKÁCS

Che l'interesse per la filosofia György Lukács sarebbe notevolmente diminuito dopo la scomparsa del "socialismo reale" e la crisi, sotto certi aspetti, irreversibile del marxismo era facile prevederlo, benché al filosofo ungherese abbia nociuto non tanto la sua (invero alquanto "turbolenta") biografia politico-culturale* quanto piuttosto che egli abbia accusato di irrazionalismo la quasi totalità della filosofia, della letteratura e dell'arte del Novecento. 

In effetti, è davvero difficile condividere i giudizi di Lukács  sulla filosofia di Husserl o di Heidegger o quelli su Kafka, Musil o Proust, anche perché è evidente che nelle opere della maggior parte degli Autori criticati da Lukács  c'è indubbiamente molto di più di quel che Lukács "ci vide" o, peggio, "ci volle vedere"**. Sotto questo aspetto, è indubbio che la filosofia di Lukács si lasci sfuggire sovente proprio l'essenziale, tanto che il suo "famigerato" libro La distruzione della ragione pare "funzionare" come una terribile "macchina semplificatrice". Secondo Lukács, infatti, il rifiuto della dialettica che contraddistingue la concezione hegelo-marxista (l’unica che consentirebbe di sviluppare un pensiero razionale) sfocerebbe necessariamente in differenti forme di irrazionalismo che, non essendo in grado di comprendere la progressività del reale, non possono che favorire un "clima culturale" favorevole al fascismo, al nazismo o comunque alla "reazione". 

Più complessa e articolata però è la critica delle avanguardie letterarie. Lukács, infatti, ritiene necessaria la rappresentazione della deformazione dell’uomo prodotta dalla società capitalistica, e quindi dell’angoscia, dell’autodisprezzo e della disperazione che conseguono da tale deformazione, ma contesta che "ci si fermi qui" - si veda G. Lukács, Thomas Mann la tragedia dell’arte moderna, Feltrinelli, Milano 1956. (Nondimeno, è interessante paragonare il diverso giudizio di Adorno sulle avanguardie letterarie, in specie su Kafka e Beckett, con quello di Lukács, giacché il merito di Adorno è di avere compreso che le opere di Autori come Kafka o Beckett sono autentica arte proprio in quanto attraverso la "forma" o l'"apparenza" si mostra il contenuto di verità delle loro opere. Ciò nonostante, anche se può sembrare paradossale, il giudizio critico di Lukács sulle avanguardie letterarie pare in grado di evidenziare più i limiti della filosofia di Adorno che quelli di un Autore come Kafka, le cui opere peraltro pure Lukács ritiene che siano dei capolavori)***.

Comunque sia, anche senza considerare che la filosofia è molto cambiata dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso (basti pensare alla epistemologia post-positivistica, agli sviluppi della stessa filosofia analitica, alla cosiddetta "svolta linguistica", alla ermeneutica, ai diversi modi di intrepretare la filosofia hegeliana e via discorrendo), non meraviglia che oggi il pensiero di Lukács sia quasi del tutto ignorato (soprattutto, ma non solo, dall'accademia), nonostante alcuni recenti tentativi (ad esempio da parte di Costanzo Preve e di Carlo Formenti) di "valorizzare" i suoi scritti sulla questione dell'ontologia sociale (ossia l'ultimo Lukács) pur senza rinunciare ad una critica "determinata" del pensiero del filosofo ungherese****. 

Ma, indipendentemente da tali tentativi (su cui qui non è possibile soffermarsi, benché meritino di essere conosciuti e discussi) ci si potrebbe chiedere se perlomeno alcune riflessioni di Lukács sulla questione del "realismo" e in particolare la sua critica delle avanguardie letterarie del Novecento non abbiano "pre-visto", in un certo senso, le caratteristiche essenziali di quel che Luc Boltanski e Ève Chiapello definiscono "il nuovo spirito del capitalismo"*****.

Ovviamente, si può ritenere che il pensiero di Lukács non offra alcuna possibilità di definire criticamente l'attuale "spirito del capitalismo". Eppure alcune delle riflessioni di Lukács sembrano "cogliere nel segno", soprattutto se si pensa a quella sorta di nichilismo che viene spacciato per l'espressione di una "soggettività libera", e che anzi, paradossalmente, si ritiene che sia tanto più libera quanto più è "integrata" nella attuale società di mercato. 

Difatti, mentre fino (almeno) agli anni '60-'70 del secolo scorso la critica sociale del capitalismo e quella che con la terminologia di Boltanski e Chiapello si può definire come la critica artistica della società capitalistica caratterizzavano buona parte della letteratura, della filosofia e delle scienze dell’uomo, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso non solo si tende a considerare pressoché qualsiasi critica sociale del capitalismo anacronistica o addirittura "reazionaria", ma la stessa critica artistica della società capitalistica è quasi del tutto scomparsa, tanto che oggi essere anticonformisti e "trasgressivi" significa, in pratica, limitarsi a criticare quegli aspetti della cosiddetta "cultura tradizionale" ancora presenti nella attuale società di mercato, ma solo in quanto ostacolano la colonizzazione di ogni "mondo vitale" da parte del mercato capitalistico. 

D’altronde, la "negazione totale" di ogni superamento della società capitalistica ben difficilmente può non condurre a ritenere la società capitalistica l’unica che sia ormai storicamente possibile, e ciò, in sostanza equivale alla apologia, più o meno esplicita, della attuale società capitalistica (al riguardo, viene in mente il Grand Hotel dell’Abisso - di cui parla lo stesso Lukács - ossia un albergo fornito di ogni comfort, anche se costruito sull’orlo dell’abisso e dell’insensato).

Non a caso, oggi si ritiene che il concetto di alienazione - che era appunto ciò che permetteva alla critica artistica del capitalismo e alla critica sociale del capitalismo di essere, per così dire, "due facce della medesima medaglia" - sia un "inutile ferrovecchio", dato che questo concetto non sarebbe altro che indice di una concezione "metafisica" e astorica dell'essenza umana (come se il riconoscimento che la "natura umana" è storica non implicasse che l’uomo è "di necessità" un animale sociale e politico e quindi che l’individuo è sempre - sia pure in forme assai diverse e tali da distorcere, mistificare o reprimere questa sua "condizione essenziale" – anche un individuo sociale)******.

Il concetto di alienazione invece è sempre "al centro" della riflessione di Lukács, tanto è vero che il filosofo ungherese apprezza esplicitamente l’ontologia sociale di Aristotele, ossia la concezione dello Stagirita secondo cui l’uomo è un "animale politico"*******. Tuttavia, Lukács anche nei sui scritti sull’ontologia sociale non pare approfondire come sarebbe necessario la questione antropologica, che pure è di importanza fondamentale per comprendere e giustificare il concetto di alienazione. Manca cioè un’analisi critica del materialismo storico di Marx, che ne metta in luce le contraddizioni e le "insufficienze" proprio sotto il profilo ontologico, in quanto anche il materialismo storico rischia di non distinguersi da una concezione economicistica della storia e della stessa "condizione umana"********. 

Un conto è infatti sostenere che l’uomo attraverso il lavoro (che per Lukács è un’attività essenzialmente teleologica) si costituisce come essere sociale, un altro sostenere che la struttura sociale, così come si è venuta a sviluppare nel corso della storia, impedisce agli uomini di sviluppare pienamente la propria personalità, ossia la propria "essenza". In questo caso rileva non solo il modo in cui ci si può liberare dalla alienazione e se è possibile eliminare del tutto l’alienazione, ma appunto anche come intendere l’"essenza dell’uomo", dacché se quest’ultima è solo il prodotto della storia, allora non si comprende come si possa parlare di alienazione. Se è vero cioè che l’alienazione presuppone la differenza tra ciò che l’uomo può essere  (in quanto animale sociale, politico e "razionale") e ciò che l’uomo effettivamente è nelle diverse situazioni storiche, allora è evidente che l’essere dell’uomo non possa dipendere solo dalle diverse "pratiche sociali".

Pertanto, per quanto concerne il problema della alienazione dell’uomo sembra inevitabile un confronto, secondo una prospettiva né economicistica né deterministica, con la concezione aristotelica della "entelechia". In altri termini, non è in questione la libertà dell’uomo, compresa quella di modificare la natura stessa, bensì che il problema della libertà si riduca a quello della differenza tra "libertà di" e "libertà da", e che di conseguenza il posse dell’uomo non sia in primo luogo da intendere come "libertà per" (è chiaro che se invece si privilegia il concetto di "libertà per" rileva soprattutto l’agire dell’uomo sotto l’aspetto teleologico e quindi cambia il senso stesso della "autodeterminazione" o della "autoaffermazione" dell’uomo). D’altronde, va da sé che se si rifiuta il concetto di alienazione si può dubitare che la storia "abbia senso", benché ritenere che, nonostante tutti i suoi orrori o, forse, proprio per i suoi orrori, la storia "abbia senso", non significhi che non vi sia il problema dell'eterogenesi dei fini né che la storia abbia "un senso" ovverosia non significa condividere una concezione sostanzialmente deterministica della storia (che comunque l'ultimo Lukács critica in modo assai netto). Ma "in gioco" allora è la ridefinizione del complesso rapporto tra l'Economico e il Politico, e quindi quello tra struttura e sovrastruttura (come del resto Gramsci aveva perfettamente compreso)*********.

Si badi però che (perlomeno per chi scrive) non è affatto in discussione che la stessa questione del lavoro dipenda da molteplici fattori culturali e sociali, e che di conseguenza non sia possibile trattarla in un’ottica meramente economicistica. Quel che invece conta è che ciò che Marx definisce come la "prostituzione generalizzata" - vale a dire che nella società capitalistica gli esseri umani vengono degradati a mera merce - adesso si consideri addirittura come sinonimo di "emancipazione della vita", al punto che ormai si ritiene che abbia "valore" soltanto ciò che può acquistare la natura del denaro (arte e letteratura incluse, che non si possono certo paragonare alla letteratura e all'arte della prima metà del secolo scorso o del secondo dopoguerra, benché naturalmente non si debba fare di ogni erba un fascio). Insomma, la critica artistica della società capitalistica, per così dire, "si è rovesciata" nel suo contrario. Ma allora come evitare di chiedersi se nella stessa critica artistica (Sessantotto compreso, come giustamente affermano Boltanski e Chiapello) della società capitalistica non fosse già presente quel che Lukács definisce come una pericolosa forma di nichilismo e di irrazionalismo? 

Certo, non c'era solo questo, ed è pure ovvio che non si tratta di "ripartire" dalla Distruzione della ragione (il che sarebbe perfino ridicolo), bensì di comprendere che se l'albero si deve giudicare dai suoi frutti, allora pare innegabile (anche se non si condivide una concezione marxista) che il "vecchio" Lukács non avesse del tutto torto a "vedere" nella stessa critica artistica (e sociale) del capitalismo i segni di un nichilismo che sarebbe sfociato in una forma di "anti-umanesimo" che, di fatto, non è altro che il trionfo del capitale e della "ideologia della merce".


* Lukács fu certo anche stalinista (dopo l’avvento al potere del nazismo in Germania si trasferì a Mosca e vi rimase sino alla fine della Seconda guerra mondiale), sebbene il suo rapporto con lo stalinismo non sia mai stato "semplice" (notoriamente anche il "realismo" difeso da Lukács era ben diverso dal "realismo socialista" difeso agli stalinisti), tanto che nel 1940 venne arrestato dalla polizia di Stalin e si salvò solo grazie all’intervento di Dimitrov. Del resto, Lukács fece pure parte del primo governo Nagy, ragion per cui, dopo l’intervento sovietico in Ungheria nel novembre 1956, fu deportato in Romania. Ritornò comunque in Ungheria nel 1957 e fu anche riammesso nel partito comunista, ma allora prese la decisione di ritirarsi definitivamente dalla vita politica.

** Chiaramente qui ci si riferisce solo al Lukács marxista; per quanto riguarda invece le tesi sostenute dal pensatore ungherese in Teoria del romanzo  - ossia quando non era ancora marxista - si veda il notevole saggio di Giuseppe Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999; dello stesso Autore si veda anche Forma e riflessione nel romanzo moderno, "Revue internationale de philosophie", 2009/2 n. 248, pp. 137-151.

*** Lukács scrive: "Quale che possa essere il punto di partenza diretto, il tema concreto, lo scopo immediato ecc. di una creazione letteraria, la sua essenza più profonda si esprime nella domanda: che cos'è l'uomo?" (G. Lukács, Scritti sul realismo, Einaudi, Torino 1978, p. 864). Pertanto, secondo L. non è mai solo questione di "forma". Si può allora affermare che per il filosofo ungherese Kafka, Joyce, Proust ecc. "rap-presentano" una immagine dell'uomo che è solo quella dell'individuo nella società capitalistica, ma non dell'uomo come tale. Tuttavia, il rischio di attribuire all'essenza dell'uomo le caratteristiche dell'individuo nella società capitalistica (nel senso che l'alienazione e la reificazione che caratterizzano l'umanità contemporanea dipendono dalla struttura sociale), sembra concernere soprattutto la "ricezione" delle opere di questi autori (certo da non confondere con i loro numerosi "replicanti"!), anche se è presente pure nelle loro opere. Ma è appunto il "lettore" che può e deve sapere "riconoscere" questo rischio. 

**** Non sembra comunque che Lukács nei suoi ultimi scritti sia riuscito a superare del tutto la drastica "dicotomizzazione" che caratterizza La distruzione della ragione. Ad esempio, manca un serio confronto con la fenomenologia di Husserl e pure con la filosofia di Heidegger, dato che le considerazioni di Lukács  risentono troppo di una interpretazione del pensiero del filosofo di Meßkirch come una forma di esistenzialismo.

***** Il libro, uscito in Francia nel 1999, avrebbe dovuto essere pubblicato in lingua italiana dalla Feltrinelli, ma anno dopo anno la sua pubblicazione fu rinviata e solo nel 2015 venne pubblicato dalla casa editrice Mimesis.

******Anche nell’attuale società di mercato l’individuo totalmente isolato è una "robinsonata", sebbene lo si "rappresenti" ed egli stesso si possa percepire come un individuo del tutto isolato. Una "robinsonata" è pure che l’Economico sia separato del tutto dalla società. Casomai l’Economico può aggredire la società "dall’interno" per "colonizzarla", avvalendosi degli apparati (di coercizione e di persuasione) dello Stato o di altre istituzioni od organizzazioni internazionali. 

******* Sul problema dell'alienazione in Marx e nel marxismo in generale si veda R. Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006.

******** È cioè il termine materialismo che pone non pochi e difficili problemi. Certo, lo stesso Marx è realista e non lo è: è realista perché considera la natura (ossia la "materia") indipendente dal pensiero, ma, in un certo senso, non lo è poiché a Marx interessa solo la natura in quanto in relazione con l’attività dell’uomo. Nondimeno, la concezione materialistica della storia da un lato rischia di ridurre la coscienza a mero "riflesso" dell’essere sociale (rendendo quindi inspiegabile anche la critica della realtà sociale, inclusa quella marxista); dall’altro pare giustificare l’eliminazione della problematicità che caratterizza la "condizione umana", al punto di considerare le religioni "soltanto" espressione di una alienazione dell’uomo, che dovrebbe scomparire con il superamento del capitalismo, anziché considerarle "anche" espressione della problematicità della stessa "condizione umana", a prescindere dal fatto che si sia o no atei. Non è nemmeno strano quindi che proprio sul "terreno" della antropologia il comunismo abbia subito le peggiori sconfitte. Comunque è degno di nota che nell'ultimo Lukács quel che conta veramente è il riconoscimento della dignità umana, vale a dire che si può parlare di socialismo solo allorché l'altro uomo non è più considerato un ostacolo alla propria "prassi auto-realizzativa" (si veda G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, Manifestolibri, Roma 2013).

********* Una questione diversa è quella della dialettica e delle contraddizioni che "strutturano" la realtà sociale e in particolare la società capitalistica. A tale proposito si può concordare con Massimo Cacciari secondo cui "la contraddizione intrinseca al lavoro comandato dal sistema capitalistico, tra l’essere 'libero' in sé e null’altro che parte del capitale, si ripresenta in forma ancora più drammatica [adesso che il lavoro vivo è pressoché totalmente incorporato nel capitale]"- si veda La lezione di Claudio Napoleoni: un contributo di Massimo Cacciari, sul sito "Pandora Rivista",https://www.pandorarivista.it/articoli/la-lezione-di-claudio-napoleoni-un-contributo-di-massimo-cacciari/ (Sulla questione della realtà della "contraddizione sociale", che non inficia minimamente il principio di non contraddizione, si veda E. Severino, Gli abitatori del tempo, Rizzoli, Milano 2011). Insomma, la dialettica può permettere di rilevare e spiegare le contraddizioni essenziali della società capitalistica, ma non implica che vi sia una progressività del reale che "tolga" necessariamente le contraddizioni della società capitalistica ed elimini definitivamente la problematicità della "condizione umana". Sicché si potrebbe affermare che anche il "limite" di certe (non tutte) avanguardie letterarie (si può fare l'esempio di un Autore come Beckett) può svolgere una "funzione positiva" nella misura in cui non cedono alla tentazione di una dialettica che non riconosce i propri "limiti".