sabato 22 maggio 2021

CONTA ANCORA LA DISTINZIONE TRA DESTRA E SINISTRA O È PIÙ SIGNIFICATIVA LA DISTINZIONE TRA VALORE D’USO E VALORE DI SCAMBIO?

Ha ancora senso interpretare la politica basandosi sulla opposizione tra destra e sinistra? In un certo senso sì, poiché indubbiamente c’è una differenza significativa tra destra e sinistra. Ma è una differenza di genere o di specie? Questo è il punto da capire, giacché destra e sinistra in Occidente designano sempre più due varianti del neoliberalismo, in quanto sia la destra che la sinistra sono favorevoli al neoliberismo, antistataliste, antisocialiste e pure filo-atlantiste.

La funzione principale dello Stato per entrambe consiste, infatti, nel creare le migliori condizioni per lo sviluppo di una società “di” mercato. Vale a dire che il compito dello Stato, sia per la destra che per la sinistra, consiste soprattutto nell’imporre le “ragioni del mercato” in ogni ambito sociale (mondo del lavoro, sanità, scuola, territorio, ecc.). Il ruolo dello Stato cioè non è quello di difendere l’interesse collettivo, di ridurre le disuguaglianze, di tutelare le “ragione pubblica” anche contro le “ragioni del mercato”, di difendere i diritti sociali ed economici dei ceti sociali più deboli, di contrastare la “pre-potenza” del grande capitale, di opporsi al neoimperialismo atlantista e via dicendo.

La differenza tra destra e sinistra concerne dunque essenzialmente i diversi interessi che rappresentano, giacché la sinistra difende soprattutto gli interessi del grande capitale e della medio-alta borghesia (sedicente) cosmopolita, mentre la destra quelli della piccola e media borghesia. Sicché mentre l’ideologia della sinistra è sempre più caratterizzata dal politicamente corretto (no border, gender fluid, ecc.), la destra si oppone al politicamente corretto ma al tempo stesso difende quella società “di” mercato di cui, in definitiva, il politicamente corretto non è che la logica, anche se estrema, conseguenza.

Per di più, è noto che la destra critica il politicamente corretto soprattutto per difendere posizioni politiche che sono caratterizzate da xenofobia, irrazionalismo e anti-intellettualismo, ossia la destra praticamente si limita a riproporre una concezione politica che, sebbene non si possa definire (neo)fascista, si configura come un pericoloso estremismo di centro. (E  questo spiega pure la posizione tutt’altro che coerente della destra italiana cosiddetta “sovranista” nei confronti non solo dell’America ma della stessa UE; giacché quel che conta per la destra è soprattutto strumentalizzare il malcontento popolare).

Pare allora che sia ancora necessario definirsi di sinistra per distinguersi dalla destra. Eppure, se ci si definisce di sinistra non solo è pressoché impossibile distinguersi dalla sinistra neoliberale ma si rischia di ignorare - o, peggio, si fa finta di ignorare - che il neoliberalismo di sinistra, perlomeno in questa fase storica, è di gran lunga più pericoloso di quello della destra, giacché gode del pieno sostegno dei gruppi dominanti occidentali.

Non a caso la sinistra detiene il controllo di tutti i “gangli vitali” della società occidentale, in specie del sistema educativo, dell’industria culturale, del mondo dello spettacolo e dei principali media, tanto che è lecito affermare che in Occidente la sinistra neoliberale svolge il ruolo di “guardia bianca” del grande capitale e della cosiddetta “middle class cosmopolita” (ossia, in pratica, è “al servizio” del principale “nemico”, sia sotto il profilo sociale che sotto quello (geo)politico, di chi difende una concezione socialista).

Il problema quindi che ci si dovrebbe porre è se sia ancora possibile, in Occidente, una alternativa al neoliberalismo, sia di destra che di sinistra. Nondimeno, sembra che qualsiasi alternativa al neoliberalismo sia stata definitivamente “screditata” dalla storia.

Quella fascista non si può certo prendere in considerazione per ragioni che dovrebbero essere chiare a chiunque, e in ogni caso il fascismo, tutt’al più, si può ripresentare come una nuova forma di estremismo di centro particolarmente aggressivo, ossia con “tratti distintivi” che si potrebbero definire “parafascisti” più che fascisti. Diversa ovviamente la storia del comunismo, ma è innegabile che anch’essa sia una storia “finita” (e per i neoliberali del tutto fallimentare), di modo che ogni tentativo di “riportarla in vita” assomiglia ad un patetico e “incapacitante” esercizio di nostalgia.

Un analogo discorso si può allora fare anche per quanto concerne il socialismo? Per i neoliberali, di destra e di sinistra, non c’è dubbio che pure il socialismo appartenga al passato, e che perfino il termine socialismo sia stato “screditato” dalla storia. Ciò nonostante, non si deve dimenticare che il mondo occidentale non è il mondo. Ci sono, infatti, ancora Paesi che si definiscono socialisti (la Cina, il Vietnam, Cuba…) e non si può neppure affermare che in America Latina la storia del socialismo sia terminata.

Naturalmente, ci si può chiedere (e in effetti ci si chiede) se i Paesi che si definiscono socialisti siano davvero socialisti, e se ciò che in America Latina si designa con la parola socialismo (si pensi, ad esempio, al cosiddetto “socialismo bolivariano”) non sia in realtà solo una forma di populismo o di nazional-populismo, che pur avendo poco a che fare il neoliberalismo (di destra o di sinistra) non può perciò rappresentare, perlomeno per quanto riguarda il mondo occidentale, una seria alternativa al neoliberalismo.

Peraltro, è evidente che anche il “socialismo di mercato” della Cina (sia o non sia una forma di socialismo) è il “frutto” della storia di un Paese con caratteristiche culturali così diverse da quelle di un qualsiasi Paese occidentale, che rendono impossibile per un Paese occidentale considerarlo come un “modello da imitare” (e analogo discorso vale per il Vietnam e per Cuba).

Comunque sia, è chiaro che in Occidente con il termine socialismo si designa in particolare non solo una concezione politica opposta a qualsiasi forma di fascismo o di estremismo di centro ma anche e soprattutto una concezione politica contraddistinta dalla critica radicale, benché alquanto vaga e generica, del capitalismo.

Ecco, forse proprio questa è la questione essenziale: che cosa si deve intendere per capitalismo? Può esserci una società non caratterizzata dalla divisione del lavoro, dal lavoro salariato, dal ruolo sempre maggiore di quel che lo stesso Marx definisce capitale costante, ossia dal ruolo sempre maggiore delle macchine (e non solo nelle fabbriche)? Evidentemente no, non è (più) storicamente possibile o almeno non lo è in questa fase storica (sotto questo aspetto è fondamentale, per chi scrive, la “lezione” di Claudio Napoleoni)

Ma modo di produzione capitalistico è necessariamente sinonimo di formazione capitalistica? O una società può non essere definita capitalistica pur in presenza di un modo di produzione o di un mercato capitalistico? Se questo non è possibile, allora non lo è nemmeno il socialismo o, comunque, al di là della questione terminologica, ciò che si vuole designare con questo termine, poiché, nel migliore dei casi, si tratterebbe solo di diverse forme di capitalismo. Sicché, per i neoliberali non sarebbe difficile sostenere che qualunque alternativa al sistema capitalistico neoliberale è comunque peggiore della società "di" mercato neoliberale. Insomma, i neoliberali potrebbero definirsi dei “realisti” che non scambiano (più) lucciole per lanterne.

Tuttavia, non è affatto scontato che sia sufficiente la presenza del mercato capitalistico e quindi di una classe capitalistica per definire una società come una formazione sociale capitalistica (anche senza considerare l’esempio della Cina, che pure è significativo). Basti pensare alla distinzione tra valore d'uso e valore di scambio* e al diverso “peso” che questi “valori” possono avere sotto il profilo socio-economico, antropologico, politico ed ecologico, giacché una società capitalistica non può che essere caratterizzata dalla prevalenza del valore di scambio, al punto che ogni cosa e ogni persona in un certo senso acquistano la stessa “natura” del denaro.

È quindi in base a questa distinzione/opposizione che si può ancora mettere seriamente in discussione una società “di” mercato e di conseguenza immaginare secondo una prospettiva “realistica” una alternativa al sistema capitalistico neoliberale ovvero la trasformazione di una società “di” mercato in una società “con” mercato. Che quest’ultima sia o no una formazione socialista pare dunque essere una questione meramente terminologica più che “di sostanza”, perché in questo caso quel che conta assai più della parola è la “cosa stessa”.

* Chiaramente in questo contesto la distinzione/opposizione tra valore d'uso e valore di scambio rileva in una prospettiva non meramente economica (al riguardo si veda però C. Napoleoni, Valore, Isedi, Milano 1976) ossia, in definitiva, economicistica (quasi che il sistema economico fosse del tutto indipendente dal sistema sociale) ma anche e soprattutto sotto il profilo sociale e antropologico. D'altronde, com'è noto, anche Karl Polanyi ha evidenziato che il lavoro  e la natura (e invero pure la moneta), benché possano essere trattati come merci,  non sono merci (con tutto quel che ne consegue).

PS. 

Quando si solleva la questione dello Stato in relazione al problema del valore d'uso e del suo rapporto con il valore di scambio (che per Marx si esprime nell'unità contraddittoria della merce) e quindi si prende in esame il problema dell'eticità in Hegel, si deve tener presente che per Hegel l'eticità concerne la famiglia, la società civile e lo Stato. E di questo appunto si tiene conto allorché si distingue tra società di mercato e società con mercato (che non significa certo senza mercato!).

In altri termini, si tiene presente da un lato il rapporto tra individui e comunità, dall'altro il rapporto tra comunità e Stato, giacché è tramite il Politico, e quindi tramite lo Stato, che si struttura lo stesso rapporto tra la comunità e gli individui, nella misura in cui questo rapporto concerne la sfera pubblica (mercato incluso).

La distinzione tra società civile e Stato è infatti più metodica che organica, dato che società civile e Stato nella realtà effettuale non sono separati, ossia sono sì distinti ma non "irrelati" in quanto la società civile è comunque strutturata in buona misura dagli apparati dello Stato (si tratta di una questione di fondamentale importanza, com'è noto, nel pensiero di Gramsci).

Orbene, è evidente che se si parla di società con mercato si riconosce esplicitamente non solo l'importanza del valore di scambio (altrimenti non ci sarebbe alcun mercato!) ma anche e soprattutto la complessità del rapporto tra società civile (o comunità) e lo Stato, in particolare per quanto concerne la funzione degli apparati di coercizione (polizia, magistratura, esercito, ecc.) e di quelli ideologici o che svolgono una funzione sociale e/o economica (sistema educativo, sanità, informazione, mondo del lavoro, territorio, settori  strategici, ecc.). 

Si tratta quindi di quelle "zone" in cui assume il massimo rilievo la distinzione tra valore d'uso e valore di scambio (la cui prevalenza si esprime soprattutto tramite la nota formula D-D1 - con il denaro si fa più denaro -, e che di fatto tende ad attribuire agli individui - ovverosia non solo al lavoro - la natura del denaro, degradandoli a mera merce).

Una società con mercato anziché di mercato è appunto una società in cui il mercato è comunque incastonato in un complesso ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche, culturali, ecc., in quanto il mercato lo si considera "in funzione" dei bisogni primari e sociali degli individui e dell’intera comunità.

Certo riconoscere questo solleva a sua volta molti altri (difficili) problemi che concernono non solo la forma politica dello Stato e il suo ruolo per quanto riguarda la direzione politico-strategica della società (mercato incluso) ma anche la questione della libertà o del pluralismo e pure quella del rapporto tra bisogni primari (nutrirsi, vestirsi, curarsi ecc.) e bisogni sociali, giacché gli stessi bisogni primari di fatto variano e si possono soddisfare in modo diverso a seconda della differente struttura sociale e culturale nonché dello stesso sviluppo delle forze produttive (e quindi si deve pure tenere conto di come "funziona" il mercato).  

In definitiva, anche se la questione di una società "con" mercato è una questione "aperta", che ammette più "soluzioni", è ovvio che implica un modo di considerare il mondo del lavoro, la sanità, l'istruzione, il territorio e via dicendo del tutto diverso da quello che prevale nell'attuale società di mercato occidentale.