Ha ancora senso interpretare la politica basandosi sulla opposizione tra destra e sinistra? In un certo senso sì, poiché indubbiamente c’è una differenza significativa tra destra e sinistra. Ma è una differenza di genere o di specie? Questo è il punto da capire, giacché destra e sinistra in Occidente designano sempre più due varianti del neoliberalismo, in quanto sia la destra che la sinistra sono favorevoli al neoliberismo, antistataliste, antisocialiste e pure filo-atlantiste.
La funzione principale
dello Stato per entrambe consiste, infatti, nel creare le migliori condizioni
per lo sviluppo di una società “di” mercato. Vale a dire che il compito dello
Stato, sia per la destra che per la sinistra, consiste soprattutto nell’imporre
le “ragioni del mercato” in ogni ambito sociale (mondo del lavoro, sanità,
scuola, territorio, ecc.). Il ruolo dello Stato cioè non è quello di difendere
l’interesse collettivo, di ridurre le disuguaglianze, di tutelare le “ragione
pubblica” anche contro le “ragioni del mercato”, di difendere i diritti sociali
ed economici dei ceti sociali più deboli, di contrastare la “pre-potenza” del
grande capitale, di opporsi al neoimperialismo atlantista e via dicendo.
La differenza tra destra
e sinistra concerne dunque essenzialmente i diversi interessi che
rappresentano, giacché la sinistra difende soprattutto gli interessi del grande
capitale e della medio-alta borghesia (sedicente) cosmopolita, mentre la destra
quelli della piccola e media borghesia. Sicché mentre l’ideologia della sinistra
è sempre più caratterizzata dal politicamente corretto (no border, gender
fluid, ecc.), la destra si oppone al politicamente corretto ma al tempo stesso
difende quella società “di” mercato di cui, in definitiva, il politicamente
corretto non è che la logica, anche se estrema, conseguenza.
Per di più, è noto che la
destra critica il politicamente corretto soprattutto per difendere posizioni
politiche che sono caratterizzate da xenofobia, irrazionalismo e
anti-intellettualismo, ossia la destra praticamente si limita a riproporre una
concezione politica che, sebbene non si possa definire (neo)fascista, si
configura come un pericoloso estremismo di centro. (E questo spiega pure la posizione tutt’altro che
coerente della destra italiana cosiddetta “sovranista” nei confronti non solo
dell’America ma della stessa UE; giacché quel che conta per la destra è
soprattutto strumentalizzare il malcontento popolare).
Pare allora che sia
ancora necessario definirsi di sinistra per distinguersi dalla destra. Eppure,
se ci si definisce di sinistra non solo è pressoché impossibile distinguersi
dalla sinistra neoliberale ma si rischia di ignorare - o, peggio, si fa finta
di ignorare - che il neoliberalismo di sinistra, perlomeno in questa fase
storica, è di gran lunga più pericoloso di quello della destra, giacché gode
del pieno sostegno dei gruppi dominanti occidentali.
Non a caso la sinistra
detiene il controllo di tutti i “gangli vitali” della società occidentale, in
specie del sistema educativo, dell’industria culturale, del mondo dello
spettacolo e dei principali media, tanto che è lecito affermare che in
Occidente la sinistra neoliberale svolge il ruolo di “guardia bianca” del
grande capitale e della cosiddetta “middle class cosmopolita” (ossia, in
pratica, è “al servizio” del principale “nemico”, sia sotto il profilo sociale
che sotto quello (geo)politico, di chi difende una concezione socialista).
Il problema quindi che ci
si dovrebbe porre è se sia ancora possibile, in Occidente, una alternativa al
neoliberalismo, sia di destra che di sinistra. Nondimeno, sembra che qualsiasi
alternativa al neoliberalismo sia stata definitivamente “screditata” dalla
storia.
Quella fascista non si
può certo prendere in considerazione per ragioni che dovrebbero essere chiare a
chiunque, e in ogni caso il fascismo, tutt’al più, si può ripresentare come una
nuova forma di estremismo di centro particolarmente aggressivo, ossia con
“tratti distintivi” che si potrebbero definire “parafascisti” più che fascisti.
Diversa ovviamente la storia del comunismo, ma è innegabile che anch’essa sia
una storia “finita” (e per i neoliberali del tutto fallimentare), di modo che
ogni tentativo di “riportarla in vita” assomiglia ad un patetico e
“incapacitante” esercizio di nostalgia.
Un analogo discorso si
può allora fare anche per quanto concerne il socialismo? Per i neoliberali, di
destra e di sinistra, non c’è dubbio che pure il socialismo appartenga al
passato, e che perfino il termine socialismo sia stato “screditato” dalla
storia. Ciò nonostante, non si deve dimenticare che il mondo occidentale non è
il mondo. Ci sono, infatti, ancora Paesi che si definiscono socialisti (la
Cina, il Vietnam, Cuba…) e non si può neppure affermare che in America Latina
la storia del socialismo sia terminata.
Naturalmente, ci si può
chiedere (e in effetti ci si chiede) se i Paesi che si definiscono socialisti siano
davvero socialisti, e se ciò che in America Latina si designa con la parola
socialismo (si pensi, ad esempio, al cosiddetto “socialismo bolivariano”) non
sia in realtà solo una forma di populismo o di nazional-populismo, che pur
avendo poco a che fare il neoliberalismo (di destra o di sinistra) non può perciò
rappresentare, perlomeno per quanto riguarda il mondo occidentale, una seria
alternativa al neoliberalismo.
Peraltro, è evidente che
anche il “socialismo di mercato” della Cina (sia o non sia una forma di
socialismo) è il “frutto” della storia di un Paese con caratteristiche
culturali così diverse da quelle di un qualsiasi Paese occidentale, che rendono
impossibile per un Paese occidentale considerarlo come un “modello da imitare”
(e analogo discorso vale per il Vietnam e per Cuba).
Comunque sia, è chiaro
che in Occidente con il termine socialismo si designa in particolare non solo
una concezione politica opposta a qualsiasi forma di fascismo o di estremismo
di centro ma anche e soprattutto una concezione politica contraddistinta dalla
critica radicale, benché alquanto vaga e generica, del capitalismo.
Ecco, forse proprio
questa è la questione essenziale: che cosa si deve intendere per capitalismo?
Può esserci una società non caratterizzata dalla divisione del lavoro, dal
lavoro salariato, dal ruolo sempre maggiore di quel che lo stesso Marx
definisce capitale costante, ossia dal ruolo sempre maggiore delle macchine (e
non solo nelle fabbriche)? Evidentemente no, non è (più) storicamente possibile
o almeno non lo è in questa fase storica (sotto questo aspetto è fondamentale, per
chi scrive, la “lezione” di Claudio Napoleoni)
Ma modo di produzione
capitalistico è necessariamente sinonimo di formazione capitalistica? O una
società può non essere definita capitalistica pur in presenza di un modo di
produzione o di un mercato capitalistico? Se questo non è possibile, allora non
lo è nemmeno il socialismo o, comunque, al di là della questione terminologica,
ciò che si vuole designare con questo termine, poiché, nel migliore dei casi,
si tratterebbe solo di diverse forme di capitalismo. Sicché, per i neoliberali
non sarebbe difficile sostenere che qualunque alternativa al sistema
capitalistico neoliberale è comunque peggiore della società "di" mercato
neoliberale. Insomma, i neoliberali potrebbero definirsi dei “realisti” che non scambiano (più) lucciole per lanterne.
Tuttavia, non è affatto
scontato che sia sufficiente la presenza del mercato capitalistico e quindi di
una classe capitalistica per definire una società come una formazione sociale
capitalistica (anche senza considerare l’esempio della Cina, che pure è
significativo). Basti pensare alla distinzione tra valore d'uso e valore di
scambio* e al diverso “peso” che questi “valori” possono avere sotto il profilo
socio-economico, antropologico, politico ed ecologico, giacché una società
capitalistica non può che essere caratterizzata dalla prevalenza del valore di scambio, al punto che ogni cosa e ogni persona in un certo senso acquistano la
stessa “natura” del denaro.
È quindi in base a questa
distinzione/opposizione che si può ancora mettere seriamente in discussione una società
“di” mercato e di conseguenza immaginare secondo una prospettiva “realistica”
una alternativa al sistema capitalistico neoliberale ovvero la trasformazione
di una società “di” mercato in una società “con” mercato. Che quest’ultima sia
o no una formazione socialista pare dunque essere una questione meramente
terminologica più che “di sostanza”, perché in questo caso quel che conta assai
più della parola è la “cosa stessa”.
* Chiaramente in questo contesto la distinzione/opposizione tra valore d'uso e valore di scambio rileva in una prospettiva non meramente economica (al riguardo si veda però C. Napoleoni, Valore, Isedi, Milano 1976) ossia, in definitiva, “economicistica” (quasi che il sistema economico fosse del tutto indipendente dal sistema sociale) ma anche e soprattutto sotto il profilo sociale e antropologico. D'altronde, com'è noto, anche Karl Polanyi ha evidenziato che il lavoro e la natura (e invero pure la moneta), benché possano essere trattati come merci, non sono merci (con tutto quel che ne consegue).
PS.
Quando si solleva la questione dello Stato in relazione al problema del valore d'uso e del suo rapporto con il valore di scambio (che per Marx si esprime nell'unità contraddittoria della merce) e quindi si prende in esame il problema dell'eticità in Hegel, si deve tener presente che per Hegel l'eticità concerne la famiglia, la società civile e lo Stato. E di questo appunto si tiene conto allorché si distingue tra società di mercato e società con mercato (che non significa certo senza mercato!).
In altri termini, si tiene presente da un lato il rapporto tra individui e comunità, dall'altro il rapporto tra comunità e Stato, giacché è tramite il Politico, e quindi tramite lo Stato, che si struttura lo stesso rapporto tra la comunità e gli individui, nella misura in cui questo rapporto concerne la sfera pubblica (mercato incluso).
La distinzione tra società civile e Stato è infatti più metodica che organica, dato che società civile e Stato nella realtà effettuale non sono separati, ossia sono sì distinti ma non "irrelati" in quanto la società civile è comunque strutturata in buona misura dagli apparati dello Stato (si tratta di una questione di fondamentale importanza, com'è noto, nel pensiero di Gramsci).
Orbene, è evidente che se si parla di società con mercato si riconosce esplicitamente non solo l'importanza del valore di scambio (altrimenti non ci sarebbe alcun mercato!) ma anche e soprattutto la complessità del rapporto tra società civile (o comunità) e lo Stato, in particolare per quanto concerne la funzione degli apparati di coercizione (polizia, magistratura, esercito, ecc.) e di quelli ideologici o che svolgono una funzione sociale e/o economica (sistema educativo, sanità, informazione, mondo del lavoro, territorio, settori strategici, ecc.).
Si tratta quindi di quelle "zone" in cui assume il massimo rilievo la distinzione tra valore d'uso e valore di scambio (la cui prevalenza si esprime soprattutto tramite la nota formula D-D1 - con il denaro si fa più denaro -, e che di fatto tende ad attribuire agli individui - ovverosia non solo al lavoro - la natura del denaro, degradandoli a mera merce).
Una società con mercato anziché di mercato è appunto una società in cui il mercato è comunque incastonato in un complesso ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche, culturali, ecc., in quanto il mercato lo si considera "in funzione" dei bisogni primari e sociali degli individui e dell’intera comunità.
Certo riconoscere questo solleva a sua volta molti altri (difficili) problemi che concernono non solo la forma politica dello Stato e il suo ruolo per quanto riguarda la direzione politico-strategica della società (mercato incluso) ma anche la questione della libertà o del pluralismo e pure quella del rapporto tra bisogni primari (nutrirsi, vestirsi, curarsi ecc.) e bisogni sociali, giacché gli stessi bisogni primari di fatto variano e si possono soddisfare in modo diverso a seconda della differente struttura sociale e culturale nonché dello stesso sviluppo delle forze produttive (e quindi si deve pure tenere conto di come "funziona" il mercato).
In definitiva, anche se la questione di una società "con" mercato è una questione "aperta", che ammette più "soluzioni", è ovvio che implica un modo di considerare il mondo del lavoro, la sanità, l'istruzione, il territorio e via dicendo del tutto diverso da quello che prevale nell'attuale società di mercato occidentale.
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