sabato 13 marzo 2021

IL GOLEM E LA “FALLACIA” ECONOMICISTICA E TECNOCRATICA

Sembra che oggi ciò che veramente conta siano la Tecnica e l’Economico. Informatica, robotica, biotecnologia da un lato e dall’altro finanza, produzione di merci e geoeconomia, in pratica determinerebbero la politica, le relazioni sociali, il lavoro, il sistema educativo e gli stessi “affari militari”. In un certo senso, la Tecnica e l’Economico sarebbero la struttura che determina tutto il resto, ossia la sovrastruttura politica, sociale (famiglia inclusa) e culturale. Eppure, si tratta di una concezione che, sebbene possa apparire come una “sana” forma di “realismo” di chi non ha la testa tra le nuvole, equivale di fatto ad una immagine fasulla del mondo.

Orbene, non c’è dubbio che, ad esempio, nel campo militare la tecnologia svolga un ruolo essenziale. Sistemi d’arma sempre più sofisticati, robotica, cyberwar, satelliti, droni ecc. hanno cambiato il volto della guerra. Ma di quale guerra? In effetti, è innegabile che in una guerra tra grandi potenze (per essere chiari, in una guerra come potrebbe essere quella tra gli Stati Uniti e la Russia o la Cina) le “nuove macchine” sarebbero decisive. Tuttavia, è anche vero che in una guerra tra grandi potenze sarebbe ben difficile evitare che venissero usate delle armi termonucleari. E allora a ben poco servirebbero le “nuove macchine”.

Certo, si deve anche riconoscere che quel che conta per una grande potenza è “non perdere il passo con la tecnologia”, per non correre il rischio di subire un primo colpo nucleare senza avere la possibilità di replicare. E si può pure concedere che questa “competizione” sia una guerra che si combatte tutti i giorni senza “esclusione di colpi”. Del resto, anche le altre potenze, ossia quelle regionali, non possono permettersi di “perdere il passo con la tecnologia”, perché solo se si dispone di un sistema di difesa tecnologicamente avanzato è possibile non andare incontro a spiacevoli sorprese. Sotto questo aspetto la cosiddetta “shadow war” tra Israele e l’Iran è più che significativa. Ma c’è anche l’altra faccia medaglia da considerare, ossia le altre specie di guerra, in particolare le rivoluzioni colorate e i conflitti per il controllo del territorio di un Paese, che pongono problemi del tutto diversi da quelli dei conflitti aerei o (aero)navali, in cui è scontato che la tecnologia giochi il ruolo fondamentale.

Per quanto concerne le rivoluzioni colorate, che possono anche sfociare in una vera guerra, è evidente che contano soprattutto l’intelligence e la capacità di comprendere i problemi delle diverse componenti di una società, e quindi decisiva è una “destabilizzazione” di un Paese, che richiede però una lunga preparazione di carattere politico-culturale e sociale nonché l’impiego di mezzi e risorse di vario genere (media compresi naturalmente). In ogni caso, i fattori economici o geoeconomici raramente sono le cause di una rivoluzione colorata. Assai più rilevanti sono la lotta per l’egemonia politico-culturale (il cosiddetto “soft power”) e la conquista di nuove aeree di influenza, soprattutto a scapito dei propri nemici. Ovviamente, tanto maggiore è l’area di influenza di una potenza (grande o no che sia) tanto maggiori sono anche i vantaggi economici che ne possono derivare.

Analogo discorso si può fare per i conflitti che hanno lo scopo di controllare il territorio di un Paese o di sottrarre ai propri nemici il controllo del territorio di un Paese. Gli esempi certo non mancano, basti pensare ai conflitti in corso in Libia e in Siria, ma anche all’intervento militare americano in Iraq e in Afghanistan. In tutti questi conflitti, la tecnologia pur essendo importante (si pensi ai droni che possono pure compiere missioni di combattimento) svolge un ruolo non marginale ma secondario rispetto ai “tradizionali” combattimenti tra forze di terra. 

In particolare, il fallimento politico-militare americano in Iraq (ma pure in Afghanistan, dove la coalizione a guida statunitense controlla - ma nemmeno del tutto - solo parti del territorio) conferma quel che già, almeno sotto certi aspetti, aveva dimostrato la guerra del Vietnam, vale a dire che ha dimostrato quali sono i limiti della “potenza tecnologica” in ambito militare. La tecnologia cioè è sì essenziale per distruggere l’apparato industriale e le principali infrastrutture di un Paese nemico o per distruggere un esercito nemico in “campo aperto”, ma si è rivelata di scarsa utilità o addirittura “controproducente” per acquisire un effettivo controllo del territorio nemico. 

Il territorio, infatti, lungi dall’essere solo uno spazio geografico è uno spazio sociale caratterizzato dalla storia (inclusa quella che Braudel definiva di “lunga durata”) e dalla cultura di chi lo abita (al riguardo è anche significativa la notevole “resistenza” (sotto il profilo militare, si intende) che Hezbollah - nella guerra Libano del 2006 e anche durante l’occupazione israeliana del Libano negli anni precedenti -, ha saputo opporre all’esercito israeliano, che pure è non solo un esercito potente ma assai bene addestrato e motivato). I fattori sociali e culturali, in questi casi, possono rivelarsi determinanti anche sotto il profilo militare, tanto più che le società occidentali difficilmente possono permettersi di subire gravi perdite e sono sempre meno in grado di disporre di fucilieri motivati e capaci di affrontare anche una semplice missione di combattimento senza il supporto di una enorme potenza di fuoco, che in certi contesti (come i conflitti urbani o in cui siano presenti anche “amici”) non può essere impiegata senza che lo scopo politico e lo scopo militare divergano (come già accadde nella guerra del Vietnam) con conseguenze disastrose. 

D’altra parte, è noto che l’interazione tra fattori politico-culturali e fattori economici e tecnologici può produrre una serie di effetti imprevedibili, tali da cambiare del tutto anche le stesse ragioni politiche che possono avere causato un conflitto o un intervento militare. Quindi, è lecito ritenere che se perfino in ambito militare la tecnologia non può non “imbattersi nei suoi limiti”, a maggior ragione questo valga per quanto riguarda la relazione tra il progresso tecnologico e il sistema sociale nel suo complesso. 

In definitiva, l’idea che ogni problema si possa risolvere mediante un calcolo economico basato sulle cosiddette “leggi del mercato ” e sull’innovazione tecnologica, non è altro che una “fallacia” economicistica e tecnocratica, che, portando ad ignorare che l’essere umano dipende per la propria sopravvivenza da una complessa interazione istituzionalizzata con l’ambiente circostante e con gli altri uomini, trasforma lo stesso apparato tecnico-produttivo in una “megamacchina” che, anziché essere posta al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni sociali, rischia di diventare una sorta di Golem di cui nessuno potrà avere un effettivo controllo.



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