venerdì 18 dicembre 2020

SOCIALISMO DI MERCATO VS LIBERAL-CAPITALISMO


In Cina, contrariamente a quanto si pensa, c'è una forte democrazia di base, ossia una notevole partecipazione del popolo agli affari pubblici di piccole comunità (si veda al riguardo l'interessante libro di Daniel A. Bell, The China Model: Political Meritocracy and the Limits of Democracy, Princeton, 2015). 

La formazione e la selezione dei dirigenti politici a livello intermedio e soprattutto a livello più alto avviene tramite una sorta di cursus honorum che dura diversi anni. 

La distinzione tra dirigenti statali e politici in pratica è minima o inesistente (del resto qualcosa di simile caratterizzava pure l'economia mista della Prima Repubblica italiana).

Fondamentale, difatti, è il ruolo dal Partito-Stato (anche se il partito comunista non è l'unico partito) che peraltro non è affatto un "blocco monolitico", tanto che c'è un notevole dibattitto all'interno dello stesso partito comunista che garantisce un certo pluralismo. Allo Stato spetta quindi la direzione politico-strategica dell'economia di modo che una parte del surplus ritorni alla società sotto forma di opere pubbliche, sanità, istruzione, sicurezza, ecc. Pertanto, lo scopo del Partito è  realizzare una certa forma di socializzazione dell'economia, più che delle forze produttive, tramite gli apparati dello Stato. 

Vale a dire che la ricchezza generata dallo stesso mercato deve essere usata per tutelare il bene comune e difendere l'interesse collettivo. Il mercato è quindi incastonato in un complesso ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche e sociali (si tratta cioè di una società con mercato, non di mercato).

Ovviamente, la Cina "fa parte di questo mondo" e quindi deve tener conto sia della valorizzazione del capitale che della competizione a livello mondiale (non solo economica!). 

 In pratica, si accetta che vi sia antagonismo sociale ma la classe capitalistica è comunque soggetta al controllo dello Stato. È questa la sfida (non certo facile) che i dirigenti cinesi devono vincere ogni giorno con tutti i problemi (e gli errori) che ciò può comportare (corruzione inclusa).

Vi sono quindi cooperative, aziende private e aziende statali. Tuttavia, i dirigenti cinesi hanno deciso che in ogni azienda vi siano dei commissari politici il cui compito è appunto garantire che le aziende private (grandi o piccole) si muovano, per così dire, "lungo il percorso" tracciato dal Partito-Stato.

In sostanza, la differenza rispetto all'attuale sistema liberal-capitalistico non potrebbe essere più netta. 

Il grande capitale mira, infatti, ad avere il reale controllo dello Stato di modo che le ragioni del capitale siano sempre superiori a quelle del lavoro. In altri termini non è lo Stato che controlla la classe capitalistica bensì è la classe capitalistica che controlla lo Stato. Inoltre, si deve tener presente che la classe capitalistica non è un "soggetto unitario", in quanto com'è noto i capitalisti (grandi e piccoli) devono necessariamente competere tra di loro (il "gioco" conta assai più dei "giocatori" ovverosia il capitalismo è, in un certo senso, una forma di darwinismo sociale).  

Non vi è quindi una direzione politico-strategica dell'economia. I potentati economici e finanziari hanno ciascuno la propria strategia e i propri interessi da difendere. 

In definitiva, non vi è alcun primato della "ragione pubblica", ma solo l'uso degli apparati dello Stato (compresi quelli di coercizione ed educativi) per imporre la volontà delle diverse parti della classe capitalistica (che appunto sono anche in lotta tra di loro) all'intera collettività.

Di notevole importanza comunque è pure che il "sistema sociale" cinese è non solo un socialismo di mercato ma un socialismo di mercato con caratteristiche cinesi, ovverosia è un "sistema sociale" che affonda le sue radici nella cultura e nella  civiltà cinese. Il che evidenzia l’importanza dell'aspetto comunitario e nazionalpopolare del socialismo di mercato. Non si può dunque "esportare" né "imitare" il “sistema sociale” cinese. Casomai ci si dovrebbe chiedere come potrebbe essere un socialismo di mercato con caratteristiche europee o italiane. Ma questo è un altro problema.








mercoledì 9 dicembre 2020

CAPITALISMO E DEMOCRAZIA

La definizione  degli Stati occidentali come Stati democratici è sempre stata discutibile, dacché una democrazia o è sociale o non è. Eppure, nel cosiddetto 'trentennio glorioso' della seconda metà del secolo scorso, definire gli Stati occidentali liberal-democratici non era scorretto.

 Ad esempio, durante la Prima Repubblica italiana i partiti erano radicati nel territorio e rappresentavano veramente, insieme ad altre organizzazioni come i sindacati, gli interessi anche dei ceti sociali subalterni, tanto che nella Prima Repubblica, caratterizzata da una economia mista che vedeva lo Stato svolgere un ruolo di primo piano anche sotto il profilo economico, non mancavano neppure degli 'elementi' di socialismo. 

Tutto però è cambiato negli ultimi trent'anni. 

Ormai gli Stati occidentali presentano, tutt'al più, alcuni 'elementi' di democrazia formale. I partiti in pratica sono diventati dei comitati d'affari di una borghesia compradora e lo stesso Stato diritto è, per così dire, una 'finzione scarsamente produttiva'. Difatti, il potere esecutivo è sempre più anche un potere legislativo  e a sua volta il potere esecutivo è sempre più un potere che impone decisioni prese da potentati economici e finanziari o da organizzazioni capitalistiche internazionali non soggette ad alcun reale controllo democratico. 

D'altronde, il potere giudiziario è sempre più 'politicizzato' e comunque, nel migliore dei casi, è un potere che gode solo di una relativa autonomia (di fatto è un potere 'intrecciato', sia pure in vari modi e in diversa misura, con il potere economico e il potere politico. Del resto, pure il 'quarto potere', ossia quello dei media, è controllato dai gruppi dominanti. 

Si deve pertanto prendere atto che l'attuale  regime neoliberale in pratica non si distingue da una dittatura di mercato 'politicamente corretta', caratterizzata cioè da tratti marcatamente totalitari sotto il profilo politico-culturale.

Peraltro, anche lo scontro tra neoliberali di sinistra (i cosiddetti 'liberal-progressisti') e neoliberali di destra (i cosiddetti 'liberal-populisti' o 'liberal-sovranisti') avviene nello spazio politico e sociale di una società di mercato che come tale non è messa in discussione, in quanto si tratta di uno scontro tra chi rappresenta gli interessi del grande capitale internazionale più avanzato sotto il profilo tecnologico, e chi rappresenta gli interessi del capitalismo nazionale, ossia soprattutto del medio e piccolo capitale.  

Tuttavia, proprio la vicenda del Covid, in quanto si inserisce in un contesto geopolitico caratterizzato dalla ascesa di un nuovo centro di potenza anti-egemonico come la Cina che si differenzia nettamente anche sotto il profilo politico-sociale dagli Stati Uniti cioè dalla potenza egemonica occidentale, ha dimostrato non solo che l'attuale  sistema liberal-capitalistico è incapace di risolvere i problemi che esso stesso genera, ma che solo lo Stato può tutelare il bene comune (salute di tutti compresa) e privilegiare l'interesse collettivo rispetto a degli interessi meramente settoriali (ovvero agli interessi della classe capitalistica, internazionale o nazionale che sia). 

D'altra parte, è evidente a chiunque che trent'anni di neoliberalismo hanno inciso così profondamente sulla realtà sociale e culturale dei Paesi occidentali da rendere, se non impossibile, estremamente difficile che si formi un 'soggetto collettivo' che abbia come scopo la trasformazione della funzione politica dello Stato in senso socialista o (cambiando il nome ma non la 'cosa') in senso 'post-capitalistico'.

In sostanza, dato che le stesse masse popolari sono sempre più eterodirette non solo sotto l'aspetto economico ma anche sotto quello politico-culturale, è pressoché impossibile opporsi con successo ai gruppi dominanti e subdominanti (che pure sono in lotta tra di loro) senza la capacità di contrastare l'egemonia culturale della classe capitalistica (che di fatto è  l'egemonia culturale della sinistra liberal-progressista in quanto quest'ultima non è altro che lo 'strumento' politico-culturale di cui si avvale il grande capitale internazionale per celare una dittatura di mercato  dietro le forme di un neoliberalismo 'pseudo-democratico').

 In questo senso, è lecito affermare che sono proprio il disordine mentale, l'anti-intellettualismo e l'individualismo economico e sociale che contraddistinguono il nazional-populismo ad impedire che quella che alcuni definiscono una nuova ribellione delle masse contro le élite dominanti, si possa  configurare come una 'nuova forza' politica e sociale capace di porre gli apparati dello Stato e lo stesso mercato al servizio dell'intera collettività.