giovedì 28 dicembre 2017

CONVERSAZIONE CON G. GERMINARIO SU COMUNITA', STATO E CONFLITTO.

"Un'ora buona" passata a discutere con Giuseppe Germinario di Stato, capitalismo, comunità, conflitti, strategie etc. Insomma, di geopolitica e (meta)politica.

http://italiaeilmondo.com/2017/12/28/comunita-stato-e-conflitto-conversazione-con-fabio-falchi/

lunedì 18 dicembre 2017

VITTORIO EMANUELE III E IL PASSATO CHE NON PASSA



Il ritorno in Italia delle spoglie di Vittorio Emanuele III ha scatenato polemiche roventi che sono una ulteriore conferma che nel nostro Paese non vi è (né con ogni probabilità vi potrà mai essere) una “memoria condivisa” né una “memoria accettata”, benché il nome di Vittorio Emanuele III sia inscindibilmente connesso con un’epoca che dovrebbe essere “consegnata” definitivamente alla storia. Invero, Vittorio Emanuele III fu il re che dopo Caporetto non “perse la testa” ma pure il re che poi “aprì le porte” al fascismo. Fu però soprattutto il re che l’8 settembre del 1943, facendo dipendere le sorti dell’Italia dalla “salvezza” della monarchia, di fatto “tradì” (pur non avendone l’intenzione) non certo i tedeschi ma il suo stesso Paese. Un comportamento che non lo si può davvero comprendere se si continua ad interpretare la storia secondo prospettive politiche e ideologiche sì diverse e perfino opposte, ma che condividono quello “spirito di fazione” che è segno di scarsa “intelligenza politica”, come il grande “Segretario della Repubblica fiorentina” ben sapeva, e che invece continua ad “avvelenare” la vita politica e sociale del nostro Paese.



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Com’è noto, il 10 luglio del 1943 gli angloamericani invasero la Sicilia causando il crollo definitivo dell’esercito italiano, le cui migliori divisioni erano state distrutte in Russia e in Africa settentrionale. Lo Stato maggiore italiano allora fece pressioni su Mussolini perché facesse presente ai tedeschi che l’Italia non poteva più continuare a combattere contro gli angloamericani. Ma il duce nell’incontro che ebbe con Hitler a Feltre il 18 luglio evitò di affrontare la questione dell’uscita dell’Italia dalla guerra, come invece la disastrosa situazione militare del Paese imponeva. Mussolini era consapevole, del resto, che il regime fascista non poteva non crollare senza l’aiuto tedesco. Fu allora chiaro ai vertici militari italiani e allo stesso re che se si voleva salvare l’Italia, occorreva mettere fine sia al regime fascista che alla alleanza con i tedeschi, ai quali degli italiani non importava nulla dato che da tempo “vedevano” l’Italia solo in funzione della sicurezza del III Reich. Fondamentale per Berlino era che l’aviazione angloamericana non potesse usare gli aeroporti della penisola italiana nella campagna aerea contro la Germania, che proprio allora stava per entrare in una fase decisiva. Difatti, i tedeschi nel maggio del 1943 avevano già preparato un piano, denominato “Alarico”, che prevedeva l’occupazione dell’Italia settentrionale, nel caso di un “voltafaccia” degli Italiani (ad agosto il piano venne denominato “Asse” e prevedeva l’occupazione della penisola italiana).



D’altronde, per la stragrande maggioranza degli italiani era ormai palese che il fascismo aveva condotto il Paese alla rovina e che i tedeschi di fatto non erano più degli alleati ma degli “occupanti”. Si giunse così alla caduta del regime e all’arresto di Mussolini (il partito fascista si squagliò come neve al sole, tanto che nessun italiano pareva essere mai stato fascista). Il maresciallo Badoglio fu nominato presidente del Consiglio, mentre si iniziarono delle complesse trattative con gli angloamericani, che ovviamente non è possibile prendere in esame in questa sede, ma che per il modo in cui vennero condotte rimangono - come ha ben chiarito Elena Aga Rossi nel suo celebre libro Una nazione allo sbando (Il Mulino, Bologna 2006) che è la migliore ricostruzione degli eventi che portarono al crollo dello Stato l'8 settembre 1943 - tra le pagine più vergognose della storia del nostro Paese, benché si debba pure riconoscere che la richiesta da parte degli angloamericani di una resa incondizionata non agevolasse il già difficile compito degli italiani.



Ma anche tenendo conto di queste difficoltà, nonché del comportamento tutt’altro che “limpido” degli angloamericani nel corso delle trattative per giungere all’armistizio che fu firmato a Cassibile (il 3 settembre ma venne reso noto solo cinque giorni dopo) è indubbio che l’8 settembre la classe dirigente italiana pensò prima di tutto a salvare sé stessa anziché l’Italia. Eppure, nella zona di Roma si era concentrato il fior fiore dell’esercito italiano, ossia c'erano circa 120.000 uomini in grado di combattere, con 120 carri e 257 semoventi efficienti, cui si sarebbero dovuti aggiungere i paracadutisti della 82ª divisione aviotrasportata statunitense, con 100 cannoni controcarro e 16 carri (questa operazione fu però annullata dal Comando americano allorché fu informato che gli italiani non erano in grado di proteggere gli aeroporti presso Roma), mentre vi erano solo circa 25.000 soldati tedeschi, con 95 carri e 54 semoventi. Per di più l’esercito tedesco doveva disarmare l’intero esercito italiano e al tempo stesso combattere contro gli angloamericani, che il 9 settembre sbarcarono a Salerno (per le forze italiane e tedesche presenti nella zona di Roma, nonché sul previsto impiego dei paracadutisti americani, vedi Francesco Mattesini, 8 settembre. Il dramma della flotta italiana, “Società di storia militare”, 13/9/2007).



In sostanza, è ovvio che il Comando supremo italiano dovesse dare ordini precisi ed inequivocabili alle forze armate italiane e dirigere la difesa di Roma. Invece con il re e Badoglio (colto di sorpresa, dato che pensava che l’armistizio sarebbe entrato in vigore il 12 settembre) se la svignò pure il Comando supremo, venendo così meno quella continuità dello Stato che la fuga del re a Brindisi doveva assicurare. Nondimeno, alcuni storici sostengono che si trattò di “trasferimento” non di fuga, termine quest’ultimo che secondo loro userebbero solo i fascisti (in realtà, come chiunque dovrebbe sapere, i fascisti accusano il re e Badoglio non perché fuggirono a Brindisi ma perché, a loro avviso, avrebbero tradito i tedeschi). Insomma, “fascisti” sarebbero pure storici e studiosi angloamericani nonché coloro che si ostinano a chiamare le “cose” con il loro nome. Gli è che in Italia ha prevalso l’antifascismo dei cialtroni e dei furbi, ossia quell’antifascismo dell’8 settembre e che è “figlio della stessa madre” del fascismo, non certo l’antifascismo serio e intelligente di un Mario Bergamo, di chi cioè non ha bisogno di giustificare l’ingiustificabile allo scopo di difendere i propri privilegi e di nascondere le “vergogne” di una classe dirigente che ha portato di nuovo il Paese sull’orlo dello sfacelo.



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Naturalmente non si può affermare che fu solo Vittorio Emanuele III responsabile di quello che allora accadde, ma il re, in qualità di Comandante supremo delle forze armate italiane, poteva sì mettersi in salvo, ma avrebbe comunque avuto il dovere di fare tutto quel che era necessario fare per la difesa del Paese. Invece si è perfino ipotizzato che vi fosse un accordo tra il feldmaresciallo Kesserling (che allora comandava le forze tedesche nell'Italia centro-meridionale, mentre  nell'Italia centro-settentrionale vi era il gruppo di armate B del feldmaresciallo Rommel; il confine tra i due Comandi era la linea "Pisa-Arezzo-Ancona") e il Comando italiano, di modo che Vittorio Emanuele III insieme con Badoglio potesse mettersi in salvo, senza che l’esercito italiano opponesse resistenza alle truppe tedesche. Si tratta di un’ipotesi presa in considerazione dalla stessa Aga Rossi e che spiegherebbe alcuni fatti altrimenti incomprensibili, tra cui il ritiro del corpo motocorazzato del generale Carboni verso Tivoli. Probabilmente, se accordo ci fu, si trattò solo di un accordo “tacito” dato che, se l’accordo non fosse stato tale, troppi militari, italiani e tedeschi, ne avrebbero dovuto essere informati. In ogni caso, la flotta italiana, bene o male, riuscì a trasferirsi a Malta, ma per la maggior parte dei soldati italiani l’8 settembre 1943 fu l’inizio di un dramma che avrebbe poi coinvolto l’intero Paese. Ad esempio, solo nei Balcani vi erano oltre 600.000 soldati italiani che dovettero decidere da soli che fare. Molti si arresero ai tedeschi, alcuni si unirono a questi ultimi, altri però decisero di combattere contro i tedeschi. Particolarmente significative sono le vicende della divisione Acqui (stanziata a Cefalonia e Corfù) che cercò di resistere ai tedeschi ma, non ricevendo alcun aiuto dagli angloamericani, fu costretta alla resa dopo breve ma aspra lotta (in specie a Corfù). In Iugoslavia invece le truppe italiane riuscirono a costituire la divisione Garibaldi che combatté, in condizioni terribili, sino alla fine della guerra, da non confondere con il battaglione Garibaldi (inquadrato poi con il Matteotti nella brigata d'assalto Italia) che avrebbe partecipato alla liberazione di Belgrado, meritandosi gli elogi degli iugoslavi (sulle vicende dei soldati italiani nei Balcani durante la IIGM si veda l'eccellente opera di  E. Aga Rossi, M. T. Giusti, Una guerra a parte, Il Mulino, Bologna 2011).



Sembra lecito quindi ritenere che pure la difesa di Roma non fosse destinata a fallire tragicamente. Comunque sia, a prescindere dalla questione se la difesa di Roma potesse avere successo a causa della grave “demoralizzazione” delle forze armate italiane, una resistenza ben “organizzata” contro i tedeschi a Roma era non solo possibile ma necessaria. Avrebbe evitato forse perfino la stessa guerra civile ma soprattutto avrebbe posto le “premesse” per un rapporto su basi pressoché paritarie con gli angloamericani nel dopoguerra. Questi ultimi invece, dopo il disastro dell’8 settembre, preferirono impiegare un Corpo di spedizione francese (che si batté bene ma si sarebbe reso pure responsabile delle tristemente note “marocchinate”), piuttosto che dar vita, sin dalla fine del 1943, ad un forte “Corpo di liberazione” italiano, affinché contribuisse alla sconfitta delle armate tedesche in Italia (i soldati italiani furono impiegati soprattutto come "lavoratori" e solo nel 1945 furono costituiti dei gruppi di combattimento italiani, equivalenti ciascuno ad una piccola divisione). D’altro canto, nemmeno la guerra partigiana mutò i “rapporti di forza” a favore dell’Italia, che invece dopo la fine della guerra sarebbe stata trattata (nella Conferenza di Parigi) come un Paese sconfitto.



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La monarchia italiana dunque “si smarcò” dal fascismo solo quando le sorti della guerra volsero al peggio. Non si oppose al fascismo né in occasione della guerra di Etiopia, né a causa delle leggi razziali, né allorché l’Italia entrò in guerra al fianco del III Reich, né quando finì la cosiddetta “guerra parallela” (nella primavera del 1941), che vide l’Italia diventare una sorta di “protettorato militare” del III Reich, né ebbe nulla da obiettare contro la guerra all'Unione Sovietica o alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti. E quando, nell’estate del 1943, si trattò di “afferrare il toro per le corna” antepose il proprio “interesse particolare” a quello dell’intera nazione. Tuttavia, non solo le conseguenze di tale comportamento furono disastrose per l’Italia durante la guerra ma il costo di quella “tragica storia” il nostro Paese non ha ancora finito di pagarlo. E la questione che conta è proprio questa, assai più del giudizio che si può avere riguardo al rapporto tra la monarchia e il fascismo.  Il re Vittorio Emanuele III può quindi pure “riposare in pace” in terra d’Italia, perché ben altri sono oggi i problemi che deve risolvere il nostro Paese.



In definitiva, gli italiani nella Seconda guerra mondiale dovettero “pagare” sia le scelte errate compiute durante il fascismo che il comportamento vile e irresponsabile dei vertici politici e militari, così come oggi “pagano” la scelte “antinazionali” della propria classe dirigente, il che però probabilmente non accadrebbe se a Roma nel settembre del 1943 le cose fossero andate diversamente. In questa prospettiva, la storia come “memoria accettata” non significa dunque dimenticare bensì ricordare sine ira et studio, pur sapendo che la storia, in un certo senso, è sempre “storia contemporanea”.




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martedì 12 dicembre 2017

LA QUESTIONE DELLA DEMOCRAZIA




Definire la democrazia, com’è noto, non è un compito facile. Tuttavia, una volta che si sia riconosciuto che la differenza tra la democrazia diretta è la democrazia rappresentativa è di scarsa importanza per comprendere la  politica in età contemporanea (tanto che si ritiene che l'unica democrazia ancora possibile sia appunto quella rappresentativa anche se i referendum popolari si possono considerare una forma di democrazia diretta), la definizione della democrazia sembra meno complicata di quanto si possa immaginare. Invero, in una società industriale avanzata è inevitabile che non vi sia un governo dei molti vuoi per le dimensioni della società attuale (assai diverse da quelle delle comunità di villaggio o delle poleis dell'antica Grecia) vuoi per le competenze non solo tecniche ma anche politico-strategiche richieste per la “gestione” di una società complessa come quella industriale avanzata. La questione che rileva davvero non è quindi che siano pochi a governare (il che non esclude forme di partecipazione popolare alla vita politica, ma quel che qui rileva sono i vertici del potere pubblico e, in generale, la classe dirigente di un Paese) ma se il governo dei pochi persegua l’interesse dei pochi (a scapito di quello dei molti) anziché l’interesse dei molti. Connessa a tale questione è pure quella del consenso ossia se il governo dei pochi si basa oppure no sul consenso dei molti.



Peraltro, non è certo impossibile definire anche l’interesse dei molti, qualora si considerino la curva di distribuzione del reddito e la questione dei diritti economici e sociali (che non si possono però “disgiungere” da una serie di doveri sociali, dato che la questione dei diritti economici e sociali è inseparabile da quella dell’appartenenza ad una determinata comunità politica). In questo senso, la difesa dell’interesse dei molti di necessità presuppone il controllo politico-strategico dello stesso apparato tecnico-produttivo, senza il quale non possono non prevalere gli interessi del grande capitale. Non è insomma più tempo di puntare ad una democrazia sociale fondata su (pressoché impossibili) forme di socializzazione dei mezzi di produzione o di autogestione. Essenziale è invece la riduzione delle diseguaglianze economiche e sociali (pur senza giungere ad assurde e controproducenti forme di egualitarismo), in una democrazia sociale essendo pur sempre la soddisfazione dei bisogni primari (lavoro, istruzione, sanità, abitazione, etc.) il “limite” che un sistema di premi e punizioni incentrato sul riconoscimento dei meriti dei diversi membri di una comunità deve rispettare.



In sostanza, “a ciascuno secondo i suoi bisogni e i suoi meriti” si può considerare il “principio fondante” di una democrazia (sociale). Si tratta di un principio che riconosce sia la “parità dei distinti” (dato che i membri di una comunità in quanto tali sono “pari”) che la rilevanza delle diverse funzioni che i vari membri di una comunità svolgono, di modo che consente di affrontare la questione dei “diritti umani” secondo un’etica comunitaria e al tempo stesso “realistica”. D’altra parte, è pur vero che la valutazione dei “meriti” non può non variare a seconda dei diversi fini che una comunità ritiene essenziale perseguire (modernizzazione dell’apparato tecnico-produttivo, tutela dei valori identitari, formazione di nuovi “blocchi geopolitici”, potenziamento della difesa del Paese, etc.). Naturalmente, una democrazia sociale così intesa può “lasciare spazio” ad una economia di mercato purché sia funzionale al benessere morale e materiale dell’intera collettività. Al riguardo occorre tener presente che una “ontologia sociale” caratterizzata da un materialismo volgare e l’individualismo sfrenato favoriscono, volenti o nolenti, l’instaurazione di un regime oligarchico e plutocratico, come dimostra la crisi stessa della liberal-democrazia e della socialdemocrazia. (*) Certo, la sfera politica è ben distinta da quella dell’etica, in quanto sotto il profilo del Politico “giusto” è solo ciò che è necessario fare per la “salute” della comunità. “Giusto” e “ingiusto”, sotto questo aspetto, non designano dei “valori morali”. Nondimeno, la definizione della “salute” della comunità implica necessariamente l’esistenza di un orizzonte di senso condiviso e di un’ etica comunitaria. Solo così la funzione politica può promuovere una nozione di “giustizia sociale” che impedisca quella forma di “crematistica” che dissolve il senso di appartenenza e i legami comunitari che sono alla base della convivenza civile.



D’altronde, è incontestabile che con la forma di capitalismo che si è venuta a creare alla fine del secolo scorso - allorché si è passati dal cosiddetto “capitalismo embedded”, imperniato sulla crescita della domanda, ad un capitalismo non più incastonato in strutture politiche nazionali ma egemonizzato dalle multinazionali e dai potentati finanziari -, si sia sempre più ridotto il ruolo della politica a vantaggio sia dei vertici dell’apparato burocratico e militare dello Stato (specialmente di quello egemone ovverosia degli Stati Uniti) che del grande capitale (soprattutto di quello finanziario, che promuove un capitalismo che si fonda sui “meccanismi del debito”, di modo che i “buchi”, generati dall’abnorme espansione della finanza a scapito dell’apparato produttivo, vengono colmati con il denaro pubblico). Ciò ha comportato non solo una eccezionale redistribuzione della ricchezza verso l’alto (in diversi Paesi occidentali, Stati Uniti e Italia inclusi, ormai un cittadino su tre è a rischio di indigenza), ma pure una forte contrazione della sovranità popolare e nazionale (in specie di quella dei Paesi meno forti, come appunto l’Italia) e una gravissima riduzione dei diritti sociali ed economici, mentre hanno acquisto grande importanza i “diritti civili”, tanto che si è giunti a considerare come diritti perfino i “vizi privati” o i comportamenti tipici della élite dominante post-borghese (diventati “pubbliche virtù” e diffusisi paradossalmente anche tra i ceti sociali subalterni, grazie soprattutto al potere di persuasione, più o meno occulta, dei media mainstream). Del resto, vi è una notevole differenza tra il rispetto della sfera individuale - inclusi i diversi “orientamenti sessuali” dei singoli individui – e la mercificazione della sfera individuale, incluso il proprio corpo. Fondamentale è cioè capire che gli stessi comportamenti acquistano un senso completamente differente in uno “spazio comunitario”, ben diverso dallo spazio sociale “dominato” da logiche di mercato (in cui prevale la bramosia di possesso e le relazioni personali sono sempre più mediate dal denaro).



Non sorprende quindi che anche da parte di studiosi di formazione liberale si parli non più di democrazia liberale ma di regimi neoliberali postdemocratici (o di managed democracy), dato che i tratti democratici che contraddistinguevano la società liberale occidentale nella seconda metà del secolo scorso sono quasi del tutto scomparsi. In realtà, gli attuali regimi neoliberali occidentali si configurano sempre più come regimi antidemocratici e perfino, in un certo senso, antisociali. D’altro canto, benché grazie a tecniche raffinate di persuasione e manipolazione, e a nuove forme di “ingegneria politica”, appaiano come regimi politici ancora basati sul consenso dei molti, anche la questione del consenso è un problema di difficile soluzione per le oligarchie neoliberali, dato che la crisi economica e il diffondersi dell’indigenza nel “cuore stesso” del mondo occidentale inevitabilmente rendono assai arduo difendere l’interesse di pochi con il consenso dei molti. Non a caso, con la scusa delle fake news (le peggiori delle quali, peraltro, vengono diffuse proprio dai media maintream), si cerca di limitare drasticamente la libertà “di” stampa, confondendola volutamente con la libertà “della” stampa ossia della stampa del grande capitale, che non solo mette in discussione il “valore” del suffragio universale ogni volta che il voto degli elettori non “premia” gli interessi del grande capitale, ma non esita a “criminalizzare” le stesse istituzioni politiche di un Paese, qualora non siano al servizio degli interessi dei potentati economici e finanziari occidentali. In pratica, nei regimi neoliberali occidentali da tempo ci si adopera perché l’unica opposizione possibile sia quella di “Sua Maestà” ovverosia non vi sia alcuna “reale” opposizione e perché un Paese che non segua i diktat dei “mercati” venga considerato, “senza se e senza ma”, una pericolo per la pace mondiale (di modo che possa essere aggredito senza tanti scrupoli) e una pericolosa dittatura.



A tale proposito, si deve osservare che anche la (rozza e semplicistica) contrapposizione tra dittatura e “democrazia occidentale”, assai cara ai media manstream, è tutt’altro che convincente. In primo luogo, infatti, si deve tener presente che perché vi sia dittatura non necessariamente ci deve essere “un dittatore” (basti pensare, ad esempio, al regime oligarchico dei “Trenta tiranni”, che si instaurò ad Atene alla fine della guerra del Peloponneso). D’altronde, è pacifico che in una società industriale avanzata una dittatura e perfino una dittatura di tipo totalitario (si pensi alla mercificazione di ogni mondo vitale, all’imposizione del linguaggio “politicamente corretto” e via dicendo)  si possa instaurare ricorrendo a complessi sistemi di repressione o di “esclusione”. Il punto da comprendere è che per l’oligarchia neoliberale è necessario che la funzione politica strategica venga svolta “principalmente” dal grande capitale sia pure – occorre non dimenticarlo per evitare un ottuso economicismo - “in sinergia” con i vertici dell’apparato politico-militare dello Stato capitalistico egemone, ossia l’America, e con quelli dei suoi vari “vassalli”). Vale a dire che gli strateghi e i funzionari neoliberali del grande capitale non possono tollerare che siano davvero i vertici del potere pubblico “democraticamente eletti” a detenere il controllo politico-strategico della sfera economica e sociale in funzione dell’interesse dei molti, a prescindere dal fatto che tale controllo sia basato o no sul consenso dei molti - un consenso effettivo, s’intende, che presuppone perciò l’esistenza di qualche forma di pluralismo e una certa dialettica politica e sociale. Può dunque esserci pure una democrazia autoritaria (un governo dei pochi o di un “autocrate” che persegua l’interesse dei molti ma senza il loro “reale” consenso – e gli esempi storici notoriamente non mancano), ma questo problema  - la differenza cioè tra una democrazia non autoritaria e una autoritaria o, se si vuole, una autocrazia o una dittatura -, pur essendo certamente rilevante, non è affatto decisivo per comprendere la fondamentale differenza tra una democrazia e un regime neoliberale, ossia oligarchico, antidemocratico e potenzialmente totalitario.



La questione della democrazia pertanto non può essere più confusa con quella della “democrazia liberale”, a differenza di quanto pensano non pochi intellettuali che provengono dall’area marxista o da quella della cosiddetta “destra radicale”, i quali tendono a non fare differenza tra oligarchia neoliberale e democrazia (spesso identificata con il livellamento culturale, l’omologazione e il falso egualitarismo che caratterizzano l’attuale formazione sociale neoliberale). Ma perfino sotto il profilo geopolitico non ha senso opporsi alla prepotenza del polo atlantico senza porsi seriamente la questione della democrazia. D’altronde, la liberal-democrazia del secolo scorso era connessa “a doppio filo” sia con quella forma di capitalismo che si potrebbe designare come “ancora borghese" (nonostante il ruolo sempre maggiore svolto dai manager) sia, a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, con gli equilibri geopolitici del cosiddetto “bipolarismo”. Con la scomparsa dell’Unione Sovietica (nonché del “pericolo socialista”) e con la nascita di nuova “forma” di capitalismo la formazione sociale neoliberale non poteva che “evolversi” in senso decisamente antidemocratico. Di conseguenza è logico che la stessa questione della democrazia si debba porre “in termini” del tutto differenti rispetto al secolo scorso. In quest’ottica, la “liberazione” dall’egemonia del polo atlantico (oltre che dall’“oligarchia eurocratica”) e la “lotta per la democrazia” (come qui si è cercato, sia pure sommariamente di definire) si devono considerare come due facce della medesima medaglia.



Ovviamente, moltissime sono le questioni cui in questa sede non si può nemmeno accennare (come, ad esempio, la definizione più precisa di che si intende per governo dei pochi e per interesse dei molti, i vari modi in cui tale interesse si può difendere, il rapporto tra individuo e comunità, il problema del pluralismo e della istituzionalizzazione del conflitto, la questione del sistema educativo e dei meccanismi di formazione di una classe dirigente, etc.) e che sono essenziali per delineare in modo più articolato i “lineamenti” di una formazione politica e sociale democratica in quanto contrapposta ad una formazione politica e sociale oligarchica. Comunque sia, ben difficilmente si può dubitare che oggi, in Occidente, la scelta (geo)politica decisiva sia quella tra oligarchia neoliberale e democrazia (pur rimanendo “aperta” la questione dello “spazio” che può essere concesso a gruppi o associazioni che perseguono fini che contrastano pericolosamente con l’interesse collettivo e che sono “portatori” di logiche di potere funzionali all’egemonia polo del atlantico; difatti, gli “agenti” del grande capitale, dato che possono disporre di ingenti mezzi e risorse, sono in grado di influire “pesantemente” sulla vita politica e sociale di un Paese, anche nel caso che non siano presenti in posizione dominante nelle istituzioni politiche).



Si dovrebbe dunque prendere atto che la questione della democrazia ormai si può comprendere “correttamente” solo se la si definisce secondo una prospettiva metapolitica e geopolitica che tenga conto che la liberal-democrazia occidentale si è trasformata negli ultimi decenni in una oligarchia, “mascherata” ancora da democrazia ma sempre più caratterizzata da tratti marcatamente autoritari e perfino totalitari. In definitiva, pare difficile negare che limitarsi alla critica “generica” (da posizioni di “destra” o di “sinistra”) della “democrazia occidentale” senza cogliere l’importanza politica e geopolitica che può assumere la difesa della democrazia (soprattutto - ma non solo  - sociale) contro la pre-potenza dell’élite dominante neoliberale ed euro-atlantista, significhi non solo “interpretare” l’attuale fase storica mediante schemi concettuali anacronistici e “incapacitanti” ma anche e soprattutto rischiare di portare (più o meno inconsapevolmente) acqua al mulino neoliberale ed euro-atlantista.

(*) Com'è noto i socialdemocratici svedesi miravano alla “progressiva” socializzazione dei principali mezzi di produzione. Questo progetto però è fallito non solo, come invece spesso si afferma, a causa della globalizzazione ma anche per il “sostanziale disinteresse” degli svedesi (sindacati e lavoratori inclusi) nei confronti di tale progetto. In questo caso è emerso chiaramente il contrasto tra la democrazia sociale e il liberalismo, dato che una cultura politica liberale non può non premiare il consumismo e l'individualismo.
Sotto questo aspetto, particolare rilievo assume il cosiddetto “socialismo dell'America Latina” (indipendentemente dal fatto che venga "declinato" in diversi modi). Ad esempio, sia Chávez in Venezuela che Morales in Bolivia hanno saputo usare gli apparati dello Stato (ossia il potere pubblico) in funzione della realizzazione di una democrazia sociale rispettando la democrazia formale (del resto, in Venezuela la quasi totalità dei media è sempre stata ostile alla politica di Chávez, a conferma che anche il governo di Chávez (eletto democraticamente come lo stesso Morales) ha sempre rispettato la libertà di espressione). Certo Cuba rappresenta un caso diverso, ma si deve tener conto che Cuba, fin da quando Castro prese il potere, ha dovuto far fronte all'ostilità del suo potente vicino e subire un embargo terribile. Per comprendere le vicende cubane non si può quindi non tener conto della geopolitica e della sua perniciosa influenza sulla politica cubana. (D'altronde, la pressione degli Usa è fortissima anche nei confronti del Venezuela e della stessa Bolivia, che però, almeno per ora, hanno potuto giovarsi della presenza di una situazione geopolitica nettamente diversa da quella che esisteva al tempo della guerra fredda).
Comunque sia, governare in funzione dell'interesse dei molti implica anche che i molti in qualche modo possano partecipare alla gestione della “cosa pubblica” (il che è possibile soprattutto a livello locale) ed esprimere liberamente il loro consenso/dissenso riguardo al governo del Paese. Senza pluralismo e senza una certa libertà politica una democrazia sociale è una democrazia “zoppa” Questo può (forse) essere il caso di alcuni "regimi socialisti" ma certo non dei regimi fascisti - ossia nazional-capitalisti (su questo argomento non posso che rimandare al mio saggio Comunità e Conflitto) - in cui non vi è nessun effettivo riconoscimento dell'interesse dei molti, dato che in un regime fascista  l'interesse dei molti è definito sempre in funzione delle logiche di dominio e dalla "volontà di potenza"  che caratterizzano il governo del "capo" (o dei "capi"). Alla base del riconoscimento effettivo dell'interesse dei molti vi è infatti  un'idea di "emancipazione", che non può nemmeno limitarsi ai membri della comunità, ma in linea di principio concerne gli esseri umani in quanto tali (non si è più o meno esseri  umani).  Del resto, riconoscere che in quanto membri di una comunità si è "eguali" implica (almeno) che vi sia un certo riconoscimento politico di tale eguaglianza. La libertà dal bisogno è quindi condizione necessaria ma non sufficiente perché vi sia una  autentica democrazia “sostanziale" o  se si preferisce un vero socialismo democratico.

sabato 2 dicembre 2017

IL MASSACRO DI SREBRENICA E LA NEGAZIONE DELLA STORIA


Nel secondo volume de Il Politico e la Guerra si può leggere (pp. 303-304) la seguente nota:


- Simbolo della violenza serba in Bosnia sarebbe diventato il massacro di Srebrenica compiuto nel luglio del 1995. Le milizie serbe (che avevano subito parecchi lutti ad opera della XXVIII legione musulmana di stanza a Srebrenica) avrebbero causato la morte di 8.000 musulmani. Il condizionale è d’obbligo dacché sussistono fondati dubbi sulla versione ufficiale (benché il massacro dei musulmani da parte delle milizie serbe sia innegabile). A tale proposito, il maggior generale canadese che nel 1992 comandava il settore di Sarajevo nel quadro della missione di peacekeeping dell’Onu Unprofor ha dichiarato: «Evidence given at The Hague war crimes tribunal casts serious doubt on the figure of "up to" 8,000 Bosnian Muslims massacred. That figure includes "up to" 5,000 who have been classified as missing. More than 2,000 bodies have been recovered in and around Srebrenica, and they include victims of the three years of intense fighting in the area. The math just doesn’t support the scale of 8,000 killed», L. Mckenzie, The real story behind Srebrenica, “Globe and Mail”, 14 luglio, 2005. Su Srebrenica vedi anche il controverso libro di E. S. Herman E. S. (a cura di), The Srebrenica Massacre, Alphabet Soup, Evergreen Park, 2011 e il sito del Coordinamento nazionale della Iugoslavia. Riguardo al Tribunale penale internazionale dell’Aia per la ex Iugoslavia sono da ricordare le assoluzioni del noto “thug” bosgnacco Naser Orić e, il 16 novembre 2012, di due ex generali croati, Ante Gotovina e Mladen Markac, responsabili dell’uccisione di 324 civili e dell’espulsione di oltre 90.000 persone, azioni che secondo i giudici dell’Aia furono “legittimi atti di guerra”. Queste sentenze hanno suscitato scandalo, ma in realtà erano “politicamente corrette”, anche perché la Croazia sarebbe dovuta entrare nella Ue il 1° luglio del 2013. -



Il mio giudizio sul Tribunale penale dell’Aja non è certo cambiato, ma adesso non scriverei più che vi sono “fondati dubbi” riguardo al numero di bosgnacchi uccisi dai serbi a Srebrenica. In effetti, le parole del generale MacKenzie e la (più che motivata) scarsa fiducia nei confronti dei  media mainstream occidentali mi avevano indotto a non tener conto di altri studi e ricerche che si possono ritenere sufficientemente imparziali. D’altronde, la guerra civile iugoslava negli anni ’90 avrebbe meritato uno spazio maggiore di quello che ho potuto concederle nel mio libro. Comunque sia, non vi sono dubbi che nella guerra in Bosnia (e non solo in Bosnia) i serbi si siano resi responsabili di crimini orribili (massacri, stupri di massa, torture, pulizia etnica, etc.), benché anche loro in vari casi siano stati vittime e non carnefici. Perfino quanto accade a Srebrenica lo dimostra.
Difatti, nell’area di Srebrenica, prima che nel luglio 1995 la città cadesse nelle mani dei serbi, vi erano stati numerosi scontri tra i serbi e i bosgnacchi guidati da Naser Orić. Questi ultimi, oltre ad uccidere centinaia di soldati nemici, incendiarono decine di villaggi e massacrarono centinaia di civili serbi. In quest’ottica, quel che in seguito sarebbe accaduto a Srebrenica si configurò anche come una rappresaglia contro i bosgnacchi. Ovviamente il massacro di Srebrenica non fu solo una rappresaglia né vi possono essere delle giustificazioni per il crimine commesso dai serbi.
Com’è ormai accertato, quando Srebrenica cadde, si formò una colonna di 10-12.000 bosgnacchi, di cui solo 6.000 erano militari (e soltanto la metà di loro era armata), che cercò di dirigersi verso Tuzla. Il primo posto di blocco serbo fu superato senza problemi, ma la colonna poi cadde in una imboscata. La “testa” della colonna, composta dai soldati meglio armati, riuscì a proseguire per Tuzla, che raggiunse dopo avere sostenuto con successo altri scontri con i soldati serbi. Ma la maggior parte dei bosgnacchi (circa i due terzi dell’intera colonna) fu accerchiata e attaccata dai serbi. Alcuni bosgnacchi cercarono allora di fuggire. Parecchi rimasero uccisi negli scontri con i serbi (benché sia difficile stabilire esattamente quanti di loro vennero uccisi), altri si “sbandarono” o annegarono in un fiume vicino per sottrarsi alla cattura. Tutti gli altri bosgnacchi furono presi prigionieri (alcuni serbi si erano pure travestiti da soldati dell’ONU per trarli in inganno).
I serbi però avevano già deciso di uccidere tutti i maschi catturati che avessero più di 14-15 anni o meno di 70 anni. Pertanto, solo le donne, i bambini e gli uomini che avevano più di 70 anni furono risparmiati (furono trasferiti altrove con decine di bus). Motivo per cui si ritiene che si sia trattato di un genocidio (ossia dell’eliminazione di una “parte sostanziale” del popolo bosgnacco). Inoltre, grazie all’esame del Dna si sono identificati circa 7.000 degli oltre 8.000 bosgnacchi che furono uccisi nella zona di Srebrenica. Molti di loro avevano ancora i polsi legati o gli occhi bendati. Vi sono quindi ben pochi dubbi su come sia avvenuto il massacro di Srebrenica. Se poi si debba definire un genocidio anziché un massacro o un eccidio (dato che i bambini di sesso maschile furono risparmiati e di conseguenza furono eliminati solo i combattenti o i “potenziali” combattenti) mi pare, “tutto sommato”, una questione di importanza “non decisiva”, benché sia ovvio che in questo caso il termine genocidio (con cui si indica lo sterminio di un popolo o il tentativo in parte riuscito di sterminare un popolo) viene usato per ragioni ideologiche tutt'altro che condivisibili.
Naturalmente, questo non significa che si debbano ignorare o addirittura giustificare le violenze commesse contro i serbi (inclusa l’azione della NATO contro la Serbia nel 1999, che causò la morte di oltre 2.000 civili (*); al riguardo, si può pure ricordare che nessun “tribunale ad hoc” è mai stato istituito per giudicare gli innumerevoli e spaventosi crimini di guerra compiuti dagli Stati Uniti). Ma per riconoscere che anche i serbi furono vittime di violenze orribili non è certo necessario “negare” (**) i crimini commessi dai serbi né le pesanti responsabilità di Belgrado per quanto accadde nei Balcani negli anni ’90 del secolo scorso. Al tempo stesso però non si può non osservare che una certa ostilità preconcetta da parte dell’Occidente nei confronti della Serbia (che si riscontra in specie nel modo fazioso in cui i media mainstream descrivono la dissoluzione della Iugoslavia e di cui non è affatto immune lo stesso TPI, che non raramente usa due pesi e due misure, al punto da sembrare il “braccio giudiziario” della NATO), dato il forte legame che unisce la Serbia alla Russia, non è senza correlazione con quella “demenziale russofobia” (come altrimenti definirla?) che ha messo radici nel mondo occidentale. E anche di questo si dovrebbe tener conto, se si vuole davvero evitare di essere faziosi.

* La cifra però varia notevolmente a seconda delle diverse fonti (da circa 500 fino ad oltre 3000). Inutile dire che anche per quanto concerne  il numero delle vittime albanesi nella guerra del Kosovo si riscontra lo stesso problema, anche se  furono migliaia i civili albanesi del Kosovo che furono uccisi dai serbi prima dell'intervento della NATO. Si ritiene pure che i serbi si siano resi responsabili di una pulizia etnica che riguardò circa 700 mila kosovari.
Anche in questo caso, per condannare l'intervento della NATO (che diede agli USA la possibilità di trasformare il Kosovo in una sorta di protettorato americano sostenendo un'organizzazione terroristica come l'UCK che si finanziava con il traffico di droga e di armi) non occorre negare o minimizzare i crimini commessi dai serbi, che del resto subirono a loro volta le violenze da parte dei kosovari.

** L’uso di questo verbo è necessario, poiché, proprio come per quanto concerne la negazione della Shoah (ossia l’assurda negazione del genocidio degli ebrei - mediante fucilazione, camere a gas o altri metodi -, quasi che fosse possibile, ad esempio, sostenere che nella conferenza di Wannsee si stabilì solo di deportare tutti gli ebrei ad Est, benché sia noto che ad Est gli ebrei venivano già sterminati dalle Einsatzgruppen), non si deve confondere il revisionismo, ossia la continua “revisione di giudizi” che contraddistingue la ricerca storica, con la “negazione della storia”, indipendente dal fatto che certi tragici eventi vengano strumentalizzati per ragioni politiche tutt’altro che condivisibili o addirittura per giustificare altri crimini.

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