venerdì 5 dicembre 2014

L'EUROPA NELLA MORSA DELL'EURO

Non è una novità che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso sia stata proprio la Francia di François Mitterand, anziché la Germania di Helmut Kohl, a premere perché si arrivasse all’introduzione della moneta unica europea (ossia l’euro). “Obiettivo primario” della Francia non era certo quello di conseguire l’egemonia monetaria sul vecchio Continente, come sostengono alcuni “esperti” che evidentemente non riescono (per limiti ideologici e/o culturali) a liberarsi di rozzi schemi concettuali “economicistici”, bensì quello di risolvere una volta per tutte la “questione tedesca”, diventata di nuovo attuale dopo il crollo del Muro di Berlino. E che fosse una questione tutt’altro che marginale (non solo per la Francia) è facile capirlo, purché si tenga presente la storia europea, almeno dalla guerra franco-prussiana del 1870 fino alla Seconda guerra mondiale compresa. Eventi che conteranno poco per gli “esperti del villaggio globale” o per i complottisti d’ogni risma e “colore”, ma che senza dubbio alcuno non possono non considerarsi decisivi per “noi mortali”. Del resto, nel contesto in cui si pervenne al trattato di Maastricht, che appunto prevedeva la creazione dell’Unione economica e monetaria europea, rilevava non poco pure il progetto di una struttura di difesa europea, sia pure nell’ambito della NATO, ma incentrata ovviamente sul cosiddetto asse “Parigi-Berlino”. La potenziale sfida che tali decisioni politiche rappresentavano per gli Stati Uniti e in generale per quelli che si possono definire i centri di potere atlantisti, è palese dacché di fatto erano messi in discussione tanto l’egemonia del dollaro quanto il ruolo della NATO, ovvero i due pilastri fondamentali del “polo geopolitico” atlantico, rimasto allora l’unico vero “polo geopolitico” a causa della scomparsa dell’Unione Sovietica e dello stesso Patto di Varsavia. D’altro canto, saldare definitivamente la Germania all’Atlantico era un “imperativo geopolitico” anche per i circoli atlantisti che non potevano permettere che il “vuoto” generatosi con la fine dell’Urss venisse colmato da una Germania di nuovo unita, ma “’sganciata” dall’Europa occidentale e non più allineata agli interessi d’oltreoceano. In ogni caso, i francesi approvando il trattato di Maastricht (20 settembre 1992), benché di strettissima misura, spianarono la strada che avrebbe portato all’introduzione dell’euro, entrato ufficialmente in circolazione nel 2002 sia pure solo in 12 Paesi europei.

Una scelta tanto più significativa quella della Francia, se si considera che era stata l’Assemblea nazionale francese nell’agosto del 1954, quando la Francia era ancora traumatizzata per la notizia della caduta di Dien Bien Phu, a votare contro la CED, ossia la Comunità di Difesa Europea che doveva comprendere anche la Germania. Il fallimento della CED dipese sia dal fatto che allora in Francia era ancora forte il timore di una rinascita della potenza militare ed economica tedesca, sia dal fatto che molti francesi non vedevano di buon occhio la nascita di una struttura militare (e quindi inevitabilmente anche politica) sovranazionale. Sicché, mentre il successo della CECA (Comunità Economica Europea del Carbone e dell’Acciaio) favorì la nascita del Mercato Comune Europeo (il trattato istituente il MEC venne firmato dai “Sei” a Roma nel marzo del 1957) (1), il fallimento della CED convinse non pochi europeisti (in perfetta buonafede, s’intende) che per arrivare ad una unione politica europea essenziali sarebbero stati i fattori economici, vale a dire che l’unione politica europea avrebbe dovuto essere la logica conseguenza di una unione economica europea. Questo certamente aiuta a spiegare come sia stato possibile giungere a quella “assurdità geopolitica” che ha portato i Paesi europei a mettere il carro davanti ai buoi, ovvero a creare una moneta unica europea senza avere uno “Stato dietro”, come ha dovuto riconoscere recentemente lo stesso Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia (2), benché si tratti d una moneta che avvantaggia i Paesi forti dell’Eurozona, non essendo l’euro diverso, in pratica, dal marco tedesco, proprio in ragione di quei motivi geopolitici che portarono al trattato di Maastricht.

In tal modo però, anziché rafforzare e rendere più coesa l’Unione Europea, si è ottenuto esattamente l’opposto, come ormai è evidente a chiunque, e al tempo stesso si è consegnata l’Europa meridionale nelle mani dei “mercati” e della speculazione finanziaria internazionale con effetti devastanti non solo per la Grecia. L’Italia, ad esempio, già penalizzata dalla politica antinazionale degli anni Novanta – che portò alla vendita del settore strategico pubblico, vero motore dello sviluppo italiano dopo la Seconda guerra mondiale (3), e all’internazionalizzazione del debito pubblico, proprio quando con l’amministrazione Clinton venivano meno quelle restrizioni al movimento dei capitali che erano state imposte al mercato dopo la crisi del 1929 – si è trovata privata delle tre leve necessarie per difendere l’interesse della collettività, cioè la leva fiscale, la leva monetaria e la leva valutaria. Pertanto, oberata da una spesa per interessi che “vola” verso i 100 miliardi di euro all’anno, nonché da un enorme passivo della bilancia energetica, con un debito pubblico che ha superato il 130% del Pil e con un tasso di disoccupazione alle stelle, l’Italia, in un certo senso, è un “Paese fallito”, in cui perfino le scuole “cadono a pezzi”, in senso letterale e metaforico. Un situazione resa sì più grave dalla inefficienza della pubblica amministrazione, dalla diffusa corruzione e dalla spesa “improduttiva”, ma non dipendente dalla spesa pubblica in quanto tale. Il debito pubblico italiano si è infatti formato tra gli anni Ottanta e Novanta, cioè dopo il “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro, che ha costretto lo Stato a pagare interessi sempre più salati e un numero crescente di italiani a lavorare per la “rendita” (cui sono andati pure gran parte dei ricavi ottenuti con la vendita delle imprese pubbliche). Inoltre, dagli anni Novanta con la sola eccezione del 2009, l’Italia produce avanzi primari (ossia le entrate dello Stato sono maggiori delle spese statali, al netto degli interessi sul debito pubblico) (4). Non si vuole quindi negare l’importanza di altri fattori per spiegare il declino dell’Italia, ma di mettere in luce un “fattore chiave” della debolezza strutturale dello Stato italiano e la sua progressiva dipendenza da “altri poteri”, soprattutto stranieri, nel contesto di una trasformazione dell’ Unione Europea che si è rivelata essere un “moltiplicatore” di diseguaglianze e squilibri, al punto da avere “spaccato in due” la stessa Europa, promuovendo il declino e l’impoverimento soprattutto dell’Europa mediterranea, nonché lo smantellamento dello stesso Welfare State, considerato il vero “gioiello” del Vecchio Continente fino a non molti anni fa.

In questo senso, non pare nemmeno casuale il rapido “allargamento” dell’Unione Europea: se era difficile creare un autentico “polo geopolitico” europeo quando vi era una “UE a 15”, non si vede come sia possibile raggiungere tale obiettivo ora che la UE conta addirittura 28 Paesi (che solo intellettuali “mercenari” o che hanno perso del tutto il contatto con la realtà possono paragonare ai diversi Stati degli USA). D’altra parte, è innegabile che la politica di “potenza commerciale” della Germania favorisca soprattutto la politica di potenza dell’America – per la quale il controllo del Rimland è questione di vitale di importanza in vista di un confronto con la Cina (ormai prima potenza industriale mondiale) (5), tanto più rilevante adesso che la Russia con Putin è tornata ad essere protagonista sullo scacchiere internazionale. Per di più, la politica rigorosamente atlantista della Merkel sull’Ucraina, nonostante alcune considerevoli “oscillazioni”, pare aver segnato perfino una certa “rottura” tra Berlino e Mosca, che (per quanto non possa essere definitiva) è il segno che la Germania, in cambio della sua “fedeltà atlantica”, chiede (e ottiene) mano libera in Europa, (benché, com’è ovvio, solo sotto il punto di vista economico). Non a caso i circoli atlantisti europei hanno finora dovuto “incassare” i ripetuti “no” della Germania ad una ridefinizione dei compiti della BCE (magari concedendo una sorta di potere di veto a Berlino), per cercare di mettere un freno alla crisi della UE che minaccia di non essere più “gestibile” (6). Ma se in Europa è la Germania che “fa la differenza” sotto il profilo economico, è ancora la Francia che conta davvero sotto il profilo politico-strategico. Difatti, la Germania non è altro che un “nano geopolitico” che trae profitto dal declino relativo degli USA e dalla necessità di Washington di impedire che l’Unione Europea vada in pezzi (7). Invero, l’UE non rappresenta ormai più alcuna minaccia per la superpotenza nordamericana, la quale peraltro, grazie anche alla nuova “guerra fredda” contro la Russia dopo il golpe filoatlantista a Kiev, è riuscita addirittura ad imporre ai “vassalli europei” una politica di potenza che non solo rischia di avere conseguenze imprevedibili per la sicurezza internazionale – proprio come sta accadendo in Medio Oriente, ove la distruzione dell’Iraq e l’aggressione alla Siria di Assad hanno creato le condizioni per la nascita dell’ISIS -, ma che non può non rendere ancor più drammatica la crisi economica e politica del continente europeo.

Veramente significativo sul piano geopolitico è stato, dunque, il rientro della Francia nel comando integrato della NATO nel marzo del 2009 (ovverosia durante la presidenza di Sarkozy), che di fatto ha messo fine al progetto di dar vita ad una difesa europea comune che potesse, con il passare tempo, rendersi indipendente dalla NATO, con “implicazioni” di carattere politico facilmente intuibili (8). Si è assistito perciò ad una clamorosa “inversione di marcia” rispetto alla Francia di De Gaulle. Com’è noto, la Francia nel 1966 era uscita dalle organizzazioni militari della NATO. Una decisione coerente con la politica del generale francese (in specie dopo che De Gaulle si era adoperato per mettere la fine della guerra d’Algeria). In effetti, già nel 1958 De Gaulle aveva proposto ad Eisenhower (che allora era il presidente degli Stati Uniti) di sostituire la direzione statunitense della NATO con una direzione composta dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna (9). Il rifiuto degli americani era scontato e contrari erano pure gli inglesi che, soprattutto dopo lo scacco anglo-francese di Suez nel 1956, non volevano rinunciare al ruolo di “alleati privilegiati” degli americani. La risposta negativa di Eisenhower rafforzò il proposito di De Gaulle di andare avanti con il programma atomico militare sperimentale e, nel 1960, dallo stadio sperimentale la Francia passò allo stadio militare vero e proprio con la legge-quadro sulla force de frappe. Negli anni successivi le relazioni tra Francia e USA continuarono a peggiorare, finché si arrivò appunto all’uscita del grande Paese europeo dal comando integrato della NATO nel 1966. Nello stesso anno De Gaulle incontrò i dirigenti sovietici a Mosca e nel comunicato finale venne annunciata l’istituzione di una commissione franco-sovietica per la cooperazione nel settore economico e in quello scientifico, che prevedeva il lancio di un satellite francese da parte dell’Unione Sovietica (10). Né De Gaulle lesinò critiche agli Stati Uniti riguardo alla guerra del Vietnam e prese pure le distanze da Israele. Ma egli arrivò addirittura a mettere in discussione il sistema “dollarocentrico” fondato sul gold exchange standard, tanto che la Francia si affrettò a convertire in oro tutti i dollari che aveva nelle proprie riserve. Il confronto tra franco e dollaro era però impari. Peraltro, la Francia doveva affrontare una difficile situazione interna, che sfociò nella rivolta studentesca del maggio del 1968. In questa situazione, in cui la politica estera francese era pure ostacolata dai legami sempre più forti tra gli Stati Uniti e la Germania federale (che nel 1955 era entrata far parte della NATO), il valore del franco subì due notevoli ribassi, e nell’agosto del 1969 si arrivò alla svalutazione della moneta francese (11). Quel che però davvero rileva, in questa sede, è che De Gaulle, al di là del suo indubbio sciovinismo, aveva nettamente colto la differenza tra europeismo e euroatlantismo, nel senso che il primo senza una Europa indipendente dagli USA non avrebbe fatto altro che portare acqua al mulino di Washington e sarebbe stato del tutto contrario agli interessi della maggior parte degli europei (12).

E’ quindi alla luce di queste considerazioni che si dovrebbe valutare un fenomeno politico rilevante come la crescita del Front National di Marine Le Pen, che punta addirittura alla presidenza della repubblica francese. I limiti di questo movimento politico sono parecchi e alcuni di essi certo sono gravi. Le accuse di xenofobia che si rivolgono al Front National non sempre sono infondate e indubbiamente il mondo islamico ha ben poco a che fare con l’idea dell’Islam condivisa da molti sostenitori della Le Pen. Ma è evidente che sarebbe un errore interpretare il successo della Le Pen con categorie politiche che ormai anche l’“uomo della strada” considera obsolete e incapacitanti. D’altronde, il “realismo” consiste nel saper discernere il grano dal loglio, ma pure nel distinguere l’essenziale dal meramente accidentale, senza lasciarsi fuorviare da schemi concettuali ideologici, buoni (forse) al tempo in cui “Berta filava”. Non si tratta dunque di fare il “tifo”, ma di vedere quel che il dito indica, senza preoccuparsi troppo del dito. Non è poi solo in Francia che vi sono “segnali di rivolta” nei confronti della disastrosa politica di Bruxelles. La “parola d’ordine” di tutti questi movimenti pare essere ”sovranismo”. Il che è positivo, e lo è forse ancor di più il fatto che non pochi esponenti di queste forze politiche abbiano condannato le sanzioni contro Mosca. Nondimeno, tutto ciò non è sufficiente. Il populismo e l’estremismo nazionalista nel Novecento di danni e rovine ne hanno causati fin troppi. Bisognerebbe quindi evitare lo scoglio del “narcisismo identitario” e comprendere che i “grandi spazi geopolitici” sono una necessità del nostro tempo. In definitiva, occorrerebbe una visione geopolitica all’altezza delle sfide di una età complessa come quella presente. Per questo motivo è “riduttivo” ritenere che risolto il problema dell’euro scomparirebbero, di punto in bianco, i “guai” che affliggono l’Eurozona. L’euro è senza dubbio parte del problema da risolvere, non il problema da risolvere. Ovverosia, sono le ragioni geopolitiche che hanno portato all’introduzione dell’euro e poi al sostanziale fallimento di Eurolandia che si devono necessariamente comprendere se si vuole uscire dal vicolo cieco in cui ci si è cacciati. Solo così, del resto, si potrebbe adottare quella “soluzione tecnica” per quanto concerne la questione dell’euro (dacché ve ne sono diverse, perlomeno “sulla carta”) che meglio potrebbe “corrispondere” all’idea di Europa che si vuol difendere, fosse pure l’idea di una nuova “Europa delle nazioni”, incastonata nella massa eurasiatica da Brest a Vladivostok, e tale da “includere” varie e distinte aree geopolitiche, come quella baltica e quella mediterranea. In quest’ottica, tra l’altro, è facile rendersi conto che anche i BRICS potrebbero rappresentare una formidabile chance economica e culturale per il continente europeo, inclusi i Paesi a forte “vocazione mediterranea” come l’Italia.

Comunque sia, è troppo presto per sapere se un movimento come il Front National intenda davvero riprendere il “discorso (geo)politico” di De Gaulle laddove si era interrotto, ma (sia chiaro) per svilupparlo e interpretarlo secondo categorie nuove e adeguate alle sfide che attendono il continente europeo. Naturalmente, si deve essere pure consapevoli che molte “prese di posizione”, che in verità paiono essere assai discutibili, possono essere solo “mosse” o “contromosse” tattiche, non “scelte strategiche”, giacché vi sono rapporti di forza che si devono prendere in considerazione e che nulla è più pernicioso in politica dell’infantilismo di chi vorrebbe “tutto e subito”. Ragion per cui per ora ci si dovrebbe limitare a constatare che in effetti qualcosa in Europa sta cambiando, pur tra mille contraddizioni e incertezze. Questo non basta per costruire qualcosa di “serio” e duraturo e potrebbe perfino rendere più complicata e difficile la già non facile situazione che caratterizza attualmente il Vecchio Continente, ma potrebbe pure portare a “voltare a pagina”. Se così fosse, allora sarebbe di nuovo possibile ridefinire l’Europa in funzione non dei “mercati” ma dei diritti dei popoli europei e dei diversi (ma non necessariamente opposti) interessi nazionali.

 Fabio Falchi

Note

(1) Il successo della CECA e poi del MEC con ogni probabilità fu ancora più importante del piano Marshall per la ripresa economica del continente europeo nel secondo dopoguerra, tanto che secondo Alan Milward il rilancio produttivo dei Paesi europei sarebbe avvenuto anche senza gli aiuti americani, dato che in Europa la ripresa era già in atto. Gli europei poi, a differenza degli americani, privilegiarono l’intervento dello Stato nei settori del Welfare, perciò, a giudizio di Milward, l’americanizzazione dell’Europa occidentale riguardò soprattutto il piano ideologico e culturale (vedi A. S. Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1984).

(2) Bankitalia: Rossi, problema è che euro è moneta senza Stato (http://www. Corriere.it/ notizie ultima-ora/Economia/Bankitalia-Rossi-problema-euro-moneta-Stato/19-11-2014/1 A_015168377. Shtml). Si potrebbe commentare: meglio tardi che mai!

(3) Scrive giustamente Andrea Ricci che «nata come strumento di salvataggio del capitale privato durante gli anni della “grande crisi” (1933-1937), l’impresa pubblica italiana si è trovata nel secondo dopoguerra ad esercitare un ruolo propulsivo nei settori industriali più moderni e innovativi […] Il contributo dell’industria pubblica alla modernizzazione produttiva del Paese negli anni della ricostruzione e, soprattutto, del miracolo economico è stato decisivo», A. Ricci, Dopo il liberismo, Fazi Editore, Roma, 2004, p. 192.

(4) Vedi, ad esempio, gli articoli Le vere cause del debito pubblico italiano e La leggenda dello Stato spendaccione (http://keynesblog.com/).

(5) La quota della manifattura mondiale della Cina in (dollari correnti) è passata dall’8,3% nel 2000 al 30,3% nel 2013, mentre quella degli USA nello stesso periodo è scesa dal 24,5% al 14,3% (vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15).

(6) Davvero indicativo a tale proposito quanto scrisse nel 2011 Marta Dassù del “noto” Aspen Institute, vale a dire che «la gestione tedesca della crisi del debito sovrano impone ai paesi in deficit maggiori vincoli [...] senza offrire abbastanza quanto a solidarietà fiscale. La conseguenza è che la “dittatura del creditore”, nell’area euro, finisce per essere una ricetta recessiva. Cosa che non permetterà di ridurre il debito neanche con una overdose rigorista. Secondo le tesi ottimistiche, una volta rassicurata sulla credibilità di Grecia, Spagna e Italia, la Germania sarà più disponibile a fare dei passi verso un’Unione fiscale: quella di cui avremmo bisogno», M. Dassù, La guerra dell’euro (https:// www. aspeninstitute. it/aspenia-online/article/la-guerra-delleuro). Inutile dire che il tempo delle “tesi ottimistiche” è passato da un pezzo.

(7) Gli è che, da un lato, la Germania non è così forte da imporre la propria “volontà di potenza” a tutto il continente europeo, tramite le istituzioni della UE, dacché almeno la Gran Bretagna e la Francia sono sicuramente abbastanza forti da impedirlo; dall’altro, però, la Germania è sufficientemente forte da impedire che la UE possa imporle una politica che non condivida.

(8) La svolta atlantista di Sarkozy è ancor più notevole se si considera che sia la Francia che la Germania si erano opposte all’invasione dell’Iraq da parte degli USA nel 2003. Non è nemmeno da escludere che abbia influito sulla scelta di Parigi la fine della guerra sotterranea in Africa con Washington, onde far fronte alla forte penetrazione economica cinese nel continente africano, fondata su scambi commerciali e rapporti economici vantaggiosi per gli africani, e non su politiche neocolonialiste come quelle degli Stati Uniti e della Francia (in parte responsabili perfino della spaventosa guerra tra tutsi e hutu nell’ultimo decennio del secolo scorso; vedi J. Ziegler, La fame nel mondo spiegata a mio figlio, Pratiche editrice, Milano, 1999e M. Chossudvsky, The Globalization of Poverty and the New World Order, Global Research, Pincourt, 2003).

(9)Vedi J. B. Duroselle, Storia diplomatica, dal 1919 al 1970, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1972, p. 625.

(10) Ivi, p. 638.

(11) Ivi, p. 641.

(12) Su questo argomento, mi permetto di rimandare al mio scritto Europeismo contro euroatlantismo, “Eurasia”, 1/2014, pp 55-64.
http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leuropa-nella-morsa-delleuro/ 
  1.  

sabato 5 luglio 2014

FABIO FALCHI, PREFAZIONE A CLAUDIO MUTTI, " DEMOCRAZIA E TALASSOCRAZIA. SAGGI DI ANALISI GEOPOLITICA", EFFEPI, GENOVA, 2014


  • È nota la definizione della geopolitica come disciplina che studia l'azione nello spazio politico, inteso come la dimensione in cui si sovrappongono e intrecciano diversi altri spazi, da quello economico a quello sociale, da quello demografico a quello militare e così via. In questo senso, la geopolitica è ben distinta dalla geografia politica, benché sia pacifico che debba prendere in considerazione l'influenza che i fattori geografici esercitano o possono esercitare sull'azione politica. Nondimeno, tale definizione sembra presupporre come ovvio quel che ovvio invero non è; sembra cioè che il significato della nozione di spazio sia, per così dire, talmente “alla mano” da non richiedere alcun tipo di analisi o approfondimento. D'altronde, è vero pure che la lotta politica, come qualsiasi altro fenomeno si svolge sia nel tempo che nello spazio. Nulla di strano, si potrebbe quindi obiettare, se la nozione di spazio è presupposta tanto dagli studiosi di geopolitica quanto dagli storici, avendo (forse) la nozione tempo maggiore rilevanza per lo studio della storia, sebbene anche gli storici siano sempre più propensi a riconoscere l'importanza dei fattori geografici e, in generale, delle diverse dimensioni “spaziali” per comprendere anche i fatti e gli eventi che veramente contano (si pensi alla critica della cosiddetta “histoire événementielle”).
  • Non a caso si deve a uno storico, Fernand Braudel, la distinzione di tre livelli temporali per comprendere i fenomeni storici: il “tempo geografico”, il “tempo sociale” e il “tempo individuale” (che include l'évenémentiel). Più che il tempo però, come osserva Paul Ricoeur (1), è lo spazio a dominare nel primo livello. Ma quale spazio? Se si prende in esame la grande opera di Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II (2), si può notare che nei primi tre capitoli, che trattano del Mediterraneo (il “mare in mezzo alle terre”), si parla non dello spazio in generale ma di spazi abitati, di montagne in quanto rifugi per l'uomo, di bonifica delle terre, di pianure costiere in relazione alla colonizzazione e al lavoro di drenaggio, di isole che possono essere scoperte ed esplorate, di mari che possono essere solcati. Si parla cioè di luoghi non di spazi “vuoti”. Tempo e spazio allora non si configurano come “semplici” coordinate di ogni (nostra) esperienza possibile, bensì come “forme d'esperienza” articolate in funzione dell'agire degli uomini, in quanto questi ultimi sono “uomini abitanti”. È lo stesso Ricoeur a sottolinearlo allorché nota che i conflitti tra l'impero turco e quello spagnolo proiettano la loro ombra sui paesaggi marini di modo che il secondo livello (quello della storia dei gruppi umani) è anticipato nel primo. Pertanto, afferma il filosofo francese «la geo-storia si trasforma rapidamente in geopolitica. […] Le zone marittime sono immediatamente zone politiche» (3).
  • I luoghi dunque possono essere essi stessi, in un certo senso, degli attori geopolitici, ma solo perché gli uomini sono i padroni degli spazi geografici e “pro-ducono” città, strade, ponti, mercati, porti, traffici. E ovviamente anche armi e navi da guerra. Perciò ricorda Ricoeur citando Braudel che «non è l'acqua che unisce le regioni del Mediterraneo ma i popoli del mare» (4). Al riguardo, è degno di nota quanto sostiene Martin Heidegger in Costruire, abitare, pensare (5). Per il pensatore tedesco l'essenza del costruire consiste nel “far abitare”, nell'aprire spazi “in vista” dell'abitare, nell'edificare luoghi. Scrive Heidegger che«il ponte non viene a porsi in un luogo che c'è, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte» (6). Questa possibilità determinata di costruire e abitare non è senza relazione con ciò che Heidegger definisce come la Quadratura, “la terra e il cielo, i mortali e i divini”. Ed è accordando a tale Quadratura un posto che, secondo Heidegger, si determinano le località e le vie grazie alle quali è possibile ordinare uno spazio (7). Non trova invece posto nella Quadratura il mare. Né potrebbe trovarlo una volta che si sia definito il luogo in funzione dell'abitare. Il mare qui è già “mare in mezzo alle terre”. E porti, vie marittime e navi sono le opere dei mortali che abitano la terra. Ma la relazione tra il mare (in quanto tale) e i luoghi non è certo identica a quella fra la terra e i luoghi. 
  • Di questa differenza è già perfettamente consapevole Platone, il quale non solo vede nell'elemento fluido il simbolo di una instabilità e una “corruzione” che, dissolvendo i legami comunitari, favoriscono la degenerazione della stessa democrazia in demagogia e (di conseguenza) quelle lotte intestine che conducono la polis alla rovina, ma mostra pure che vi è una relazione necessaria tra la talassocrazia e la pre-potenza della grande polis attica. Una tracotanza che, facendo venir meno qualsiasi tradizione agonistica, muta la “forma” stessa della guerra e porta la polis a trattare perfino i propri alleati come schiavi. Eppure non può esservi homo europaeus senza “apertura” al mare. Si può anzi sostenere che l'identità europea consiste essenzialmente nel saper confrontarsi con il mare, nel saperlo “misurare”. Il difficile equilibrio tra la radice terrestre dell'“uomo abitante” e l'elemento fluido, sradicante e “anomico” si configura come tratto essenziale dell'homo europaeus, per il quale l'esperienza della alterità è costituiva della propria identità. Per questo Hegel può scrivere: «In Asia il mare non ha importanza: anzi, i popoli hanno chiuso le porte al mare […] In Europa quel che conta è proprio il rapporto col mare: questa è una differenza costante» (8). Indipendentemente dall'eurocentrismo che è presente anche in queste parole del pensatore tedesco, è innegabile però che Hegel si avveda chiaramente del rischio che tale “procedere oltre” comporta: «Nel desiderio del guadagno, per il fatto stesso che questo desiderio lo espone al pericolo, il desiderio in quanto tale gli si eleva sopra, e permuta lo stabile divenire sul fondamento della zolla e delle cerchie limitate della vita civile, nei suoi piaceri e nei suoi desideri, con l'elemento della fluidità, del pericolo, del venir meno» (9). Dunque la dialettica “terra-mare” si configura come una sfida necessaria, ma pure come una sfida che richiede un particolare senso della “misura” e dell'equilibrio, un katechon in grado di impedire che in questo “procedere oltre” venga annientata ogni differente identità. 
  • A tale sfida è indubbio che i popoli del Mediterraneo per secoli abbiano saputo far fronte. Tanto che Roberto Lopez non esita ad affermare che si dovrebbe considerare l'impero romano come un dono del Mediterraneo (10). Peraltro, considerando la civiltà mediterranea nel suo rapporto con il sistema mondiale non si può non prendere in esame quella zona che lo stesso Braudel denomina Mediterraneo Maggiore e che «si estende fino al Mar Rosso, all'Oceano Indiano, al Golfo Persico. La civiltà mediterranea si misura da questi irradiamenti; il suo destino è più facile a leggersi sui suoi margini esterni che non al centro» (11). Con la scoperta del “Nuovo Mondo” però cambia tutto. Avviene una rivoluzione “terracquea” che muta in radice il rapporto dell'uomo con il mare: «Il contrasto tra la terra e il mare appare ora per la prima volta nella storia mondiale non più sotto l’aspetto della lotta per un mare interno come il Mediterraneo, bensì sotto il vasto orizzonte della visione universale della terra e dell’oceano mondiale. Esso raggiunge questa profondità soprattutto dopo il completamento della concezione della terra come corpo planetario, dunque soltanto a partire dal secolo XVI. Esso consiste, a differenza di tutti i casi precedenti che si possono osservare, come Atene-Sparta o Cartagine-Roma, nell’orizzonte del tutto diverso di una rivoluzione spaziale mondiale» (12). E ancora una volta muta la “forma” della guerra, in un modo che nemmeno Platone poteva prevedere , benché quella che alcuni storici denotano come “l'era di Colombo” o “l'epoca di Vasco de Gama”, cioè i tre secoli dopo il 1500, sia un'epoca in cui solo gradualmente si passa dalle piccole navi degli esploratori portoghesi ai potenti vascelli delle Indie orientali che veleggeranno in quei mari un secolo più tardi. Comunque sia, è pacifico che con l'evoluzione di navi a vela oceaniche armate (ben diverse dalle antiche triremi o dalle galee veneziane) si verifica un sostanziale avanzamento delle potenze navali europee nel mondo, rendendo possibile una fulminea espansione del commercio attraverso l'Atlantico, tanto che il volume di questo commercio aumenta di otto volte tra il 1510 e il 1550, e di tre volte tra il 1550 e il 1610 (13). Si fa largo così la convinzione che chi domina i mari, domina i commerci e chi domina i commerci domina il mondo. Per usare le parole di Ricoeur sopraccitate, in questo “nuovo spazio” si proietta l'ombra dell'illimitata volontà di potenza della talassocrazia inglese e poi di quella (ancor più tracotante) della “Grande Isola d'oltreoceano”. In quest'ottica, il dominio dell'aria non appare altro che la “naturale” evoluzione della talassocrazia statunitense, il cui strumento bellico “per eccellenza” è appunto la portaerei, “regina dei mari e dell'aria”.
  • Sembra perciò che, oltre alla Quadratura cui si riferisce Heidegger, se ne debba prendere in considerazione un'altra; vale a dire quella degli elementi naturali - terra, acqua, aria e fuoco – che secondo i “maestri di sapienza” della Grecia arcaica strutturano anche il nostro “essere nel mondo”. Elementi di cui, in verità, l'uomo non può disporre a piacimento. Come trovare allora la “giusta mescolanza” tra di loro? Come potersi “misurare” con questa nuova sfida? Certamente non è facile rispondere. Ma non si dovrebbe dimenticare quanto scrive un pensatore indubbiamente “realista” come Carl Schmitt riguardo ai “grandi spazi” (intesi come “spazi intermedi” tra il mondo e gli Stati nazione, ormai troppo piccoli) e soprattutto riguardo a quelle che egli stesso definisce come iconografie regionali. Secondo Schmitt, infatti, tali iconografie (essenziali per la formazione dei “grandi spazi”) sono composte da «differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni tradizioni, dal passato storico e dalle organizzazioni sociali. Ricordi, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, abbreviazioni e segnali di sentimento, del pensiero e del linguaggio: tutti insieme compongono l'iconografia di una determinata regione» (14). Ragion per cui un'alternativa multipolare incentrata su un nuovo nomos della terra pare essere l'unica “misura” possibile per porre un freno alla volontà di pre-potenza del Leviatano d'oltreoceano. Non meraviglia allora che l'Autore delle pagine che seguono, grazie alle sue ben note competenze storiche e linguistiche, sviluppi e approfondisca una visione geopolitica delle iconografie delle diverse regioni del mondo, non solo tenendo conto della perenne dialettica “terra-mare”, ma anche e soprattutto mostrando che (geo)politicamente l'uomo abita la terra.


  • Note
  • 1. P. Ricoeur, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano,1983, vol. I, p.308.
  • 2. F. Braudel Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2010.
  • 3. P. Ricoeur, op. cit., p. 309.
  • 4. Ivi, p. 310.
  • 5. M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1985, pp. 96-108.
  • 6. Ivi, p. 103.
  • 7. Ibidem.
  • 8. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G .Calogero e C. Fatta, Firenze, 1963, vol. I. pp. 269-271.
  • 9. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1979, par. 247, p. 232.
  • 10. R. S. Lopez, La nascita dell'Europa, Einaudi, Torino, 1966, p. 12.
  • 11. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino, 2002, p. 5.
  • 12. C. Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma, 2003, p. 148.
  • 13. P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989, pp. 65-66-
  • 14. C Schmitt, op cit.,(ed. 1994), p. 33.

mercoledì 23 aprile 2014

IL KATECHON RUSSO


«La punizione dei criminali di guerra avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme solo apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto accettare che i propri cittadini, ritenuti responsabili di crimini di guerra, venissero processati da una corte internazionale. E questa avrebbe dovuto essere un’assise imparziale e con una giurisdizione ampia e non un tribunale di occupazione militare con una competenza fortemente selettiva» (1). Benché possa sembrare strano, questo giudizio sui processi di Norimberga e di Tokyo non è di Carl Schmitt ma del filosofo e teorico del diritto Hans Kelsen. Come Benedetto Croce, o altri pensatori liberali non ancora così intellettualmente “corrotti” e disonesti come quelli che oggi sono al servizio dei “mercati” e del circo mediatico occidentale, Kelsen si rendeva perfettamente conto che usare il diritto come uno strumento bellico per punire i vinti legittimava qualsiasi azione commessa dai vincitori (o dai più forti) ed equivaleva a creare una nuova barbarie, indipendentemente dalla questione della “giusta condanna” dei crimini commessi dai nazionalsocialisti o dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Lo stesso Kelsen al riguardo non esitò a sostenere: «Se i principi applicati nella sentenza di Norimberga dovessero diventare un precedente, allora al termine della prossima guerra i governi degli Stati vittoriosi giudicherebbero i membri degli Stati sconfitti per aver commesso delitti definiti tali unilateralmente e con forza retroattiva dai vincitori. C’è dunque da sperare che questo non avvenga» (2).

In effetti, fino agli anni Settanta del secolo scorso – ossia quando ancora (pur in presenza di una lotta politica caratterizzata da forti e radicati pregiudizi ideologici) non vi era il totalitarismo mentale del politicamente corretto – era naturale ritenere che i processi internazionali del dopoguerra fossero stati utilizzati dai vincitori a fini propagandistici e per nascondere i propri crimini (3). Nondimeno, la “patologia” normativa e giudiziaria che era alla base di quei processi, si è riproposta con l’istituzione della Corte penale internazionale e dei Tribunali ad hoc per il Ruanda e la Jugoslavia, che ovviamente hanno dato pessima prova di sé (né potevano non darla tenendo presente il giudizio di Kelsen sui tribunali internazionali del dopoguerra). Non ci si può meravigliare quindi per la vergognosa assoluzione di noti criminali di guerra croati e bosniaci da parte dei giudici del Tribunale ad hoc per la Iugoslavia o per il grottesco comportamento del procuratore della Corte penale internazionale, Moreno Ocampo, un imbelle agli ordini dell’oligarchia occidentale, pronto ad accusare Gheddafi di crimini contro l’umanità, benché non vi sia «concetto più vago e sfuggente della stessa nozione di “crimini contro l’umanità”», mentre com’è noto nessun Tribunale ad hoc viene istituito contro gli Stati Uniti per i «crimini infami che hanno commesso ad Abu Graib, a Bagram, a Guantánamo e continuano a commettere in Afghanistan» (4).

Del resto, le aggressioni compiute dal Paese nordamericano e dai suoi principali alleati dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica sono così numerose e così gravi da non lasciare alcun dubbio su quel che l’Occidente ormai intende per diritto internazionale. Non solo gli Usa hanno aggredito dei Paesi senza l’autorizzazione dell’Onu (Serbia e Iraq) o sono andati ben oltre l’uso “legittimo” della forza sia in Iraq che in Afghanistan (violando quindi sia lo ius ad bellum – il diritto di muovere guerra – che lo jus in bello – le norme da rispettare in guerra) (5), ma addirittura insieme ad altri Paesi della Nato hanno utilizzato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza (6) non per difendere il popolo libico ma per aggredire e rovesciare la Giamahiria, bombardare paesi e villaggi in cui vi erano dei sostenitori di Gheddafi e supportare con l’aviazione bande di fanatici e terroristi, finanziate e appoggiate dal Qatar (infischiandone pertanto della cosiddetta “no fly zone” che era solo un pretesto per invadere la Libia e “liquidare” Gheddafi). Ma all’aggressione contro la Libia si deve aggiungere pure il sostegno degli Usa all’aggressione contro la Siria di Assad da parte delle bande islamiste e dei terroristi al soldo dell’Arabia Saudita e del Qatar (due Paesi tra i più illiberali e autoritari che vi siano oggi sulla faccia della terra). Né si può passare sotto silenzio l’ignominioso tentativo degli Usa e dei cosiddetti “ribelli” di addossare al governo siriano la responsabilità di aver usato delle armi chimiche, che sono state invece impiegate, con ogni probabilità, dai “ribelli” stessi per giustificare un intervento degli Usa, dato che. le due petromonarchie del Golfo non sono in grado di raggiungere i propri (ignobili) scopi in Siria, soprattutto per l’eccezionale resistenza opposta dall’esercito siriano.

D’altronde, si sa che gli Stati Uniti, tramite numerosi agenti strategici (Ong, fondazioni, istituzioni internazionali, gruppi finanziari e così via), fanno il possibile per rovesciare regimi a loro non graditi. Basti pensare alle nefandezze commesse dagli Usa in America latina (in cui non si conta il numero delle violazioni del diritto internazionale che hanno compiuto gli statunitensi) o al ruolo che Washington ha svolto nelle cosiddette “rivoluzioni colorate”, avvalendosi degli insegnamenti di Gene Sharp, ma applicandoli secondo i parametri della Cia e “integrandoli” con altre “lezioni”, come quelle del famigerato colonnello Robert Helvey, membro dell’Albert Einstein Institution (l’istituto fondato da Sharp ed integrato nel dispositivo della rete Stay-behind nei Paesi alleati dal generale Edward B. Atkeson, quando era distaccato dall’esercito statunitense presso la Cia) e probabilmente presente pure a Kiev durante la “rivoluzione” arancione, nel novembre del 2004 (7). Né meno significativo è il fatto che, malgrado lo scioglimento del Patto di Varsavia sia avvenuto nel 1991, la Nato non solo abbia ridefinito la sua funzione politico-militare in chiave spiccatamente offensiva ma, a partire dagli anni Novanta, abbia cominciato una lunga marcia verso est, una sorta di Drang nach Osten, creando così anche le condizioni perché gruppi di estremisti nazionalisti e addirittura neonazisti potessero rovesciare con la violenza il legittimo governo ucraino (certo corrotto e inetto, benché non più di tanti regimi liberal-democratici occidentali, a cominciare da quello italiano).

A tale proposito, perfino un analista “moderato” come Gianandrea Gaiani ha riconosciuto che «i programmi politici formulati apertamente da questi movimenti non sarebbero legali in Europa ma evidentemente nell’ambito del progetto di sottrarre l’Ucraina all’orbita russa e assestare un duro colpo strategico ed economico a Mosca anche i nazisti possono diventare utili alleati da difendere mobilitando le forze della Nato» (8). E’ evidente allora qual è l’obiettivo geostrategico che i circoli occidentali perseguono in Ucraina: colpire il nemico principale del mondialismo made in Usa, ovvero la Russia di Putin nonché il suo progetto di Unione Eurasiatica, che rischia di mandare all’aria parecchi piani dell’oligarchia occidentale. In effetti, è l’intera strategia Nato di questi ultimi anni che è in gioco a Kiev. Si tratta cioè di completare lo schieramento di forze aeree (F-16, F-15 e Awacs) in Polonia e negli Stati baltici con l’installazione di uno scudo antimissile, di radar e sensori vari. E tutto questo alle porte di Mosca, cercando di prendere pure la base navale di Sebastopoli, perché la possa utilizzare la Sesta Flotta Usa, che da un pezzo scorrazza avanti e indietro anche nel Mar Nero, oltre che nel Mediterraneo.

Indicativo della tracotanza dell’Occidente è pure il fatto che questa volta i circoli euro-atlantisti abbiano voluto e potuto giocare a carte scoperte, tanto erano sicuri di farla franca, dato che il fariseismo in Occidente ha messo così salde radici che gli Usa possono permettersi di compiere qualsiasi soperchieria certi di non suscitare la condanna e la riprovazione da parte di un’opinione pubblica europea, ormai talmente condizionata dai media mainstream che pare perfino disinteressata all’impoverimento e alla deindustrializzazione di buona parte del Vecchio Continente. Non meraviglia allora la presenza in piazza Maidan di personaggi come McCain e di altri noti “vip” occidentali (tra cui l’onnipresente demagogo “liberal-sionista” Bernard Henry Levy), né quella di “misteriosi” cecchini che sparavano sia sui manifestanti che sui poliziotti (una tecnica di provocazione ormai tristemente nota, poiché impiegata anche altrove, Siria inclusa). Né sorprende che la Nuland abbia ammesso che gli Usa hanno speso cinque miliardi dollari per allineare l’Ucraina agli interessi di Washington o che si sia arrogata il diritto di scegliere, insieme all’ambasciatore degli Usa in Ucraina, il governo da installare a Kiev, in seguito al colpo di Stato.

Tuttavia, in Ucraina, come in Siria, gli statunitensi sembrano aver fatto i conti senza l’oste. Oste che non è tanto (o solo) la Russia di Putin quanto piuttosto quella parte del popolo ucraino che al gioco (sporco) della Nato e dei circoli euro-atlantisti non ci vuole proprio stare. Infatti, anche a prescindere dalla questione del golpe e dell’azione “allo scoperto” degli “agenti” di Washington e della stessa Ue, è indubbio che in Ucraina orientale e in Crimea il popolo (quello “vero”), appoggi la causa della Russia contro la protervia dell’Occidente. Non si spiegherebbe altrimenti «il 97 per cento dei voti a favore del distacco da Kiev o il fatto che 16 mila dei 18 mila soldati ucraini presenti in Crimea hanno cambiato uniforme e oggi operano agli ordini di Mosca» (9). Inoltre, nonostante le menzogne dei principali media occidentali – non a caso allineati con quelli del Qatar, proprio come accadde per la cosiddetta “primavera” araba – nei giorni caldi dell’“insurrezione popolare” a pochi isolati da piazza Maidan non vi erano disordini e anche il resto del Paese era tranquillo; ragion per cui sarebbe da ingenui, come scrive lo stesso Gaiani, «credere alla sollevazione di massa degli ucraini contro il governo filo russo di Viktor Yanukovic». (10)

Ma le vicende dell’Ucraina insegnano pure che la storia non la si può ignorare o “manipolare” facilmente. La Russia non ha dimenticato né l’aggressione di Carlo XII di Svezia., le cui ambizioni finirono a Poltava nel 1709, né quella di Napoleone, che in Russia perse quasi 500.000 soldati (200.000 prigionieri e probabilmente 270.000 morti in combattimento o durante la ritirata), né naturalmente quella di Hitler. E gli attuali confini dell’Ucraina sono stati tracciati, in sostanza, dai soldati dell’Armata Rossa, che proprio nell’Ucraina orientale nell’agosto del 1943 inflissero ai tedeschi una sconfitta decisiva con l’operazione Polkovodets Rumyantsev (10) – forse l’operazione più importante di tutta la Seconda guerra mondiale, poiché con essa i russi stapparono l’iniziativa strategica ai tedeschi. E anche la Crimea (ceduta all’Ucraina nel 1954) è intrisa del sangue dei soldati dell’Armata Rossa: Sebastopoli solo dopo lunghi mesi d’assedio venne conquistata da von Manstein (nel giugno del 1942), e i tedeschi dovettero impiegare tutta la loro superiore potenza di fuoco per aver ragione della resistenza russa (compresi dei giganteschi pezzi d’artiglieria, tra cui il Dora, un cannone da 800 mm). Nel 1944 però la Crimea riconquistata dall’Armata Rossa, che liberò anche i territori di tutta l’Ucraina, anche se in tale operazione trovò la morte il generale Vatutin (uno degli artefici della vittoria russa a Stalingrado), ucciso proprio da nazionalisti ucraini.

Vi è allora ragione di ritenere che il “grande gioco occidentale” in Eurasia, che confonde l’arbitrio, l’arroganza e la menzogna con il diritto internazionale, non darà agli americani e agli euro-atlantisti frutti migliori di quelli che poterono raccogliere Carlo XII, Napoleone o Hitler. Il che però non significa che non ci si debba preoccupare. Ha scritto Paul Craig Roberts: «Ottenere il cambio di regime in Ucraina con soli 5 miliardi di dollari sarebbe un affare, in confronto alle enormi somme sperperate in Iraq (3.000 miliardi), Afghanistan (3.000 miliardi), Somalia e Libia, o al denaro che Washington sta sprecando per assassinare persone tramite i droni in Pakistan e Yemen, o che ha speso per supportare Al Qaeda in Siria, o alle somme enormi che Washington ha sprecato per circondare l’Iran con 40 basi militari e numerose flotte nel Golfo Persico, nello sforzo di sottomettere l’Iran con il terrore» (11). Di fatto, è da tempo che gli Stati Uniti fanno questo tipo di “guerra asimmetrica”, dacché costa di meno e può rendere molto di più di quella “tradizionale”, benché, naturalmente, vi sia sempre la possibilità di impiegare, se necessario, altri mezzi (dai caccia alle navi da guerra, dai carri armati ai cannoni). In ogni caso, è innegabile che il sistema occidentale “americanocentrico”, per raggiungere i propri scopi, sappia usare i “mercati”, i media, le Ong e perfino lo stesso diritto internazionale piegandolo alla propria “volontà di potenza”. La Russia sembra però non solo averlo compreso ma essere pure disposta a mettere un freno alla prepotenza dell’Occidente proprio in terra d’Ucraina. Un siffatto nuovo corso (geo)politico sarebbe certo positivo, giacché, se non si vuole finire nel tritacarne del “mercato globale” made in Usa, si devono appoggiare e promuovere tutte quelle azioni che possono frustrare i disegni di egemonia globale degli Stati Uniti, anche se ciò non comporta che non vi sia il rischio che la nuova “guerra fredda” si trasformi in una “guerra calda”. Ma di questo si dovrebbe essere consapevoli senza lasciarsi ingannare dalle ciance del circo mediatico sulla questione della violazione del diritto internazionale.

Comunque sia, dovrebbe essere chiaro che non occorre essere degli “esperti” per rendersi conto della strumentalizzazione del diritto internazionale che viene fatta dagli Stati Uniti, né per comprendere che le ragioni (geo)politiche prevarranno sempre su quelle del diritto, almeno finché gli Stati Uniti non rinunceranno a dominare il mondo. Leggere allora il conflitto tra potenze a lume di geopolitica, anziché con il metro del diritto internazionale (che certo è indispensabile), è necessario se si vuol comprendere la realtà per quel che effettivamente è, invece di dare per scontato che essa sia come dovrebbe essere, o meglio come si pensa che debba essere. Anche sotto questo aspetto, quindi, la questione dell’Ucraina ha molto da insegnare, tanto più che il nuovo corso della (geo)politica di Putin pare riservare alla Russia il ruolo del katechon sul piano mondiale, ossia quella funzione che è condizione necessaria per mettere “in forma” la guerra, fredda o calda che sia; vale a dire che è condicio sine qua non perché le “regole del gioco” siano veramente rispettate da tutti i “giocatori”.

NOTE

1. Citato in Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 144.

2. H. Kelsen, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, “The International Law Quarterly”, 1 (1947), 2, p. 171.

3. Al riguardo Zolo ricorda anche il noto saggio di B.V.A. Röling, The Nuremberg and the Tokyo Trials in Retrospect, in C. Bassiouni, U.P. Nanda (a cura di), A Treatise on International Criminal Law, Charles C. Thomas, Springfield, 1973. (vedi Danilo Zolo, Il doppio binario della giustizia penale internazionale, “Jura Gentium”, http:// www. Juragentium. org/topics/wlgo/it/double.htm).

4. Libia, “Chi dice umanità”, intervista a Danilo Zolo (vedi http:// www.ariannaeditrice. it/articolo.php?id_articolo=37973).

5. Sulla illegittimità delle guerre del Golfo (1991), del Kosovo e dell’Afghanistan vedi Tecla Mazzarese, Guerra e diritto. Note a margine di una tesi kelseniana, “Jura Gentium” (http: //www.juragentium.org/topics/wlgo/it/guerra.htm). Tecla Mazzarese osserva giustamente : «L’eventuale titolo di legittimazione di una guerra viene meno […] se le forme e i modi in cui essa viene combattuta violino i principi del diritto umanitario (i canoni del jus in bello); in particolare, se ed in quanto violino il principio di proporzionalità (dei danni inflitti rispetto al male subito) e il principio di discriminazione (tra combattenti e non combattenti)».

6. Risoluzione illegale sia perché «nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato», sia perché «nessuno può pensare che la guerra civile in atto in Libia [poteva] essere una minaccia internazionale contro la pace», Libia, “Chi dice umanità”, cit.

7. Thierry Meyssan, L’Albert Einstein Institution: la non-violence version CIA (http: //www. voltairenet.org/ L-Albert-Einstein-Institution-la).

8. Gianandrea Gaiani, Quei nazisti che piacciono tanto a Ue e Nato, “Analisi Difesa ( http:// www. Analisidifesa. it/2014/03/quei-nazisti-che-piacciono-tanto-a-ue-e-nato/).

9. Ibidem. Ma gli occidentali – che pure hanno sostenuto la secessione della Croazia (pur sapendo che cosa avrebbe comportato), quella del Kosovo (appoggiando l’Uck, ossia un gruppo di terroristi) per insediarvi un base militare degli Usa, e quella del Sud Sudan (ricco di petrolio) contro la penetrazione cinese in Africa – ritengono evidentemente che gli abitanti “russofoni” della Crimea non abbiano altri diritti se non quelli che riconosce loro la comunità internazionale, ossia gli Usa e i loro principali alleati.

10. Gianandrea Gaiani, Attacco alla Russia, (http://www.analisidifesa.it/2014/03/attacco-alla-russia/).

11. Al riguardo mi permetto di rimandare a Seconda guerra mondale: geopolitica e terra bruciata (http://www.eurasia-rivista.org/seconda-guerra-mondiale-geopolitica-e-terra-bruciata/6507/).

12. Paul Craig Roberts, Di nuovo sonnambuli (vedi http:// www. Arianna editrice. it/articolo.php?id_articolo=47639).

sabato 8 marzo 2014

RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA, "EURASIA" /I/2014

EUROPEISMO CONTRO EUROATLANTISMO
di Fabio Falchi
Che l’euroscetticismo abbia messo salde radici in tutta Europa non può sorprendere tenendo conto degli squilibri che si sono generati con l’introduzione dell’euro. Né può sorprendere che tali squilibri vengano considerati come la prova del fallimento dell’Unione Europea. Tuttavia, prendendo in esame la questione dell’unificazione dell’Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si può facilmente mostrare che già De Gaulle (al di là dei suoi evidenti “limiti” ideologici e politici) aveva compreso l’importanza di distinguere l’europeismo dall’euroatlantismo. Una differenza oggi più che mai decisiva per l’indipendenza e la prosperità dell’Europa.

http://www.eurasia-rivista.org/rifondare-lunione-europea-3/21185/

venerdì 21 febbraio 2014

L'UCRAINA NELLA MORSA ATLANTSTA

Quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina dimostra che si è ben lungi dalla formazione di un autentico equilibrio multipolare. In sostanza, nonostante il cosiddetto ”declino relativo” degli Stati Uniti, è ancora la grande talassocrazia americana a condurre il “gioco geopolitico” a livello globale, sulla base di rapporti di potere che si configurano come espressione di un agire strategico che mira ad assicurare una indiscussa “posizione egemonica” all’America e ai diversi gruppi di interesse che l’America rappresenta e tutela, in quanto potenza capitalistica predominante.

Il fatto che sia fallito il tentativo statunitense di imporre un nuovo ordine mondiale sfruttando il “vuoto geopolitico” creato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, non esclude infatti che gli Usa possano impedire che si formi un equilibrio multipolare in grado di limitare e ridimensionare la superpotenza d’oltreoceano. La stessa “geopolitica del caos” ha la sua vera ragion d’essere nel prolungare una fase storica di transizione, per ostacolare la nascita di una autentica alternativa multipolare e al tempo stesso cercare di “ri-creare” le condizioni necessarie per formare un nuovo sistema unipolare, ovverosia più flessibile e, per così dire, “a geometria variabile”. Compreso che non si può fare tutto da soli e preso atto dei pericoli derivanti da una “sovraesposizione imperiale”, l’America di Obama ha scelto quindi di modificare strategia, optando per una sorta di “approccio indiretto”, che sotto il profilo geostrategico sembra essere anche più “pagante” di un intervento diretto della superpotenza d’oltreoceano, in quanto permette di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. Del resto, è noto che l’egemonia è un portato non solo della potenza militare e delle conquiste territoriali, ma anche del controllo dei commerci e della superiorità tecnologica e culturale. In definitiva, tale strategia consiste nel lasciare maggiore libertà d’azione a gruppi “subdominanti”, sia che si tratti di alleati particolarmente fidati, come nel caso della vergognosa aggressione alla Libia e ovviamente di quella alla Siria, sia che si tratti di élites locali. In questo caso abbiamo la serie delle rivoluzioni o primavere “colorate”, in cui decisiva è l’azione di Ong occidentali e di organizzazioni come Otpor. E questo è appunto anche il caso dell’Ucraina.

Le tensioni sociali e il malcontento a causa della politica di Yanukovich, benché non siano un’invenzione dell’Occidente (ma forse che in Italia o in Grecia, ad esempio, non sono presenti gravi problemi sociali e un forte malcontento per le scelte imposte dalla “troika”?), non spiegano affatto quel che succede in Ucraina, anche se tali difficoltà interne vengono strumentalizzate dai media mainstream al fine di giustificare l’aggressione contro il governo ucraino che si vuol far cadere ad ogni costo. La tecnica è nota. Prima si creano, agendo su quelle “fratture” presenti in ogni Stato, le condizioni per una insurrezione perché avvengano incidenti e scontri attribuendo alle forze governative ogni sorta di crimini e misfatti, spesso proprio quelli commessi dai “ribelli”; poi scatta la condanna della “comunità internazionale” con sanzioni e la richiesta di cambio di regime. Gli episodi di violenza si moltiplicano, mentre nel Paese agiscono i membri delle solite Ong e i “ribelli” godono dell’appoggio incondizionato dei media mainstream. Naturalmente, questo è possibile grazie al pressoché totale controllo dell’opinione pubblica occidentale da parte dei centri di potere atlantisti che sanno benissimo che il conflitto bellico in senso stretto è parte di un conflitto ben più vasto, in cui svolgono un ruolo di primo piano la finanza, i mezzi di comunicazione e perfino (ed è di vitale importanza capirlo) il sistema educativo (dato che dissolvere ogni differente identità da quella occidentale politicamente corretta, che non sia cioè favorevole al mercato globale “americanocentrico”, è senza dubbio fondamentale per la strategia atlantista).

Ma la nuova strategia americana trae vantaggio anche da altri fattori. In primo luogo, i gruppi dominanti e, in generale, i ceti sociali più abbienti dei Paesi occidentali (ma non solo di questi), ovvero coloro che occupano o controllano la maggior parte dei posti che veramente contano in un sistema sociale ed economico complesso come quello occidentale (e ciò vale a maggior ragione per Paesi caratterizzati da una struttura sociale e produttiva meno articolata di quella occidentale), non possono non appoggiare la politica di potenza degli Usa, al di là di alcuni “distinguo” funzionali a particolari interessi nazionali o settoriali, giacché senza il gendarme d’oltreoceano le basi stesse del loro potere e dei loro privilegi sarebbero assai meno sicure. Tanto che è lecito affermare che ormai egemonia atlantista e sistema di potere oligarchico o meglio ancora plutocratico simul stabunt simul cadent. Inoltre senza un “blocco di potere” eurasiatico gli atlantisti hanno campo libero quasi ovunque e possono facilmente destabilizzare quegli Stati come l’Ucraina il controllo dei quali è necessario per impedire qualsiasi alternativa multipolare. E questo mentre ciascuna potenza eurasiatica (grande o media) pare “marciare” per conto proprio, in un’ottica nazionalistica, senza neppure comprendere che per contrastare efficacemente l’azione dei media e delle Ong occidentali bisognerebbe sostenere anche in Europa, se non in America, quei gruppi che si oppongono all’atlantismo. I risultati di tale miopia strategica sono palesi a chiunque.

In tale contesto internazionale è naturale che i diversi attori geopolitici tendano a seguire le regole dettate dai centri di potere atlantisti (il complesso politico, militare e industriale statunitense, di cui è parte costitutiva e sempre più influente la grande finanza angloamericana, nonché l’Fmi, la Banca mondiale, la Bce, i servizi di alcuni Paesi occidentali, le Ong più potenti come quelle legate a Soros, alcuni attori geopolitici regionali di particolare importanza, come l’Arabia Saudita e Israele, e così via), mentre gli Usa possono violarle praticamente come e quando vogliono. Se i numerosi agenti strategici occidentali possono non essere d’accordo su quali debbano essere le “regole del gioco” e possono farsi pure la guerra tra di loro (giacché solo i “complottisti” pensano che tutto sia pianificato e perfettamente sotto controllo; mentre è l’agire strategico, ben diverso dai “complotti”, che rileva ai fini di un’analisi geopolitica, che sempre deve tener conto di una molteplicità di fattori che interagiscono fra di loro, delle conseguenze non intenzionali delle azioni e dell’“attrito” che può far fallire anche il migliore piano strategico), certo non mettono in discussione quale deve essere la potenza predominante né quale deve essere il ruolo di tale potenza sul piano geopolitico ed economico. Si è venuta a creare pertanto una paradossale situazione asimmetrica che consente ad una sola parte di colpire duro, sopra e sotto la cintura, mentre le altre si devono giustificare anche per i colpi che riescono a schivare.

Al riguardo, significativo è proprio quanto sta accadendo in Ucraina. L’ingerenza negli affari interni di questo Paese da parte dell’Occidente è evidente a tutti ma nessuno se ne meraviglia o ha il coraggio di denunciarla apertamente. Si immagini quale sarebbe invece la reazione dei media mainstream se quanto accade in Ucraina dovesse accadere negli Usa o in un altro Paese occidentale. Eppure, nonostante che i “ribelli” ucraini non esitino a sparare contro la polizia e le forze di sicurezza di un governo legittimo (perché è indubbio che Yanukovich sia stato regolarmente eletto dal popolo ucraino) continuano ad essere definiti dai media occidentali come semplici “manifestanti”. Nemmeno il fatto che tra di loro vi siano pericolosi gruppi di estremisti e addirittura gruppi filo-nazisti induce alla cautela l’Occidente. Ma quel che più rileva è che il bersaglio che gli atlantisti vogliono colpire è la Russia, il vero “nemico geopolitico” degli Usa. Ed ogni mezzo – dalla strumentalizzazione della questione gay al terrorismo islamista – va loro bene pur di indebolire e destabilizzare il Paese che in Eurasia potrebbe “fare la differenza”. Ossia la Russia di Putin contro il quale da un pezzo viene impiegata la nota tattica della reductio ad Hitlerum.

Quindi ancora una volta è in Europa e nel Mediterraneo che si gioca la partita geostrategica decisiva in questo tormentato inizio di millennio. E non perché la Cina non conti, ma anzi proprio perché la Cina conta sempre più. A tale proposito non ci si deve far trarre in inganno dalle analisi di certi “esperti” che non sono altro (sia pure spesso inconsapevolmente) che gli altoparlanti della Cia e immaginano che la sfida globale tra gli Usa e la Cina sarà decisa da qualche battaglia aeronavale come quella di Midway nel 1942, che cambiò il corso della guerra tra gli Usa e il Giappone. Certamente un “regolamento bellico dei conti” (nel senso stretto di questa espressione) è sempre possibile (e non si dimentichi che il 28 luglio prossimo saranno passati esattamente cento anni dalla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, ossia dallo scoppio della Grande Guerra), ma è soprattutto al più alto “livello geopolitico” che nell’era nucleare è necessaria una strategia fondata sull’“approccio indiretto”, sul “mascheramento”, sull’“asimmetria”. In poche parole si devono aggirare gli ostacoli per colpire il “ventre molle” dell’avversario. E per questo sono indispensabili dei gruppi (non necessariamente “manovrati”) che agiscano all’interno del Paese nemico come “quinte colonne”, tanto più indispensabili per evitare la nascita di un “blocco eurasiatico” che significherebbe il fallimento della geostrategia statunitense, rendendo impossibile conseguire quello scopo che gli Stati Uniti cercano di perseguire, con indubbia tenacia e notevole coerenza, perlomeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Vale a dire il controllo geopolitico dell’Eurasia. Del resto, un tale “blocco” funzionerebbe come calamita per la stessa Europa sempre più subalterna alle logiche atlantiste dei “mercati” e del finanzcapitalismo d’oltreoceano, e comporterebbe con ogni probabilità una ridefinizione degli equilibri geopolitici nel Vicino (e Medio) Oriente. Da qui la necessità per i gruppi atlantisti di impedire ad ogni costo alla Russia di tornare a svolgere un ruolo di protagonista nello scacchiere mondiale. Ragion per cui è ovvio che tali gruppi si adoperino per indebolire i legami della Russia con i suoi alleati e per alimentare le tensioni sociali nel grande Paese eurasiatico, minacciando la sua sicurezza nazionale ma sapendo bene di poterlo fare, rebus sic stantibus, senza correre il pericolo di una reazione uguale e contraria né da parte della Russia né da parte di altri Paesi (Cina compresa).

Facile allora per l’Ue (che nella vicenda ucraina ha veramente “toccato il fondo” interpretando la parte del servo sciocco) e soprattutto per gli Stati Uniti far leva sul sentimento anti-russo della parte occidentale dell’Ucraina e su gruppi violenti pronti a tutto pur di far cadere Yanukovich. D’altronde, già nella Seconda guerra mondiale il nazionalismo ucraino era una realtà politica tutt’altro che ben definita: alcuni nazionalisti ucraini combatterono a fianco dei tedeschi, altri contro i tedeschi e i russi (nella primavera del 1944 lo stesso generale sovietico Vatutin, dopo che aveva liberato Kiev, venne ucciso da guerriglieri ucraini). L’Occidente dunque gettando benzina sul fuoco che sta bruciando l’Ucraina, come accadde, mutatis mutandis, negli anni Novanta per quanto concerne la Iugoslavia (e ancora una volta si deve sottolineare il ruolo della Germania che pare agire solo in funzione dei propri interessi economici, senza preoccuparsi delle conseguenze politico-strategiche che ne possono derivare), rischia pure di evocare forze che difficilmente possono essere controllate, benché l’Ucraina sia legata alla Russia da vincoli che non possono essere spezzati (per capirlo è sufficiente aprire un libro di storia e leggere qualcosa sul principato di Kiev e Vladimiro I la cui conversione al cristianesimo, alla fine del X secolo, aprì le porte di tutta la Russia alla chiesa ortodossa).

In ogni caso, il fatto che adesso sembra che si sia trovata una soluzione politica alla crisi in Ucraina, grazie ad un’azione diplomatica di Usa, Ue e Russia, conferma (non smentisce) il “doppio gioco” dell’Occidente. Meglio comunque non fare previsioni fintanto che la situazione è così fluida. Ma si può essere certi che se gli strateghi atlantisti dovessero fallire “ci riproveranno”, in Ucraina o altrove. Né si può fare alcun affidamento su questa Unione Europea per cambiare lo “stato delle cose” sotto il profilo geopolitico (e invero anche sotto il profilo sociale ed economico). Nondimeno non sarebbe impossibile ripagare i gruppi atlantisti con la loro stessa moneta, ma per questo occorrerebbe una visione strategica globale, che, oltre a dar vita ad una solida alleanza politico-militare tra potenze eurasiatiche (non impossibile, perché avrebbe uno spiccato carattere difensivo) al fine di porre un freno alla prepotenza degli Usa e della Nato, sapesse “combinare” con intelligenza e lungimiranza il soft power con l’hard power. Le potenze eurasiatiche hanno i mezzi e le risorse per farlo. Tuttavia, si deve ammettere che è tutt’altro che scontato che abbiano pure la volontà politica di farlo, rinunciando ad occuparsi solo del proprio “particulare”. Eppure basterebbe comprendere che è proprio qui, in Europa, che l’atlantismo può essere sconfitto.

http://www.eurasia-rivista.org/lucraina-nella-morsa-atlantista/20985/

venerdì 10 gennaio 2014

“EURO-ATLANTISMO” ED “EURO-SCETTICISMO”

E’ indubbio che la “pianta dell’euro-scetticismo” abbia ormai messo forti radici anche nel nostro Paese. Si tratta di un fenomeno comprensibile e, a nostro avviso, in larga misura condivisibile giacché è innegabile che con l’introduzione dell’euro si sia venuto a creare un gigantesco squilibrio tra Paesi dell’Europa Settentrionale e Paesi dell’Europa Meridionale. Squilibrio reso ancora più grave dalla crisi finanziaria che non solo ci è costata 5,5 punti di Pil nel 2009, ma, dopo una leggera ripresa economica nel 2010-2011, ha pure reso possibile l’attacco speculativo da parte dei cosiddetti “mercati”, i quali ovviamente hanno beneficiato non poco dalla cessione della sovranità monetaria dell’Italia alla Bce. Non meraviglia allora che in queste condizioni per l’Italia sia diventato un peso pressoché insostenibile spendere quasi 90 miliardi di euro all’anno per gli interessi sul debito, mentre quest’ultimo continua a crescere insieme con la pressione fiscale, la quale rischia di uccidere la gallina delle uova d’oro, ovvero quella miriade di piccole e medie imprese che, insieme ad alcune (poche) grandi imprese di importanza strategica ed alla invidiabile posizione geografica del Belpaese, sono l’unica nostra autentica “ricchezza nazionale”. Sulla drammatica situazione economica del nostro Paese del resto, i dati dell’Istat (1) sono estremamente chiari: non solo tra il 2008 e il 2012 è stato perso oltre l’80% della crescita realizzata dal 2000 al 2007, ma rispetto al 2001 si è registrata sia una riduzione del numero di imprese dell’industria in senso stretto (-18,4%, ossia 100000 imprese in meno) sia una flessione occupazionale del 17,5% (cioè circa 900000 addetti in meno). E le previsioni per l’anno in corso stimano per l’Italia una diminuzione del Pil dell’1,8%, con una crescita modesta nel 2014 dello 0,7% per l’Istat, dello 0,6% per l’Ocse mentre secondo Standard & Poor’s sarebbe solo dello 0, 4%). (2). Tenendo conto della flessione del Pil negli anni scorsi, è palese che un tale modestissimo tasso di crescita (ammesso che vi sia) significa che in realtà non vi è una vera crescita (né un autentico sviluppo) ma semplicemente che si è in una fase di “stagnazione”. Tanto è vero che la disoccupazione è a livelli altissimi (quella giovanile è addirittura oltre il 40%) e non si prevede che possa diminuire nemmeno nel 2014, mentre si deve registrare anche una diffusione della ”severa deprivazione” superiore alla media europea (9,9%), in quanto sono aumentate le persone in grave disagio economico: nel 2012 erano il 14,5% dei residenti in Italia, 3,3 punti in più rispetto al 2011. (3) Inoltre sempre più preoccupante è il calo del tasso di risparmio delle famiglie italiane, in passato elevato nel confronto internazionale: a partire dal 2009, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è divenuta inferiore a quella media dell’area dell’euro, (4) anche se la ricchezza netta delle famiglie italiane alla fine del 2012 era pari a 8 volte il reddito disponibile lordo. (5)

Particolarmente significativo per comprendere la gravità della crisi che attanaglia il nostro Paese è quanto è accaduto nell’istituto comprensivo di Prato Iva Pacetti: disponendo solo di 5000 euro, su 18 precari che hanno svolto supplenze brevi (insegnanti e personale Ata) sono stati sorteggiati i cinque “fortunati” che avranno lo stipendio (quattro insegnanti e un addetto ai servizi scolastici). E non è un caso isolato perché altri istituti comprensivi e superiori hanno esaurito i fondi del Mef da cui dipende il pagamento degli stipendi dei precari per le supplenze brevi. (6) In realtà, le risorse finanziarie di numerose scuole pubbliche si sono ridotte nel giro di pochi anni di oltre il 50%. E il sistema sanitario nazionale non gode di migliore “salute”. Di fatto, si tratta di situazioni tanto più serie in quanto si sa che diventerebbero la “norma” (indipendentemente dal tasso di crescita!) se si dovessero accettare i diktat della troika (che, tra l’altro, onde far valere le “misure” e le “proporzioni” dei “mercati” non ha certo interesse a mettere in evidenza che, nonostante tutto, la base produttiva del nostro Paese è ancora “sana e robusta”). Nulla di strano allora che buona parte degli italiani veda nell’euro e nell’“Europa dei banchieri” la principale, se non l’unica, causa dei propri guai. E non saremo certo noi a fare l’apologia dell’euro e della Ue. Nondimeno, è semplicistico pensare che basterebbe uscire da Eurolandia per risolvere di punto in bianco i problemi dell’Italia. Al riguardo – al di là dalle questioni tecniche che potrebbero essere risolte (così almeno pare di capire leggendo economisti come Sapir, Amoroso o Bagnai) se ci fosse la volontà politica di risolverle – è di fondamentale importanza comprendere che Eurolandia esiste per precise ragioni geopolitiche. E sono queste ragioni che si devono tener presenti se si vuole uscire dal vicolo cieco in cui ci si trova. Invero, non basta nemmeno scagliarsi contro la “finanza cattiva”, quasi che il cosiddetto “finanzcapitalismo” (termine usato dal sociologo Luciano Gallino) fosse piovuto dal cielo e non fosse frutto delle scelte geopolitiche della potenza capitalistica predominante.

Certamente, non si può negare che ormai la grande finanza occupi una “posizione dominante” in quella che si suole definire l’“élite del potere” statunitense (e, in generale, occidentale). Tuttavia, non si deve dimenticare che fu una decisione politica a sganciare il dollaro dall’oro all’inizio degli anni Settanta – una iniziativa strategica che permise agli Usa di ridefinire gli equilibri internazionali e in seguito, con Reagan, di sferrare un’offensiva decisiva contro l’Unione Sovietica e il socialismo scandinavo. Una rottura unilaterale degli equilibri raggiunti con gli accordi di Bretton Woods nel 1944 (accordi che avevano sancito la fine dell’egemonia della Gran Bretagna e l’inizio di quella degli Stati Uniti) e che, grazie pure alla innovazione tecnologica favorita dalle gigantesche spese militari degli Stati Uniti, permise di ritornare a politiche liberiste e, di conseguenza, di trasformare anche il sistema occidentale (che era basato sulle politiche economiche neokeynesiane), disintegrando le “tradizionali” classi sociali. Né è un caso che proprio all’inizio degli anni Ottanta sia avvenuto quel “divorzio” tra Tesoro e Bankitalia, che è a fondamento della crescita del debito pubblico italiano, né che nella prima metà degli anni Novanta, ossia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si siano create le condizioni per la (s)vendita di gran parte del nostro settore strategico pubblico. Ma naturalmente non è casuale neppure che negli stessi anni Novanta Clinton abbia liberalizzato quasi completamente il movimento di capitali, ponendo le premesse per la successiva crisi finanziaria, o che sia stato messo il carro (l’euro) davanti ai buoi (l’unione politica europea), allorché era chiaro che era impossibile impedire la riunificazione della Germania. In sostanza, la politica, il conflitto sociale e l’economia dei singoli Paesi sono sempre più “sovradeterminati” dagli squilibri/equilibri geopolitici, nel senso che sono parte di una totalità storico-sociale che muta al variare dei rapporti tra i diversi attori geopolitici, e in primo luogo al variare della politica di potenza e della strategia degli Stati Uniti in quanto Stato capitalistico predominante (o qualcuno crede che la globalizzazione “americanocentrica” non abbia alcun significato politico?).

Pertanto limitarsi a dire “no” all’euro, senza avere alcun serio progetto politico da contrapporre a questa Ue, né alcun interesse per i mutamenti che stanno trasformando gli equilibri geopolitici mondiali, non solo è semplicistico e frutto di una rozza visione economicistica del conflitto politico e sociale, ma può portare a scegliere dei rimedi che, se non sono peggiori del male che si vuol curare, non ne rimuovono le cause. Del resto, non dovrebbe sfuggire a nessuno che, rebus sic stantibus, sganciarsi da Eurolandia senza cercare di sganciarsi nel contempo dai “mercati”, ovvero dalla politica di potenza degli Usa, avrebbe ben poco senso. In politica estera improvvisazione e pressappochismo si pagano con “lacrime e sangue”, come insegna anche e soprattutto la storia d’Italia. Occorrerebbe cioè non solo mettere da parte lo spirito di fazione ma agire con ordine mentale e cognizione di causa, giacché battersi contro Eurolandia è indubbiamente necessario ma non sufficiente. Indispensabile sarebbe, oltre che cercare accordi e alleanze con altre forze europee “euro-scettiche”, agire tenendo conto che la maggior parte dei tecnocrati della Ue e soprattutto della classe dirigente italiana, che difende a spada tratta l’euro, sono al servizio degli interessi dei “centri di potere” d’oltreoceano. Il vero “nemico” da battere insomma non è l’Europa ma l’”euro-atlantismo”. In quest’ottica si dovrebbero affrontare il problema dell’euro e la stessa “questione tedesca”, altrimenti rimarrebbero in essere tutti quei meccanismi e quelle condizioni che sono all’origine dei mali che affliggono l’Italia. (Dato che abbiamo già trattato in altri articoli sia la “questione tedesca” che quella dell’indipendenza dell’Europa, qui è sufficiente rilevare che non conta tanto quello che un attore geopolitico vuole fare quanto quello che un attore geopolitico può fare. Di ciò gli Usa sono perfettamente consapevoli, al punto che il rafforzamento del dispositivo militare statunitense nell’Europa Orientale non è solo in funzione anti-russa – che sia in funzione anti-iraniana è assurdo solo pensarlo – ma mira pure a rendere impossibile la formazione di un asse geostrategico “euro-russo”, che metterebbe fine al dominio statunitense sul Vecchio Continente)

D’altronde, si deve riconoscere che non è neppure irrilevante (tutt’altro!) il modo in cui politici e giornalisti “di regime” si stanno comportando nei confronti del movimento dei “Forconi” (ma pure nei confronti di altri gruppi e movimenti). Ignorare le ragioni della protesta popolare o confonderle con le espressioni di rabbia di alcuni di coloro che protestano è un segno inequivocabile del fatto che sta diventando sempre più profondo il solco che separa la classe dirigente italiana dal “Paese reale”. In effetti, è lecito ritenere che il nostro Paese sia maturo per un “cambiamento radicale”, adesso che sono evidenti a chiunque i guasti e i danni causati dal demenziale (anti)berlusconismo che ha dominato la scena politica italiana di questi ultimi due decenni, ma, come giustamente osserva anche Gianfranco La Grassa, (7) un movimento “acefalo” è destinato ad essere sconfitto (come capitava – per intendersi – ai contadini che venivano “regolarmente” massacrati dai cavalieri o dai baroni, ché la rabbia e il valore dei singoli non potevano che infrangersi contro la roccia della disciplina, della tattica e dell’organizzazione). Infatti, vi sono già scissioni e polemiche tra i vari capi della “rivolta”. Eppure la protesta dei “Forconi” (come la crescita dell’“astensionismo” o il successo nelle ultime elezioni politiche del Movimento Cinque Stelle, che pure sta pagando assai caro il fatto di non avere alcuna salda e coerente dottrina politica – una lacuna che non raramente porta i “pentastellati” a difendere posizioni qualunquiste secondo una concezione “ingenua” e superficiale della “reali ragioni” del conflitto politico e sociale), è indice che vi sarebbe spazio per una forza politica che avesse come obiettivo la riconquista della sovranità nazionale (dello Stato!), allo scopo di riguadagnare quei margini di manovra strategica senza i quali (tra l’altro) è impossibile rinnovare il “sistema Italia” e confrontarsi con le sfide dell’attuale fase storica. D’altro canto, se anche Babbo Natale, per così dire, dovesse riuscire a spegnere questo incendio, ce ne sarà certo un altro nei prossimi mesi e con ogni probabilità sarà ancora più vasto. Decisivo sarà quindi se si formerà o no un gruppo politico tale da conferire unità d’azione ai vari movimenti di protesta e che abbia chiaro che non solo non si può ricacciare nel baratro del sottosviluppo un intero continente che si è liberato definitivamente dal “giogo occidentale”, ma che sotto il profilo strategico nulla conta più della lotta contro l’“euro-atlantismo” (in questo senso, si può convenire con La Grassa  che perfino la presenza di un “principe” populista”, ma capace di flessibilità tattico-operativa e con le idee “chiare e distinte” riguardo al fine da perseguire, non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare). Ragion per cui, a nostro giudizio (benché in questi casi l’ottimismo sia l’oppio degli sciocchi), se si vuole evitare che la “nave Italia” affondi, sarebbe necessario trasformare il sistema italiano alla luce di un nuovo orientamento (geo)politico, promuovendo, insieme con altre forze politiche europee, una rifondazione della stessa Ue, ma in primo luogo individuando ed eliminando (politicamente, s’intende) tutte quelle “quinte colonne” che, al fine di tutelare i propri privilegi, da decenni agiscono contro l’interesse nazionale e, in definitiva, contro l’interesse della stessa Europa.







Note



1)http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Per-Pil-e-produttivita-10-anni-persi-in-Italia-bruciato-80-per-cento-della-crescita_32922145056.html

2)http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-12-12/standard-poor-s-economia-italiana-crescera-solo-04percento-2014-161108.shtml?uuid=ABBXkfj

3)http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/12/16/Istat-1-3-rischio-poverta-esclusione-sociale-_9785880.html

4)http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef148/QEF_148.pdf

5)http://www.bancaditalia.it/statistiche/stat_mon_cred_fin/banc_fin/ricfamit/2013/suppl_65_13.pdf

6)http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/toscana/2013/12/15/Prato-sorteggiano-supplenti-pagare_9782041.html

7)http://www.conflittiestrategie.it/quando-finira-il-surplace-di-glg