lunedì 4 luglio 2011

CONFLITTI, STRATEGIE E BENE COMUNE

 Non v'è dubbio che con la fine del bipolarismo e la crisi irreversibile del cosiddetto "socialismo reale" (da non identificare con il "metaracconto" del tramonto delle ideologie, che può essere considerato esso stesso espressione ideologica della postmodernità, in quanto pretende di essere un problematicismo non situazionale, ma assoluto) si sia compresa la necessità di avanzare nuove proposte teoriche, al fine di superare schemi concettuali del tutto anacronistici. Ci si è così potuti anche rendere conto che la tradizionale dicotomia destra/sinistra, più che una adeguata rappresentazione del politico, "maschera" il fatto che, in Occidente, sono gli strateghi del capitale a svolgere la funzione politica che permette di adeguare il sistema sociale alla crescita dell'apparato tecnico-produttivo.
Particolarmente significativo, al riguardo, è il lavoro teorico dello studioso "postmarxista" Gianfranco La Grassa che interpreta l'attuale fase delle società capitalistiche "occidentali" alla luce della politica di potenza degli Stati Uniti, dopo che il progetto americano di conseguire un'egemonia planetaria, mediante una serie di interventi militari in Eurasia, pare definitivamente abbandonato, per lasciare posto ad un "approccio indiretto", incentrato sulla "collaborazione" di gruppi sociali filo-occidentali (rivoluzioni colorate, destabilizzazione tramite l'esportazione dei cosiddetti "diritti umani", azione di "quinte colonne", sostegno all'american way of life etc.) presenti, sia pure in diversa misura, in qualsiasi Paese. Si tratta di un'analisi che, essendo attenta a cogliere l'importanza dei fattori geopolitici per una maggiore comprensione/spiegazione degli eventi storici, ma senza trascurare il conflitto sociale che è alla base della lotta politica, induce ad approfondire non solo la questione dell'interazione che i fattori geopolitici possono avere con i fattori economici, ideologici e culturali, ma pure quella concernente il rapporto tra l'imperialismo americano e la società di mercato. E' evidente, infatti, che, se non si critica la societa di mercato, non è facile giustificare la critica dell'imperialismo americano, dato che è del tutto logico che chi difende le ragioni della società di mercato ritenga che le stesse nozioni di sovranità e interesse nazionale intralcino la creazione di una comunità internazionale basata sul "libero mercato" e che il ruolo predominante degli Usa dipenda (quasi) esclusivamente dal fatto che il loro sistema sociale sia più avanzato e più progredito di qualsiasi altro sistema sociale. Mentre coloro che difendono un'idea di bene comune, a patto che siano coerenti, è naturale che vedano nell'imperialismo americano la forma più aggressiva e più pericolosa di mercificazione delle relazioni sociali, nonché la dissoluzione del legame comunitario e lo sradicamento di qualsiasi ethos diverso da quello angloamericano. D'altra parte, una volta che si sia ammesso che il conflitto strategico tra potenze è fondamentale per capire i fenomeni sociali (inclusi quelli economici), sembra impossibile poter mettere in relazione una nozione come quella di bene comune con quella di agire strategico, senza confondere due diversi ambiti di discorso: etico, o meglio apparentemente solo etico, il primo; politico e geopolitico il secondo.

Sotto questo profilo, è comprensibile allora che la stessa distinzione tra pubblico e privato venga considerata secondaria o addirittura “fuorviante” rispetto alla strategia per lo sviluppo e l'innovazione di un sistema sociale, soprattutto in un contesto politico internazionale contrassegnato dalla instabilità derivante dal passaggio da una fase unipolare ad una multipolare. Nondimeno, non pare eccessivo sostenere che è la stessa analisi strategica del conflitto, politico ed economico, che richiede una tematizzazione della nozione di bene comune, posto che si sostenga che l'interesse generale sia superiore ad interessi settoriali o, se si vuole, che l'interesse nazionale prevalga rispetto agli interessi delle varie lobbies, in conflitto tra di loro. Né si dovrebbe trascurare che, sebbene sia corretto distinguere il politico dalla morale soggettiva, tipica dei moderni, ciò che si intende per “etica” può anche rimandare ad un preciso orizzonte culturale e sociale (si pensi al linguaggio come istituzione cardine della vita di una comunità nazionale), con implicazioni di carattere antropologico e perfino ontologico. Tanto è vero che è su questo aspetto che si concentra la riflessione di Costanzo Preve, che, convinto anch'egli della obsolescenza del paradigma marxista, cerca di "declinare" il comunitarismo di de Benoist in senso aristotelico - evitando così il rischio di un "relativismo assoluto" – avvalendosi anche degli studi di antropologia economica, come quelli di Louis Dumont e di Karl Polanyi. Sì che è lecito ritenere che il discorso filosofico-politico sulla "comunità" – concepita come totalità superiore a (e distinta da) ciascuna della parti di cui si compone - dovrebbe essere interpretato come una riflessione non alternativa bensì complementare rispetto a quella teorica ed analitica sul politico, qualora si reputi essenziale delineare i tratti fondamentali di un agire strategico rivolto a difendere non un (più o meno vago) "dover essere", ma ciò che si (di)mostra "essere" il bene comune. E che siano due pensatori di formazione marxista, a sostenere l'uno (La Grassa) la rilevanza dell'agire strategico, l'altro (Preve) quella del bene comune, per l'elaborazione di una (nuova) teoria critica dell'attuale società di mercato (indipendentemente dal problema delle diverse forme di capitalismo), (1) non pare essere casuale, se la crisi del marxismo si è generata, essenzialmente, dal fatto che si è dovuto prendere atto che non vi è alcun nesso necessario tra la crescita delle forze produttive e lo sviluppo sociale. Non però nel senso che non è, o non è più, la classe operaia il "motore" del progresso, bensì nel senso, assai più rilevante, che tra le forze produttive e lo sviluppo sociale (da differenziare dunque dal mero "progresso", che invece sembra ormai essere una sorta di fatalità "socialtecnologica") vi è un nesso contingente, "non necessario", dipendendo dalla "forma politica" che “articola” l'economico e i rapporti sociali, se il sistema produttivo sia o non sia al servizio dell'interesse dell'intera comunità, come anche la storia di questi ultimi decenni conferma. Venuta meno la concezione (hegelo)marxista di una storia "uni-versale" - ovvero di una progressiva ed inevitabile "auto-manifestazione” dell'essenza dell'uomo - è l'economicismo che non è più in alcun modo giustificabile. Ovviamente, per i liberisti il problema non sembra neanche porsi, giacché secondo loro l'economia di mercato comporterebbe (grazie alla "mano invisibile" del mercato) di necessità una "crescita sociale", allocando le risorse economiche nel miglior modo possibile, al punto che essi considerano la nozione di bene comune solo un "flatus vocis" oppure tendono ad identificarla con il mercato. Ciononostante, oltre a criticare il "dogma" di un sistema economico ritenuto capace di autoregolarsi (e che ancora una volta dopo la Grande Depressione del '29, non solo ha richiesto il massiccio intervento dello Stato per evitare il crollo del sistema, ma si è rivelato essere un formidabile mezzo di destabilizzazione economica e sociale, che tende ad avvantaggiare una parte a discapito di tutte le altre) coloro che criticano la società di mercato possono, come si è già accennato, riferirsi ad una nozione "sostanziale" di bene comune, basandosi non su presupposti ideologici “volgari”, ma sia sulla storia e l'antropologia economica che su una rigorosa ontologia sociale e politica.

Del resto, è noto che le ricerche di Polanyi (ma si devono tener presenti anche i celebri studi di Marcel Mauss e Georges Bataille sull'economia del dono) dimostrano che, prima dell'avvento della moderna società capitalistica, non vi era alcuno spazio economico autonomo (il termine mercato è cioè, a differenza di quel che ritengono i liberisti, un termine equivoco, dato che può denotare realtà affatto diverse e niente affatto una “realtà naturale”) mentre erano le relazioni comunitarie e le istituzioni politiche e religiose a regolare la vita sociale ed economica. (Epperò, è giusto rammentare che anche Marx aveva già messo in luce l'influenza dei fattori non economici nel corso della storia, senza avallare una interpretazione deterministica del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura politica, tanto che, anche se aveva fatto l'apologia del progresso capitalistico, nell'ultima fase della sua vita ebbe a sostenere che era possibile passare direttamente ad una società socialista, ossia senza dover passare prima per uno "stadio capitalistico") (2). Inoltre, è merito dello studioso ungherese aver prestato particolare attenzione alla "mistificazione" su cui si deve fondare la società di mercato per poter funzionare, giacché moneta, terra e lavoro, pur essendo essenziali per il mercato, non sono merci (nessuno di essi è "prodotto per la vendita"); cosicché fingere che essi lo siano è sì possibile, anche se «nessuna società potrebbe sopportare gli effetti di un simile sistema di rozze finzioni neanche per il più breve periodo di tempo a meno che la sua sostanza umana e naturale, oltre che la sua organizzazione commerciale, fossero protette dalle distruzioni arrecate da questo diabolico meccanismo». (3) Un'osservazione, quest'ultima, che rinvia anche al ruolo svolto dalla tecnologia sociale per la produzione e/o manipolazione del consenso, onde poter controllare gli effetti negativi di tale meccanismo per quanto concerne quel "mondo della vita", senza il quale nessun tipo di comunità umana sarebbe possibile. Ma è pure degno di nota che, grazie anche agli studi di Polanyi, sempre più si faccia strada la consapevolezza dell'importanza della filosofia di Aristotele per un approccio di tipo anti-individualistico all'analisi dei fenomeni sociali, dato che allo Stagirita era ben chiaro che solo la funzione politica, subordinando la funzione economica alle "ragioni" dell'intero organismo sociale, poteva impedire alla crematistica ("l'arte di guadagnare") di alterare il rapporto tra mezzo (denaro) e fine (bisogni della comunità) e che si generasse, trasformando il mezzo in fine, un processo ("senza fine") di accumulazione di ricchezza. Ed invece «è esattamente questo il mondo in cui [oggi] viviamo», asserisce de Benoist,«dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti». (4) A giudizio di de Benoist, però non è sufficiente «appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario», dato che occorrono «idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico [per] contestare la globalizzazione in nome dei popoli» e si dovrebbe piuttosto cercare di realizzare «un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa [per] finirla con [...] il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili»; (5) ovverosia, si dovrebbe "oltrepassare” l'homo oeconomicus, facendo leva su una diversa idea dell'uomo, ma senza dimenticare la "lezione" del realismo politico (da Tucidide a Carl Schmitt). E ciò non è altro che rendersi conto del rapporto che sussiste tra agire strategico e bene comune (e usare espressioni quali minimo comun denominatore nazionale o interesse nazionale, non cambia "i termini" del problema); un rapporto che è a fondamento del politico, in quanto opposizione e scelta necessaria tra amico e nemico, anche se i liberali tendono a confondere la critica dello Stato con quella del politico, come se, con la scomparsa lo Stato nazione, dovessero scomparire pure il politico e le funzioni degli apparati coercitivi. D'altronde, se la scienza dei fenomeni economici può, e in qualche modo deve, “astrarre” dalle concrete relazioni sociali e "supporre" che siano fenomeni "isolati" (ma perfino le scienze della natura non possono prescindere completamente dalla cultura e dal linguaggio, come ha dimostrato l'epistemologia contemporanea), è innegabile che, se l'uomo è un animale politico, l'economico non possa non essere parte di una “totalità politica”; e, sotto questo punto di vista, la critica marxiana alle “robinsonate” dell'economia politica è certo da non rifiutare, ché l'individuo non può non “essere insieme con” altri individui, secondo ben definite relazioni politiche e sociali, che distinguono nettamente il rapporto tra uomini dal rapporto tra uomini e cose, considerate come “utilizzabili”, ossia come semplici mezzi (famosa è la dialettica “servo-padrone”, grazie alla quale Hegel mostra come la riduzione di un altro uomo a mezzo, instauri un processo storico assai differente da quello che può condurre l'uomo ad ampliare il proprio “dominio” della natura). E allora pare si debba insistere ancor più sul fatto che, proprio perché la crescita dell'apparato tecnico-produttivo “può” sia promuovere che ostacolare o “distorcere” lo sviluppo umano, è il politico che "decidendo" quale debba essere la "forma" (proprio in senso aristotelico, ovvero intesa come principio che ordina un molteplice, in continuo divenire, secondo un particolare "telos") (6) del mutamento sociale, si rivela essere la "chiave" per cercare di risolvere le contraddizioni della società di mercato. E che siano non semplici opposizioni, ma autentiche contraddizioni non è affatto strano perché, se la società di mercato si compone di forze opposte (semplice opposizione reale, come, ad esempio, tra lavoro e capitale; ma gli esempi si possono moltiplicare) che necessitano di una "mediazione" politica - vuoi per istituzionalizzare il conflitto vuoi per rimuovere qualsiasi "limes" (culturale, "ambientale" e ovviamente politico) che sia di ostacolo alla crescita illimitata del mercato - lo Stato dovrebbe invece, pur con tutti i possibili distinguo, non interferire o interferire il meno possibile con il mercato, per garantirne l'autonomia. Inoltre, la società di mercato “negando” quella sostanza, naturale e umana ( terra e lavoro), senza la quale - come si è già notato - essa stessa non potrebbe esistere, si configura non come l'impossibile “contenuto” di una contraddizione, ma come un “reale” contraddirsi, (7) che essa può “sostenere” solo perché il politico è in grado di gestire le ricorrenti crisi che ne conseguono, mediante la potenza militare, l'innovazione tecnologica e l'industria culturale. Non meraviglia allora che, nella “realtà storica”, per così dire, “dietro” la potenza economica non possa che esserci il “pugno” politico e militare e che sia decisivo il controllo dello Stato (prima di tutto della potenza dominante, poi delle potenze subdominanti), di modo da poter stabilire la strategia che si deve seguire: rafforzamento del Warfare State, finanziamenti pubblici alle banche, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, (s)vendita del patrimonio pubblico, subordinazione del sistema educativo agli imperativi del mercato, acquisizione del "dominio" di determinate aree geografiche, "ristrutturazione" di equilibri geopolitici, “guerre umanitarie” etc. Perciò, "conditio sine qua non" di un'alternativa (reale, non velleitaria o immaginaria) alla società di mercato non può che essere il controllo (non necessariamente la proprietà) politico della moneta e di quei mezzi di produzione che si debbano ritenere strategici per la sovranità e lo sviluppo di un Paese; nonché di quei beni e servizi che, indipendentemente da ogni considerazione economica, non possono essere privatizzati senza favorire la legittimazione della “colonizzazione” della “res publica” da parte del mercato, alterando radicalmente quell'orizzonte di senso condiviso (costumi, tradizioni, memoria storica, lingua etc.), che permette, in linea di principio, a tutti i membri di una comunità di avere una conoscenza "pre-riflessiva" del bene comune; ovvero di quei mondi vitali che, come struttura intersoggettiva dell'esperienza, precedono (onto)logicamente ogni altra attività umana, compresa la tecnoscienza, in quanto anch'essa, nonostante tutto, è una scienza dell'uomo (genitivo soggettivo). Da ciò, però, non deriva in alcun modo che si debba favorire l'ipertrofia della macchina (tecno)burocratica dello Stato (ossia il cosiddetto "statalismo"), funzionale, perlopiù, agli interessi di lobbies e di un ceto medio "semicolto" (come lo denomina La Grassa), che sottraggono ingenti risorse ai settori più dinamici della società e impediscono che si venga a creare un “circolo virtuoso” tra le forze produttive e l'azione politica ed economica dello Stato. Non ne consegue quindi che si debba difendere il settore pubblico solo perché pubblico, giacché vi può essere anche un settore pubblico che sia al servizio non della comunità, bensì di potenti gruppi di interesse, nazionali ed anche stranieri. Necessario è invece che lo Stato, allo scopo di contrastare la logica aberrante dell'oligarchia atlantista e dell'imperialismo, ormai manifestamente criminale, degli Stati Uniti, possa “incastonare” il mercato in un ampio ventaglio di istituzioni, facendo valere ordini, misure e proporzioni in ogni ambito sociale, senza comprimere oltre “misura” la sfera personale, ché anzi responsabilizzazione e autonomia decisionale devono essere sempre incoraggiati, laddove sia possibile. (Si tenga presente che, a differenza del totalitarismo, una concezione olistica della società non nega che vi sia una tensione strutturale tra “esistenza” e storia, poiché il singolo è pur sempre capace di trascendere, in un certo senso, il proprio “ambiente”. Le relazioni sociali e culturali cioè non “esauriscono” la sfera personale, dato che il singolo individuo non è “soltanto” parte di una totalità sociale, sebbene quest'ultima sia l'indispensabile “sostegno” affinché vi possa essere una effettiva trascendenza della concreta situazione storica in cui si radica il nostro “Esser-ci"; tanto che come scrive Luigi Ruggiu, «la nostra identità è insieme duplice ed una: quella segnata dalla comunità alla quale ciascuno di noi appartiene, e quella di ciascuno di noi il cui sé si pone come membro attivo di una comunità storica concreta »). (8)
A tale proposito, non è possibile non considerare che in guerra, ovvero allorché può essere in gioco addirittura l'esistenza stessa di un'intera comunità nazionale, è lo Stato che dirige tutte le forze di una nazione per il raggiungimento di un obiettivo comune. Che ciò dipenda dal fatto che sia una situazione eccezionale è indubbio, ma come insegna Carl Schmitt è l'eccezione che ci fa comprendere la regola, non viceversa. La guerra come “stato d'eccezione” rivela cioè sia la natura metaindividuale (che la tradizionale concezione politica del liberalismo non “com-prende”) della comunità politica sia la “possibilità” che ha lo Stato di “in-formare” e dirigere una collettività non solo in quanto detentore del monopolio dell'uso legittimo della forza, ma anche e soprattutto come  "ragione pubblica" su cui si fonda l'unità di un popolo. Per questo motivo, come von Clausewitz comprese perfettamente, lo Stato può “condurre” quella “ impresa” che è la guerra, non in quanto “macchina”, ma in quanto organizzazione politica “razionale”, ovvero, secondo il teorico prussiano, in quanto intelligenza “personificata” avente la “forza morale”, ossia la "potenza", per chiedere ai cittadini di essere pronti a sacrificare anche la propria vita per il bene della comunità e che ordina, comanda e dispone agendo come un “soggetto unitario” (se per Sun Tzu la guerra può conseguire uno scopo politico basandosi sul Tao, sull'armonia tra il popolo e il sovrano, e se per Machiavelli la strategia dipende dalla saldezza dello Stato, per von Clausewitz, cui non sfugge il ruolo  delle masse nella guerra moderna, "razionalità" politica ed azione di comando devono essere appunto la messa "in forma" delle passioni che caratterizzano un popolo, cioè  della "volontà di potenza" di un popolo). Ed è pacifico che nessun gruppo “privato” possa agire in tal modo, se non trasformandosi in una forza politica (e tantomeno “l'impresa militare” può essere affidata al “libero mercato”, se non per alcuni aspetti della logistica). Parafrasando von Clausewitz allora si potrebbe affermare che l'economico ha una sua grammatica ma non una sua logica, ché solo una logica politica conferisce quell'unità d'azione senza la quale il conflitto sociale e la competizione economica degenerano inevitabilmente in “spirito di fazione”. Un pericolo però, quest'ultimo, che, in effetti, non corre la talassocrazia americana (come non lo correva quella inglese) dato che – e proprio in quanto “talassocrazia” - essa si basa sull'alleanza strategica tra il grande capitale finanziario (per sua “natura” apolide) e lo Stato, di modo che l'apparato tecnico-produttivo si sviluppi secondo una logica politica che favorisca la potenza capitalistica dominante (che può anche contare su una miriade di organizzazioni ed enti internazionali), nonché i “gruppi” e gli Stati subdominanti (come Israele e la Gran Bretagna), e che diffonda in tutto il mondo l'ideologia americanista, onde assicurarsi il consenso delle “masse popolari”, senza il quale la “forza morale” necessaria per alimentare la gigantesca “macchina da guerra” (in senso letterale e figurato) statunitense e dei principali alleati degli Usa verrebbe rapidamente meno. Di fatto, il mercato, lungi dall'essere "politicamente neutro" (né lo sono la maggior parte delle organizzazioni umanitarie e delle Ong che promuovono, anche se sovente in modo surrettizio, la privatizzazione dei diritti sociali) – si rivela essere il “veicolo” attraverso il quale gli Usa e, in generale, il capitalismo finanziario possono conservare e rafforzare la propria egemonia politica e culturale; a tal punto che, in Eurolandia, si è potuto quasi smantellare lo Stato sociale e si è giunti persino a ridurre in “servitù per debiti” interi Paesi. Mentre la crisi irreversibile della socialdemocrazia e del socialismo reale ha originato non il generico indebolimento degli Stati nazione, a vantaggio di organismi cosiddetti “sovranazionali”, ma di quegli Stati nazione, come l'Italia, privi di autentica sovranità nazionale.

Si deve pertanto constatare che, perlomeno in Europa, nonostante la gravissima crisi economico-finanziaria che attanaglia il “mondo occidentale”, e in specie l'America, non vi sono né le condizioni politiche né le condizioni culturali per contrapporsi in modo efficace alla “volontà di potenza” atlantista e, di conseguenza, alla società di mercato. Da un lato, la strumentalizzazione, in funzione antifascista o anticomunista, della “memoria storica”, ovvero dell'estremismo nazionalista e dell'involuzione totalitaria dello Stato nella prima metà del secolo scorso, non solo rende difficile comprendere che l'olismo ed il totalitarismo sono concezioni del tutto diverse, ma blocca ogni tentativo di superare il sistema liberaldemocratico al fine di evitare che gli egoismi corporativi “soffochino” l'unità dello Stato, che non è una “astrazione metafisica”, bensì una “forza reale”, anzi l'unica forza che possa arginare gli “appetiti” illimitati dell'oligarchia atlantista” (e questo lo si deve ribadire “contro” ogni forma “ingenua” di comunitarismo). Dall'altro - pur se è vieppiù palese che la lottizzazione della cosa pubblica, l'abuso dei privilegi, la separazione tra eletti ed elettori e gli innumerevoli “difetti” della democrazia liberale sono inconvenienti strutturali del sistema di potere “occidentale” - l'americanismo, che è appunto un “ismo”, continua ad essere l'orizzonte politico-ideologico delle masse popolari (“occidentali” e non); e si sa che in politica, come in guerra, l'intenzione ostile non basta, ché occorre anche il sentimento ostile; ossia per governare, nel vero senso della parola, occorre il consenso. In questa situazione, quindi è irrealistico pensare che sia possibile smarcarsi dagli Usa o che alcuni membri della classe dirigente di un Paese europeo siano disposti a farlo, magari sfruttando il conflitto tra dominanti (che è inevitabile sia perché non v'è struttura politica che sia monolitica, sia per quella eterogenesi dei fini che fa sì che nessun sistema possa mai considerarsi del tutto autoreferenziale), giacché verrebbe a mancare proprio il consenso popolare, a meno che non si riuscisse a valorizzare le competenze generali e strategiche per ridefinire il bene comune in funzione di un progetto politico e culturale il più possibile “condiviso”. Comunque sia, tenendo conto pure che la quasi totalità delle relazioni personali, culturali e politiche (“libertà” inclusa) in una società di mercato sono mediate dal “potere” del denaro, ciò equivarrebbe più a formulare correttamente il problema del “giusto” rapporto tra il politico e l'economico che non a risolverlo. In ogni caso, anziché immaginare improbabili soggetti rivoluzionari, rischiando di finire nelle file dei “rivoluzionari colorati”, si dovrebbe almeno mirare a (far) comprendere le ragioni politiche per cui converrebbe dar vita ad un "grande spazio" geopolitico opposto a quello angloamericano (tanto più adesso che l'euro sembra rendere inevitabile il fallimento politico dell'Ue, o, se si preferisce, di “questa” Ue). Non perché si debba sostituire la filosofia con la geopolitica, bensì perché “Stato e potenza” dovrebbe essere una “formula politica” tanto realistica quanto “giusta”. Vale a dire che, anche sotto questo rispetto, si conferma che vi è bisogno di una posizione che sappia mettere in relazione l'agire strategico con la difesa di una idea di giustizia. Il che è, in definitiva, il riconoscimento della perenne validità dell'insegnamento della filosofia (politica) dei Greci.

Note

1) Per quanto concerne Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa, ci si riferisce specialmente alla loro produzione intellettuale negli ultimi due decenni. Saggi e/o articoli di entrambi sono disponibili anche in rete (vedi, ad esempio, per Preve, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/e-books_free_01-20.html; mentre per La Grassa http://conflittiestrategie.splinder.com/).
2) Interessanti considerazioni in relazione a questo problema si trovano in Angelo d'Orsi, "Piccolo manuale di storiografia", Bruno Mondadori, Milano, pp.13-16.
3) Karl Polanyi, "La grande trasformazione", Einaudi, Torino, p. 95.
4) Alain de Benoist, "Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo", http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=39052
5) Ibidem.
6) Ciò, di per sé, implica una critica dell'ideologia della crescita, e, in generale, di quel che si suole denominare “il regno della quantità”, ma non per questo si deve giustificare (perlomeno dal punto di vista politico) un semplicistico “rifiuto” della modernità, rinunciando a cercare di «imprigionare la tecnica scatenata, domarla e [...] metterla in un ordinamento concreto» (Carl Schmitt, "Dialogo sullo spazio", in Carl Schmitt, "Terra e mare", Giuffrè, Milano, 1986, p.108). E forse è questo problema che i teorici della decrescita, anche loro più attenti agli aspetti quantitativi della crescita che non a quelli qualitativi dello sviluppo, pare non prendano in sufficiente considerazione.
7) Sulla "realtà" della contraddizione non si può che rimandare all'eccellente saggio di Emanuele Severino "Tramonto del marxismo. Discussione con Lucio Colletti e risposta semiseria a Paolo Rossi", in Emanuele Severino, "Gli abitatori del tempo", Armando , Roma, 1978, pp. 36-115. Naturalmente, se e solo se si concepisce la società di mercato ("capitalistica") secondo una metodologia diversa da quella delle scienze della natura, ossia come "soggetto" - anziché come semplice aggregato, più o meno stabile, di individui, negando quindi che le relazioni sociali siano costitutive per l'individuo – è lecito affermare che la realtà sociale può "contraddirsi", altrimenti ciò sarebbe assurdo.
8) Luigi Ruggiu, "Riconoscimento e conflitti", in Luigi Ruggiu e Francesco Mora ( a cura di ), "Identità, differenza, conflitti", Mimesis, Milano, 2008, p.89.
http://www.cpeurasia.eu/

LA GIUSTA MISURA. PER UNA METAPOLITICA EURASIATISTA

1.1 Critica della concezione "liberal-liberista" del Politico.

Vi sono ben pochi dubbi che il tratto distintivo del liberismo consista nel considerare la società come un’entità non diversa dalla semplice somma dei suoi membri (in quanto si esclude che il tutto sia altro che la somma delle parti che lo compongono) e che per questo motivo «l’analisi liberale del fatto sociale si basa [...] o sull’approccio contrattuale (Locke) o sul ricorso alla mano invisibile (Smith), o sull’idea di un ordine spontaneo, non subordinato a un qualche disegno (Hayek)». (1) In particolare, per il teorico viennese, la società è una mera astrazione, reale è solo l’individuo, vale a dire l’individuo “presociale”, privo di ogni appartenenza e di qualsiasi relazione identitaria. Von Hayek ritiene che una società complessa come quella moderna possa funzionare soltanto se si affida al mercato, dato che la «nostra civiltà dipende, non solo nella sua origine, ma anche nella sua preservazione, da quello che può venir descritto unicamente come l’ordine esteso della cooperazione umana, ma che viene più comunemente [...] conosciuto come capitalismo». (2).

Difficilmente si potrebbero sintetizzare meglio le premesse su cui si basa il pensiero degli esponenti della scuola marginalista austriaca (cioè, oltre a Friedrich von Hayek, Carl Menger e Ludwig von Mises), nonché quello dei cosiddetti “anarcocapitalisti” (come, ad esempio, Murray Newton Rothbard). Infatti, nella frase sopraccitata, non solo si sostiene implicitamente che la civiltà occidentale è superiore a qualsiasi altra civiltà (poiché è l’unica in cui vi sia autentica cooperazione umana, che non differisce da ciò che si è soliti denominare capitalismo), ma si afferma esplicitamente che il mercato è a fondamento della civiltà occidentale (evidentemente senza che vi possa essere alcuna differenza tra civiltà europea e civiltà occidentale). Ne consegue che non solo l’attuale società di mercato angloamericana sarebbe la forma più alta di civiltà che sia mai esistita – una conclusione inevitabile una volta che si siano accettati determinati presupposti – ma che il mercato sarebbe un ordine spontaneo, in un certo senso “naturale”, mentre ogni forma di “costruttivismo” potrebbe andar bene tutt’al più per una società tribale e l’idea di giustizia sociale altro non sarebbe che un’espressione priva di senso, che deriverebbe da “ubbie” dei cacciatori paleolitici. 

Ciononostante – anche a prescindere dal fatto che non si può certo ritenere che il mercato sia un sistema in grado di regolarsi solo perché «l’uomo non è e non sarà mai il padrone del proprio destino: la sua stessa ragione progredisce sempre portandolo verso l’ignoto e l’imprevisto, dove egli impara nuove cose» – (3) gli studi scientifici della storia (e della antropologia) sociale ed economica, hanno dimostrato che la formazione di uno spazio economico autonomo, lungi dall’essere “naturale”, è frutto di un lungo e complesso processo storico. Tanto è vero che Louis Dumont sostiene: «Con il mondo moderno è avvenuta una rivoluzione [...] E’ solo a partire da quel momento che si può tracciare una distinzione chiara tra ciò che chiamiamo “politico” e ciò che chiamiamo “economico”. Si tratta di una distinzione che le società tradizionali non conoscevano». (4). Per questo motivo, Luigi Ruggiu può affermare che «è solo a prezzo di arbitrarie interpretazioni che i fatti economici delle società precapitaliste possono essere riuniti assieme per formare un sistema economico in qualche modo autosufficiente, con proprie leggi e specifici comportamenti, riportabili nell’alveo dell’agire economico». (5) 

Di fatto, nelle società primitive e in quelle storiche del mondo antico, il sistema delle relazioni economiche è «non solo diversamente organizzato rispetto alle relazioni di mercato, ma anche vive al di fuori della stessa forma economica. Sono forme metaeconomiche quali la religione, la politica o le relazioni comunitarie che organizzano i fatti economici, imponendo ad essi le proprie leggi e le proprie finalità complessive». (6) E sono gli studi di Karl Polanyi che attestano non solo che l’antica Atene, anche se le relazioni commerciali ed una certa diffusione della moneta avevano portato ad uno sviluppo considerevole della sfera economica, aveva esteso la direzione politica a tutti gli ambiti dell’attività economica, ma che con l’avvento della società di mercato, invece di essere l’economia incastonata nelle relazioni sociali, sono le relazioni sociali ad essere incastonate nelle realazioni economiche. (7) 

Si tratta di “dati duri” delle scienze dell’uomo, contro i quali non può non “infrangersi” il tentativo dei teorici liberisti di far apparire come “naturale” e spontaneo ciò che in realtà è “artificiale” e storico (e, per Polanyi la società di mercato costituisce addirittura un’eccezione dal punto di vista storico). Non è comunque una novità che i liberisti abbiano sempre avuto difficoltà ad intepretare gli eventi storici. Oltre a mettere in discussione i costi umani e sociali della “grande trasformazione”, cioè della rivoluzione industriale, e alla difficoltà di interpretare la crisi del 1929 e le drammatiche conseguenze che ebbe non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero (e, in particolare, per la Germania), von Hayek, negli anni Quaranta del secolo scorso, non esitò a prevedere, in Road to Serfdom, che la regolamentazione del mercato da parte dello Stato avrebbe causato la distruzione della democrazia politica e delle libertà personali. E’ altresì degno di nota che egli abbia espresso questi giudizi nell’anno (1944) in cui venne pubblicato il libro di Polanyi La grande trasformazione, opera nella quale il grande studioso di origine ungherese confuta la tesi della determinazione economica della società e della storia, ovvero proprio la tesi difesa da von Hayek in Road to Serfdom, dato che quest’opera «si può considerare [...] come un’estrapolazione diretta del determinismo economico». (8) 

Del resto, von Hayek, allorché afferma che, se si vuole perseguire un fine comune, «tutta l’organizzazione per la diffusione della cultura, la scuola e la stampa, la radio e il cinema, tutto verrà usato esclusivamente per diffondere quelle opinioni che – vere o false che siano – valgano a rafforzare la fede nella giustizia delle decisioni prese dall’autorità», (9) sembra inconsapevolmente descrivere proprio quel “pensiero unico” che contraddistingue l’aberrante globalizzazione “turbocapitalista” di questi ultimi vent’anni, la “fede nel mercato” avendo sostituito, in Occidente, quasi del tutto, qualsiasi altra “fede politica” (e non soltanto politica). Ma la stessa crescita della macchina statale, come dimostra Polanyi, dipende in gran parte dalla necessità di porre rimedio ai danni causati al tessuto sociale dalla logica di mercato.

 Perciò non meraviglia che, laddove sia venuta meno la sinergia tra Stato e mercato, che caretterizzava il Welfare, si verifichi una progressiva dissoluzione del legame sociale e le istituzioni politiche tendano a configurarsi come un sottosistema del sistema tecnico-produttivo della potenza predominante. Oppure si assista alla formazione di un Warfare State, come negli Usa (e non si dovrebbe nemmeno ignorare che fu la Seconda guerra mondiale a “rilanciare” l’economia americana, a tal punto che, alla fine della guerra, gli Stati Uniti, in termini economici, erano i padroni del mondo), che garantisce al mercato la potenza necessaria per espandersi e al tempo stesso l’intervento dello Stato, allorquando, ad esempio, il sistema economico minaccia di collassare per il formarsi di gigantesche “bolle finanziarie”, ossia per la divaricazione tra “economia reale” e finanza. Osserva giustamente de Benoist che «l’idea secondo cui l’uomo agisce liberamente e razionalmente sul mercato non è altro che un postulato utopico, giacché i fatti economici non sono mai autonomi, bensì relativi a un determinato contesto culturale e sociale»; ed aggiunge: «Non esiste una razionalità economica innata, essa è il prodotto di una ben determinata elaborazione storico-sociale». (10) 

L’ipotesi liberale, che suppone che l’individuo sia un tutto completo a sé stante, è quindi priva di fondamento storico ed antropologico, utile tutt'al più per elaborare modelli economici, ma non in grado di rendere conto del “concreto” agire dell’uomo, che non è mai determinato solo da fattori economici o spiegabile solo in base a fatti economici. Secondo Pierre Rosanavallon «lo Stato nazionale e il mercato rimandano ad una medesima forma di socializzazione degli individui nello spazio. Sono pensabili solo nel contesto di una società atomizzata nella quale l’individuo è considerato autonomo». (11) Vale a dire che lo si considera tale, sebbene non lo sia completamente, poiché, perfino in una società atomizzata, cioè in una società di mercato, l’individuo è pur sempre embedded in una miriade di relazioni sociali. Quel che cambia è la “natura” di tali relazioni, in quanto vengono a dipendere da un sistema economico che, colonizzando tutti i mondi vitali, minaccia di trasformare l’individuo in un atomo sociale, del tutto in balia di forze che in alcun modo può controllare.

 Ma la concezione liberale comporta anche una pericolosa mistificazione del politico, considerato, in definitiva, qualcosa di “negativo”, che ostacola la “cooperazione umana”, ovvero, per von Hayek e, in generale, per i liberali, il “libero mercato”. Il che pressuppone non solo che non vi sia alcuna differenza tra il politico e lo Stato – e gli anarcocapitalisti, che pensano che lo Stato sia da abolire, o meglio da privatizzare totalmente, assimilano il politico ad un insieme di regole liberamente accettate dai membri di un’associazione, qualunque essa sia – ma che il mercato, in quanto capace di autoregolarsi senza l’interferenza dello Stato (cioè del politico), potrebbe creare le condizioni per arrivare ad una definitiva scomparsa della guerra. Nondimeno, per quanto sia facile constatare che la storia del Novecento e soprattutto quella recente ha “falsificato” definitivamente siffatta “congettura”, la critica della concezione liberale del politico non può ignorare l’esigenza di chiedersi come sia possibile che un ordinamento sociale sia fondato sul rapporto tra unità politica e individualità personale.

 1.2 Il Politico e il Nomos della Terra

E’ stato lo stesso Carl Schmitt ad affermare: «Io fondo lo Stato sul politico e non il politico sullo Stato [...] Ciò che fa lo Stato è politico». (12) Per il filosofo tedesco del diritto, infatti, l’essenza del politico consiste nella distinzione/opposizione “amico versus nemico”; distinzione/opposizione che articola l’agire degli uomini in quanto animali politici (si badi, non “animali sociali”). In sostanza, ciò significa che il politico è una “dimensione” costitutiva dell’agire dell’uomo, un destino dell’uomo, e che di conseguenza il conflitto tra gli uomini non lo si può eliminare. E Schmitt non solo mostra che, quando l’economia sembra prevalere rispetto alla politica, in realtà si è in presenza di una politica mistificata e mistificante, ma anche che tale mistificazione fa sì che il “nemico” (cioè, lo justus hostis, il nemico pubblico, da non confondere con l’inimicus, il nemico privato) venga concepito come un criminale o un “folle”: «Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso deve essere dichiarato “hors-la-loi” e “hors-l’humanité” e quindi che la guerra deve essere portata fino all’estrema inumanità». (13)

L’amore “astratto” per l’umanità si rivela allora veicolo di una volontà di potenza “il-limitata”, che vuole cioè illimitatamente accrescere la propria potenza e che non esita a strumentalizzare i “diritti umani” per giustificare un sistema che non riconosce i diritti sociali e per legittimare le cosiddette “guerre umanitarie”, che annientano gli uomini “in carne ed ossa”. Conseguenza paradossale, ma inevitabile, dell’assimilazione del politico al “negativo” che contraddistingue l’universalismo individualistico liberale, dato che crea, «cristallizzandosi all’interno della vita politica, le condizioni di una trasformazione radicale della guerra, che [dopo il tramonto dello jus publicum europaeum] si troverà ad essere condannata sul piano del principio e nel contempo notevolmente aggravata sul piano della prassi». (14) Tutto ciò prova che il mercato, ben lungi dal poter eliminare il conflitto tra i diversi gruppi umani (e la guerra non è altro, secondo la famosa definizione di von Clausewitz, che il proseguimento della politica con altri mezzi), proprio in quanto si vuole indipendente da ogni “ordine politico”, ovverosia in quanto pretende di autoregolarsi, si configura, surrettiziamente, esso stesso come espressione della volontà politica di un particolare gruppo sociale e/o di una particolare “potenza”.

Laddove cioè si vuole che siano le ragioni del mercato a “decidere”, e non il politico, vi è sempre la logica politica del dominio sociale e/o dell’imperialismo economico (in passato, l’imperialismo inglese, oggi quello americano, ben più pericoloso e “totalizzante”). L’aspetto politico della “decisione” lo si può “rimuovere”, ma non è possibile cancellarlo. Competizione e concorrenza, possono riguardare certi ambiti sociali o designare i meccanismi mediante i quali un sistema sociale e/o la comunità internazionale “istituzionalizzano” il conflitto. Ma è la “volontà politica” che fonda un determinato ordine, non viceversa. Vale a dire che la la “volontà politica” è, come direbbero gli Scolastici, causa essendi e non semplice causa efficiente di un ordine, quasi che esso, una volta posto in essere, fosse totalmente “auto-nomo”. Né ciò sembra essere senza relazione con la nota tesi di Carl Schmitt secondo cui sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione. Tuttavia, se Schimtt critica la concezione del diritto come norma e difende il “decisionismo”, in nome non di un’astratta ideologia bensì del realismo politico, egli, nel suo opus magnum, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus publicum Europaum, difende pure la tesi del diritto come istituzione, come «unità di ordinamento (Ordnung) e localizzazione (Ortung)». (15)

D’altra parte, l’appropriazione della terra e l’instaurazione di un ordine si configurano come un “taglio” (ossia una “de-cisione”) che avviene mediante la “de-limitazione” di uno spazio, sebbene nomos, secondo Schmitt, denoti, oltre all’appropriazione (Nahme) e all’atto performativo della denominazione (Name) della terra, sia l’azione del dividere e dello spartire (che concerne la giustizia distributiva) sia il coltivare e il produrre. Vi è però, ad avviso di Schmitt, una sorta di gerarchia tra questi tre processi (16) (benché tutt’e tre siano costitutivi di ogni ordinamento sociale e giuridico): «Ogni ordinamento fondamentale è un ordinamento spaziale. Quando si parla della costituzione di un paese o di un continente, ci si riferisce al suo ordinamento fondamentale, al suo nomos. Ora, il vero, autentico ordinamento fondamentale si basa, nella sua essenza, su determinati confini e delimitazioni spaziali, su determinate misure e su una determinata spartizione della terra. Al principio di ogni grande epoca c’è quindi una grande conquista di terra». (17) Sotto questo profilo, non si può non rilevare il nesso tra il pensiero di Schmitt e la conferenza di Martin Heidegger Costruire, abitare, pensare. (18) Un nesso che è perlomeno altrettanto rilevante di quello che Karl Löwith critica aspramente, ossia quello tra il decisionismo politico di Schmitt e la filosofia heideggeriana del tempo e della “fatticità storica”, (19) dato che, per Löwith, Schmitt difende una forma di nichilismo, considerando come unico scopo dell’uomo la guerra, «l’essere pronti al nulla, cioè alla morte [esattamente come l'heideggeriano "essere per la morte" in Essere e tempo] intesa come sacrificio della vita per uno Stato, il cui “presupposto”, è già la politica decisiva». (20)

Peraltro, anche nel caso che le obiezioni di Löwith (indubbiamente non esenti da gravi pregiudizi ideologici, anche perché Löwith, nell’interpretare sia il pensiero di Heideggger che quello di Schmitt, privilegia i dati biografici, in quanto questi ultimi sarebbero, a suo parere, di fondamentale importanza per comprendere il pensiero di un filosofo) non si considerino del tutto infondate, pare lecito ritenere che gli studi di Schmitt sul nomos della terra, evidenziando la connessione tra appropriazione, distribuzione e produzione, si possano intendere anche come una convincente risposta ai suoi critici (Löwith incluso). Inoltre, da un lato, si deve osservare che la filosofia di Heidegger non mira, in primo luogo, a comprendere l’essere dell’Esserci (ossia non è una antropologia filosofica né una forma di esistenzialismo), bensì l’Essere in quanto differente dall’ente (la differenza ontologica), al fine di distruggere l’ontoteologia del pensiero metafisico (a cui Heidegger imputa la responsabilità dell’oblio della differenza tra Essere ed ente), interrogando l’inizio stesso della filosofia (e della metafisica) nell’epoca della fine della filosofia. (21) Dall’altro, si deve tener conto che nelle opere di Schmitt (che definì sempre sé stesso “solo” come un giurista) non vi è una esplicita analisi filosofica dell’essere dell’uomo, nonostante che si possa affermare che egli condivide (proprio come Tucidide, Machiavelli ed Hobbes) l’idea che la natura umana sia “opaca” e strutturalmente “negativa”. Un “pessimismo antropologico” che conduce Schmitt a valorizzare il katechon come “figura chiave” per la comprensione della funzione politica. Al riguardo, Giuseppe Antonio Di Marco afferma che il Leviatano di Hobbes, ossia l’uomo artificiale, anche se trascende «la semplice somma delle volontà dei singoli artefici, [...] rimane pur sempre un artificio e quindi non può portare dentro di sé la sostanza dell’infinità finita, come il dio terreno hegeliano [, ovvero,] in quanto artificio, non può dar luogo a un’autentica [...] totalità [dacché] un intero che può essere reso presente solo dalla rappresentanza, cioè da un artificio, può essere usato e distrutto. [...] Viceversa, il dio terreno di Hegel è in grado di presentificare, e non solo di rappresentare, l’intero, per cui l’artificiale della macchina viene compreso entro la totalità e così la tendenza disgregatrice viene frenata». (22) 

Perciò, «Hegel accanto a Savigny [entrambi sostenitori del diritto come istituzione], anche se con qualche differenza, ha la funzione di frenatore, di “katechon” rispetto [al processo di] distruzione dello jus publicum europaeum». (23) D’altronde, pare essenziale per la comprensione del significato del politico il fatto che la volontà di abitare una terra e di darsi un ordinamento concreto, non possa non radicarsi in un contesto storico-culturale e non presupporre un orizzonte di senso condiviso, mediato dal linguaggio (e si deve pur tener presnte che nel mondo antico l’atto mediante il quale un popolo si appropria di una terra o fonda una città è un rito, cioè ha sempre un carattere sacrale). (24) Ma non è forse la stessa concezione secondo cui l’essenza del politico consiste nella contrapposizione tra amico e nemico, ossia nel conflitto – tanto da poter pensare che la politica sia la prosecuzione della guerra con altri mezzi – che mostra l’esigenza di prendere in considerazione il “sostrato antropologico” del politico? (Un “sostrato” che il liberalismo “riduce” all’individuo “astratto”, non solo nel senso hegeliano del termine – che significa “irrelato” o “isolato” – ma anche “astratto” in quanto astrazione, o meglio “finzione” dell’economia politica, benché si tratti di una “finzione produttiva”, giacché l’individuo “isolato” è appunto “prodotto” dalla società di mercato, come prova la celebre analisi marxiana di Robinson Crusoe, il personaggio dell’omonimo romanzo di Daniel De Foe, il quale si comporta come un normale borghese che crede nella “mano invisibile” del mercato e nei meccanismi “naturali” dei processi produttivi, quasi che non vi fosse alcuna differenza tra società primitive o antiche e quelle moderne).


 1.3 Il Politico e la Giusta Misura.

Se l’agire politico è “proprio” dell’uomo, dell’animale (politico) razionale, allora non è affatto strano che Platone veda nello Stato il “grande uomo” e l’analogia tra la virtù individuale e quella dello Stato sia alla base dell’indagine sulla giustizia nella Repubblica, un dialogo in cui il conflitto tra città e all’interno delle singole città non appare “altro” dal conflitto che agita l’anima dell’uomo, ché dalla corruzione di quest’ultima si origina la guerra. E il conflitto, sia come polemos che come stasis (la guerra civile), è, per Platone, il necessario “presupposto” della riflessione sul politico. La stessa condanna a morte di Socrate non è comprensibile senza la terribile guerra del Peloponneso, in cui «per dirla con le parole di chi volle consegnare a perenne memoria quel tempo e gli avvenimenti che lo segnarono, la morte imperò “con i suoi innumeri volti”, ed ogni tradimento, ogni spergiuro, ogni nefandezza, perpetrati con mano pronta e felice e con mente solerte, costituirono titolo d’onore. L’avidità del potere [...] e tutte quelle tendenze [...] che per solito vengono tenute a bada, dimostrarono chiaramente che cosa fosse la natura umana». (25).

Epperò, Platone, sebbene abbia ben presenti gli impulsi sinistri della natura umana, non può fare a meno «di guardare le cose a distanza», ritenendo che il compito del filosofo consista ormai in una nuova fondazione dell’uomo e dello Stato insieme. (26) Il problema che la Repubblica deve risolvere concerne l’ antropologia politica, non è un problema di “ingegneria costituzionale”, come invece pensa Aristotele, la cui intepretazione della filosofia platonica è all’origine dell’errata caratterizzazione di Platone come “utopista”. Platone cioè comprende che la krisis della polis deriva dalla mancanza di un principio di bene comune e che è irrealistico pensare di poter cambiare la “forma” della polis, senza cambiare i cittadini. E’ allora evidente che non è affatto una “forzatura ermeneutica” di Massimo Cacciari, considerare Platone come un pensatore politico “realista”, dacché la Repubblica non può rappresentare una polis completamente “sana” e in nessun modo si può interpretare la filosofia platonica come «pretesa di eliminare astrattamente la contraddittorietà del politico nell’unità dell’idea»: come potrebbe una costituzione risolvere quel conflitto «dell’anima, che è l’anima», se anche l’anima che si eleva fino all’iperuranio, prima o poi, si appesantisce, perde le ali e precipita a terra di nuovo (Fedro 248b-c)?. Innegabile invece che la politeia «il prodotto massimo dell’”arte politica”, non mantiene in salute ciò che è già sano, ma permette di “curare” (ha cura di) ciò che ha perduto la salute». (27) Nessuna “ingenua” scissione tra essere e dover essere, nessuna utopia, dunque, semmai “a-topia”, discorso fuori dall’ordinario sul politico, ossia rigorosamente “meta-politico”, ma al tempo stesso del tutto disincantato: polis vi è solo laddove è necessario vi sia techne politiké. Quando, in illo tempore, è il Dio a governare, nessuna techne politiké è necessaria. Ma allora non c’è neanche alcuna polis né alcun conflitto (Politico 271e).

Tuttavia, al tempo in cui scrive Platone, non solo non vi è più la “tradizione”, il mito come “parola vera” che possa “ordinare” la città, ma perfino la parola dei “sapienti” non può più persuadere “i mortali a due teste”. La Dike dei “sapienti” può essere sì ancora “misura” dell’ordine divino del mondo, ma non è più sufficiente a “misurare” il mondo degli uomini. La stessa molteplicità dei “discorsi intorno alla natura” si ritiene esser segno che non è possibile risolvere stabilmente il conflitto che “cova” dentro ogni uomo e in ogni comunità, mediante quella “misura cosmica” sulla quale – per Parmenide o Pitagora (ma pure per il “democratico” Empdocle), “sapienti” e politici ad un tempo – (28) doveva basarsi il “buon governo” della città, dacché essa non può più valere “immediatamente” per il mondo degli uomini. Certamente anche i Presocratici non ignorano il conflitto ed Eraclito, come si sa, giunge addirittura ad affermare che «pólemos di tutte le cose è padre, di tutto poi è re», (29) benché già Anassimandro mostri il volto filosofico del “dissidio”. In particolare, nel detto di Anassimandro, che è conosciuto come la più antica parola della tradizione filosofica europea (nel suo testo abituale: «Là da dove le cose hanno il loro nascimento, debbono anche andare a finire, secondo la necessità. Esse infatti debbono fare ammenda ed essere giudicate per la loro ingiustizia [adikias], secondo l’ordine del tempo»), secondo Heidegger, «parla il molteplice dell’ente nel suo insieme. Ma dell’ente non fanno parte soltanto le cose. E le cose non sono affatto soltanto le cose di natura. Anche gli uomini e le cose da essi prodotte, le situazioni e le circostanze derivanti dal fare e dal tralasciare umani fanno parte dell’ente». (30)

Non si deve però equivocare, dato che «”le cose della natura” non avevano il significato che possiedono oggi. Nel suo significato originario, la physis non costituiva un mondo separato e contrapposto al mondo umano, le leggi della natura e le leggi degli uomini non erano pensate come rispondenti a differenti criteri». La soluzione di continuità si manifesta solo con «la sofistica che interrompe questa visione unitaria, e nettamente distingue i due mondi; Socrate approfondisce il solco, facendo dell’uomo un ente a sé: sposta il punto focale dalla natura all’uomo [e] nel suo “sapere di non sapere” indica la via del sapere». (31) Non solo. Se la dialettica di Zenone e (forse) anche quella di Gorgia hanno un significato sapienziale, la sofistica degenera rapidamente in eristica, si muta in un agonismo «cerebrale, sottile, sleale». (32) Da qui e dalla guerra tra Greci, che dovrebbero essere amici (Rep. 470c), e dalla lotta delle fazioni all’interno delle città, muove il discorso di Platone. La “sapienza” arcaica ora deve essere riformulata, in modo che la “misura” sia, come aveva indicato Socrate, il “discorso vero”, in grado di “convincere” e di “educare” l’anima. Ma per ottenere ciò, bisogna «ricorrere a medici molto più di prima» (Rep. 373d) e il “custode” deve essere filosofo e uomo di guerra (Rep. 525b8 e 543a5). E persino i “filosofi-guardiani” «dovranno fare esperienza della stásis in sé prima di amministrare qualsiasi pólemos», per “domare”, senza poterla mai debellare del tutto, la “doppiezza” anche della loro anima, ché «la fonte della guerra è quella stessa delle passioni e degli appetiti, la stessa dei massimi mali privati e pubblici». (33) Il realismo tucidideo non è affatto “rimosso”, ma “com-preso” nel discorso di Platone, che non perde mai di vista la “necessità” della guerra – tanto da “giustificare” che si distruggano i nemici, prima che siano essi a muovere guerra (Rep. 375c) – perché, se non si sa “dar forma” al conflitto, o si conduce la città alla rovina o si innesca una catena di violenze interne e di guerre senza fine. 

Non è “pensabile” allora che vi sia “vera polis” senza conflitto tra gli uomini: «la stessa idea di polis [ed è “decisivo” che, appunto, si tratti dell'idea di polis], in quanto polis, implica una molteplicità di appetiti, implica uno stato di guerra». (34) L’idea della polis, proprio perché partecipa del Bene, non può essere essa stessa il Bene, né da essa si può “dedurre” una particolare costituzione, per quanto debba misurare le costituzioni esistenti, “orientare” il politico, se si ha in vista la “salute” dell’intera comunità. Sia che si legga la Repubblica secondo la prospettiva di Colli, (35) sia che si condivida la tesi che vede nelle “dottrine non scritte” di Platone la chiave per decifrare l’autentico senso dei dialoghi del filosofo ateniese (è la tesi della scuola di Tubinga, ma anche di Giovanni Reale e degli studiosi che si ispirano al suo insegnamento), (36) non v’è dubbio quindi che «la costituzione platonica non deduce affatto astrattamente dal Principio l’utopia di una polis-tutt’una, ma si interroga a quali condizioni sia pensabile una polis la cui molteplicità non sia sempre anche guerra civile in potenza». (37) Se tutta la realtà risulta da una mescolanza di limite e illimite, allora il politico deve saper “uni-ficare” i molti, non in una astratta unità, ma impedendo che la “dis-misura” distrugga la città o, peggio ancora, la muti in altro, ovvero la “governino” ingiustizia e hybris. Insomma, Platone ha sempre presente che la funzione politica è, in primo luogo, il katechon che “trattiene il negativo” all’interno della città, limitandone gli “appetiti”. Anche se il politico non necessariamente “partecipa” dell’idea di giustizia, non è impossibile quindi che esso sia conforme all'ordine del cosmo; e ciò si può avverare, a giudizio di Platone, mediante l’istituzione di un “ordine funzionale” tripartito (e poco importa, sotto questo punto di vista, che egli divida-la società in tre classi distinte, ma assai più importante è che si tratti di tre funzioni distinte e ordinate gerarchicamente), che non si discosta dall'ideologia trifunzionale indoeruopea descritta da Dumézil. Ovvero il politico può partecipare dell’idea di giustizia «se, con una strategia educativa di cui l’intera comunità è agente, i desideri “signorili” e aggressivi di autoaffermazione del gruppo combattente, [una volta] posto al servizo dell’élite intellettuale dei “filosofi” al potere, vengono indirizzati verso finalità collettive, in modo che essi trovino soddisfazione e riconoscimento da parte della società politica nel suo insieme». (38)

 Strategia educativa ma anche (e soprattutto) “veritativa” – dacché è la “filo-sofia” che ha il compito di istituire un circolo virtuoso tra città giusta e cittadini giusti – senza le quali l’agire degli uomini non produce alcun “ordine naturale” – anzi distrugge la comunità, lasciando che una parte possa sopraffare le altre, subordini il bene comune al proprio utile e, per soddisfare gli “appetiti” della moltitudine, che Platone paragona ad un grande animale forte e vorace (Repubblica 493a-c), induca la città ad oltrepassare ogni “con-fine” e ad aggredire chiunque non si sottometta alla sua volontà. Molteplici però sono gli “ordini” possibili ed i modi in cui il limite può “misurare” l’apeiron (l’illimitato), di modo che non vi è contraddizione tra la concezione del politico sostenuta nella Repubblica e quella delle Leggi, in cui Platone traccia il disegno di uno Stato storicamente realizzabile nelle circostanze del suo tempo. In quest’ultima opera, gli elabora «una costituzione mista in cui le forze contrastanti sono ricondotte all’equilibrio, costituzione che aveva il suo antecedente storico nello Stato spartano [nonostante che] la durezza dell’ordinamento spartano [venga] addolcita con l’introduzione di parecchie istituzioni ateniesi». (39) Ma nel XII libro, «quando il lettore meno se lo aspetta, si introduce una magistratura nuova, un consiglio che si riunisce quotidianamente quando le tenebre stanno per cedere al chiarore dell’aurora, e che è composto di uomini che possiedono non solo la retta opinione, ma la scienza». (40) Con la consueta ironia – fraintesa dalla maggior parte dei teorici liberali, che, leggendo i dialoghi platonici con criteri popperiani, vi ravvisano un’ulteriore conferma del “pensiero totalitario” del filosofo ateniese – Platone mostra che le leggi sono necessarie ma non sufficienti, ché la realtà, che sempre “oscilla” tra l’essere e il non essere, è “tutta un’eccezione”. Necessaria allora anche un’istituzione che “decida” per la salvaguardia dell’ordinamento concreto della polis, purché operi secondo “giustizia”, cioè a patto che le sue decisioni abbiano come scopo il bene comune e si “ingranino” nella struttura comunitaria della polis. E l’ultimo dialogo di Platone anticipa, in qualche modo, anche «la posizione di Aristotele, il cui Stato ideale è, appunto, un ideale supposto nella dimensione storica». (41) 

Peraltro – anche se «la critica aristotelica [della polis “ideale” di Platone] nasconde l’effettiva drammaticità della politeia platonica e inaugura quel luogo comune per cui essa non sarebbe che una “statua“ artisticamente perfetta, ma non confrontabile con “uomini vivi”» – la politeia di Platone «riguarda una città che si allarga, che s’ingrandisce, che “inventa” bisogni e costumi», (42) ossia quel medesimo fenomeno (mutatis mutandis), che lo Stagirita critica nella sua famosa analisi della crematistica, “vedendo”, benché in un’ottica diversa da quella del suo maestro, ampliarsi “a dismisura” la sfera economica, grazie all’eccezionale sviluppo degli scambi commerciali e ai molteplici impieghi della moneta nell’Atene del IV secolo a. C. Ovviamente Aristotele non condanna lo scambio in quanto tale, che invece pensa possa contribuire a rafforzare la struttura e la coesione sociale, ma ciò che definisce crematistica non naturale (nel senso che non è la “semplice” arte di acquistare beni, ma la techne che ha come scopo l’accumulazione di beni e denaro), dacché altera radicalmente la relazione tra mezzo e fine, considerati come “momenti distinti”, trasformando il mezzo in fine ed il fine in mezzo, senza che tale processo possa terminare. (43) La techne viene così a perdere il suo carattere strumentale rispetto alla physis, grazie all’affermarsi della “natura convenzionale” della moneta, aprendo un orizzonte fino ad allora sconosciuto: la moneta, da un lato, perde tutte le sue qualità per essere puro segno di quantità e poter funzionare come “misura”; dall'altro, rende possibile che beni differenti si rapportino reciprocamente traducendosi in termini di pura quantità. I molteplici e differenti beni allora possono essere misurati, dato che ogni cosa può essere ricondotta alla astratta quantità della moneta. Determinando la funzione della moneta, lo Stagirita può svolgere un’analisi, di carattere storico e teorico, che gli consente di mettere in rilievo sia il significato sociale della moneta – in quanto essa media le relazioni tra le cose e gli uomini e di conseguenza i rapporti tra gli uomini – sia che, attraverso il commercio al minuto, si sviluppa una forma di intermediazione, in cui gli estremi non sono i prodotti (come quando, ad esempio, si vende l’olio prodotto, per acquistare grano) ma il denaro stesso (ad esempio, si acquista olio ad un determinato prezzo, per venderlo ad un prezzo maggiore). 

Perciò, non solo la crematistica non naturale mira ad accumulare una ricchezza illimitata, poiché non appaga bisogni determinati – come accade allorché si possiede per consumare – ma, essendo il possesso di denaro non più un mezzo per conseguire un determinato fine bensì il fine di un processo infinito, il bisogno che alimenta il processo è esso stesso illimitato. Il che per Aristotele non può non essere che “figura” del “negativo”, in quanto l’infinito, secondo lo Stagirita, non è l’intero – che non può essere “trasceso”, che è “inoltrepassabile” – ma al contrario è ciò al di fuori del quale c’è sempre qualcosa, quell’assoluta assenza di limite che anche Aristotele – la cui filosofia privilegia non le “forme geometriche” e i “rapporti numerici”, come quella di Pitagora o quella di Platone (indipendentemente dalla differenza tra enti matematici, cosiddetti “intermedi”, e forme metafisiche pure, le cosiddette “idee numeri”), bensì la “forma” del vivente, l’organismo – non può non considerare un qualcosa di aberrante. (Per i Greci l’infinito non si distingue dall’indefinito, dall’indeterminato, dall’illimitato, per quanto in Plotino assuma una connotazione positiva, dato che indica l’ineusarabile potenza dell’Uno; l’infinito dei Greci corrisponde piutttosto all’infinito che i medievali denominano sincategorematico e che si distingue dall’infinito categorematico, ossia l’Assoluto). Del resto, Aristotele osserva che, se non si riesce a procurarsi la ricchezza mediante la crematistica, si sarà facilmente disposti ad impiegare qualsiasi altro mezzo, poiché l’arricchimento diventa “il fine generale a cui pare debba essere indirizzata ogni cosa”. 

Nota Ruggiu che per Aristotele «lo spirito della crematistica rischia di impadronirsi di ogni aspetto della società; ogni facoltà naturale o ogni virtù tradizionale, non sono più considerate per sé stesse, in relazione alla propria natura e destinazione, ma in rapporto alla possibile utilizzazione ai fini della acquisizione di ricchezza». (44) In definitiva, Aristotele comprende che, una volta creatosi uno spazio economico autonomo nell’ambito della polis, l’economico tende inevitabilmente a “degenerare”, espandendosi ai danni dell’intero organismo politico e sociale. E ad Aristotele (come già a Platone) non sfugge nemmeno il legame tra talassocrazia e imperialismo economico che (sebbene Atene non fosse governata da “mercanti” e il suo impero fosse solo un impero costiero), (45) trascinando la città verso l’egemonia sul mare, muta la techne polemiké in hybris (fino a pretendere che quest’ultima valga come giusta), porta a macchiarsi di orrrende stragi e a massacrare le popolazioni di tante piccole città (come scrive Senofonte nelle Elleniche, II, 2, 10) e a considerare i propri alleati come schiavi (Costituzione degli Ateniesi XXIV-XXVII). (46) E nella Politica ( VII, 1327a) lo Stagirita denuncia apertamente la “prassi” del mercante che “va per mare” come ciò che si oppone al buon governo, anche se non è più possibile per la polis “chiudersi” al mare. Sicché, se per Platone, la polis deve sorgere lontano dal mare, ma non deve essere priva di porti né di materiale per costruire navi, per Aristotele, bisogna evitare la “tentazione talassocratica” e possedere solo una flotta navale necessaria per uno sviluppo equilibrato.


 2. Conclusione.

Com'è noto, dovettero passare non pochi secoli prima che potesse accadere quel che Aristotele temeva. A tale proposito, scrive Edouard Will: «[Nell'antica Grecia] in nessuna branca d’attività la produzione è mai limitata dalla sola preoccupazione della produttività, essendo paralizzata da condizioni arcaiche di natura religiosa e morale: l’idea di un rapporto sacro o naturale fra la terra e il lavoro, fra la capacità dell’artigiano e la qualità del suo lavoro, ha distolto il lavoratore greco dall’idea di dover produrre di più, producendo diversamente». (47) E il motivo per cui dovette passare tanto tempo lo spiega assai bene Costanzo Preve: «Il pensiero classico dei Greci si è storicamente costituito sulla base delle forze distruttive messe in moto dall’apeiron, ove questo apeiron diventi il principio distruttivo della politeia degli uomini, ed il kaos finisca con il distruggere il nomos; questo pensiero si basava essenzialmente su di una visione cosmocentrica unitaria in cui le categorie dell’essere e le categorie del pensiero fanno tutt’uno e sono unificate dalla dialettica intesa in senso ontologico; il pensiero ellenistico nonostante la sua grandezza […] ha disperato di far fronte a questo caos, e ha “ricentrato” il potere della ragione in una comunità di amici (Epicuro) o in una comunità cosmopolitica di dotti (lo stoicismo); il pensiero cristiano ha correttamente mantenuto l’unità delle categorie del pensiero e delle categorie dell’essere […] ma ha prodotto uno sdoppiamento fra l’uomo, il cosmo e Dio che ha finito con il perdere l’unità cosmologica ed umana del mondo dei Greci». (48)

Solo con la nascita del mondo moderno si realizzano quelle condizioni che permettono all’economico di scorporarsi dall’ampio ventaglio di istituzioni culturali, sociali e politiche in cui era “incastrato” sino alla fine del Medioevo, e alla funzione economica di rivendicare una supremazia rispetto a quella politica. E non a caso, questo conflitto si manifesta anche, secondo Carl Schmitt, come separazione/conflitto tra terra e mare. (49) Ma con il tramonto del nomos della terra e l’affermarsi della talassocrazia dell’America – che acquisisce pure il dominio dell’aria – ogni mescolanza tra limite ed illimite, tra uno e molti, viene, per così dire, “misurata” dalla dismisura di un sistema che mette al centro «l’arricchimento crematistico infinito e illimitato […] basato sulla hybris di un soggetto assolutizzato e sradicato dalla comunità umana […] che se non trova un qualche un freno sociale e politico (katechon) può portare alla dissoluzione l’intera polis, ed oggi – lo sappiamo – anche l’intera kosmopolis». (50) L’hybris dell’apparato tecnico-produttivo della grande “isola” d’oltreoceano ormai minaccia di travolgere ogni limes, non essendovi più alcun katechon capace di arrestarne l’impeto sradicante. Perfetto “rovesciamento” della misura greca nel proprio opposto, che induce la “vecchia Europa” a indossare la maschera dell’Occidente, per celare la propria ”im-potenza”, ché «l’occidentalismo […] è un concetto ideologico di guerra e di pretesa aprioristica di superiorità». (51).

Ma allora come opporsi alla “macchina da guerra” dell’Occidente? Nella radicalità con cui Schmitt critica il “cosmopolitismo” umanitario dell’Occidente (benché, in realtà, si tratti di un “uni-versalismo astratto”, perché l’occidentalismo non può definirsi “cosmo-politismo” né ammette che vi possano essere differenti identità “oltre” quella occidentale) e l’utopia di un “ordine mondiale” basato sulle cosiddette “leggi del mercato”, si deve ravvisare la demistificazione di una morale affatto diversa dall’ethos dei Greci, che, esattamente come mos per i Romani, denota non comportamenti soggettivi, ma l’abitare, la radice cui ogni uomo appartiene. Nessun “narcisismo comunitario” tuttavia può realisticamente svolgere la funzione del katechon. Né si può dimenticare che proprio i Greci, perché non seppero dar vita ad un ordinamento politico panellenico, finirono con l’essere dominati dallo straniero. (52) Si dovrebbe piuttosto riconoscere che solo all’interno di quelle entità politiche che Schmitt denomina “grandi spazi” è possibile difendere il senso di appartenenza e “frenare” la barbarie della società di mercato, quando perfino i limiti degli Stati nazione e i loro mercati interni mostrano di essere troppo piccoli.

 I Greci insegnano che necessario è “misurare” l’illimitato, (53) non che sia necessaria una “particolare misura”, che, in quanto prodotta dagli uomini, non può non cambiare con il variare delle circostanze storiche. E la questione di un nuovo inizio politico non può non presentarsi nel nostro tempo diversamente che nel tempo antico. Per questo, Schmitt pensa ai “grandi spazi” come alternativa all’occidentalismo e come garanzia delle differenze storiche, sociali e culturali. Diverse “iconografie”, diverse tradizioni, diverse lingue, diverse culture, diversi costumi e finanche diverse comunità politiche possono “co-esistere” come parti di un intero. Se è vero, come sostiene Cacciari, che «sta nella natura d’Europa sapersi come parte [e che perciò ] mai potrà identificarsi con Dike, con quell’universale Giustizia per cui anche Europa e Asia provengono dallo stesso e nello stesso si risolveranno», (54) è anche vero che l’unità spirituale dell’Eurasia è un unità in sé differenziata. In nessun modo si può “ri-produrre” l’immediata unità dell’Europa e dell’Asia e rendere reversibile lo sviluppo storico, ma è la stessa idea di Dike, di “giusta misura”, che “in-formava” il mondo dei Greci, ad “in-formare”, sia pure sempre più debolmente, l’identità dell’homo europaeus, che vuole prendersi cura della propria radice terranea, non per tornare all’inizio, ma per poter dare inizio ad nuovo nomos insieme con gli altri popoli dell’Eurasia, con i quali “con-divide” la medesima terra.

NOTE

1) A. de Benoist, Il liberalismo contro le identità collettive, in A. de Benoist, Le sfide della postmodernità, Arianna, Casalecchio (Bo), 2003, p. 70.
2) F. A. von Hayek, The Fatal Conceit. The Errors of Socialism, Routledge, Londra, 1988.
3) F. A. von Hayek, Legge, legislazione, libertà, Il Saggiatore, Milano, 1986, p. 559. La critica, affatto condivisibile, di un certo storicismo hegelo-marxista pare così sfociare in una sorta di “metafisica economicistica” ingenua e “volgare”.
4) L. Dumont, Homo aequalis I. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi, Milano, 1984, p. 21.
5) (A cura di) L. Ruggiu, Genesi dello spazio economico, Guida, Napoli, 1982. pp.8-9.
6) Ibidem, p. 9.
7) Vedi, per l’antica Atene, K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, in K. Polanyi (a cura di), Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi, Torino, 1980. Per l’avvento della società di mercato, vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino, 1974.
8 ) J. Dalton, introduzione a K.Polanyi, op.cit., p. XIV.
9) F. A. von Hayek, Verso la schiavitù, Rizzoli, Milano, 1948, p. 3.
10) P. Rosanvallon, Le libéralisme économique, Seuil, Parigi, 1987, p.124, citato in A. de Benoist, op. cit., p.84.
11 ) Ibidem, p. 80.
12) C. Schmitt, Un giurista davanti a sé stesso, (intervista di F. Lanchester) , in «Quaderni costituzionali», 1983, n. 1, pp. 5-34.
13). C. Schmitt, Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 13.
14) A. de Benoist, Ripensare la guerra. Dallo scontro cavalleresco allo sterminio di massa, coll. «Quaderni», 1, Asefi-Terziaria, Milano 1999, p. 21. De Benoist ricorda anche che secondo Martin van Creveld «ufficialmente, l’annientamento delle popolazioni civili [nella Seconda guerra mondiale] era giustificato dalla loro malvagità. In realtà quelle popolazioni dovevano essere dichiarate malvagie per giustificarne l’annientamento per mezzo di ordigni ad effetto di massa» (Ibidem, p. 31, nota 15). Si noti che è sullo jus publibicun europaeum che si basa la famosa critica di Hegel del progetto kantiano di pace universale: «Anche nella guerra come situazione giuridica, di violenza e di contingenza, sussiste un legame nel fatto che gli Stati si riconoscono vicendevolmente pari. In questo legame essi valgono l’uno per l’altro come esistenti in sé e per sé, a tal punto che, nella stessa guerra, si dispone che essa debba essere passeggera. Essa implica dunque questo carattere conforme al diritto delle genti, così che anche in essa la possibilità della pace è preservata» (G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1979, par. 338, p. 327).
15) C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano, 1991, p. 19. Sul nomos della terra, vedi pure C. Schmitt, Terra e Mare, Adelphi, Milano, 2002 e C. Schmitt, Appropriazione, produzione, divisione. Il tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale a partire dal “nomos”, in C.Schmitt, Le categorie del politico, Saggi di teoria politica, cit., pp. 293-312.
16) Nomos deriva da nemein, che significa ” stabilire”, “spartire”, “dividere”. Per Schmitt, diversamente da Benveniste, però è prioritario il significato di “appropriazione”, “conquista” (vedi A. Jellamo, Il cammino di Dike: l’idea di giustizia da Omero a Eschilo, Donzelli Editore, Roma, 2005. p. 85, nota 19 (la Jellamo ricorda pure che «l’intraducibilità del termine nomos, la complessità della parola e del concetto nella cultura greca, sono state sottolineate con particolare efficacia da K. Kerenyi [in] La religione antica nelle sue linee fondamentali, Zanichelli, Bologna, 1940, pp.68-69», Ibidem, p. 85, nota 20).
17) C. Schmitt, Terra e mare, cit., p. 73-74.
18) M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in M. Heidegger, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 2006, pp. 96-108.
19) K. Löwith, Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt, in K.Löwith, Marx, Weber, Schmitt, Laterza, Bari 1994, pp.125-166.
20) Ibidem, p. 137 e p. 148.
21) Vedi M. Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in M. Heidegger, Tempo e Essere, Longanesi, Milano, 2007, pp. 73-94.
22) G.A.Di Marco, Thomas Hobbes nel decisionismo giuridico di Carl Schmitt, Guida Editore, Napoli, 1999, pp. 536-537.
23) Ibidem, p. 537
24) Vedi, oltre al “classico” M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma, 1989, K. Kerényi, introduzione a C.G. Jung e K. Kérenyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Boringhieri, Torino, 1972, pp. 24 e ss., e J. Rykwert, L’idea di città, Adelphi, Milano, 2002.
25) V. Meattini, L’orizzonte etico e politico di Platone, Vigo Cursi, Pisa, 1984, p. 19.
26) Ibidem, p. 20.
27) M.Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 1994, pp. 29 e 31.
28) Vedi G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2003, e G. Colli, Platone politico, Adelphi, Milano, 2007.
29) Eraclito 14 [A 19] – secondo la numerazione di Diels-Kranz: 22B53 DK – in G. Colli, La sapienza greca, III, Adelphi, Milano, 1980, p. 35.
30) M.Heidegger, Il detto di Ansassimandro, in M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 308 (per la traduzione del frammento, Ibidem, p.299).
31) A. Iellamo, op. cit., p. 84.
32) Così Colli, di cui vedi Zenone di Elea, Adelphi, Milano, 1998 e Gorgia e Parmenide, Adelphi, Milano, 2003.
33) M.Cacciari, op. cit., p. 38.
34) Ibidem, p. 32.
35) Si può affermare che, per Colli, in un certo senso, Platone è l’ultimo “sapiente” greco e il padre della “filo-sofia” europea. Per questo giudizio vedi G. Colli, La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano,1998, specialmente pp. 259-329.
36) Fondamentale, al riguardo, G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e pensiero, Milano, 2003.
37) M.Cacciari, op. cit., pp. 40-41.
38) M. Vegetti, Il problema della giustizia nella Repubblica di Platone, in (a cura di) G. M. Chiodi e R. Gatti, La filosofia politica di Platone, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 34.
39) G. Colli, Platone politico, cit., p. 129.
40) Ibidem, p. 130.
41) G. Reale, Storia della filosofia antica ,V, Vita e pensiero, Milano, 1989, p. 218.
42) M.Cacciari, op. cit., pp. 30-31.
43) Vedi L. Ruggiu, Aristotele e la genesi dello spazio economico, in (a cura di) L. Ruggiu, op. cit., in particolare pp. 85 e ss.
44) Ibidem, p. 110.
45) Vedi K. Polanyi, Trattazione comparata delle istituzioni economiche, cit., e K.Polanyi, Aristotele scopre l’economia, in (a cura di) K. Polanyi, Traffici e mercati negli antichi imperi, Einaudi, Torino, pp. 75-113.
46) Vedi M. Cacciari, op. cit., pp. 48 e ss.
47) Citato in L.Ruggiu, Aristotele e la genesi dello spazio economico, cit., p. 62, nota 52. Com’è ovvio, le considerazioni di Will valgono per qualsiasi società precapitalistica.
48) C. Preve, La saggezza dei Greci, Una proposta interpretativa radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1096/el_1096.pdf, pp. 23-24.
49) Vedi Carl Schmitt, Terra e mare, cit., in cui Schmitt analizza lo scontro tra Landmächte e Seemächte.
50) C. Preve, Il saggio di Gianluca Grecchi “Occidente: radici, essenza, futuro”. Un convincente esercizio di filosofia della storia, http://www.petiteplaisance.it/ebooks/1081-1100/1094/el_1094.pdf, p. 17. Preve ritiene necessaria una deduzione sociale delle categorie dei Presocratici, pur ammettendo che «in questo modo si possono anche fare gravi errori di interpretazione» (Ibidem, pp. 17-18). Ma non è proprio il nesso strettissimo tra “sapienza” e politico e il fatto che la prima è a fondamento del politico a caratterizzare anche il Platone politico, come dimostrano gli studi del giovane Colli? (vedi, oltre alle opere già citate, anche G. Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano, 2003). Si tenga comunque conto che, se prima della sofistica non vi è una vera distinzione tra “natura” e comunità degli uomini, allora è impossibile che «la physis di Eraclito [sia] semplicemente la metafora delle contraddizioni della polis di Efeso» (Ibidem, p. 17), benché il “significato sapienziale” della physis possa concernere anche la sfera del politico.
51) Ibidem, p. 16.
52) Se Aristotele è “cieco” di fronte all’emergere dell’impero macedone, Luigi Alfieri si domanda – in L. Alfieri, Platone Realpolitiker?, in (a cura di) M.A.Chiodi e R. Gatti, op. cit. – se Platone «non sia stato l’unico pensatore politico greco capace di anticipare precisamente lo sfociare della polis nella monarchia universale ellenistica e poi romana» (Ibidem, p. 70). Platone mira indubbiamente ad una metanoia, ma è altresì convinto che ciò non si possa avverare senza il sostegno di una “potenza” (Siracusa, ad esempio) che abbia interesse ad instaurare un “nuovo ordine”.
53) Per Schmitt (non diversamente da Heidegger o da Severino) non è più l’economico ma la tecnica “scatenata” il centro di riferimento intorno al quale si organizza la società occidentale. Basandosi sulla filosofia platonica e sull’analisi aristotelica della crematistica si potrebbe però pensare che la tecnica – ma solo in quanto autoreferenziale, in quanto cioè “volontà” che ha come scopo il potenziamento illimitato della propria potenza – non sia altro da quella “volontà di potenza” che contraddistingue l’economico nel suo divenire storico, bensì ne sia invece l’espressione più matura e compiuta. Con ciò non s’intende tanto difendere le “ragioni” della decrescita, quanto piuttosto rilevare che “im-porre una forma” all’apparato tecnico-produttivo non è un’utopia, ma una sfida, che si dovrebbe affrontare senza illudersi, come coloro che volevano opporre la cavalleria ai mezzi corazzati, ma anche senza sottovalutare che proprio l’arte e la storia militare provano che vi sono differenti “forme di potenza” e differenti criteri per “misurarle”.

POTERE E DISINFORMAZIONE

Secondo il sociologo tedesco Niklas Luhmann il consenso, in particolare per quanto concerne l’attuale società di mercato, dipende quasi esclusivamente da ciò che egli definisce “latenza funzionale”, vale a dire che le possibilità non selezionate dal sistema, a differenza di quelle “prestrutturate”, tra le quali si può effettuare una ulteriore scelta (si tratta di un procedimento che permette di ridurre la complessità e la contingenza del sistema, nonché di renderlo più stabile, e che Luhmann denomina come “doppia selettività”), non sono conosciute e/o non vengono esplicitamente tematizzate dalla stragrande maggioranza dei cittadini. L’ordine istituzionale non si fonda cioè sul consenso effettivamente esistente, ma sulla sopravvalutazione del consenso effettivo e soprattutto sul fatto che tale sopravvalutazione riesca ad avere successo. Ciò è possibile «quando quasi tutti presuppongono che quasi tutti siano d’accordo; e forse persino allora quando quasi tutti presuppongono che quasi tutti presuppongano che quasi tutti siano d’accordo» (1). Basandosi sul presupposto metodologico che la società si evolva secondo uno schema sistemico-cibernetico, Luhmann concepisce la realtà sociale come un intreccio di relazioni che strutturano un “gioco” sempre più complesso e aperto a possibilità infinite. Perciò il potere non può essere considerato come una quantità fissa, indipendente dalle contingenti situazioni sociali (come invece ritiene il pensiero liberale, che condivide la celebre affermazione del filosofo inglese Locke, secondo cui «nobody can transfer to another more power than he has himself»), ma come un mezzo di comunicazione, mediante il quale il sistema isola un “frammento” del possibile, per costituire un insieme di strutture la cui funzione principale consiste nell’orientare e semplificare il comportamento dei membri del sistema. Essenziale è quindi che si possano tener sotto controllo tutti quegli eventi, interni o esterni al sistema medesimo, che potrebbero determinare una crisi di tipo strutturale: «Attraverso la generalizzazione delle aspettative di comportamento viene facilitata la concreta sintonizzazione del comportamento sociale di più persone in quanto è già prefissato in maniera tipica ciò che ci si può aspettare e quale comportamento farebbe saltare i confini del sistema. La scelta preliminare di ciò che nel sistema è possibile va operata sul piano delle aspettative non sul piano di comportamenti immediati, perché solo in questo modo è possibile trascendere la situazione concreta effettuando una anticipazione nei confronti del futuro» (2). Il sistema quindi funziona grazie ad una preselezione delle possibilità (gli input), potendo così prevedere l’agire sociale (l’output) e generando non solo l’illusione che sia possibile effettuare determinate scelte e che non sia possibile farne altre, ma anche l’illusione di vivere in un sistema il più possibile libero e “aperto”. Inoltre, ogni tentativo di delegittimare l’ordine istituzionale non ha alcuna possibilità di successo, poiché il dissenso politico non può che esprimersi tramite le procedure che legittimano il sistema (come le elezioni e i dibattiti parlamentari). Ciò significa che le procedure di formazione della volontà politica servono in primo luogo ad “isolare” i soggetti politici, per staccarli dal contesto della vita sociale ed economica, di modo che si produca una «disponibilità generalizzata ad accettare, entro certi limiti di tolleranza, decisioni il cui contenuto sia ancora indeterminato» (3). Osserva Danilo Zolo: «Una volta accettato il proprio ruolo entro la procedura formalizzata, il contributo comunicativo del singolo cittadino alla formazione della decisone finale viene stilizzato come comportamento scelto liberamente e viene nello stesso tempo sottoposto alle esigenze del procedimento mediante l’eliminazione delle possibilità che non possono essere recepite dalla decisone. Ne consegue che dopo aver compiuto la loro autorappresentazione nel procedimento, i cittadini non hanno più alcuna chance di mobilitare per la propria causa una solidarietà politica di terzi, qualunque sia l’esito finale del procedimento. [...] In altre parole il procedimento svolge la funzione di isolare e circoscrivere i temi e gli attori del conflitto sociale prima della decisione e della eventuale applicazione della forza fisica, in modo che il dissenziente resti neutralizzato politicamente» (4). D’altronde, le aspettative di comportamento vengono generalizzate tramite la normazione, di modo che possano resistere alla delusione: «Mentre semplici aspettative fattuali si regolano secondo le possibilità di realizzazione percepite, e vengono respinte e trasformate quando non si verifica ciò che è oggetto di aspettativa, la qualità normativa di una aspettativa permette di tener fermo ad essa anche quando venga delusa» (5). Sicché, per Luhmann, se la sanzione è una forma di canalizzazione della delusione – che presenta il vantaggio, nel caso di insuccesso, di essere ripetuta e rafforzata – il diritto è, in sostanza, una facilitazione che «consiste nella disponibilità di tracciati di aspettative congruentemente generalizzati, cioè di indifferenza altamente innocua verso altre possibilità, la quale riduce notevolmente il rischio dell’aspettare controfattuale» (6). Si comprende allora perché il sociologo tedesco può ritenere che il monopolio dell’uso legittimo della forza, benché necessario, non sia fondamentale per capire che cosa sia il potere (Luhmann sostiene esplicitamente che il sistema ricorre all’uso della forza come “extrema ratio” e che ogni volta che ciò accade si è in presenza di uno “scacco del sistema”), dato che ben più importanti per il funzionamento del sistema sono quei procedimenti che permettono di prendere decisioni collettivamente vincolanti che, assorbendo incertezza ed eliminando alternative, «trasformano la indeterminata complessità di tutte le possibilità in una problematica determinata, afferrabile» (7). Attraverso tali meccanismi si può avere la ragionevole certezza che prevalga ciò che il sistema seleziona e si accresce la capacità di autoregolazione del sistema, in quanto si può sottrarre l’esperienza al rischio di una problematizzazione consapevole. Ne deriva che, se il sistema si sviluppa secondo la logica probabilistica dell’indeterminazione (che prescinde da ogni riferimento a filosofie o teorie di tipo organicistico o teleologico) non può non “occultare” la realtà che non è in grado di elaborare, ossia non può non considerare come “realtà” solo quella parte del possibile che è in grado di “codificare” e di conseguenza rimuovere/reprimere ogni altra “realtà”.

Si può pertanto ritenere – pur considerando che si sono presi in considerazione solo alcuni tratti, sia pure fondamentali, del “funzionalismo sistemico” di Luhmann, il cui impianto teorico, tra l’altro, è estremamente complesso e sofisticato, benché lo si possa criticare sia sotto il profilo epistemologico (per l’approccio di tipo sistemico-cibernetico) sia perché difficilmente può spiegare il mutamento sociale – che la teoria sociologica di Luhmann abbia il merito di far comprendere meglio come il “sistema” capitalistico di tipo occidentale possa evitare una crisi di legittimazione mediante l’impiego di una precisa strategia: l’istituzionalizzazione del conflitto politico e sociale, che equivale alla trasformazione/riduzione del “politico” a “pubblica amministrazione”, la manipolazione dell’informazione e la rimozione/repressione di quella sfera della realtà che si suole, alquanto genericamente, definire come sfera dei bisogni e che denota tutte quelle dimensioni dell’esperienza che il sistema deve necessariamente “ignorare” o eliminare brutalmente per poter svilupparsi secondo “regole immanenti”. Del resto, questa “tecnologia sociale”, che, come si è detto, Luhmann giustifica in quanto concepisce il potere come un mezzo di comunicazione che si articola tramite la “procedura” della doppia selettività, sembra particolarmente utile per capire il “sistema italiano”. Altrimenti non si saprebbe spiegare come, negli ultimi vent’anni, sia stato possibile accettare, senza rilevanti conflitti sociali o politici, la svendita al capitale privato (in particolare straniero) delle aziende pubbliche strategiche (8), il passaggio dalla società cosiddetta delle “aspettative crescenti” ad una società sempre più contraddistinta dall’allargamento della “forbice” tra i ceti più abbienti e quelli meno abbienti (9), l’idea che si debba  smantellare gran parte dello Stato sociale per superare la crisi economica, la “privatizzazione” dei profitti e la “socializzazione” delle perdite, la diffusione del lavoro precario, il dilagare della corruzione in tutti gli apparati dello Stato e della amministrazione pubblica, la trasformazione di giunte comunali, provinciali e regionali in comitati d’affari, la subordinazione della scuola e dell’Università a logiche aziendali e la mercificazione di ogni mondo vitale e di ogni ambito culturale. Inoltre, ancora più sorprendente è l’apatia e l’indifferenza dell’opinione pubblica italiana (ed europea) riguardo alla politica internazionale, nonostante che si siano moltiplicate le aggressioni militari degli Usa contro Stati sovrani (Serbia, Afghanistan, Iraq) e la Nato sia diventata uno strumento della politica di potenza americana. Il fatto poi che la classe dirigente italiana si sia venduta al Leviatano americano e si mostri succube della lobby sionista, al punto di giustificare ogni crimine commesso da Israele e di accusare di “antisemitismo” ogni “voce stonata”, pare che interessi assai poco o venga considerato addirittura positivamente, non solo dal “popolo della destra” ma anche e soprattutto dal “popolo della sinistra”. E’ evidente quindi che non è sufficiente il tradimento dei “chierici” né quello dei politici per spiegare una tale “involuzione” (che invece si vorrebbe giustificare come “modernizzazione necessaria”) della società italiana in un arco di tempo così breve. Decisiva appare piuttosto la capacità del sistema di manipolare l’informazione e di “alterare”, in base a “criteri di mercato”, anche la funzione di istituzioni il cui compito dovrebbe essere principalmente quello di “educare” e di “insegnare” a problematizzare la propria esperienza avendo consapevolezza di chi si è e perché si è diventati ciò che si è. Non v’è dubbio infatti che la cultura delle “tre i” (informatica, inglese e impresa), di “derivazione” angloamericana, si sia rivelata anche uno strumento formidabile per mantenere il più alto grado possibile di “latenza” e di gran lunga più funzionale al sistema capitalistico di tipo occidentale di qualsiasi altra “cultura”, in particolare di quella di un Paese come l’Italia che ha una storia millenaria, ben diversa da quella dei Paesi di lingua inglese.  D’altra parte, se è vero che dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale una certa americanizzazione dei “costumi” del popolo italiano era inevitabile, soltanto dopo la crisi delle “ideologie”, negli anni Ottanta/Novanta del secolo appena trascorso, si è assistito ad una progressiva “corruzione” ed americanizzazione della società italiana; cioè ad una vera e propria colonizzazione culturale, che non a caso “è andata di pari passo” con una colonizzazione economica e politica che ha trasformato l’Italia in un “territorio” in cui si combattono “bande mercenarie” al servizio dello “straniero”.

Cionondimeno, si sbaglierebbe se si pensasse che il sistema sia “invulnerabile”, non solo perché è lecito ritenere che la “sfera dei bisogni” non sia comprimibile oltre una certa misura e che le aspettative di carattere sociale, politico ed economico, non possano essere continuamente deluse; ma anche perché l’indifferenza dell’apparato burocratico e di quello tecnico-produttivo riguardo agli interessi dei cittadini presuppone una riserva di fiducia nei confronti del processo decisionale (e della sua imparzialità ed efficienza) che non può essere illimitata. Inoltre, il sistema non è in grado di “neutralizzare” completamente gli effetti negativi e le “disfunzioni” derivanti dal contrasto tra la necessità di un intervento dell’amministrazione pubblica per organizzare e regolare la vita sociale, sostenere attività economiche, fornire prestazioni assistenziali, tutelare “diritti acquisiti” o riconoscere i “diritti” di “nuovi soggetti sociali” e l’esigenza di difendere il mercato, ossia soprattutto la concentrazione della ricchezza “nelle mani” di pochi, con l’adozione di politiche economiche di tipo liberista. Si deve pure tener presente che il continuo sviluppo e potenziamento del sistema capitalistico rende la manipolazione dell’opinione pubblica sempre più difficile, o comunque richiede che venga prodotta una “quantità di disinformazione” sempre maggiore, ricorrendo sempre più spesso all’inganno e alla menzogna. Il che implica che tra lo “sfondo” non tematizzato di senso, presente in ogni società umana come sapere pre-riflessivo (e che forma il “con-senso di base”), e il sapere “riflessivo” vi è non solo una differenza di grado, per quanto grande possa essere, ma una vera e propria soluzione di continuità, tanto da rendere l’autorappresentazione del sistema sempre meno “credibile”. Si pensi, ad esempio, alle guerre umanitarie, alle aggressioni “preventive”, alla diffusione su “scala planetaria” di comportamenti criminali, alla mancanza di etica pubblica, alla dissoluzione di ogni legame sociale, al peggioramento costante della qualità della vita, al degrado ambientale, alla demonizzazione e criminalizzazione di qualsiasi modo di pensare diverso da quello considerato “politicamente corretto” e all’uso improprio e strumentale di termini quali “antisemitismo”, “fascismo” e “comunismo”.

Tuttavia – anche ammesso che si sia notevolmente abbassato il livello di consenso “implicito” su cui il sistema può contare e che quindi non sia affatto certo che l’autorappresentazione del sistema costituisca un orizzonte di senso condiviso “aproblematicamente” – più rilevante ai fini della soppressione di ogni forma di dissenso è forse il fatto che la quasi totalità delle relazioni sociali e personali sono ormai mediate dal denaro (anch’esso un mezzo di comunicazione, secondo Luhmann). Il “potere” del denaro, in Occidente, pare essere infatti assai più efficace dell’esercizio del potere positivo nel prevenire fenomeni sociali e politici “devianti” rispetto alle “logiche” del sistema, dato che un movimento realmente “alternativo” – e in Italia lo sarebbe solo un movimento che, in nome dell’interesse nazionale e della “naturale vocazione mediterranea” del nostro Paese, si opponesse alla visione geostrategica della talassocrazia americana, contrastando apertamente la politica della attuale classe dirigente, senza distinzione tra “destra” e “sinistra” – non avrebbe certo l’appoggio dei potentati economici, che detengono il controllo di quei (pochi) mezzi di comunicazione di massa che effettivamente “orientano” l’opinione pubblica o addirittura “fanno opinione pubblica”. Perfino la stessa “emarginazione” di ogni “azione culturale” che non si uniformi alla “linea politica” del cosiddetto “pensiero unico” dipende più dalla impossibilità di disporre delle risorse economiche necessarie per non essere “sconfitti” a priori dalla “libera concorrenza” – che può contare sul sostegno, niente affatto disinteressato, del grande capitale privato – che non dall’ “azione repressiva” della pubblica amministrazione e degli apparati coercitivi dello Stato. Ed è forse per questo motivo che, in Italia e non solo in Italia, si cerca di fare pressione affinché siano rafforzati i meccanismi “tradizionali” della repressione del dissenso (cioè la richiesta di norme o provvedimenti che penalizzino la libertà di pensiero e di espressione – da non confondere con la libertà degli “uffici stampa” del sistema – con la scusa di difendere la “democrazia ” e i cosiddetti “valori occidentali”), perché tanto più si restringe lo “spazio pubblico”, tanto più è probabile che il sistema possa mantenere alta la soglia del “non sapere sul mondo”. Ovvero un “non sapere” che richiama alla memoria quel che Martin Heidegger, nel suo capolavoro “Essere e tempo” designa come il mondo del “Man”, del “Si” (“si dice, “si pensa”, “si fa”), che contraddistingue l’esistenza inautentica, anonima e impersonale, e che in una società in cui le relazioni tra le persone e le cose valgono molto più delle relazioni tra le persone equivale alla peggior forma di alienazione possibile.

Fabio Falchi

NOTE

1) N.Luhmann, “Rechtssoziologie”, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg, 1972, p.71; in relazione al tema trattato in questo articolo si vedano D. Zolo, “Complessità, potere, democrazia”, in N.Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979, pp.IX- XXX e R.De Giorgi, “Scienza del diritto e legittimazione”,.De Donato, Bari, 1979, pp.203-249. Si noti che i riferimenti alle opere di Luhmann sono tratti da questo saggio di De Giorgi.

2) N.Luhmann, “Soziologie als Theorie sozialer Systeme, in “Soziologische Aufklärung”, vol.I, Westdeutscher Verlag, Opladen, 1974, p.121.

3) N.Luhmann, “Legitimation durch Verfahren”, Luchterhand, Darmstad und Neuwied, 1975, p.28.

4) D. Zolo, op. cit., p.XXI.

5) N. Luhmann, “Funktionen und Folgen formaler Organisation”, Duncker und Humblot, Berlin, 1976, p.56.

6) N.Luhmann, “Rechtssoziologie”, op. cit., p.100.

7) Ibidem, p.140.

8) Si veda A. Braccio, “Italia in vendita. Vent’anni di privatizzazioni in una relazione della Corte dei Conti”, http://www.cpeurasia.eu/312/italia-in-vendita-%E2%80%93-vent%E2%80%99anni-di-privatizzazioni-in-una-relazione-della-corte-dei-conti

9) Si veda F. Roberti, “Corrado Gini e dintorni”, http://www.cpeurasia.eu/1031/corrado-gini-e-dintorni