sabato 5 luglio 2014

FABIO FALCHI, PREFAZIONE A CLAUDIO MUTTI, " DEMOCRAZIA E TALASSOCRAZIA. SAGGI DI ANALISI GEOPOLITICA", EFFEPI, GENOVA, 2014


  • È nota la definizione della geopolitica come disciplina che studia l'azione nello spazio politico, inteso come la dimensione in cui si sovrappongono e intrecciano diversi altri spazi, da quello economico a quello sociale, da quello demografico a quello militare e così via. In questo senso, la geopolitica è ben distinta dalla geografia politica, benché sia pacifico che debba prendere in considerazione l'influenza che i fattori geografici esercitano o possono esercitare sull'azione politica. Nondimeno, tale definizione sembra presupporre come ovvio quel che ovvio invero non è; sembra cioè che il significato della nozione di spazio sia, per così dire, talmente “alla mano” da non richiedere alcun tipo di analisi o approfondimento. D'altronde, è vero pure che la lotta politica, come qualsiasi altro fenomeno si svolge sia nel tempo che nello spazio. Nulla di strano, si potrebbe quindi obiettare, se la nozione di spazio è presupposta tanto dagli studiosi di geopolitica quanto dagli storici, avendo (forse) la nozione tempo maggiore rilevanza per lo studio della storia, sebbene anche gli storici siano sempre più propensi a riconoscere l'importanza dei fattori geografici e, in generale, delle diverse dimensioni “spaziali” per comprendere anche i fatti e gli eventi che veramente contano (si pensi alla critica della cosiddetta “histoire événementielle”).
  • Non a caso si deve a uno storico, Fernand Braudel, la distinzione di tre livelli temporali per comprendere i fenomeni storici: il “tempo geografico”, il “tempo sociale” e il “tempo individuale” (che include l'évenémentiel). Più che il tempo però, come osserva Paul Ricoeur (1), è lo spazio a dominare nel primo livello. Ma quale spazio? Se si prende in esame la grande opera di Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II (2), si può notare che nei primi tre capitoli, che trattano del Mediterraneo (il “mare in mezzo alle terre”), si parla non dello spazio in generale ma di spazi abitati, di montagne in quanto rifugi per l'uomo, di bonifica delle terre, di pianure costiere in relazione alla colonizzazione e al lavoro di drenaggio, di isole che possono essere scoperte ed esplorate, di mari che possono essere solcati. Si parla cioè di luoghi non di spazi “vuoti”. Tempo e spazio allora non si configurano come “semplici” coordinate di ogni (nostra) esperienza possibile, bensì come “forme d'esperienza” articolate in funzione dell'agire degli uomini, in quanto questi ultimi sono “uomini abitanti”. È lo stesso Ricoeur a sottolinearlo allorché nota che i conflitti tra l'impero turco e quello spagnolo proiettano la loro ombra sui paesaggi marini di modo che il secondo livello (quello della storia dei gruppi umani) è anticipato nel primo. Pertanto, afferma il filosofo francese «la geo-storia si trasforma rapidamente in geopolitica. […] Le zone marittime sono immediatamente zone politiche» (3).
  • I luoghi dunque possono essere essi stessi, in un certo senso, degli attori geopolitici, ma solo perché gli uomini sono i padroni degli spazi geografici e “pro-ducono” città, strade, ponti, mercati, porti, traffici. E ovviamente anche armi e navi da guerra. Perciò ricorda Ricoeur citando Braudel che «non è l'acqua che unisce le regioni del Mediterraneo ma i popoli del mare» (4). Al riguardo, è degno di nota quanto sostiene Martin Heidegger in Costruire, abitare, pensare (5). Per il pensatore tedesco l'essenza del costruire consiste nel “far abitare”, nell'aprire spazi “in vista” dell'abitare, nell'edificare luoghi. Scrive Heidegger che«il ponte non viene a porsi in un luogo che c'è, ma il luogo si origina solo a partire dal ponte» (6). Questa possibilità determinata di costruire e abitare non è senza relazione con ciò che Heidegger definisce come la Quadratura, “la terra e il cielo, i mortali e i divini”. Ed è accordando a tale Quadratura un posto che, secondo Heidegger, si determinano le località e le vie grazie alle quali è possibile ordinare uno spazio (7). Non trova invece posto nella Quadratura il mare. Né potrebbe trovarlo una volta che si sia definito il luogo in funzione dell'abitare. Il mare qui è già “mare in mezzo alle terre”. E porti, vie marittime e navi sono le opere dei mortali che abitano la terra. Ma la relazione tra il mare (in quanto tale) e i luoghi non è certo identica a quella fra la terra e i luoghi. 
  • Di questa differenza è già perfettamente consapevole Platone, il quale non solo vede nell'elemento fluido il simbolo di una instabilità e una “corruzione” che, dissolvendo i legami comunitari, favoriscono la degenerazione della stessa democrazia in demagogia e (di conseguenza) quelle lotte intestine che conducono la polis alla rovina, ma mostra pure che vi è una relazione necessaria tra la talassocrazia e la pre-potenza della grande polis attica. Una tracotanza che, facendo venir meno qualsiasi tradizione agonistica, muta la “forma” stessa della guerra e porta la polis a trattare perfino i propri alleati come schiavi. Eppure non può esservi homo europaeus senza “apertura” al mare. Si può anzi sostenere che l'identità europea consiste essenzialmente nel saper confrontarsi con il mare, nel saperlo “misurare”. Il difficile equilibrio tra la radice terrestre dell'“uomo abitante” e l'elemento fluido, sradicante e “anomico” si configura come tratto essenziale dell'homo europaeus, per il quale l'esperienza della alterità è costituiva della propria identità. Per questo Hegel può scrivere: «In Asia il mare non ha importanza: anzi, i popoli hanno chiuso le porte al mare […] In Europa quel che conta è proprio il rapporto col mare: questa è una differenza costante» (8). Indipendentemente dall'eurocentrismo che è presente anche in queste parole del pensatore tedesco, è innegabile però che Hegel si avveda chiaramente del rischio che tale “procedere oltre” comporta: «Nel desiderio del guadagno, per il fatto stesso che questo desiderio lo espone al pericolo, il desiderio in quanto tale gli si eleva sopra, e permuta lo stabile divenire sul fondamento della zolla e delle cerchie limitate della vita civile, nei suoi piaceri e nei suoi desideri, con l'elemento della fluidità, del pericolo, del venir meno» (9). Dunque la dialettica “terra-mare” si configura come una sfida necessaria, ma pure come una sfida che richiede un particolare senso della “misura” e dell'equilibrio, un katechon in grado di impedire che in questo “procedere oltre” venga annientata ogni differente identità. 
  • A tale sfida è indubbio che i popoli del Mediterraneo per secoli abbiano saputo far fronte. Tanto che Roberto Lopez non esita ad affermare che si dovrebbe considerare l'impero romano come un dono del Mediterraneo (10). Peraltro, considerando la civiltà mediterranea nel suo rapporto con il sistema mondiale non si può non prendere in esame quella zona che lo stesso Braudel denomina Mediterraneo Maggiore e che «si estende fino al Mar Rosso, all'Oceano Indiano, al Golfo Persico. La civiltà mediterranea si misura da questi irradiamenti; il suo destino è più facile a leggersi sui suoi margini esterni che non al centro» (11). Con la scoperta del “Nuovo Mondo” però cambia tutto. Avviene una rivoluzione “terracquea” che muta in radice il rapporto dell'uomo con il mare: «Il contrasto tra la terra e il mare appare ora per la prima volta nella storia mondiale non più sotto l’aspetto della lotta per un mare interno come il Mediterraneo, bensì sotto il vasto orizzonte della visione universale della terra e dell’oceano mondiale. Esso raggiunge questa profondità soprattutto dopo il completamento della concezione della terra come corpo planetario, dunque soltanto a partire dal secolo XVI. Esso consiste, a differenza di tutti i casi precedenti che si possono osservare, come Atene-Sparta o Cartagine-Roma, nell’orizzonte del tutto diverso di una rivoluzione spaziale mondiale» (12). E ancora una volta muta la “forma” della guerra, in un modo che nemmeno Platone poteva prevedere , benché quella che alcuni storici denotano come “l'era di Colombo” o “l'epoca di Vasco de Gama”, cioè i tre secoli dopo il 1500, sia un'epoca in cui solo gradualmente si passa dalle piccole navi degli esploratori portoghesi ai potenti vascelli delle Indie orientali che veleggeranno in quei mari un secolo più tardi. Comunque sia, è pacifico che con l'evoluzione di navi a vela oceaniche armate (ben diverse dalle antiche triremi o dalle galee veneziane) si verifica un sostanziale avanzamento delle potenze navali europee nel mondo, rendendo possibile una fulminea espansione del commercio attraverso l'Atlantico, tanto che il volume di questo commercio aumenta di otto volte tra il 1510 e il 1550, e di tre volte tra il 1550 e il 1610 (13). Si fa largo così la convinzione che chi domina i mari, domina i commerci e chi domina i commerci domina il mondo. Per usare le parole di Ricoeur sopraccitate, in questo “nuovo spazio” si proietta l'ombra dell'illimitata volontà di potenza della talassocrazia inglese e poi di quella (ancor più tracotante) della “Grande Isola d'oltreoceano”. In quest'ottica, il dominio dell'aria non appare altro che la “naturale” evoluzione della talassocrazia statunitense, il cui strumento bellico “per eccellenza” è appunto la portaerei, “regina dei mari e dell'aria”.
  • Sembra perciò che, oltre alla Quadratura cui si riferisce Heidegger, se ne debba prendere in considerazione un'altra; vale a dire quella degli elementi naturali - terra, acqua, aria e fuoco – che secondo i “maestri di sapienza” della Grecia arcaica strutturano anche il nostro “essere nel mondo”. Elementi di cui, in verità, l'uomo non può disporre a piacimento. Come trovare allora la “giusta mescolanza” tra di loro? Come potersi “misurare” con questa nuova sfida? Certamente non è facile rispondere. Ma non si dovrebbe dimenticare quanto scrive un pensatore indubbiamente “realista” come Carl Schmitt riguardo ai “grandi spazi” (intesi come “spazi intermedi” tra il mondo e gli Stati nazione, ormai troppo piccoli) e soprattutto riguardo a quelle che egli stesso definisce come iconografie regionali. Secondo Schmitt, infatti, tali iconografie (essenziali per la formazione dei “grandi spazi”) sono composte da «differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni tradizioni, dal passato storico e dalle organizzazioni sociali. Ricordi, saghe, miti e leggende, simboli e tabù, abbreviazioni e segnali di sentimento, del pensiero e del linguaggio: tutti insieme compongono l'iconografia di una determinata regione» (14). Ragion per cui un'alternativa multipolare incentrata su un nuovo nomos della terra pare essere l'unica “misura” possibile per porre un freno alla volontà di pre-potenza del Leviatano d'oltreoceano. Non meraviglia allora che l'Autore delle pagine che seguono, grazie alle sue ben note competenze storiche e linguistiche, sviluppi e approfondisca una visione geopolitica delle iconografie delle diverse regioni del mondo, non solo tenendo conto della perenne dialettica “terra-mare”, ma anche e soprattutto mostrando che (geo)politicamente l'uomo abita la terra.


  • Note
  • 1. P. Ricoeur, Tempo e racconto, Jaca Book, Milano,1983, vol. I, p.308.
  • 2. F. Braudel Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi, Torino, 2010.
  • 3. P. Ricoeur, op. cit., p. 309.
  • 4. Ivi, p. 310.
  • 5. M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, in Idem, Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1985, pp. 96-108.
  • 6. Ivi, p. 103.
  • 7. Ibidem.
  • 8. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G .Calogero e C. Fatta, Firenze, 1963, vol. I. pp. 269-271.
  • 9. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1979, par. 247, p. 232.
  • 10. R. S. Lopez, La nascita dell'Europa, Einaudi, Torino, 1966, p. 12.
  • 11. S. Ronchey, Lo Stato bizantino, Einaudi, Torino, 2002, p. 5.
  • 12. C. Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma, 2003, p. 148.
  • 13. P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989, pp. 65-66-
  • 14. C Schmitt, op cit.,(ed. 1994), p. 33.