lunedì 27 dicembre 2021

BREVE NOTA SULLA LOTTA PER L’EGEMONIA E LA “TEMPESTA PERFETTA”

Che l’attuale fase storica sia caratterizzata dal multipolarismo sotto il profilo geopolitico e dal declino relativo della potenza americana è difficile metterlo in dubbio, sebbene siano ancora gli Stati Uniti la maggiore potenza mondiale e il centro egemonico del capitalismo occidentale. Pertanto, secondo diversi analisti, l’attuale fase storica sarebbe in realtà una complessa fase di transizione, cosicché non è facile prevedere se si concluderà con la nascita di nuovo ordine mondiale non egemonizzato dagli Stati Uniti o se l'America riuscirà a conservare la direzione strategica del sistema internazionale sia sotto il l’aspetto geopolitico che sotto quello economico. Al riguardo pare comunque necessario tener presente che l’egemonia americana dalla Seconda guerra mondiale fino ad oggi si può distinguere in diverse fasi (ovviamente in questa sede è possibile solo delineare in modo assai sintetico i tratti essenziali di ciascuna di queste fasi).

La prima, che abbraccia un arco di tempo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale fino all’inizio degli anni Settanta, è contraddistinta sia dalla netta supremazia economica americana garantita dagli accordi di Bretton Woods (estate 1944) sia dalla guerra fredda, ossia non solo dalla rivalità tra gli Usa e l’Unione Sovietica ma, in generale, dallo scontro tra capitalismo e comunismo, che interessa in pratica tutte le regioni del pianeta. Gli Usa quindi agiscono come gendarme dell’ordine capitalistico mondiale, benché la sfida comunista renda necessaria la mediazione politica (sia pure in forme diverse nei diversi Paesi occidentali) tra interessi del grande capitale e quelli delle classi sociali medie e subalterne.

In questa fase quindi è decisivo per gli Usa non solo avere il controllo geopolitico del continente americano (tutelando in specie gli interessi della borghesia compradora latino-americana), ma pure dell’Europa Occidentale e del Rimland, ossia della fascia costiera che dal Mediterraneo si estende fino all’Estremo Oriente, passando per il Medio Oriente e il Golfo Persico, ovverosia due aree geopolitiche di vitale importanza anche sotto il profilo (geo)economico per la presenza di numerosi giacimenti petroliferi, da cui dipende l’economia dell’Europa Occidentale.

Alla fine degli anni Sessanta però si moltiplicano i segni di una crisi dell’egemonia americana. Dopo lo scacco subito nella guerra di Corea, gli Usa non riescono ad evitare una umiliante sconfitta nella guerra del Vietnam, non certo per mancanza di mezzi ma per una insipienza politico-militare che pare dipendere da uno scarso “senso della storia” e da una sopravvalutazione della “potenza” della tecnologia (un conto è potere distruggere un Paese, un altro è acquisire il controllo del “territorio” di un Paese) e che in sostanza rende impossibile che non divergano scopo politico e obiettivo militare con conseguenze disastrose anche sul piano militare. La guerra del Vietnam, inoltre, provoca profonde lacerazioni nella società americana (specialmente nel mondo universitario) già scossa dal conflitto razziale e dalla lotta sempre più aspra all’interno della stessa élite dominante statunitense, anche per il ruolo politico dei principali media sempre più ostili all’impegno militare americano in Vietnam.

Per giunta, l’America deve fare fronte alla sfida con l’Unione Sovietica nel Medio Oriente, e a quella ancora più complessa della diffusione delle idee socialiste o marxiste sia nell’Europa occidentale che nel Terzo Mondo e nella stessa America Latina. In gioco vi sono quindi l’egemonia degli USA e la difesa degli interessi del grande capitale occidentale, anche perché lo sviluppo del Welfare State nell’Europa Occidentale minaccia di mutare i rapporti di forza a vantaggio del mondo del lavoro. Inquietante, del resto, per l’élite del potere statunitense è anche la crescita economica dei principali alleati europei, tanto che l’America registra pure un passivo della propria bilancia commerciale (un passivo che da allora sarà una costante dell’economia americana), sebbene negli anni del dopoguerra, anche grazie al surplus della propria bilancia commerciale, gli USA potessero permettersi di prestare ingenti capitali ai propri alleati, condizionandone quindi anche le scelte economiche oltre a quelle (geo)politiche. 

Ciò nonostante, gli Stati Uniti hanno ancora ottime carte da giocare, anzi ne hanno assai più del loro principale rivale, ossia l’Unione Sovietica che sembra ormai avere esaurito la spinta propulsiva che nei decenni precedenti l’aveva trasformata in una superpotenza. E gli Stati Uniti le sanno giocare con abilità. Difatti, non esitano a sganciare il dollaro dall’oro, ossia a mettere fine agli accordi di Bretton Woods, né a sfruttare l’ostilità tra la Cina e l’Unione Sovietica. Evitano pertanto che la sconfitta subita nella guerra del Vietnam assuma il significato di una sconfitta strategica e al tempo stesso possono trarre il massimo vantaggio, non solo sotto l’aspetto geopolitico ma anche sotto quello politico-culturale, dalle divisioni interne al mondo comunista, da cui, del resto, i vari partiti e movimenti di sinistra occidentali già prendono nettamente le distanze, considerando i sistemi comunisti o socialisti ormai peggiori del sistema liberal-capitalistico ovvero di quello che si definisce il “mondo libero”.

D’altronde il rapporto particolare che Washington ha con le élite latino-americane, ferocemente antisocialiste, permette agli Usa di sostenere una serie di “operazioni sporche” (di cui le più note forse sono il golpe di Pinochet in Cile e la famigerata Operazione Condor) per eliminare non solo politicamente ma anche fisicamente chiunque possa rappresentare un pericolo per gli interessi della borghesia compradora latino-americana o per quelli degli Stati Uniti. Peraltro, l’America può sfruttare perfino gli shock petroliferi causati dalla guerra del Kippur e dalla rivoluzione islamica in Iran, che acuiscono la crisi del Welfare State europeo, basato su politiche economiche neokeynesiane. L’America adesso può dunque ridefinire i rapporti con il Terzo Mondo e pure con l’Europa occidentale (stretta nella morsa della stagflazione ma anche sempre più attratta dall’“american way of life”, non certo dai “modelli culturali” del mondo comunista), mentre l’Unione Sovietica, oltre ad impegnarsi in un conflitto in Afghanistan che la indebolisce ulteriormente, non è più in grado di controllare le forze centrifughe e distruttive che minacciano il suo impero e si rivela capace solo di prolungare per qualche lustro la propria agonia. 

D’altronde, la rivoluzione industriale dell’elettronica e dell’informatica se da un lato consente agli Usa di riaffermare la propria supremazia in campo militare - vanificando così gli enormi e costosissimi sforzi compiuti dai sovietici per dotarsi di una apparato militare convenzionale in grado di competere con la macchina bellica americana -, dall’altro offre al grande capitale, i cui interessi possono essere tutelati in ogni parte del mondo soltanto dagli Usa, di mutare i rapporti di forza con il mondo del lavoro, in modo tale che il sistema politico e sociale occidentale ritorni ad essere a direzione capitalistica. Lo Stato, in Occidente, nel giro di pochi anni torna quindi ad essere lo strumento mediante il quale l’intera società è sottomessa agli interessi del grande capitale nazionale e soprattutto internazionale.

Alla fine del secolo scorso, mentre la Russia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica sprofonda in una spaventosa crisi economica, sociale e demografica, nulla dunque sembra più poter opporsi né al disegno di una supremazia totale dell’America né, di conseguenza, alla prepotenza del capitalismo predatore. Perfino il terrorismo islamista - che pure è stato favorito dagli Stati Uniti prima per logorare l’Unione Sovietica e poi per indebolire ulteriormente il gigante russo, perché non possa più tornare ad essere perlomeno una grande potenza eurasiatica sfruttando le enormi risorse naturali del suo immenso territorio – anche se può colpire direttamente l’America sembra offrire a Washington la possibilità di consolidare l’egemonia americana sull’intero pianeta. 

Al tempo stesso, la Nato, che di fatto prende ordini dagli americani, si espande verso Est e l’America, oltre a fare leva sulla nota russofobia di alcuni Paesi dell’Europa orientale e a sostenere (anche finanziariamente) la cosiddetta “rivoluzione” di piazza Maidan (in realtà un colpo di Stato) in Ucraina, si avvale di diverse “quinte colonne” filo-occidentali al fine di destabilizzare la Russia di Putin. Nondimeno, il “sogno americano” termina proprio quando sembra che stia per diventare realtà, ovverosia allorché sembra che la storia sia finita con il trionfo del capitalismo a stelle e strisce. La storia, infatti, non solo non è finita ma riserva all’élite dominante americana delle brutte soprese. 

Eppure all’inizio del terzo millennio le sfide che gli Usa devono affrontare non paiono particolarmente difficili. Se il Giappone si è già imbattuto nei suoi limiti, l’Unione Europea è solo una unione competitiva europea, i cui membri, a cominciare dal più importante, ossia la Germania, sono impegnati a difendere i propri interessi anche e soprattutto a scapito dei membri più deboli della Ue. In sostanza l’Ue è solo un nano geopolitico e un gigante economico dai piedi di argilla. 

Le altre due sfide sono quella del terrorismo islamista e quella rappresentata da una Cina che si è aperta al mercato. Ma come potrebbe una Cina ancora a guida comunista competere con gli Usa? La cosiddetta “globalizzazione” o l’internazionalizzazione del capitalismo anzi offre l’occasione di prendere due piccioni con una fava: da un lato le multinazionali hanno l’opportunità di trarre il massimo profitto dal basso costo del lavoro in Cina, dall’altro la creazione di una classe capitalistica cinese sembra la carta vincente di Washington, perché si ritiene inevitabile che i capitalisti cinesi si sbarazzeranno del partito comunista. Invece non solo la crescita economica e tecnologica della Cina si rivela essere incredibilmente rapida, tanto che il Paese diventa nel giro di pochi lustri la prima potenza industriale, ma il sistema politico cinese non muta, anzi si rafforza e la Cina dimostra di non avere alcuna intenzione di farsi inglobare nel sistema liberal-capitalistico a guida statunitense. 

Inoltre, la cosiddetta “guerra al terrore” voluta da Washington (quasi che il terrorismo fosse un nemico politico anziché un metodo, per quanto detestabile, di lotta politico-militare) anziché debellare il terrorismo islamista lo ha reso perfino più pericoloso, mentre ancora una volta l’insipienza e l’arroganza dell’élite del potere statunitense conducono ad altri due fallimenti politico-militari americani (in Iraq e in Afghanistan). Incapaci ancora una volta di far convergere scopo politico e obiettivo militare gli Usa evitano comunque una sconfitta strategica, solo grazie alla loro gigantesca macchina bellica, che però non è in grado di rimediare agli errori commessi nel tentativo (anch’esso fallito) di rovesciare il regime di Assad, che non solo ha complicato a dismisura lo scenario medio-orientale, ma ha dato modo alla Russia (che è pur sempre una superpotenza nucleare) di tornare ad essere un attore geopolitico di primaria importanza e ad alcune potenze regionali (in particolare l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita) di giocare una partita geopolitica che vede l’America in seria difficoltà al punto da compromettere la sua alleanza con la Turchia e a non avere rapporti facili nemmeno con l’Arabia Saudita.

Anche questa volta però non si tratta solo di crisi geopolitica ma anche di crisi sociale ed economica, che riguarda tutto il mondo occidentale e in particolare la stessa società americana, in cui vecchi conflitti (come quello razziale) si sommano a nuovi conflitti generati da una crisi che penalizza non solo le classi sociali subalterne o gli afroamericani ma perfino il ceto medio bianco, aggravando così la tensione tra l’élite dominante e buona parte del popolo americano che considera Washington non tanto come la capitale della nazione americana quanto piuttosto come il “centro” di un potere malefico e “nemico” della stessa nazione americana.

Pare dunque lecito chiedersi se gli Usa anche questa volta siano in grado di superare l’attuale crisi di egemonia con una controffensiva politico-strategica “a tutto campo”, proprio come è avvenuto nella seconda metà del secolo scorso, benché naturalmente si debba tener conto anche delle notevoli differenze tra le due fasi storiche. Si tratta perciò di capire quali sono le carte che gli Usa possono giocare in questa fase storica, che non si può paragonare, se non per certi aspetti, a quella che esisteva mezzo secolo fa (basti pensare al fatto che attualmente gli Usa devono confrontarsi con l’ascesa di una grande potenza, ossia la Cina, mentre negli anni Settanta del secolo gli Usa dovevano competere con l’Unione Sovietica che era già una grande potenza in declino), anche perché non vi è in Occidente alcuna forza politica che voglia o sia davvero in grado di mettere in discussione l’attuale sistema liberal-capitalistico, benché quest’ultimo sia incapace di risolvere i problemi che esso stesso genera e possa quindi solo cercare di guadagnare o, meglio, “comprare” tempo. (Anche il/la Covid-19 ha messo in luce non solo l’inefficienza ma pure la “fragilità” del sistema liberal-capitalistico che, promuovendo un estremo individualismo e una concezione della libertà che in pratica non si riesce nemmeno più a distinguere dalla bramosia di possesso o dalla libertà di calpestare la libertà degli altri, ha distrutto quasi del tutto i legami comunitari e reso sempre più difficile perseguire un fine collettivo e la tutela del bene comune). 

Prima di tutto si deve osservare che gli Usa non possono più giocare la carta della rivalità tra Russia e Cina, e che la politica di Washington di questi ultimi anni ha perfino rafforzato i rapporti di amicizia tra questi due Paesi, al punto che ben difficilmente gli Usa possono rinunciare ad una politica ostile sia nei confronti della Russia che della Cina. La Cina, difatti, solo per la sua potenza economica e il suo “diverso” sistema politico costituisce una minaccia per gli interessi economici che Washington non può non difendere senza abdicare al proprio ruolo di gendarme del liberal-capitalismo, mentre una politica diversa nei confronti della Russia comprometterebbe il ruolo egemone degli Usa in Europa, dato che solo considerando la Russia una potenza ostile è giustificabile il rapporto di subordinazione dei Paesi europei nei confronti degli Stati Uniti. 

In definitiva, volente o nolente, l’America, se non è disposta a rinunciare al suo disegno di egemonia globale, non può che continuare ad essere ostile nei confronti della Russia e della Cina e strumentalizzare, con la complicità dei media occidentali, la delicata questione dei diritti umani. Accordi di vario genere (commerciali, militari, ecc.) con l’uno o l’altro di questi Paesi sono certo possibili, ma sempre in un contesto internazionale caratterizzato da forti tensioni con queste grandi potenze. Come se non bastasse, l’emergere di diversi attori geopolitici regionali complica enormemente le relazioni internazionali, sia perché può facilmente indebolire anche alleanze consolidate sia perché può moltiplicare le aree calde del pianeta e rendere perfino più “incandescenti” quelle già esistenti (si pensi, ad esempio, al Kashmir).

Gli Usa possono comunque sia cercare di riguadagnare le posizioni perdute nel Medio Oriente, anche perché contano sempre sull’alleanza con Israele che in quell’area geopolitica è ancora la potenza regionale più forte e più temibile (sebbene nel complesso scenario medio-orientale anche una grande potenza rischi di perdere più di quel che può guadagnare), sia contrastare la penetrazione commerciale della Cina in Africa (in particolare promuovendo colpi di Stato e conflitti etnici e favorendo la politica neocolonialista delle multinazionali). D’altra parte, gli Usa possono anche continuare a tenere sotto scacco l’America Latina (un compito però che non è così facile come nello scorso secolo, anche perché le condizioni per una nuova Operazione Condor non paiono esserci più). Tuttavia, dopo i fallimenti politico-militari di questi ultimi anni, per l’America non sarebbe facile intervenire militarmente per difendere degli interessi regionali senza rischiare di perdere nuovamente la faccia, e questo è già di per sé un grave limite sotto il profilo geopolitico. 

Le carte principali quindi che gli Usa possono giocare nella lotta per l’egemonia sembrano essere essenzialmente due: rafforzare l’alleanza strategica con i Paesi di lingua inglese e quelli europei (oltre che con il Giappone e la Corea del Nord) in funzione anti-russa e/o anti-cinese, e sfruttare la nuova rivoluzione tecnologica (digitale, green economy, biotecnologie ecc.) per dare nuovo slancio al capitalismo e consolidare il potere della classe capitalistica occidentale anche sul piano interazionale oltre che nei singoli Paesi occidentali o filo-occidentali. Nondimeno anche i rapporti con alcuni di questi Paesi (Germania inclusa) presentano non pochi problemi, dato che i loro interessi economici rischiano di essere in contrasto con gli interessi geopolitici dell’America. 

Invero il problema più difficile da risolvere per gli Usa è come conciliare una politica di potenza unilaterale con un mondo che di fatto è già multipolare. Certo l’America potrebbe pure fare qualche passo indietro e limitarsi ad una egemonia sul mondo di lingua inglese, accontentandosi di avere un’influenza significativa nel resto del mondo. Ma questo implicherebbe rinunciare ad essere il centro propulsivo del capitalismo predatore che non può esistere senza che vi sia un centro di potenza egemonico che ne tuteli gli interessi. L’élite dominante americana ovviamente ne è consapevole, e consapevoli ne sono anche le diverse classi capitalistiche dei Paesi occidentali, ragion per cui sono disposte a sostenere la politica di potenza americana anche allorché, nel breve termine, può essere in contrasto con i loro interessi. Ma nel lungo periodo una tale situazione non è sostenibile. 

In questo senso il multipolarismo è una sfida che né il capitalismo occidentale né l’America possono vincere se non accettando di rischiare uno scontro diretto con i due principali centri di potenza anti-egemonici (ossia la Cina e la Russia), puntando tutto sulla nuova rivoluzione tecnologica (anche per trasformare il sistema educativo in un sorta di fabbrica di “idioti” politicamente “innocui” e socialmente utili – alla classe capitalistica, s’intende), sulla capacità dei media mainstream di manipolare l’opinione pubblica occidentale, e soprattutto sulla incapacità della Russia e della Cina di fare “fronte comune” oppure sul crollo del sistema politico cinese. 

In questo caso però fallire non significherebbe subire le conseguenze di un’altra crisi geopolitica ed economica, ma scatenare una “tempesta perfetta” che travolgerebbe l’intera comunità internazionale. Certo, non si può nemmeno escludere che, per evitare questo rischio, si giunga a creare un diverso ordine mondiale, basato cioè su una effettiva cooperazione internazionale e su un sistema politico ed economico post-capitalista, ma si deve riconoscere che in una prospettiva realistica l’ottimismo della volontà non vale più del pessimismo della ragione.


mercoledì 20 ottobre 2021

COME FINIRÀ IL CAPITALISMO?

 Come afferma Carlo Formenti, in un lunga e densa  recensione del libro di Wolfgang Streeck “Come finirà il capitalismo?”,* “nemmeno la catena di fallimenti cui [il capitalismo] è andato incontro possono indurre il sistema [capitalistico] ad autoriformarsi e a cambiare rotta”, ragion per cui per cui, secondo Streeck, “si cercheranno modi sempre nuovi per sfruttare la natura, estendere e intensificare l’orario di lavoro e incoraggiare ciò che il gergo chiama ‘finanza creativa’, in uno sforzo disperato per mantenere alti i profitti”.

Molte, del resto, sono le sfide che il capitalismo non può risolvere, incluse quella di una crescita infinita in un mondo finito e di un multipolarismo che mette in discussione la presenza di un unico centro egemonico capitalistico. 

Di fatto, il sistema capitalistico o, meglio, liberal-capitalistico può solo cercare di guadagnare tempo, non potendo risolvere i problemi che esso stesso genera. Attualmente quindi non si è in presenza di una “normale crisi” dell’apparato capitalistico, che si possa cioè risolvere con una distruzione creatrice, come accaduto nel passato, tanto che pure con il cosiddetto “Great Reset”, in definitiva, si mira soprattutto a guadagnare tempo. La stessa pandemia, del resto, ha dimostrato quanto sia fragile e incoerente il sistema liberal-capitalistico.

Non stupisce allora che secondo Streeck “la fine del capitalismo [possa] essere immaginata come una morte sopraggiunta per innumerevoli ferite o per una molteplicità di infermità, ognuna delle quali sarà tanto più incurabile quanto più tutte richiederanno cure contemporaneamente”. Insomma, il sistema rischia di collassare in quanto non può gestire le sue contraddizioni interne.

Tuttavia, sebbene esistano le condizioni sociali, economiche e perfino ambientali per un “mutamento di sistema”, non pare esserci nessuna alternativa realistica al sistema capitalistico, che di conseguenza sempre più si configura come una gabbia di acciaio da cui non si può evadere o addirittura come una prigione senza muri da cui ben pochi prigionieri desiderano evadere. Mancano dunque le condizioni politico-culturali perché sia possibile un “mutamento di sistema.

Né è realistico immaginare che la classe capitalistica accetti di incastonare di nuovo il mercato in un ampio ventaglio di istituzioni politiche e culturali, ovverosia favorisca una politica che si opponga alla mercificazione di ogni ambito vitale di modo da allargare il più possibile la differenza tra società e modo di produzione (di merci e servizi).

A giudizio di Streeck, perciò, il declino del sistema liberal-capitalistico è inevitabile ma prima di esalare l’ultimo respiro il capitalismo “resterà sospeso nel limbo, morto o sul punto di morire per overdose di sé stesso, ma ancora molto presente, poiché nessuno avrà il potere di spostare il suo corpo in decomposizione dalla strada”. 

D'altronde, perfino la condizione di incertezza e precarietà prodotta dalle “forze di mercato” viene glorificata - in specie dalla middle class cosmopolita e dai media mainstream, il cui potere di manipolazione delle masse è ormai evidente a chiunque – come il trionfo della libertà individuale, e al tempo stesso rende sempre più difficile un’azione collettiva capace di contrastare con successo una politica che tutela soprattutto gli interessi del grande capitale e in particolare di quello finanziario.

Nota, comunque, Formenti che l’analisi di Streeck, sebbene abbia l'indubbio merito di non essere economicistica, pecca di “eurocentrismo”, in quanto non tiene conto di altre realtà, come il socialismo di mercato con caratteristiche cinesi o il socialismo dell’America Latina, che pure si differenziano nettamente dal sistema liberal-capitalistico occidentale. 

Nondimeno anche Formenti, che pure ritiene che sia senza fondamento la tesi del crollo del capitalismo sostenuta da Streeck, conclude affermando: “Il capitalismo continuerà a sopravvivere, cercando e trovando scappatoie, ancorché precarie e temporanee, finché non matureranno uno o più soggetti sociali e politici in grado di dargli il colpo di grazia. Se ciò non dovesse succedere in tempi relativamente brevi, non andremo incontro a nessun interregno, bensì alla peggior barbarie”

Difficile sì non condividere la conclusione di Formenti, ma la “questione cruciale”, sotto il profilo politico, non è appunto quella della mancanza di un soggetto politico in grado di rappresentare un’alternativa valida e realistica al sistema liberal-capitalistico? La diagnosi, benché corretta, non è la terapia. Ed è proprio quest’ultima che manca. In altri termini, manca una teoria politica (ma anche geopolitica!) della crisi del liberal-capitalismo capace di ridefinire la funzione politica dello Stato in un’ottica socialista. In questo senso l’alternativa socialismo o barbarie non designa altro che il problema da risolvere, non certo la sua soluzione, anche se si può concedere che avere compreso qual è la causa del male che si deve curare prova comunque che la "storia non è finita", vale a dire che non necessariamente ci si deve rassegnare al trionfo della barbarie.

*https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/10/il-capitalismo-sta-crollando-ma-ce-poco.html?fbclid=IwAR1dCjT7JaTgnK6ne77HWHH0BjGQCv5ULrPQYRlI_Y0NBXfeHlUjMLCB_R4

mercoledì 16 giugno 2021

POSTILLA A "GEO-POLITICAMENTE ABITA L’UOMO"*

 Molti anni fa, esattamente nel 1986 (in occasione di “Firenze capitale europea della cultura”), ebbi la possibilità di rivolgere alcune domande al filosofo Emmanuel Lévinas.

La prima domanda riguardava il problema del linguaggio e del logos in Derrida. Lévinas volle subito precisare che la sua concezione del logos era nettamente diversa da quella di Derrida. A tale proposito, egli affermò che riteneva invece che fosse possibile e necessaria una “transustanziazione del logos”. Assai diverso era , del resto,  anche il modo in cui Lévinas interpretava la filosofia di Husserl. (Si badi che Derrida, che pure conosceva assai bene il pensiero di Husserl, pare “cancellare” la differenza tra ritenzione e rammemorazione, che pure è essenziale nella filosofia di Husserl - si tratta, del resto, di una critica che diversi studiosi di Husserl hanno rivolto a Derrida; vedi, ad esempio, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma- Bari 2005).

A Lévinas comunque interessava soprattutto la questione del Mitsein in Heidegger, giacché egli riteneva che proprio il modo in cui Heidegger aveva trattato la questione del Mitsein e in generale la questione dell’Altro fosse l’aspetto più “pericoloso” della filosofia di Heidegger. In Essere e tempo cioè, secondo Lévinas, non si trova alcun “autentico” riferimento all’“altro uomo” ma solo alla folla anonima ed eterodiretta, ossia solo ad un “uomo senza volto”, e la questione della “intersoggettività” è solo quella del Man, del Si “inautentico” (si dice, si fa, si pensa, ecc.).

In effetti, è difficile negare che questa “lacuna” non solo sia presente nel pensiero di Heidegger ma che possa spiegare, sia pure in parte, sia l’adesione di Heidegger al nazismo sia il suo sostanziale “silenzio” riguardo al rapporto tra l’Etica e il Politico anche dopo la Seconda guerra mondiale. 

Com’è noto, negli anni Trenta del secolo scorso Heidegger ebbe anche a polemizzare con Carl Schmitt per quanto concerne l’essenza del Politico. Per Heidegger la contrapposizione tra amico e nemico è sì importante ma non “essenziale” od “originaria”. Il Politico cioè deve essere compreso in primo luogo alla luce dell’appartenenza ad una comunità, appartenenza che sola permette di “riconoscere” l’altro come amico o come nemico. La strada che si deve percorrere allora è quella che dal problema del Politico “risale”, sulla base dell’etimologia greca, fino alla questione della polis. Scrive perciò Heidegger:

“Cosa significa polis? Status significa stato, status rei publicae = stato della cosa pubblica (nell’accezione moderna, comparsa per prima nell’italiano stato). Questo stato non ha assolutamente niente a che vedere con la polis. Polis non è nemmeno la comunità della politeia. Cosa sia polis lo apprendiamo già da Omero, Odissea, libro VI, verso 9 e sgg. ‘e di mura circondò la polis, fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre’.

Polis è quindi il centro autentico dell’impero dell’esistenza. Questo centro è propriamente il tempio e il mercato, dove l’assemblea della politeia ha luogo. La polis è l’autentico e determinante centro storico di un popolo, di una razza, di un clan; ciò intorno al quale la vita si svolge; il centro al quale tutto si riferisce, la cui protezione come autoaffermazione è importante.

L’essenziale dell’esistenza è l’autoaffermazione. Muraglia, casa, terra, dei. E a partire da ciò che bisogna cogliere l’essenza del politico” (vedi E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’Oro, Roma 2012, p. 238).

Il problema dell’altro quindi non è affatto ignorato, anzi concerne l’essenza stessa del Politico (del resto, già nel paragrafo 37 di Essere e tempo si può leggere: “Unter der Maske des Füreinander spielt ein Gegeneinander”, ossia “sotto la maschera dell’essere-l’uno-per-l’Altro, domina l’essere-l’uno-contro-l’Altro” – vedi M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976). Ciò che ora è essenziale però è l’appartenenza ad un popolo, ad un clan, ad una “razza” e soprattutto l’autoaffermazione di un popolo, di un clan, di una “razza”.

In altri termini, se nella nota frase di Terenzio homo sum humani nihil alienum puto lo “straniero” o l’“estraneo” (che tale può essere pure chi appartiene alla nostra comunità) è prima di tutto - ancor prima cioè che lo si possa ritenere amico o nemico - un “altro uomo”, ossia hospes non è necessariamente hostis (la radice di questi due termini, non a caso, è la medesima), nel pensiero di Heidegger l’abitare (politicamente) la terra sembra implicare l’identificazione di hospes e hostis, dato che lo “straniero” o l’“estraneo” è comunque un nemico, in quanto “indebolisce” o addirittura minaccia di annientare la radice terranea di un popolo, di un clan o di una “razza”. 

Si capisce allora anche l’antisemitismo cosiddetto “metafisico” di Heidegger (che è comunque una forma di antisemitismo, di cui, ovviamente, non vi può essere alcuna giustificazione), dato che ciò che il filosofo tedesco definisce come desertificazione sarebbe una “figura dell’ebraismo [...] sia perché il deserto è il luogo simbolo del popolo ebraico, sia perché la desertificazione è l’impossibilità di essere in rapporto con l’inizio, è quello sradicamento che, mentre rischia di diventare planetario, è in grado di ‘annientare l’indistruttibile’, di erodere e minare ciò da cui può sorgere la luce di un altro inizio” (vedi D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati-Boringhieri, Torino 2014, p. 127).

Certo per Heidegger, e soprattutto per il cosiddetto “secondo Heidegger”, il problema fondamentale è l’oblio (dell’oblio) dell’Essere e il progressivo imporsi del pensiero calcolante, ovverosia l’assoggettamento della natura e dell’intera umanità ad una “logica di dominio”. Ancora prima dunque dell’abitare politicamente la terra, per Heidegger “rileva” la questione dell’abitare la terra. Occorrerebbe quindi pensare il Politico medesimo in una prospettiva non più condizionata dalla “logica di dominio” (e questo invece sarebbe stato il più grave errore del nazismo). 

Tuttavia, ciò che intende Heidegger per “dominazione” è sempre connesso con la questione del pensiero calcolante e dello sradicamento e quindi con il problema dell’Altro sotto il profilo sia politico che etico. Nondimeno, anche dopo la Seconda guerra mondiale il pensiero di Heidegger pare svilupparsi ancora secondo la “traiettoria” delineata nei suoi scritti degli anni Trenta e perfino nei suoi famigerati Quaderni neri, di modo che si potrebbe ritenere che egli si limiti ad una critica della “organizzazione totale del mondo”, dato che anche nei Quaderni neri si parla di Machenschaft, di “macchin(izz)azione” universale. 

D’altronde, nell’intervista rilasciata a “Der Spiegel” il 23 settembre 1967, ma pubblicata dopo la morte di Heidegger, il filosofo tedesco afferma: “Io non vedo la posizione dell’uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura inestricabile e inevitabile, anzi: vedo proprio il compito del pensiero nel dare mano, nei propri limiti, affinché l’uomo riesca innanzitutto proprio a conquistare un rapporto sufficiente con la tecnica. Il nazionalsocialismo andava bensì in questa direzione; ma questa gente era troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero, per ottenere un effettivo esplicito rapporto con ciò che oggi accade e da tre secoli è in cammino” (vedi M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 158-159).

Perché il nazismo andasse “in questa direzione” e che cosa effettivamente significhi “andare in questa direzione” Heidegger però non lo ha mai chiarito. Di per sé questo certamente non giustifica una interpretazione della filosofia di Heidegger come quella di Faye, ma è lecito chiedersi se l’adesione di Heidegger al nazismo non sia dipesa innanzi tutto proprio dal modo in cui il filosofo tedesco tratta la questione dell’oblio (dell’oblio) dell’Essere e forse pure da quel che egli scrive a proposito dell’Evento e di un “nuovo inizio”. 

Insomma, la statura intellettuale di Heidegger è “fuori discussione” (con buona pace di Faye e di coloro che condividono la sua interpretazione della filosofia di Heidegger), nonostante che il linguaggio dell’ultimo Heidegger - sempre più “allusivo” e “rarefatto” - non sia affatto facile da “decifrare”,** e nonostante la sua sostanziale “sfiducia” nella democrazia (infatti, anche nell’intervista rilasciata a “Der Spiegel” Heidegger afferma: “È per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico – e quale – all’età della tecnica. A questa domanda non so dare alcuna risposta. Non sono convinto che sia la democrazia” (ivi, pp. 143-144). 

Nondimeno, non si dovrebbe neppure ignorare l'importanza del rapporto tra la filosofia di Heidegger e il nazismo se (e nella misura in cui) concerne l'essenza stessa del pensiero di Heidegger.  Vale a dire che, a giudizio di chi scrive, non si può ignorare la critica che Lévinas rivolge ad Heidegger, indipendentemente dal modo in cui il filosofo di Altrimenti che essere tratta la questione dell’Essere e dell’Altro. In definitiva, ammesso che la filosofia di Heidegger sia comunque una filosofia della prassi come afferma Vattimo (vedi G. Vattimo, Essere e dintorni, La nave di Teseo, Milano 2018) ci si dovrebbe chiedere se l'adesione (sia pure, per così dire, “critica”) di Heidegger al nazismo, anziché “un colossale autofraintendimento” (come sostiene Vattimo), sia stata, sia pure solo in un certo senso, una conseguenza, non facile da evitare, della “ontologia ermeneutica” del filosofo tedesco. 

*  Vedi F. Falchi, Geo-politicamente abita l’uomo, Anteo, Cavriago (RE) 2018.

** Si deve riconoscere che probabilmente ciò dipende dal tentativo di Heidegger di elaborare un pensiero diverso da quello della metafisica o dell'ontologia occidentale, ossia il particolare modo di esprimersi dell'“ultimo Heidegger” non è senza relazione con ciò che Heidegger definisce come poesia pensante (denkende Dichtung) e pensiero poetante (dichtendes Denken). Comunque sia, sebbene in Geo-politicamente abita l'uomo ci si chieda se si può davvero rinunciare del tutto all’ontologia dello Stagirita per la comprensione del mondo quotidiano, si dovrebbero tenere presenti anche altri modi di pensare (si veda, ad esempio, F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2017).



venerdì 4 giugno 2021

BREVE NOTA SU ALCUNI ASPETTI DEL PENSIERO DI GYÖRGY LUKÁCS

Che l'interesse per la filosofia György Lukács sarebbe notevolmente diminuito dopo la scomparsa del "socialismo reale" e la crisi, sotto certi aspetti, irreversibile del marxismo era facile prevederlo, benché al filosofo ungherese abbia nociuto non tanto la sua (invero alquanto "turbolenta") biografia politico-culturale* quanto piuttosto che egli abbia accusato di irrazionalismo la quasi totalità della filosofia, della letteratura e dell'arte del Novecento. 

In effetti, è davvero difficile condividere i giudizi di Lukács  sulla filosofia di Husserl o di Heidegger o quelli su Kafka, Musil o Proust, anche perché è evidente che nelle opere della maggior parte degli Autori criticati da Lukács  c'è indubbiamente molto di più di quel che Lukács "ci vide" o, peggio, "ci volle vedere"**. Sotto questo aspetto, è indubbio che la filosofia di Lukács si lasci sfuggire sovente proprio l'essenziale, tanto che il suo "famigerato" libro La distruzione della ragione pare "funzionare" come una terribile "macchina semplificatrice". Secondo Lukács, infatti, il rifiuto della dialettica che contraddistingue la concezione hegelo-marxista (l’unica che consentirebbe di sviluppare un pensiero razionale) sfocerebbe necessariamente in differenti forme di irrazionalismo che, non essendo in grado di comprendere la progressività del reale, non possono che favorire un "clima culturale" favorevole al fascismo, al nazismo o comunque alla "reazione". 

Più complessa e articolata però è la critica delle avanguardie letterarie. Lukács, infatti, ritiene necessaria la rappresentazione della deformazione dell’uomo prodotta dalla società capitalistica, e quindi dell’angoscia, dell’autodisprezzo e della disperazione che conseguono da tale deformazione, ma contesta che "ci si fermi qui" - si veda G. Lukács, Thomas Mann la tragedia dell’arte moderna, Feltrinelli, Milano 1956. (Nondimeno, è interessante paragonare il diverso giudizio di Adorno sulle avanguardie letterarie, in specie su Kafka e Beckett, con quello di Lukács, giacché il merito di Adorno è di avere compreso che le opere di Autori come Kafka o Beckett sono autentica arte proprio in quanto attraverso la "forma" o l'"apparenza" si mostra il contenuto di verità delle loro opere. Ciò nonostante, anche se può sembrare paradossale, il giudizio critico di Lukács sulle avanguardie letterarie pare in grado di evidenziare più i limiti della filosofia di Adorno che quelli di un Autore come Kafka, le cui opere peraltro pure Lukács ritiene che siano dei capolavori)***.

Comunque sia, anche senza considerare che la filosofia è molto cambiata dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso (basti pensare alla epistemologia post-positivistica, agli sviluppi della stessa filosofia analitica, alla cosiddetta "svolta linguistica", alla ermeneutica, ai diversi modi di intrepretare la filosofia hegeliana e via discorrendo), non meraviglia che oggi il pensiero di Lukács sia quasi del tutto ignorato (soprattutto, ma non solo, dall'accademia), nonostante alcuni recenti tentativi (ad esempio da parte di Costanzo Preve e di Carlo Formenti) di "valorizzare" i suoi scritti sulla questione dell'ontologia sociale (ossia l'ultimo Lukács) pur senza rinunciare ad una critica "determinata" del pensiero del filosofo ungherese****. 

Ma, indipendentemente da tali tentativi (su cui qui non è possibile soffermarsi, benché meritino di essere conosciuti e discussi) ci si potrebbe chiedere se perlomeno alcune riflessioni di Lukács sulla questione del "realismo" e in particolare la sua critica delle avanguardie letterarie del Novecento non abbiano "pre-visto", in un certo senso, le caratteristiche essenziali di quel che Luc Boltanski e Ève Chiapello definiscono "il nuovo spirito del capitalismo"*****.

Ovviamente, si può ritenere che il pensiero di Lukács non offra alcuna possibilità di definire criticamente l'attuale "spirito del capitalismo". Eppure alcune delle riflessioni di Lukács sembrano "cogliere nel segno", soprattutto se si pensa a quella sorta di nichilismo che viene spacciato per l'espressione di una "soggettività libera", e che anzi, paradossalmente, si ritiene che sia tanto più libera quanto più è "integrata" nella attuale società di mercato. 

Difatti, mentre fino (almeno) agli anni '60-'70 del secolo scorso la critica sociale del capitalismo e quella che con la terminologia di Boltanski e Chiapello si può definire come la critica artistica della società capitalistica caratterizzavano buona parte della letteratura, della filosofia e delle scienze dell’uomo, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso non solo si tende a considerare pressoché qualsiasi critica sociale del capitalismo anacronistica o addirittura "reazionaria", ma la stessa critica artistica della società capitalistica è quasi del tutto scomparsa, tanto che oggi essere anticonformisti e "trasgressivi" significa, in pratica, limitarsi a criticare quegli aspetti della cosiddetta "cultura tradizionale" ancora presenti nella attuale società di mercato, ma solo in quanto ostacolano la colonizzazione di ogni "mondo vitale" da parte del mercato capitalistico. 

D’altronde, la "negazione totale" di ogni superamento della società capitalistica ben difficilmente può non condurre a ritenere la società capitalistica l’unica che sia ormai storicamente possibile, e ciò, in sostanza equivale alla apologia, più o meno esplicita, della attuale società capitalistica (al riguardo, viene in mente il Grand Hotel dell’Abisso - di cui parla lo stesso Lukács - ossia un albergo fornito di ogni comfort, anche se costruito sull’orlo dell’abisso e dell’insensato).

Non a caso, oggi si ritiene che il concetto di alienazione - che era appunto ciò che permetteva alla critica artistica del capitalismo e alla critica sociale del capitalismo di essere, per così dire, "due facce della medesima medaglia" - sia un "inutile ferrovecchio", dato che questo concetto non sarebbe altro che indice di una concezione "metafisica" e astorica dell'essenza umana (come se il riconoscimento che la "natura umana" è storica non implicasse che l’uomo è "di necessità" un animale sociale e politico e quindi che l’individuo è sempre - sia pure in forme assai diverse e tali da distorcere, mistificare o reprimere questa sua "condizione essenziale" – anche un individuo sociale)******.

Il concetto di alienazione invece è sempre "al centro" della riflessione di Lukács, tanto è vero che il filosofo ungherese apprezza esplicitamente l’ontologia sociale di Aristotele, ossia la concezione dello Stagirita secondo cui l’uomo è un "animale politico"*******. Tuttavia, Lukács anche nei sui scritti sull’ontologia sociale non pare approfondire come sarebbe necessario la questione antropologica, che pure è di importanza fondamentale per comprendere e giustificare il concetto di alienazione. Manca cioè un’analisi critica del materialismo storico di Marx, che ne metta in luce le contraddizioni e le "insufficienze" proprio sotto il profilo ontologico, in quanto anche il materialismo storico rischia di non distinguersi da una concezione economicistica della storia e della stessa "condizione umana"********. 

Un conto è infatti sostenere che l’uomo attraverso il lavoro (che per Lukács è un’attività essenzialmente teleologica) si costituisce come essere sociale, un altro sostenere che la struttura sociale, così come si è venuta a sviluppare nel corso della storia, impedisce agli uomini di sviluppare pienamente la propria personalità, ossia la propria "essenza". In questo caso rileva non solo il modo in cui ci si può liberare dalla alienazione e se è possibile eliminare del tutto l’alienazione, ma appunto anche come intendere l’"essenza dell’uomo", dacché se quest’ultima è solo il prodotto della storia, allora non si comprende come si possa parlare di alienazione. Se è vero cioè che l’alienazione presuppone la differenza tra ciò che l’uomo può essere  (in quanto animale sociale, politico e "razionale") e ciò che l’uomo effettivamente è nelle diverse situazioni storiche, allora è evidente che l’essere dell’uomo non possa dipendere solo dalle diverse "pratiche sociali".

Pertanto, per quanto concerne il problema della alienazione dell’uomo sembra inevitabile un confronto, secondo una prospettiva né economicistica né deterministica, con la concezione aristotelica della "entelechia". In altri termini, non è in questione la libertà dell’uomo, compresa quella di modificare la natura stessa, bensì che il problema della libertà si riduca a quello della differenza tra "libertà di" e "libertà da", e che di conseguenza il posse dell’uomo non sia in primo luogo da intendere come "libertà per" (è chiaro che se invece si privilegia il concetto di "libertà per" rileva soprattutto l’agire dell’uomo sotto l’aspetto teleologico e quindi cambia il senso stesso della "autodeterminazione" o della "autoaffermazione" dell’uomo). D’altronde, va da sé che se si rifiuta il concetto di alienazione si può dubitare che la storia "abbia senso", benché ritenere che, nonostante tutti i suoi orrori o, forse, proprio per i suoi orrori, la storia "abbia senso", non significhi che non vi sia il problema dell'eterogenesi dei fini né che la storia abbia "un senso" ovverosia non significa condividere una concezione sostanzialmente deterministica della storia (che comunque l'ultimo Lukács critica in modo assai netto). Ma "in gioco" allora è la ridefinizione del complesso rapporto tra l'Economico e il Politico, e quindi quello tra struttura e sovrastruttura (come del resto Gramsci aveva perfettamente compreso)*********.

Si badi però che (perlomeno per chi scrive) non è affatto in discussione che la stessa questione del lavoro dipenda da molteplici fattori culturali e sociali, e che di conseguenza non sia possibile trattarla in un’ottica meramente economicistica. Quel che invece conta è che ciò che Marx definisce come la "prostituzione generalizzata" - vale a dire che nella società capitalistica gli esseri umani vengono degradati a mera merce - adesso si consideri addirittura come sinonimo di "emancipazione della vita", al punto che ormai si ritiene che abbia "valore" soltanto ciò che può acquistare la natura del denaro (arte e letteratura incluse, che non si possono certo paragonare alla letteratura e all'arte della prima metà del secolo scorso o del secondo dopoguerra, benché naturalmente non si debba fare di ogni erba un fascio). Insomma, la critica artistica della società capitalistica, per così dire, "si è rovesciata" nel suo contrario. Ma allora come evitare di chiedersi se nella stessa critica artistica (Sessantotto compreso, come giustamente affermano Boltanski e Chiapello) della società capitalistica non fosse già presente quel che Lukács definisce come una pericolosa forma di nichilismo e di irrazionalismo? 

Certo, non c'era solo questo, ed è pure ovvio che non si tratta di "ripartire" dalla Distruzione della ragione (il che sarebbe perfino ridicolo), bensì di comprendere che se l'albero si deve giudicare dai suoi frutti, allora pare innegabile (anche se non si condivide una concezione marxista) che il "vecchio" Lukács non avesse del tutto torto a "vedere" nella stessa critica artistica (e sociale) del capitalismo i segni di un nichilismo che sarebbe sfociato in una forma di "anti-umanesimo" che, di fatto, non è altro che il trionfo del capitale e della "ideologia della merce".


* Lukács fu certo anche stalinista (dopo l’avvento al potere del nazismo in Germania si trasferì a Mosca e vi rimase sino alla fine della Seconda guerra mondiale), sebbene il suo rapporto con lo stalinismo non sia mai stato "semplice" (notoriamente anche il "realismo" difeso da Lukács era ben diverso dal "realismo socialista" difeso agli stalinisti), tanto che nel 1940 venne arrestato dalla polizia di Stalin e si salvò solo grazie all’intervento di Dimitrov. Del resto, Lukács fece pure parte del primo governo Nagy, ragion per cui, dopo l’intervento sovietico in Ungheria nel novembre 1956, fu deportato in Romania. Ritornò comunque in Ungheria nel 1957 e fu anche riammesso nel partito comunista, ma allora prese la decisione di ritirarsi definitivamente dalla vita politica.

** Chiaramente qui ci si riferisce solo al Lukács marxista; per quanto riguarda invece le tesi sostenute dal pensatore ungherese in Teoria del romanzo  - ossia quando non era ancora marxista - si veda il notevole saggio di Giuseppe Di Giacomo, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999; dello stesso Autore si veda anche Forma e riflessione nel romanzo moderno, "Revue internationale de philosophie", 2009/2 n. 248, pp. 137-151.

*** Lukács scrive: "Quale che possa essere il punto di partenza diretto, il tema concreto, lo scopo immediato ecc. di una creazione letteraria, la sua essenza più profonda si esprime nella domanda: che cos'è l'uomo?" (G. Lukács, Scritti sul realismo, Einaudi, Torino 1978, p. 864). Pertanto, secondo L. non è mai solo questione di "forma". Si può allora affermare che per il filosofo ungherese Kafka, Joyce, Proust ecc. "rap-presentano" una immagine dell'uomo che è solo quella dell'individuo nella società capitalistica, ma non dell'uomo come tale. Tuttavia, il rischio di attribuire all'essenza dell'uomo le caratteristiche dell'individuo nella società capitalistica (nel senso che l'alienazione e la reificazione che caratterizzano l'umanità contemporanea dipendono dalla struttura sociale), sembra concernere soprattutto la "ricezione" delle opere di questi autori (certo da non confondere con i loro numerosi "replicanti"!), anche se è presente pure nelle loro opere. Ma è appunto il "lettore" che può e deve sapere "riconoscere" questo rischio. 

**** Non sembra comunque che Lukács nei suoi ultimi scritti sia riuscito a superare del tutto la drastica "dicotomizzazione" che caratterizza La distruzione della ragione. Ad esempio, manca un serio confronto con la fenomenologia di Husserl e pure con la filosofia di Heidegger, dato che le considerazioni di Lukács  risentono troppo di una interpretazione del pensiero del filosofo di Meßkirch come una forma di esistenzialismo.

***** Il libro, uscito in Francia nel 1999, avrebbe dovuto essere pubblicato in lingua italiana dalla Feltrinelli, ma anno dopo anno la sua pubblicazione fu rinviata e solo nel 2015 venne pubblicato dalla casa editrice Mimesis.

******Anche nell’attuale società di mercato l’individuo totalmente isolato è una "robinsonata", sebbene lo si "rappresenti" ed egli stesso si possa percepire come un individuo del tutto isolato. Una "robinsonata" è pure che l’Economico sia separato del tutto dalla società. Casomai l’Economico può aggredire la società "dall’interno" per "colonizzarla", avvalendosi degli apparati (di coercizione e di persuasione) dello Stato o di altre istituzioni od organizzazioni internazionali. 

******* Sul problema dell'alienazione in Marx e nel marxismo in generale si veda R. Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006.

******** È cioè il termine materialismo che pone non pochi e difficili problemi. Certo, lo stesso Marx è realista e non lo è: è realista perché considera la natura (ossia la "materia") indipendente dal pensiero, ma, in un certo senso, non lo è poiché a Marx interessa solo la natura in quanto in relazione con l’attività dell’uomo. Nondimeno, la concezione materialistica della storia da un lato rischia di ridurre la coscienza a mero "riflesso" dell’essere sociale (rendendo quindi inspiegabile anche la critica della realtà sociale, inclusa quella marxista); dall’altro pare giustificare l’eliminazione della problematicità che caratterizza la "condizione umana", al punto di considerare le religioni "soltanto" espressione di una alienazione dell’uomo, che dovrebbe scomparire con il superamento del capitalismo, anziché considerarle "anche" espressione della problematicità della stessa "condizione umana", a prescindere dal fatto che si sia o no atei. Non è nemmeno strano quindi che proprio sul "terreno" della antropologia il comunismo abbia subito le peggiori sconfitte. Comunque è degno di nota che nell'ultimo Lukács quel che conta veramente è il riconoscimento della dignità umana, vale a dire che si può parlare di socialismo solo allorché l'altro uomo non è più considerato un ostacolo alla propria "prassi auto-realizzativa" (si veda G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, a cura di A. Scarponi, Manifestolibri, Roma 2013).

********* Una questione diversa è quella della dialettica e delle contraddizioni che "strutturano" la realtà sociale e in particolare la società capitalistica. A tale proposito si può concordare con Massimo Cacciari secondo cui "la contraddizione intrinseca al lavoro comandato dal sistema capitalistico, tra l’essere 'libero' in sé e null’altro che parte del capitale, si ripresenta in forma ancora più drammatica [adesso che il lavoro vivo è pressoché totalmente incorporato nel capitale]"- si veda La lezione di Claudio Napoleoni: un contributo di Massimo Cacciari, sul sito "Pandora Rivista",https://www.pandorarivista.it/articoli/la-lezione-di-claudio-napoleoni-un-contributo-di-massimo-cacciari/ (Sulla questione della realtà della "contraddizione sociale", che non inficia minimamente il principio di non contraddizione, si veda E. Severino, Gli abitatori del tempo, Rizzoli, Milano 2011). Insomma, la dialettica può permettere di rilevare e spiegare le contraddizioni essenziali della società capitalistica, ma non implica che vi sia una progressività del reale che "tolga" necessariamente le contraddizioni della società capitalistica ed elimini definitivamente la problematicità della "condizione umana". Sicché si potrebbe affermare che anche il "limite" di certe (non tutte) avanguardie letterarie (si può fare l'esempio di un Autore come Beckett) può svolgere una "funzione positiva" nella misura in cui non cedono alla tentazione di una dialettica che non riconosce i propri "limiti".



sabato 22 maggio 2021

CONTA ANCORA LA DISTINZIONE TRA DESTRA E SINISTRA O È PIÙ SIGNIFICATIVA LA DISTINZIONE TRA VALORE D’USO E VALORE DI SCAMBIO?

Ha ancora senso interpretare la politica basandosi sulla opposizione tra destra e sinistra? In un certo senso sì, poiché indubbiamente c’è una differenza significativa tra destra e sinistra. Ma è una differenza di genere o di specie? Questo è il punto da capire, giacché destra e sinistra in Occidente designano sempre più due varianti del neoliberalismo, in quanto sia la destra che la sinistra sono favorevoli al neoliberismo, antistataliste, antisocialiste e pure filo-atlantiste.

La funzione principale dello Stato per entrambe consiste, infatti, nel creare le migliori condizioni per lo sviluppo di una società “di” mercato. Vale a dire che il compito dello Stato, sia per la destra che per la sinistra, consiste soprattutto nell’imporre le “ragioni del mercato” in ogni ambito sociale (mondo del lavoro, sanità, scuola, territorio, ecc.). Il ruolo dello Stato cioè non è quello di difendere l’interesse collettivo, di ridurre le disuguaglianze, di tutelare le “ragione pubblica” anche contro le “ragioni del mercato”, di difendere i diritti sociali ed economici dei ceti sociali più deboli, di contrastare la “pre-potenza” del grande capitale, di opporsi al neoimperialismo atlantista e via dicendo.

La differenza tra destra e sinistra concerne dunque essenzialmente i diversi interessi che rappresentano, giacché la sinistra difende soprattutto gli interessi del grande capitale e della medio-alta borghesia (sedicente) cosmopolita, mentre la destra quelli della piccola e media borghesia. Sicché mentre l’ideologia della sinistra è sempre più caratterizzata dal politicamente corretto (no border, gender fluid, ecc.), la destra si oppone al politicamente corretto ma al tempo stesso difende quella società “di” mercato di cui, in definitiva, il politicamente corretto non è che la logica, anche se estrema, conseguenza.

Per di più, è noto che la destra critica il politicamente corretto soprattutto per difendere posizioni politiche che sono caratterizzate da xenofobia, irrazionalismo e anti-intellettualismo, ossia la destra praticamente si limita a riproporre una concezione politica che, sebbene non si possa definire (neo)fascista, si configura come un pericoloso estremismo di centro. (E  questo spiega pure la posizione tutt’altro che coerente della destra italiana cosiddetta “sovranista” nei confronti non solo dell’America ma della stessa UE; giacché quel che conta per la destra è soprattutto strumentalizzare il malcontento popolare).

Pare allora che sia ancora necessario definirsi di sinistra per distinguersi dalla destra. Eppure, se ci si definisce di sinistra non solo è pressoché impossibile distinguersi dalla sinistra neoliberale ma si rischia di ignorare - o, peggio, si fa finta di ignorare - che il neoliberalismo di sinistra, perlomeno in questa fase storica, è di gran lunga più pericoloso di quello della destra, giacché gode del pieno sostegno dei gruppi dominanti occidentali.

Non a caso la sinistra detiene il controllo di tutti i “gangli vitali” della società occidentale, in specie del sistema educativo, dell’industria culturale, del mondo dello spettacolo e dei principali media, tanto che è lecito affermare che in Occidente la sinistra neoliberale svolge il ruolo di “guardia bianca” del grande capitale e della cosiddetta “middle class cosmopolita” (ossia, in pratica, è “al servizio” del principale “nemico”, sia sotto il profilo sociale che sotto quello (geo)politico, di chi difende una concezione socialista).

Il problema quindi che ci si dovrebbe porre è se sia ancora possibile, in Occidente, una alternativa al neoliberalismo, sia di destra che di sinistra. Nondimeno, sembra che qualsiasi alternativa al neoliberalismo sia stata definitivamente “screditata” dalla storia.

Quella fascista non si può certo prendere in considerazione per ragioni che dovrebbero essere chiare a chiunque, e in ogni caso il fascismo, tutt’al più, si può ripresentare come una nuova forma di estremismo di centro particolarmente aggressivo, ossia con “tratti distintivi” che si potrebbero definire “parafascisti” più che fascisti. Diversa ovviamente la storia del comunismo, ma è innegabile che anch’essa sia una storia “finita” (e per i neoliberali del tutto fallimentare), di modo che ogni tentativo di “riportarla in vita” assomiglia ad un patetico e “incapacitante” esercizio di nostalgia.

Un analogo discorso si può allora fare anche per quanto concerne il socialismo? Per i neoliberali, di destra e di sinistra, non c’è dubbio che pure il socialismo appartenga al passato, e che perfino il termine socialismo sia stato “screditato” dalla storia. Ciò nonostante, non si deve dimenticare che il mondo occidentale non è il mondo. Ci sono, infatti, ancora Paesi che si definiscono socialisti (la Cina, il Vietnam, Cuba…) e non si può neppure affermare che in America Latina la storia del socialismo sia terminata.

Naturalmente, ci si può chiedere (e in effetti ci si chiede) se i Paesi che si definiscono socialisti siano davvero socialisti, e se ciò che in America Latina si designa con la parola socialismo (si pensi, ad esempio, al cosiddetto “socialismo bolivariano”) non sia in realtà solo una forma di populismo o di nazional-populismo, che pur avendo poco a che fare il neoliberalismo (di destra o di sinistra) non può perciò rappresentare, perlomeno per quanto riguarda il mondo occidentale, una seria alternativa al neoliberalismo.

Peraltro, è evidente che anche il “socialismo di mercato” della Cina (sia o non sia una forma di socialismo) è il “frutto” della storia di un Paese con caratteristiche culturali così diverse da quelle di un qualsiasi Paese occidentale, che rendono impossibile per un Paese occidentale considerarlo come un “modello da imitare” (e analogo discorso vale per il Vietnam e per Cuba).

Comunque sia, è chiaro che in Occidente con il termine socialismo si designa in particolare non solo una concezione politica opposta a qualsiasi forma di fascismo o di estremismo di centro ma anche e soprattutto una concezione politica contraddistinta dalla critica radicale, benché alquanto vaga e generica, del capitalismo.

Ecco, forse proprio questa è la questione essenziale: che cosa si deve intendere per capitalismo? Può esserci una società non caratterizzata dalla divisione del lavoro, dal lavoro salariato, dal ruolo sempre maggiore di quel che lo stesso Marx definisce capitale costante, ossia dal ruolo sempre maggiore delle macchine (e non solo nelle fabbriche)? Evidentemente no, non è (più) storicamente possibile o almeno non lo è in questa fase storica (sotto questo aspetto è fondamentale, per chi scrive, la “lezione” di Claudio Napoleoni)

Ma modo di produzione capitalistico è necessariamente sinonimo di formazione capitalistica? O una società può non essere definita capitalistica pur in presenza di un modo di produzione o di un mercato capitalistico? Se questo non è possibile, allora non lo è nemmeno il socialismo o, comunque, al di là della questione terminologica, ciò che si vuole designare con questo termine, poiché, nel migliore dei casi, si tratterebbe solo di diverse forme di capitalismo. Sicché, per i neoliberali non sarebbe difficile sostenere che qualunque alternativa al sistema capitalistico neoliberale è comunque peggiore della società "di" mercato neoliberale. Insomma, i neoliberali potrebbero definirsi dei “realisti” che non scambiano (più) lucciole per lanterne.

Tuttavia, non è affatto scontato che sia sufficiente la presenza del mercato capitalistico e quindi di una classe capitalistica per definire una società come una formazione sociale capitalistica (anche senza considerare l’esempio della Cina, che pure è significativo). Basti pensare alla distinzione tra valore d'uso e valore di scambio* e al diverso “peso” che questi “valori” possono avere sotto il profilo socio-economico, antropologico, politico ed ecologico, giacché una società capitalistica non può che essere caratterizzata dalla prevalenza del valore di scambio, al punto che ogni cosa e ogni persona in un certo senso acquistano la stessa “natura” del denaro.

È quindi in base a questa distinzione/opposizione che si può ancora mettere seriamente in discussione una società “di” mercato e di conseguenza immaginare secondo una prospettiva “realistica” una alternativa al sistema capitalistico neoliberale ovvero la trasformazione di una società “di” mercato in una società “con” mercato. Che quest’ultima sia o no una formazione socialista pare dunque essere una questione meramente terminologica più che “di sostanza”, perché in questo caso quel che conta assai più della parola è la “cosa stessa”.

* Chiaramente in questo contesto la distinzione/opposizione tra valore d'uso e valore di scambio rileva in una prospettiva non meramente economica (al riguardo si veda però C. Napoleoni, Valore, Isedi, Milano 1976) ossia, in definitiva, economicistica (quasi che il sistema economico fosse del tutto indipendente dal sistema sociale) ma anche e soprattutto sotto il profilo sociale e antropologico. D'altronde, com'è noto, anche Karl Polanyi ha evidenziato che il lavoro  e la natura (e invero pure la moneta), benché possano essere trattati come merci,  non sono merci (con tutto quel che ne consegue).

PS. 

Quando si solleva la questione dello Stato in relazione al problema del valore d'uso e del suo rapporto con il valore di scambio (che per Marx si esprime nell'unità contraddittoria della merce) e quindi si prende in esame il problema dell'eticità in Hegel, si deve tener presente che per Hegel l'eticità concerne la famiglia, la società civile e lo Stato. E di questo appunto si tiene conto allorché si distingue tra società di mercato e società con mercato (che non significa certo senza mercato!).

In altri termini, si tiene presente da un lato il rapporto tra individui e comunità, dall'altro il rapporto tra comunità e Stato, giacché è tramite il Politico, e quindi tramite lo Stato, che si struttura lo stesso rapporto tra la comunità e gli individui, nella misura in cui questo rapporto concerne la sfera pubblica (mercato incluso).

La distinzione tra società civile e Stato è infatti più metodica che organica, dato che società civile e Stato nella realtà effettuale non sono separati, ossia sono sì distinti ma non "irrelati" in quanto la società civile è comunque strutturata in buona misura dagli apparati dello Stato (si tratta di una questione di fondamentale importanza, com'è noto, nel pensiero di Gramsci).

Orbene, è evidente che se si parla di società con mercato si riconosce esplicitamente non solo l'importanza del valore di scambio (altrimenti non ci sarebbe alcun mercato!) ma anche e soprattutto la complessità del rapporto tra società civile (o comunità) e lo Stato, in particolare per quanto concerne la funzione degli apparati di coercizione (polizia, magistratura, esercito, ecc.) e di quelli ideologici o che svolgono una funzione sociale e/o economica (sistema educativo, sanità, informazione, mondo del lavoro, territorio, settori  strategici, ecc.). 

Si tratta quindi di quelle "zone" in cui assume il massimo rilievo la distinzione tra valore d'uso e valore di scambio (la cui prevalenza si esprime soprattutto tramite la nota formula D-D1 - con il denaro si fa più denaro -, e che di fatto tende ad attribuire agli individui - ovverosia non solo al lavoro - la natura del denaro, degradandoli a mera merce).

Una società con mercato anziché di mercato è appunto una società in cui il mercato è comunque incastonato in un complesso ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche, culturali, ecc., in quanto il mercato lo si considera "in funzione" dei bisogni primari e sociali degli individui e dell’intera comunità.

Certo riconoscere questo solleva a sua volta molti altri (difficili) problemi che concernono non solo la forma politica dello Stato e il suo ruolo per quanto riguarda la direzione politico-strategica della società (mercato incluso) ma anche la questione della libertà o del pluralismo e pure quella del rapporto tra bisogni primari (nutrirsi, vestirsi, curarsi ecc.) e bisogni sociali, giacché gli stessi bisogni primari di fatto variano e si possono soddisfare in modo diverso a seconda della differente struttura sociale e culturale nonché dello stesso sviluppo delle forze produttive (e quindi si deve pure tenere conto di come "funziona" il mercato).  

In definitiva, anche se la questione di una società "con" mercato è una questione "aperta", che ammette più "soluzioni", è ovvio che implica un modo di considerare il mondo del lavoro, la sanità, l'istruzione, il territorio e via dicendo del tutto diverso da quello che prevale nell'attuale società di mercato occidentale.

sabato 13 marzo 2021

IL GOLEM E LA “FALLACIA” ECONOMICISTICA E TECNOCRATICA

Sembra che oggi ciò che veramente conta siano la Tecnica e l’Economico. Informatica, robotica, biotecnologia da un lato e dall’altro finanza, produzione di merci e geoeconomia, in pratica determinerebbero la politica, le relazioni sociali, il lavoro, il sistema educativo e gli stessi “affari militari”. In un certo senso, la Tecnica e l’Economico sarebbero la struttura che determina tutto il resto, ossia la sovrastruttura politica, sociale (famiglia inclusa) e culturale. Eppure, si tratta di una concezione che, sebbene possa apparire come una “sana” forma di “realismo” di chi non ha la testa tra le nuvole, equivale di fatto ad una immagine fasulla del mondo.

Orbene, non c’è dubbio che, ad esempio, nel campo militare la tecnologia svolga un ruolo essenziale. Sistemi d’arma sempre più sofisticati, robotica, cyberwar, satelliti, droni ecc. hanno cambiato il volto della guerra. Ma di quale guerra? In effetti, è innegabile che in una guerra tra grandi potenze (per essere chiari, in una guerra come potrebbe essere quella tra gli Stati Uniti e la Russia o la Cina) le “nuove macchine” sarebbero decisive. Tuttavia, è anche vero che in una guerra tra grandi potenze sarebbe ben difficile evitare che venissero usate delle armi termonucleari. E allora a ben poco servirebbero le “nuove macchine”.

Certo, si deve anche riconoscere che quel che conta per una grande potenza è “non perdere il passo con la tecnologia”, per non correre il rischio di subire un primo colpo nucleare senza avere la possibilità di replicare. E si può pure concedere che questa “competizione” sia una guerra che si combatte tutti i giorni senza “esclusione di colpi”. Del resto, anche le altre potenze, ossia quelle regionali, non possono permettersi di “perdere il passo con la tecnologia”, perché solo se si dispone di un sistema di difesa tecnologicamente avanzato è possibile non andare incontro a spiacevoli sorprese. Sotto questo aspetto la cosiddetta “shadow war” tra Israele e l’Iran è più che significativa. Ma c’è anche l’altra faccia medaglia da considerare, ossia le altre specie di guerra, in particolare le rivoluzioni colorate e i conflitti per il controllo del territorio di un Paese, che pongono problemi del tutto diversi da quelli dei conflitti aerei o (aero)navali, in cui è scontato che la tecnologia giochi il ruolo fondamentale.

Per quanto concerne le rivoluzioni colorate, che possono anche sfociare in una vera guerra, è evidente che contano soprattutto l’intelligence e la capacità di comprendere i problemi delle diverse componenti di una società, e quindi decisiva è una “destabilizzazione” di un Paese, che richiede però una lunga preparazione di carattere politico-culturale e sociale nonché l’impiego di mezzi e risorse di vario genere (media compresi naturalmente). In ogni caso, i fattori economici o geoeconomici raramente sono le cause di una rivoluzione colorata. Assai più rilevanti sono la lotta per l’egemonia politico-culturale (il cosiddetto “soft power”) e la conquista di nuove aeree di influenza, soprattutto a scapito dei propri nemici. Ovviamente, tanto maggiore è l’area di influenza di una potenza (grande o no che sia) tanto maggiori sono anche i vantaggi economici che ne possono derivare.

Analogo discorso si può fare per i conflitti che hanno lo scopo di controllare il territorio di un Paese o di sottrarre ai propri nemici il controllo del territorio di un Paese. Gli esempi certo non mancano, basti pensare ai conflitti in corso in Libia e in Siria, ma anche all’intervento militare americano in Iraq e in Afghanistan. In tutti questi conflitti, la tecnologia pur essendo importante (si pensi ai droni che possono pure compiere missioni di combattimento) svolge un ruolo non marginale ma secondario rispetto ai “tradizionali” combattimenti tra forze di terra. 

In particolare, il fallimento politico-militare americano in Iraq (ma pure in Afghanistan, dove la coalizione a guida statunitense controlla - ma nemmeno del tutto - solo parti del territorio) conferma quel che già, almeno sotto certi aspetti, aveva dimostrato la guerra del Vietnam, vale a dire che ha dimostrato quali sono i limiti della “potenza tecnologica” in ambito militare. La tecnologia cioè è sì essenziale per distruggere l’apparato industriale e le principali infrastrutture di un Paese nemico o per distruggere un esercito nemico in “campo aperto”, ma si è rivelata di scarsa utilità o addirittura “controproducente” per acquisire un effettivo controllo del territorio nemico. 

Il territorio, infatti, lungi dall’essere solo uno spazio geografico è uno spazio sociale caratterizzato dalla storia (inclusa quella che Braudel definiva di “lunga durata”) e dalla cultura di chi lo abita (al riguardo è anche significativa la notevole “resistenza” (sotto il profilo militare, si intende) che Hezbollah - nella guerra Libano del 2006 e anche durante l’occupazione israeliana del Libano negli anni precedenti -, ha saputo opporre all’esercito israeliano, che pure è non solo un esercito potente ma assai bene addestrato e motivato). I fattori sociali e culturali, in questi casi, possono rivelarsi determinanti anche sotto il profilo militare, tanto più che le società occidentali difficilmente possono permettersi di subire gravi perdite e sono sempre meno in grado di disporre di fucilieri motivati e capaci di affrontare anche una semplice missione di combattimento senza il supporto di una enorme potenza di fuoco, che in certi contesti (come i conflitti urbani o in cui siano presenti anche “amici”) non può essere impiegata senza che lo scopo politico e lo scopo militare divergano (come già accadde nella guerra del Vietnam) con conseguenze disastrose. 

D’altra parte, è noto che l’interazione tra fattori politico-culturali e fattori economici e tecnologici può produrre una serie di effetti imprevedibili, tali da cambiare del tutto anche le stesse ragioni politiche che possono avere causato un conflitto o un intervento militare. Quindi, è lecito ritenere che se perfino in ambito militare la tecnologia non può non “imbattersi nei suoi limiti”, a maggior ragione questo valga per quanto riguarda la relazione tra il progresso tecnologico e il sistema sociale nel suo complesso. 

In definitiva, l’idea che ogni problema si possa risolvere mediante un calcolo economico basato sulle cosiddette “leggi del mercato ” e sull’innovazione tecnologica, non è altro che una “fallacia” economicistica e tecnocratica, che, portando ad ignorare che l’essere umano dipende per la propria sopravvivenza da una complessa interazione istituzionalizzata con l’ambiente circostante e con gli altri uomini, trasforma lo stesso apparato tecnico-produttivo in una “megamacchina” che, anziché essere posta al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni sociali, rischia di diventare una sorta di Golem di cui nessuno potrà avere un effettivo controllo.



domenica 7 marzo 2021

IL POLITICO, LA TECNICA E LA NUOVA DISTRUZIONE CREATRICE

 Allorché si parla di Great Reset di solito ci si riferisce sia alla quarta rivoluzione industriale che alla gestione capitalistica di questa rivoluzione, senza distinguere l’una dall’altra. 

Tuttavia, se la prima è pressoché inevitabile, la seconda è solo la logica conseguenza della egemonia  politica e culturale della classe capitalistica, che da alcuni decenni conduce con successo una lotta di classe dall’alto, con il consenso - perlopiù passivo - dei ceti sociali medi e subalterni.

In effetti, la classe capitalistica era già riuscita a gestire politicamente la terza rivoluzione industriale in modo del tutto nuovo rispetto al passato. 

Una rivoluzione industriale, difatti, equivale ad una distruzione creatrice. Ed è appunto la capacità di gestire con successo una distruzione creatrice - ovverosia la capacità di “mettere in forma” non solo economica e sociale ma politico-culturale le innovazioni della tecnoscienza - una caratteristica essenziale del capitalismo. 

Ragion per cui, in un certo senso il capitalismo è sempre anche una distruzione creatrice, benché vi siano delle fasi in cui non solo aspetti marginali o “periferici” dell’apparato tecnico-produttivo sono soggetti ad una radicale trasformazione, che comunque può riguardare anche l’organizzazione stessa di questo apparato, come ad esempio si verificò con la cosiddetta “rivoluzione manageriale” in America nella prima metà del secolo scorso (si potrebbe così affermare, facendo un paragone con l’epistemologia di Thomas Kuhn, che la storia del capitalismo è contraddistinta da periodi “normali” e da fasi rivoluzionarie).

Per capire la novità che si ebbe con la terza rivoluzione industriale, si deve allora considerare che, in generale, un sistema capitalistico è contraddistinto dalla concorrenza e da un saggio di profitto che tende ad essere lo stesso in tutti settori.* Questa fase corrisponde a ciò che Schumpeter definisce stato stazionario (S1) in cui il “reddito” è assorbito dal salario e dalle rendite, anche se l’innovazione tecnologica adottata dalle imprese porta ad una nuova configurazione favorita in specie dalla concorrenza tra imprese più avanzate e quelle più arretrate.

In questa nuova configurazione (S2) il salario è grosso modo un salario di sussistenza mentre il prodotto netto, frutto delle innovazioni, è assorbito dal profitto. Al tempo stesso questi mutamenti causano “squilibri” economici e sociali che generano non solo uno spostamento di capitale verso i settori con un alto saggio di profitto ma anche aspri conflitti di classe il cui scopo consiste nell’aumentare la quota del salario rispetto a quella del profitto.

In pratica, le lotte sociali e le trasformazioni dell’apparato tecnico-produttivo generate dalla concorrenza portano nuovamente al livellamento del saggio di profitto, finché si raggiunge una configurazione non diversa da quella dello stato stazionario (S3=S1). 

Con la fine del ciclo S1-S2-S3 si creano però anche le condizioni per una nuova distruzione creatrice, dato che l’apparato tecnico-produttivo capitalistico non può che tendere ad incrementare la propria potenza, senza riconoscere alcun limite, se non quello determinato di volta in volta dallo sviluppo della tecnoscienza. 

In pratica, questo significa che l’apparato capitalistico si deve sviluppare secondo regole immanenti ovvero senza bisogno di riferirsi ad una sfera sociale, il che equivale ad un sistema economico che si configura come una produzione di merci a mezzo di merci (che, com’è noto, è il titolo di un’opera di Sraffa) e che quindi produce esso stesso i bisogni sociali. In altri termini, in un sistema capitalistico è il valore di scambio che condiziona o determina il valore d’uso, non viceversa.

Nondimeno, solo con la terza rivoluzione industriale, che ha coinciso con la progressiva riduzione del Welfare, si è dimostrato che il passaggio dalla fase S2 alla fase S3 può non essere contraddistinto dalle conquiste del movimento operaio, ma solo dalla concorrenza tra imprese nuove e vecchie e da una lotta di classe condotta con successo dalla stessa classe capitalistica, al punto da subordinare l’intera società alle “ragioni” del mercato capitalistico.

In questo senso, la quarta rivoluzione industriale non differisce dalla terza, ma è solo un ulteriore incremento del dominio del grande capitale sull’intera società. La differenza allora consiste soprattutto nel fatto che con la quarta rivoluzione industriale (che è appena cominciata) è evidente che in realtà il sistema capitalistico non si sviluppa soltanto sulla base di regole immanenti ma grazie al ruolo decisivo del Politico (e in particolare dello Stato) che definisce la forma politico-culturale che caratterizza la nuova distruzione creatrice (“orientando” di conseguenza anche la stessa ricerca scientifica), e che al tempo stesso garantisce l’incremento di potere del grande capitale.

Da un lato, quindi, il mercato capitalistico si mostra del tutto indipendente dalla sfera dei bisogni sociali, dall’altro però questa indipendenza è possibile solo grazie all’agire politico-strategico della classe capitalistica che si attua in particolare tramite il controllo degli apparati dello Stato e specialmente di quello dello Stato capitalistico egemone. 

Si deve comunque sempre tenere presente che il dominio della classe capitalistica si configura (per usare il lessico gramsciano) non solo come una egemonia corazzata di coercizione ma anche come una egemonia culturale (che si attua mediante il controllo del sistema educativo - pubblico e privato - e dei principali mezzi di comunicazione), al fine di formare un “tipo umano” perfettamente integrato nel sistema capitalistico.

In quest’ottica, è chiaro che il capitalismo “si riproduca” in primo luogo proprio nella sfera politico-culturale piuttosto che in quella economica, in quanto, al contrario di quel che comunemente si ritiene, l’Economico non è altro che un “Politico mistificato”, non ovviamente nel senso che la sovrastruttura politico-culturale determini la struttura economica, bensì nel senso che gli stessi vertici della struttura economica agiscono in sinergia con i vertici del potere pubblico per “mettere in forma” politico-culturale il rapporto tra la Tecnica e l’Economico. 

Si forma così l’idea che sia la Tecnica stessa a “guidare” il sistema capitalistico. Certo, la Tecnica non è neutrale ma è “cieca”. E non solo è “cieca” rispetto alla sua funzione economica e politica ma rispetto alla sua stessa “essenza”. Nulla dice né può dire di sé la Tecnica, perché l’essenza della Tecnica, come ha insegnato Heidegger, non è la Tecnica, bensì una “volontà di potenza illimitata”, che come tale non ha nulla a che fare con la Tecnica bensì con il Politico. Difatti, è solo il Politico che può creare le condizioni perché il “soggetto sociale” o, se si preferisce, il lavoratore sia intellettuale che manuale, si riduca ad essere uno strumento dell’apparato tecnico-produttivo, ossia uno strumento del suo strumento. 

Ed è questo capovolgimento del soggetto in mero oggetto di pratiche politiche ed economiche decise dagli strateghi del grande capitale (benché essi stessi siano solo interpreti delle “ferree regole” del sistema capitalistico) che, presentandosi come “naturale”, come un dato immodificabile, impedisce di comprendere che la produzione di merci a mezzo di merci non può che essere una produzione sociale.** In questo senso è l’intera società che produce la ricchezza e che rende possibile la valorizzazione del capitale. D’altronde, la merce, come ha dimostrato Marx, non può che essere espressione dell’unità contraddittoria di valore d’uso e valore di scambio. 

Vale a dire che la “potenza” del lavoro (e in particolare proprio quello tecnico-scientifico!), in quanto è e non può non essere “lavoro sociale”, è “in potenza” la negazione stessa del capitalismo. Ma, appunto, è solo “in potenza” la negazione del sistema capitalistico. Non vi è cioè sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo che in quanto tale (ossia secondo una concezione deterministica) possa condurre al superamento della società capitalistica. La miseria dell’economicismo dunque è per così dire già “iscritta” nello stesso rapporto tra la Tecnica e l’Economico che non può che essere di natura politico-culturale.

In sostanza, è grazie alla Tecnica (e ad un rapporto più “agile” ovvero più “libero” e meno “vincolante” con essa) che sarebbe possibile allargare la differenza tra l’apparato tecnico-produttivo e la sfera sociale (come auspicava Claudio Napoleoni), liberando l’uomo dalla “necessità” di lavorare per vivere,*** ma è anche grazie ad un determinato rapporto politico-culturale tra la Tecnica e l’Economico (e quindi al “limes”, istituito dal Politico, che nessuna “prassi” politico-culturale deve varcare) che questa liberazione non è possibile.


*Per le considerazioni che seguono si veda Claudio Napoleoni, Sraffa e la storia dell’economia politica, in Id., Il discorso dell’economia politica, Boringhieri, Torino, 2019.

** Al riguardo si vedano le considerazioni di Massimo Cacciari in La lezione di Claudio Napoleoni (https://www.pandorarivista.it/articoli/la-lezione-di-claudio-napoleoni-un-contributo-di-massimo-cacciari/).

*** Il reddito di base, da riconoscere ad ogni individuo senza contropartite lavorative (si veda Philippe Van Parijs, Yannick Vanderborght, Il reddito di base, il Mulino, Bologna, 2017), sembra andare nella direzione di una “liberazione dal lavoro”, ma se non è parte di una “prassi” politico-culturale “orientata” secondo un diverso modo di abitare la terra (e la stessa geopolitica significa in primo luogo abitare politicamente la terra), rischia solo di trasformare le masse o le “moltitudini” in una “plebe stracciona”. Allargare la differenza tra l’apparato tecnico-produttivo e la sfera sociale, infatti, non è possibile senza mettere l’apparato tecnico-produttivo al servizio della società e di una “autentica” libera individualità. Comunque sia, è il modo in cui l’uomo si “rapporta” al mondo (natura inclusa), e quindi anche agli altri e a sé stesso, che può ancora offrire la “chiave strategica” per “superare” l'attuale società neocapitalistica. 



martedì 2 marzo 2021

QUALE DEMOCRAZIA E QUALE MERITOCRAZIA?

Che la democrazia rappresentativa ormai sia solo una finzione, ossia una sceneggiata per il "popolo", non dovrebbe essere difficile ammetterlo se si è intellettualmente onesti. Ragion per cui assume un significato di rilievo proprio il "caso Italia". 

I partiti, del resto, da qualche decennio, sono soltanto dei comitati d’affari, composti in buona parte da demagoghi, portaborse, faccendieri, arrivisti senza scrupoli, "mafiosi", lestofanti, intrallazzatori e via dicendo. Nulla di strano allora che pure il "popolo" ritenga necessario che al governo vi siano dei "competenti" scelti in base a criteri meritocratici e quindi non necessariamente eletti dal popolo (anche se è possibile sempre affidare ai "politici" il ruolo di comparse o le funzioni del "front office").  

Qui però c'è l'"inghippo" (per i neoliberisti, si intende), perché il fenomeno dipende dalla scala che si sceglie, non viceversa, ovverosia la valutazione dei meriti varia a seconda delle misure e delle proporzioni che si scelgono. E in alcuni Paesi vi sono misure e proporzioni assai diverse da quelle che valgono in Italia, tranne per quanto concerne alcuni settori particolari in cui conta solo saper eseguire un programma deciso da altri (ad esempio, per decidere se e dove costruire un ponte non occorre essere capaci di costruirlo e chi è capace di costruirlo non necessariamente è in grado di decidere se sia necessario costruirlo e dove si debba costruirlo). 

Anche in questi Paesi quindi conta il merito, ma non necessariamente il merito che conta in Italia o in altri Paesi occidentali. 

In Cina, in particolare, il sistema politico praticamente si articola su tre livelli: una base democratica, con ampia partecipazione popolare; un livello intermedio, cui si accede solo se si è dimostrato di avere certi requisiti; un livello alto, accuratamente selezionato, cui compete la direzione politico-strategica del Paese. In sostanza, si tratta di una sorta di "cursus honorum" che premia soprattutto chi dimostra di avere intelligenza politico-strategica, senso dello Stato e capacità di tutelare il bene comune. 

In Cina, scrive Daniel Bell, «il principale ideale politico – condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere – è quello che io definisco meritocrazia democratica verticale, intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti» (Daniel Bell, "Il modello Cina"). I membri della classe dirigente, sia a livello locale o reginale che a livello nazionale, però sono scelti tra i membri del partito, non della classe capitalistica. In questo senso, sono le istituzioni politiche che comandano e che stabiliscono la strategia di sviluppo che "tecnici" e capitalisti devono rispettare. 

Si tratta quindi di un sistema politico che nelle sue linee generali (dato che presenta caratteristiche che dipendono dalla cultura e dalla civiltà cinese, come evidenzia lo stesso Daniel Bell) si configura come un “sistema socialista di mercato” che sa difendere l'interesse collettivo, sia sotto il profilo politico-culturale che sotto quello economico e sociale. 

Al di là dunque del fatto che il "modello cinese" non può essere esportato proprio perché affonda le sue radici nella storia plurisecolare della Cina (certo assai diversa da quella dell'Europa, di modo che un socialismo di mercato europeo sarebbe differente da quello cinese), pare lecito affermare che la "differenza politica" che oggi conta davvero è quella tra il partito (unico) dei "competenti" al servizio del grande capitale e il partito dei "migliori" al servizio dell'interesse collettivo (e sono i “migliori” nel senso che sanno meglio difendere l’interesse collettivo). 

Nel primo caso c'è bisogno del “front office”, della "claque" e del circo mediatico - ossia della mera "rappresentazione" di una democrazia che di fatto si configura sempre più come una dittatura oligarchica -, nel secondo caso c'è invece bisogno soprattutto di una forte democrazia di base. In altri termini nel primo caso viene prima il mercato e poi la società, mentre nel secondo caso viene prima la società e poi il mercato. Vale a dire che nel secondo caso cambia la scala e dunque cambia anche quel che si intende per democrazia e meritocrazia. 

giovedì 21 gennaio 2021

CENTO ANNI FA

 Che la storia del PCI abbia segnato la storia del nostro Paese (e non solo) non lo si può certo negare, anche se è una storia finita con la fine del “socialismo reale”. Una storia fallimentare? Certamente no. Non solo quella del PCI ma pure quella del “socialismo reale” (basterebbe pensare alla Seconda guerra mondiale per rispondere di no). Tuttavia, è innegabile che un ciclo storico alla fine del secolo scorso si sia definitivamente chiuso. Come? Con una sconfitta. Non una battaglia perduta ma una guerra perduta (e qualcuno potrebbe pure parlare di vittorie perdute). Una guerra comunque che ha messo fine anche alla sinistra, ormai solo una “variante” del neoliberalismo, ossia ridotta ad essere una espressione del capitalismo internazionale e (sedicente) “cosmopolita”, così come la destra populista è espressione del capitalismo nazionale penalizzato dalla cosiddetta “globalizzazione”. 

“Oltre” il comunismo, pertanto, ci sarebbe solo il “nulla”, tranne il neoliberalismo, ovvero l’ideologia “mortifera” del capitalismo predatore? Eppure anche questo “nulla” non proviene dal “nulla”, ma appunto da una storia. E che storia! È un “nulla” che non si lascia facilmente liquidare come “non senso”. È sì una “aporia”, ma intesa non come “via senza uscita”, bensì come un luogo in cui non vi è una “uscita”, ossia uno “spazio aperto” come il deserto. Del resto, pure il deserto si può attraversare, benché occorra sapersi “orientare”.

Ma per sapere in quale direzione si deve andare, si deve pure sapere da dove si proviene. Ci si dovrebbe quindi chiedere: perché il comunismo è stato sconfitto? Domanda cui in parte molti hanno già risposto, anche se non sempre in modo convincente. Comunque sia, si è risposto solo in parte: la questione dell’ideologia, quella dell’economia, il problema del pluralismo, il mutamento sociale generato dalla terza rivoluzione industriale, la controffensiva neoliberale, la globalizzazione…Nondimeno, vi è anche altro, ossia l’antropologia, e in particolare l’antropologia politica. Ecco, è sotto questo aspetto, a giudizio di chi scrive, che il comunismo ha patito la sua sconfitta peggiore.

Questione difficile quella della antropologia politica, ma essenziale, perché non la si può risolvere con l’economicismo, e non perché l’economia non sia importante, anzi proprio perché lo è. Non è forse Marx ad avere dimostrato l’unità contraddittoria della merce, in quanto unità di valore d’uso e valore di scambio? E non è forse questa unità contraddittoria possibile solo in virtù del fatto che il lavoro o, meglio, il lavoratore (perché non c’è lavoro – predicato - senza lavoratore – soggetto) è e non è una merce? Come sarebbe lecito allora affermare che l’oggettivazione può essere un autentico processo di soggettivazione, ossia una oggettivazione non più alienante, senza prima interrogarsi sulla questione del soggetto, ovvero su quel particolare soggetto che è l’essere umano in quanto è insieme con altri esseri umani, e quindi di necessità è un animale politico? 

Certo, conta pure il sostantivo (animale) non solo l’aggettivo (politico). Eccome se conta! Ma proprio per questo occorre precisare che non si tratta solo di politica o di antropologia, bensì di antropologia politica. Il Politico, dunque, come questione fondamentale. Ma non in quanto mero esercizio del potere, bensì come ciò che “dà forma” all’abitare, all’essere nel mondo insieme con gli altri, e quindi alla stessa economia nella misura in cui è necessaria per soddisfare i bisogni sociali, che, tuttavia, non sono solo quelli “prodotti/indotti” dall’apparato tecnico-produttivo. In termini più chiari, anche se più “semplici”, vale a dire che c’è sempre il problema di un essere umano “a più dimensioni”, e quindi pure del conflitto - che non dipende solo dalla struttura economica della società proprio perché affonda le sue radici nella stessa struttura antropologica - che il Politico deve sapere “mettere in forma”. 

Ed è sotto questo aspetto, assai più che sotto altri aspetti, che il comunismo si è mostrato “perdente”, illudendosi di potere generare o addirittura di avere già generato l’uomo nuovo. Non perché la natura umana sia una essenza astorica e immutabile, ma proprio perché è “materia” suscettibile di assumere molteplici “forme”, anche e soprattutto nello stesso tempo. E non è mai una “materia pura” ma una “materia” che ha una storia. Insomma è una “materia viva”, capace di “interagire” con qualunque “forma” possa assumere. È cioè un “individuo sociale” che già di per sé esige che il Politico non sia mero esercizio di potere. 

Questo il “paradosso” del comunismo, perché non è un mistero che la nozione di individuo sociale sia, per così dire, il “pilastro portante” del comunismo. Ma allora è proprio questo paradosso o, meglio, questa contraddizione che dimostra che la storia del comunismo non solo non è stata fallimentare, ma può ancora indicare (non fosse altro “in negativo”, ma si tratterrebbe di un giudizio assai riduttivo, dato che non si possono ignorare le "ragioni" del comunismo) quale sia la direzione in cui si deve procedere, sempre che non ci si accontenti di scambiare una oggettivazione alienante (che si manifesta ormai anche come un paradossale sfruttamento di sé stessi) per un processo di autentica emancipazione e liberazione.