Che l’attuale fase storica sia caratterizzata dal multipolarismo sotto il profilo geopolitico e dal declino relativo della potenza americana è difficile metterlo in dubbio, sebbene siano ancora gli Stati Uniti la maggiore potenza mondiale e il centro egemonico del capitalismo occidentale. Pertanto, secondo diversi analisti, l’attuale fase storica sarebbe in realtà una complessa fase di transizione, cosicché non è facile prevedere se si concluderà con la nascita di nuovo ordine mondiale non egemonizzato dagli Stati Uniti o se l'America riuscirà a conservare la direzione strategica del sistema internazionale sia sotto il l’aspetto geopolitico che sotto quello economico. Al riguardo pare comunque necessario tener presente che l’egemonia americana dalla Seconda guerra mondiale fino ad oggi si può distinguere in diverse fasi (ovviamente in questa sede è possibile solo delineare in modo assai sintetico i tratti essenziali di ciascuna di queste fasi).
La prima, che abbraccia un arco di tempo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale fino all’inizio degli anni Settanta, è contraddistinta sia dalla netta supremazia economica americana garantita dagli accordi di Bretton Woods (estate 1944) sia dalla guerra fredda, ossia non solo dalla rivalità tra gli Usa e l’Unione Sovietica ma, in generale, dallo scontro tra capitalismo e comunismo, che interessa in pratica tutte le regioni del pianeta. Gli Usa quindi agiscono come gendarme dell’ordine capitalistico mondiale, benché la sfida comunista renda necessaria la mediazione politica (sia pure in forme diverse nei diversi Paesi occidentali) tra interessi del grande capitale e quelli delle classi sociali medie e subalterne.
In questa fase quindi è decisivo per gli Usa non solo avere il controllo geopolitico del continente americano (tutelando in specie gli interessi della borghesia compradora latino-americana), ma pure dell’Europa Occidentale e del Rimland, ossia della fascia costiera che dal Mediterraneo si estende fino all’Estremo Oriente, passando per il Medio Oriente e il Golfo Persico, ovverosia due aree geopolitiche di vitale importanza anche sotto il profilo (geo)economico per la presenza di numerosi giacimenti petroliferi, da cui dipende l’economia dell’Europa Occidentale.
Alla fine degli anni Sessanta però si moltiplicano i segni di una crisi dell’egemonia americana. Dopo lo scacco subito nella guerra di Corea, gli Usa non riescono ad evitare una umiliante sconfitta nella guerra del Vietnam, non certo per mancanza di mezzi ma per una insipienza politico-militare che pare dipendere da uno scarso “senso della storia” e da una sopravvalutazione della “potenza” della tecnologia (un conto è potere distruggere un Paese, un altro è acquisire il controllo del “territorio” di un Paese) e che in sostanza rende impossibile che non divergano scopo politico e obiettivo militare con conseguenze disastrose anche sul piano militare. La guerra del Vietnam, inoltre, provoca profonde lacerazioni nella società americana (specialmente nel mondo universitario) già scossa dal conflitto razziale e dalla lotta sempre più aspra all’interno della stessa élite dominante statunitense, anche per il ruolo politico dei principali media sempre più ostili all’impegno militare americano in Vietnam.
Per giunta, l’America deve fare fronte alla sfida con l’Unione Sovietica nel Medio Oriente, e a quella ancora più complessa della diffusione delle idee socialiste o marxiste sia nell’Europa occidentale che nel Terzo Mondo e nella stessa America Latina. In gioco vi sono quindi l’egemonia degli USA e la difesa degli interessi del grande capitale occidentale, anche perché lo sviluppo del Welfare State nell’Europa Occidentale minaccia di mutare i rapporti di forza a vantaggio del mondo del lavoro. Inquietante, del resto, per l’élite del potere statunitense è anche la crescita economica dei principali alleati europei, tanto che l’America registra pure un passivo della propria bilancia commerciale (un passivo che da allora sarà una costante dell’economia americana), sebbene negli anni del dopoguerra, anche grazie al surplus della propria bilancia commerciale, gli USA potessero permettersi di prestare ingenti capitali ai propri alleati, condizionandone quindi anche le scelte economiche oltre a quelle (geo)politiche.
Ciò nonostante, gli Stati Uniti hanno ancora ottime carte da giocare, anzi ne hanno assai più del loro principale rivale, ossia l’Unione Sovietica che sembra ormai avere esaurito la spinta propulsiva che nei decenni precedenti l’aveva trasformata in una superpotenza. E gli Stati Uniti le sanno giocare con abilità. Difatti, non esitano a sganciare il dollaro dall’oro, ossia a mettere fine agli accordi di Bretton Woods, né a sfruttare l’ostilità tra la Cina e l’Unione Sovietica. Evitano pertanto che la sconfitta subita nella guerra del Vietnam assuma il significato di una sconfitta strategica e al tempo stesso possono trarre il massimo vantaggio, non solo sotto l’aspetto geopolitico ma anche sotto quello politico-culturale, dalle divisioni interne al mondo comunista, da cui, del resto, i vari partiti e movimenti di sinistra occidentali già prendono nettamente le distanze, considerando i sistemi comunisti o socialisti ormai peggiori del sistema liberal-capitalistico ovvero di quello che si definisce il “mondo libero”.
D’altronde il rapporto particolare che Washington ha con le élite latino-americane, ferocemente antisocialiste, permette agli Usa di sostenere una serie di “operazioni sporche” (di cui le più note forse sono il golpe di Pinochet in Cile e la famigerata Operazione Condor) per eliminare non solo politicamente ma anche fisicamente chiunque possa rappresentare un pericolo per gli interessi della borghesia compradora latino-americana o per quelli degli Stati Uniti. Peraltro, l’America può sfruttare perfino gli shock petroliferi causati dalla guerra del Kippur e dalla rivoluzione islamica in Iran, che acuiscono la crisi del Welfare State europeo, basato su politiche economiche neokeynesiane. L’America adesso può dunque ridefinire i rapporti con il Terzo Mondo e pure con l’Europa occidentale (stretta nella morsa della stagflazione ma anche sempre più attratta dall’“american way of life”, non certo dai “modelli culturali” del mondo comunista), mentre l’Unione Sovietica, oltre ad impegnarsi in un conflitto in Afghanistan che la indebolisce ulteriormente, non è più in grado di controllare le forze centrifughe e distruttive che minacciano il suo impero e si rivela capace solo di prolungare per qualche lustro la propria agonia.
D’altronde, la rivoluzione industriale dell’elettronica e dell’informatica se da un lato consente agli Usa di riaffermare la propria supremazia in campo militare - vanificando così gli enormi e costosissimi sforzi compiuti dai sovietici per dotarsi di una apparato militare convenzionale in grado di competere con la macchina bellica americana -, dall’altro offre al grande capitale, i cui interessi possono essere tutelati in ogni parte del mondo soltanto dagli Usa, di mutare i rapporti di forza con il mondo del lavoro, in modo tale che il sistema politico e sociale occidentale ritorni ad essere a direzione capitalistica. Lo Stato, in Occidente, nel giro di pochi anni torna quindi ad essere lo strumento mediante il quale l’intera società è sottomessa agli interessi del grande capitale nazionale e soprattutto internazionale.
Alla fine del secolo scorso, mentre la Russia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica sprofonda in una spaventosa crisi economica, sociale e demografica, nulla dunque sembra più poter opporsi né al disegno di una supremazia totale dell’America né, di conseguenza, alla prepotenza del capitalismo predatore. Perfino il terrorismo islamista - che pure è stato favorito dagli Stati Uniti prima per logorare l’Unione Sovietica e poi per indebolire ulteriormente il gigante russo, perché non possa più tornare ad essere perlomeno una grande potenza eurasiatica sfruttando le enormi risorse naturali del suo immenso territorio – anche se può colpire direttamente l’America sembra offrire a Washington la possibilità di consolidare l’egemonia americana sull’intero pianeta.
Al tempo stesso, la Nato, che di fatto prende ordini dagli americani, si espande verso Est e l’America, oltre a fare leva sulla nota russofobia di alcuni Paesi dell’Europa orientale e a sostenere (anche finanziariamente) la cosiddetta “rivoluzione” di piazza Maidan (in realtà un colpo di Stato) in Ucraina, si avvale di diverse “quinte colonne” filo-occidentali al fine di destabilizzare la Russia di Putin. Nondimeno, il “sogno americano” termina proprio quando sembra che stia per diventare realtà, ovverosia allorché sembra che la storia sia finita con il trionfo del capitalismo a stelle e strisce. La storia, infatti, non solo non è finita ma riserva all’élite dominante americana delle brutte soprese.
Eppure all’inizio del terzo millennio le sfide che gli Usa devono affrontare non paiono particolarmente difficili. Se il Giappone si è già imbattuto nei suoi limiti, l’Unione Europea è solo una unione competitiva europea, i cui membri, a cominciare dal più importante, ossia la Germania, sono impegnati a difendere i propri interessi anche e soprattutto a scapito dei membri più deboli della Ue. In sostanza l’Ue è solo un nano geopolitico e un gigante economico dai piedi di argilla.
Le altre due sfide sono quella del terrorismo islamista e quella rappresentata da una Cina che si è aperta al mercato. Ma come potrebbe una Cina ancora a guida comunista competere con gli Usa? La cosiddetta “globalizzazione” o l’internazionalizzazione del capitalismo anzi offre l’occasione di prendere due piccioni con una fava: da un lato le multinazionali hanno l’opportunità di trarre il massimo profitto dal basso costo del lavoro in Cina, dall’altro la creazione di una classe capitalistica cinese sembra la carta vincente di Washington, perché si ritiene inevitabile che i capitalisti cinesi si sbarazzeranno del partito comunista. Invece non solo la crescita economica e tecnologica della Cina si rivela essere incredibilmente rapida, tanto che il Paese diventa nel giro di pochi lustri la prima potenza industriale, ma il sistema politico cinese non muta, anzi si rafforza e la Cina dimostra di non avere alcuna intenzione di farsi inglobare nel sistema liberal-capitalistico a guida statunitense.
Inoltre, la cosiddetta “guerra al terrore” voluta da Washington (quasi che il terrorismo fosse un nemico politico anziché un metodo, per quanto detestabile, di lotta politico-militare) anziché debellare il terrorismo islamista lo ha reso perfino più pericoloso, mentre ancora una volta l’insipienza e l’arroganza dell’élite del potere statunitense conducono ad altri due fallimenti politico-militari americani (in Iraq e in Afghanistan). Incapaci ancora una volta di far convergere scopo politico e obiettivo militare gli Usa evitano comunque una sconfitta strategica, solo grazie alla loro gigantesca macchina bellica, che però non è in grado di rimediare agli errori commessi nel tentativo (anch’esso fallito) di rovesciare il regime di Assad, che non solo ha complicato a dismisura lo scenario medio-orientale, ma ha dato modo alla Russia (che è pur sempre una superpotenza nucleare) di tornare ad essere un attore geopolitico di primaria importanza e ad alcune potenze regionali (in particolare l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita) di giocare una partita geopolitica che vede l’America in seria difficoltà al punto da compromettere la sua alleanza con la Turchia e a non avere rapporti facili nemmeno con l’Arabia Saudita.
Anche questa volta però non si tratta solo di crisi geopolitica ma anche di crisi sociale ed economica, che riguarda tutto il mondo occidentale e in particolare la stessa società americana, in cui vecchi conflitti (come quello razziale) si sommano a nuovi conflitti generati da una crisi che penalizza non solo le classi sociali subalterne o gli afroamericani ma perfino il ceto medio bianco, aggravando così la tensione tra l’élite dominante e buona parte del popolo americano che considera Washington non tanto come la capitale della nazione americana quanto piuttosto come il “centro” di un potere malefico e “nemico” della stessa nazione americana.
Pare dunque lecito chiedersi se gli Usa anche questa volta siano in grado di superare l’attuale crisi di egemonia con una controffensiva politico-strategica “a tutto campo”, proprio come è avvenuto nella seconda metà del secolo scorso, benché naturalmente si debba tener conto anche delle notevoli differenze tra le due fasi storiche. Si tratta perciò di capire quali sono le carte che gli Usa possono giocare in questa fase storica, che non si può paragonare, se non per certi aspetti, a quella che esisteva mezzo secolo fa (basti pensare al fatto che attualmente gli Usa devono confrontarsi con l’ascesa di una grande potenza, ossia la Cina, mentre negli anni Settanta del secolo gli Usa dovevano competere con l’Unione Sovietica che era già una grande potenza in declino), anche perché non vi è in Occidente alcuna forza politica che voglia o sia davvero in grado di mettere in discussione l’attuale sistema liberal-capitalistico, benché quest’ultimo sia incapace di risolvere i problemi che esso stesso genera e possa quindi solo cercare di guadagnare o, meglio, “comprare” tempo. (Anche il/la Covid-19 ha messo in luce non solo l’inefficienza ma pure la “fragilità” del sistema liberal-capitalistico che, promuovendo un estremo individualismo e una concezione della libertà che in pratica non si riesce nemmeno più a distinguere dalla bramosia di possesso o dalla libertà di calpestare la libertà degli altri, ha distrutto quasi del tutto i legami comunitari e reso sempre più difficile perseguire un fine collettivo e la tutela del bene comune).
Prima di tutto si deve osservare che gli Usa non possono più giocare la carta della rivalità tra Russia e Cina, e che la politica di Washington di questi ultimi anni ha perfino rafforzato i rapporti di amicizia tra questi due Paesi, al punto che ben difficilmente gli Usa possono rinunciare ad una politica ostile sia nei confronti della Russia che della Cina. La Cina, difatti, solo per la sua potenza economica e il suo “diverso” sistema politico costituisce una minaccia per gli interessi economici che Washington non può non difendere senza abdicare al proprio ruolo di gendarme del liberal-capitalismo, mentre una politica diversa nei confronti della Russia comprometterebbe il ruolo egemone degli Usa in Europa, dato che solo considerando la Russia una potenza ostile è giustificabile il rapporto di subordinazione dei Paesi europei nei confronti degli Stati Uniti.
In definitiva, volente o nolente, l’America, se non è disposta a rinunciare al suo disegno di egemonia globale, non può che continuare ad essere ostile nei confronti della Russia e della Cina e strumentalizzare, con la complicità dei media occidentali, la delicata questione dei diritti umani. Accordi di vario genere (commerciali, militari, ecc.) con l’uno o l’altro di questi Paesi sono certo possibili, ma sempre in un contesto internazionale caratterizzato da forti tensioni con queste grandi potenze. Come se non bastasse, l’emergere di diversi attori geopolitici regionali complica enormemente le relazioni internazionali, sia perché può facilmente indebolire anche alleanze consolidate sia perché può moltiplicare le aree calde del pianeta e rendere perfino più “incandescenti” quelle già esistenti (si pensi, ad esempio, al Kashmir).
Gli Usa possono comunque sia cercare di riguadagnare le posizioni perdute nel Medio Oriente, anche perché contano sempre sull’alleanza con Israele che in quell’area geopolitica è ancora la potenza regionale più forte e più temibile (sebbene nel complesso scenario medio-orientale anche una grande potenza rischi di perdere più di quel che può guadagnare), sia contrastare la penetrazione commerciale della Cina in Africa (in particolare promuovendo colpi di Stato e conflitti etnici e favorendo la politica neocolonialista delle multinazionali). D’altra parte, gli Usa possono anche continuare a tenere sotto scacco l’America Latina (un compito però che non è così facile come nello scorso secolo, anche perché le condizioni per una nuova Operazione Condor non paiono esserci più). Tuttavia, dopo i fallimenti politico-militari di questi ultimi anni, per l’America non sarebbe facile intervenire militarmente per difendere degli interessi regionali senza rischiare di perdere nuovamente la faccia, e questo è già di per sé un grave limite sotto il profilo geopolitico.
Le carte principali quindi che gli Usa possono giocare nella lotta per l’egemonia sembrano essere essenzialmente due: rafforzare l’alleanza strategica con i Paesi di lingua inglese e quelli europei (oltre che con il Giappone e la Corea del Nord) in funzione anti-russa e/o anti-cinese, e sfruttare la nuova rivoluzione tecnologica (digitale, green economy, biotecnologie ecc.) per dare nuovo slancio al capitalismo e consolidare il potere della classe capitalistica occidentale anche sul piano interazionale oltre che nei singoli Paesi occidentali o filo-occidentali. Nondimeno anche i rapporti con alcuni di questi Paesi (Germania inclusa) presentano non pochi problemi, dato che i loro interessi economici rischiano di essere in contrasto con gli interessi geopolitici dell’America.
Invero il problema più difficile da risolvere per gli Usa è come conciliare una politica di potenza unilaterale con un mondo che di fatto è già multipolare. Certo l’America potrebbe pure fare qualche passo indietro e limitarsi ad una egemonia sul mondo di lingua inglese, accontentandosi di avere un’influenza significativa nel resto del mondo. Ma questo implicherebbe rinunciare ad essere il centro propulsivo del capitalismo predatore che non può esistere senza che vi sia un centro di potenza egemonico che ne tuteli gli interessi. L’élite dominante americana ovviamente ne è consapevole, e consapevoli ne sono anche le diverse classi capitalistiche dei Paesi occidentali, ragion per cui sono disposte a sostenere la politica di potenza americana anche allorché, nel breve termine, può essere in contrasto con i loro interessi. Ma nel lungo periodo una tale situazione non è sostenibile.
In questo senso il multipolarismo è una sfida che né il capitalismo occidentale né l’America possono vincere se non accettando di rischiare uno scontro diretto con i due principali centri di potenza anti-egemonici (ossia la Cina e la Russia), puntando tutto sulla nuova rivoluzione tecnologica (anche per trasformare il sistema educativo in un sorta di fabbrica di “idioti” politicamente “innocui” e socialmente utili – alla classe capitalistica, s’intende), sulla capacità dei media mainstream di manipolare l’opinione pubblica occidentale, e soprattutto sulla incapacità della Russia e della Cina di fare “fronte comune” oppure sul crollo del sistema politico cinese.
In questo caso però fallire non significherebbe subire le conseguenze di un’altra crisi geopolitica ed economica, ma scatenare una “tempesta perfetta” che travolgerebbe l’intera comunità internazionale. Certo, non si può nemmeno escludere che, per evitare questo rischio, si giunga a creare un diverso ordine mondiale, basato cioè su una effettiva cooperazione internazionale e su un sistema politico ed economico post-capitalista, ma si deve riconoscere che in una prospettiva realistica l’ottimismo della volontà non vale più del pessimismo della ragione.
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