venerdì 5 dicembre 2014

L'EUROPA NELLA MORSA DELL'EURO

Non è una novità che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso sia stata proprio la Francia di François Mitterand, anziché la Germania di Helmut Kohl, a premere perché si arrivasse all’introduzione della moneta unica europea (ossia l’euro). “Obiettivo primario” della Francia non era certo quello di conseguire l’egemonia monetaria sul vecchio Continente, come sostengono alcuni “esperti” che evidentemente non riescono (per limiti ideologici e/o culturali) a liberarsi di rozzi schemi concettuali “economicistici”, bensì quello di risolvere una volta per tutte la “questione tedesca”, diventata di nuovo attuale dopo il crollo del Muro di Berlino. E che fosse una questione tutt’altro che marginale (non solo per la Francia) è facile capirlo, purché si tenga presente la storia europea, almeno dalla guerra franco-prussiana del 1870 fino alla Seconda guerra mondiale compresa. Eventi che conteranno poco per gli “esperti del villaggio globale” o per i complottisti d’ogni risma e “colore”, ma che senza dubbio alcuno non possono non considerarsi decisivi per “noi mortali”. Del resto, nel contesto in cui si pervenne al trattato di Maastricht, che appunto prevedeva la creazione dell’Unione economica e monetaria europea, rilevava non poco pure il progetto di una struttura di difesa europea, sia pure nell’ambito della NATO, ma incentrata ovviamente sul cosiddetto asse “Parigi-Berlino”. La potenziale sfida che tali decisioni politiche rappresentavano per gli Stati Uniti e in generale per quelli che si possono definire i centri di potere atlantisti, è palese dacché di fatto erano messi in discussione tanto l’egemonia del dollaro quanto il ruolo della NATO, ovvero i due pilastri fondamentali del “polo geopolitico” atlantico, rimasto allora l’unico vero “polo geopolitico” a causa della scomparsa dell’Unione Sovietica e dello stesso Patto di Varsavia. D’altro canto, saldare definitivamente la Germania all’Atlantico era un “imperativo geopolitico” anche per i circoli atlantisti che non potevano permettere che il “vuoto” generatosi con la fine dell’Urss venisse colmato da una Germania di nuovo unita, ma “’sganciata” dall’Europa occidentale e non più allineata agli interessi d’oltreoceano. In ogni caso, i francesi approvando il trattato di Maastricht (20 settembre 1992), benché di strettissima misura, spianarono la strada che avrebbe portato all’introduzione dell’euro, entrato ufficialmente in circolazione nel 2002 sia pure solo in 12 Paesi europei.

Una scelta tanto più significativa quella della Francia, se si considera che era stata l’Assemblea nazionale francese nell’agosto del 1954, quando la Francia era ancora traumatizzata per la notizia della caduta di Dien Bien Phu, a votare contro la CED, ossia la Comunità di Difesa Europea che doveva comprendere anche la Germania. Il fallimento della CED dipese sia dal fatto che allora in Francia era ancora forte il timore di una rinascita della potenza militare ed economica tedesca, sia dal fatto che molti francesi non vedevano di buon occhio la nascita di una struttura militare (e quindi inevitabilmente anche politica) sovranazionale. Sicché, mentre il successo della CECA (Comunità Economica Europea del Carbone e dell’Acciaio) favorì la nascita del Mercato Comune Europeo (il trattato istituente il MEC venne firmato dai “Sei” a Roma nel marzo del 1957) (1), il fallimento della CED convinse non pochi europeisti (in perfetta buonafede, s’intende) che per arrivare ad una unione politica europea essenziali sarebbero stati i fattori economici, vale a dire che l’unione politica europea avrebbe dovuto essere la logica conseguenza di una unione economica europea. Questo certamente aiuta a spiegare come sia stato possibile giungere a quella “assurdità geopolitica” che ha portato i Paesi europei a mettere il carro davanti ai buoi, ovvero a creare una moneta unica europea senza avere uno “Stato dietro”, come ha dovuto riconoscere recentemente lo stesso Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia (2), benché si tratti d una moneta che avvantaggia i Paesi forti dell’Eurozona, non essendo l’euro diverso, in pratica, dal marco tedesco, proprio in ragione di quei motivi geopolitici che portarono al trattato di Maastricht.

In tal modo però, anziché rafforzare e rendere più coesa l’Unione Europea, si è ottenuto esattamente l’opposto, come ormai è evidente a chiunque, e al tempo stesso si è consegnata l’Europa meridionale nelle mani dei “mercati” e della speculazione finanziaria internazionale con effetti devastanti non solo per la Grecia. L’Italia, ad esempio, già penalizzata dalla politica antinazionale degli anni Novanta – che portò alla vendita del settore strategico pubblico, vero motore dello sviluppo italiano dopo la Seconda guerra mondiale (3), e all’internazionalizzazione del debito pubblico, proprio quando con l’amministrazione Clinton venivano meno quelle restrizioni al movimento dei capitali che erano state imposte al mercato dopo la crisi del 1929 – si è trovata privata delle tre leve necessarie per difendere l’interesse della collettività, cioè la leva fiscale, la leva monetaria e la leva valutaria. Pertanto, oberata da una spesa per interessi che “vola” verso i 100 miliardi di euro all’anno, nonché da un enorme passivo della bilancia energetica, con un debito pubblico che ha superato il 130% del Pil e con un tasso di disoccupazione alle stelle, l’Italia, in un certo senso, è un “Paese fallito”, in cui perfino le scuole “cadono a pezzi”, in senso letterale e metaforico. Un situazione resa sì più grave dalla inefficienza della pubblica amministrazione, dalla diffusa corruzione e dalla spesa “improduttiva”, ma non dipendente dalla spesa pubblica in quanto tale. Il debito pubblico italiano si è infatti formato tra gli anni Ottanta e Novanta, cioè dopo il “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro, che ha costretto lo Stato a pagare interessi sempre più salati e un numero crescente di italiani a lavorare per la “rendita” (cui sono andati pure gran parte dei ricavi ottenuti con la vendita delle imprese pubbliche). Inoltre, dagli anni Novanta con la sola eccezione del 2009, l’Italia produce avanzi primari (ossia le entrate dello Stato sono maggiori delle spese statali, al netto degli interessi sul debito pubblico) (4). Non si vuole quindi negare l’importanza di altri fattori per spiegare il declino dell’Italia, ma di mettere in luce un “fattore chiave” della debolezza strutturale dello Stato italiano e la sua progressiva dipendenza da “altri poteri”, soprattutto stranieri, nel contesto di una trasformazione dell’ Unione Europea che si è rivelata essere un “moltiplicatore” di diseguaglianze e squilibri, al punto da avere “spaccato in due” la stessa Europa, promuovendo il declino e l’impoverimento soprattutto dell’Europa mediterranea, nonché lo smantellamento dello stesso Welfare State, considerato il vero “gioiello” del Vecchio Continente fino a non molti anni fa.

In questo senso, non pare nemmeno casuale il rapido “allargamento” dell’Unione Europea: se era difficile creare un autentico “polo geopolitico” europeo quando vi era una “UE a 15”, non si vede come sia possibile raggiungere tale obiettivo ora che la UE conta addirittura 28 Paesi (che solo intellettuali “mercenari” o che hanno perso del tutto il contatto con la realtà possono paragonare ai diversi Stati degli USA). D’altra parte, è innegabile che la politica di “potenza commerciale” della Germania favorisca soprattutto la politica di potenza dell’America – per la quale il controllo del Rimland è questione di vitale di importanza in vista di un confronto con la Cina (ormai prima potenza industriale mondiale) (5), tanto più rilevante adesso che la Russia con Putin è tornata ad essere protagonista sullo scacchiere internazionale. Per di più, la politica rigorosamente atlantista della Merkel sull’Ucraina, nonostante alcune considerevoli “oscillazioni”, pare aver segnato perfino una certa “rottura” tra Berlino e Mosca, che (per quanto non possa essere definitiva) è il segno che la Germania, in cambio della sua “fedeltà atlantica”, chiede (e ottiene) mano libera in Europa, (benché, com’è ovvio, solo sotto il punto di vista economico). Non a caso i circoli atlantisti europei hanno finora dovuto “incassare” i ripetuti “no” della Germania ad una ridefinizione dei compiti della BCE (magari concedendo una sorta di potere di veto a Berlino), per cercare di mettere un freno alla crisi della UE che minaccia di non essere più “gestibile” (6). Ma se in Europa è la Germania che “fa la differenza” sotto il profilo economico, è ancora la Francia che conta davvero sotto il profilo politico-strategico. Difatti, la Germania non è altro che un “nano geopolitico” che trae profitto dal declino relativo degli USA e dalla necessità di Washington di impedire che l’Unione Europea vada in pezzi (7). Invero, l’UE non rappresenta ormai più alcuna minaccia per la superpotenza nordamericana, la quale peraltro, grazie anche alla nuova “guerra fredda” contro la Russia dopo il golpe filoatlantista a Kiev, è riuscita addirittura ad imporre ai “vassalli europei” una politica di potenza che non solo rischia di avere conseguenze imprevedibili per la sicurezza internazionale – proprio come sta accadendo in Medio Oriente, ove la distruzione dell’Iraq e l’aggressione alla Siria di Assad hanno creato le condizioni per la nascita dell’ISIS -, ma che non può non rendere ancor più drammatica la crisi economica e politica del continente europeo.

Veramente significativo sul piano geopolitico è stato, dunque, il rientro della Francia nel comando integrato della NATO nel marzo del 2009 (ovverosia durante la presidenza di Sarkozy), che di fatto ha messo fine al progetto di dar vita ad una difesa europea comune che potesse, con il passare tempo, rendersi indipendente dalla NATO, con “implicazioni” di carattere politico facilmente intuibili (8). Si è assistito perciò ad una clamorosa “inversione di marcia” rispetto alla Francia di De Gaulle. Com’è noto, la Francia nel 1966 era uscita dalle organizzazioni militari della NATO. Una decisione coerente con la politica del generale francese (in specie dopo che De Gaulle si era adoperato per mettere la fine della guerra d’Algeria). In effetti, già nel 1958 De Gaulle aveva proposto ad Eisenhower (che allora era il presidente degli Stati Uniti) di sostituire la direzione statunitense della NATO con una direzione composta dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna (9). Il rifiuto degli americani era scontato e contrari erano pure gli inglesi che, soprattutto dopo lo scacco anglo-francese di Suez nel 1956, non volevano rinunciare al ruolo di “alleati privilegiati” degli americani. La risposta negativa di Eisenhower rafforzò il proposito di De Gaulle di andare avanti con il programma atomico militare sperimentale e, nel 1960, dallo stadio sperimentale la Francia passò allo stadio militare vero e proprio con la legge-quadro sulla force de frappe. Negli anni successivi le relazioni tra Francia e USA continuarono a peggiorare, finché si arrivò appunto all’uscita del grande Paese europeo dal comando integrato della NATO nel 1966. Nello stesso anno De Gaulle incontrò i dirigenti sovietici a Mosca e nel comunicato finale venne annunciata l’istituzione di una commissione franco-sovietica per la cooperazione nel settore economico e in quello scientifico, che prevedeva il lancio di un satellite francese da parte dell’Unione Sovietica (10). Né De Gaulle lesinò critiche agli Stati Uniti riguardo alla guerra del Vietnam e prese pure le distanze da Israele. Ma egli arrivò addirittura a mettere in discussione il sistema “dollarocentrico” fondato sul gold exchange standard, tanto che la Francia si affrettò a convertire in oro tutti i dollari che aveva nelle proprie riserve. Il confronto tra franco e dollaro era però impari. Peraltro, la Francia doveva affrontare una difficile situazione interna, che sfociò nella rivolta studentesca del maggio del 1968. In questa situazione, in cui la politica estera francese era pure ostacolata dai legami sempre più forti tra gli Stati Uniti e la Germania federale (che nel 1955 era entrata far parte della NATO), il valore del franco subì due notevoli ribassi, e nell’agosto del 1969 si arrivò alla svalutazione della moneta francese (11). Quel che però davvero rileva, in questa sede, è che De Gaulle, al di là del suo indubbio sciovinismo, aveva nettamente colto la differenza tra europeismo e euroatlantismo, nel senso che il primo senza una Europa indipendente dagli USA non avrebbe fatto altro che portare acqua al mulino di Washington e sarebbe stato del tutto contrario agli interessi della maggior parte degli europei (12).

E’ quindi alla luce di queste considerazioni che si dovrebbe valutare un fenomeno politico rilevante come la crescita del Front National di Marine Le Pen, che punta addirittura alla presidenza della repubblica francese. I limiti di questo movimento politico sono parecchi e alcuni di essi certo sono gravi. Le accuse di xenofobia che si rivolgono al Front National non sempre sono infondate e indubbiamente il mondo islamico ha ben poco a che fare con l’idea dell’Islam condivisa da molti sostenitori della Le Pen. Ma è evidente che sarebbe un errore interpretare il successo della Le Pen con categorie politiche che ormai anche l’“uomo della strada” considera obsolete e incapacitanti. D’altronde, il “realismo” consiste nel saper discernere il grano dal loglio, ma pure nel distinguere l’essenziale dal meramente accidentale, senza lasciarsi fuorviare da schemi concettuali ideologici, buoni (forse) al tempo in cui “Berta filava”. Non si tratta dunque di fare il “tifo”, ma di vedere quel che il dito indica, senza preoccuparsi troppo del dito. Non è poi solo in Francia che vi sono “segnali di rivolta” nei confronti della disastrosa politica di Bruxelles. La “parola d’ordine” di tutti questi movimenti pare essere ”sovranismo”. Il che è positivo, e lo è forse ancor di più il fatto che non pochi esponenti di queste forze politiche abbiano condannato le sanzioni contro Mosca. Nondimeno, tutto ciò non è sufficiente. Il populismo e l’estremismo nazionalista nel Novecento di danni e rovine ne hanno causati fin troppi. Bisognerebbe quindi evitare lo scoglio del “narcisismo identitario” e comprendere che i “grandi spazi geopolitici” sono una necessità del nostro tempo. In definitiva, occorrerebbe una visione geopolitica all’altezza delle sfide di una età complessa come quella presente. Per questo motivo è “riduttivo” ritenere che risolto il problema dell’euro scomparirebbero, di punto in bianco, i “guai” che affliggono l’Eurozona. L’euro è senza dubbio parte del problema da risolvere, non il problema da risolvere. Ovverosia, sono le ragioni geopolitiche che hanno portato all’introduzione dell’euro e poi al sostanziale fallimento di Eurolandia che si devono necessariamente comprendere se si vuole uscire dal vicolo cieco in cui ci si è cacciati. Solo così, del resto, si potrebbe adottare quella “soluzione tecnica” per quanto concerne la questione dell’euro (dacché ve ne sono diverse, perlomeno “sulla carta”) che meglio potrebbe “corrispondere” all’idea di Europa che si vuol difendere, fosse pure l’idea di una nuova “Europa delle nazioni”, incastonata nella massa eurasiatica da Brest a Vladivostok, e tale da “includere” varie e distinte aree geopolitiche, come quella baltica e quella mediterranea. In quest’ottica, tra l’altro, è facile rendersi conto che anche i BRICS potrebbero rappresentare una formidabile chance economica e culturale per il continente europeo, inclusi i Paesi a forte “vocazione mediterranea” come l’Italia.

Comunque sia, è troppo presto per sapere se un movimento come il Front National intenda davvero riprendere il “discorso (geo)politico” di De Gaulle laddove si era interrotto, ma (sia chiaro) per svilupparlo e interpretarlo secondo categorie nuove e adeguate alle sfide che attendono il continente europeo. Naturalmente, si deve essere pure consapevoli che molte “prese di posizione”, che in verità paiono essere assai discutibili, possono essere solo “mosse” o “contromosse” tattiche, non “scelte strategiche”, giacché vi sono rapporti di forza che si devono prendere in considerazione e che nulla è più pernicioso in politica dell’infantilismo di chi vorrebbe “tutto e subito”. Ragion per cui per ora ci si dovrebbe limitare a constatare che in effetti qualcosa in Europa sta cambiando, pur tra mille contraddizioni e incertezze. Questo non basta per costruire qualcosa di “serio” e duraturo e potrebbe perfino rendere più complicata e difficile la già non facile situazione che caratterizza attualmente il Vecchio Continente, ma potrebbe pure portare a “voltare a pagina”. Se così fosse, allora sarebbe di nuovo possibile ridefinire l’Europa in funzione non dei “mercati” ma dei diritti dei popoli europei e dei diversi (ma non necessariamente opposti) interessi nazionali.

 Fabio Falchi

Note

(1) Il successo della CECA e poi del MEC con ogni probabilità fu ancora più importante del piano Marshall per la ripresa economica del continente europeo nel secondo dopoguerra, tanto che secondo Alan Milward il rilancio produttivo dei Paesi europei sarebbe avvenuto anche senza gli aiuti americani, dato che in Europa la ripresa era già in atto. Gli europei poi, a differenza degli americani, privilegiarono l’intervento dello Stato nei settori del Welfare, perciò, a giudizio di Milward, l’americanizzazione dell’Europa occidentale riguardò soprattutto il piano ideologico e culturale (vedi A. S. Milward, The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, University of California Press, Berkeley-Los Angeles, 1984).

(2) Bankitalia: Rossi, problema è che euro è moneta senza Stato (http://www. Corriere.it/ notizie ultima-ora/Economia/Bankitalia-Rossi-problema-euro-moneta-Stato/19-11-2014/1 A_015168377. Shtml). Si potrebbe commentare: meglio tardi che mai!

(3) Scrive giustamente Andrea Ricci che «nata come strumento di salvataggio del capitale privato durante gli anni della “grande crisi” (1933-1937), l’impresa pubblica italiana si è trovata nel secondo dopoguerra ad esercitare un ruolo propulsivo nei settori industriali più moderni e innovativi […] Il contributo dell’industria pubblica alla modernizzazione produttiva del Paese negli anni della ricostruzione e, soprattutto, del miracolo economico è stato decisivo», A. Ricci, Dopo il liberismo, Fazi Editore, Roma, 2004, p. 192.

(4) Vedi, ad esempio, gli articoli Le vere cause del debito pubblico italiano e La leggenda dello Stato spendaccione (http://keynesblog.com/).

(5) La quota della manifattura mondiale della Cina in (dollari correnti) è passata dall’8,3% nel 2000 al 30,3% nel 2013, mentre quella degli USA nello stesso periodo è scesa dal 24,5% al 14,3% (vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15).

(6) Davvero indicativo a tale proposito quanto scrisse nel 2011 Marta Dassù del “noto” Aspen Institute, vale a dire che «la gestione tedesca della crisi del debito sovrano impone ai paesi in deficit maggiori vincoli [...] senza offrire abbastanza quanto a solidarietà fiscale. La conseguenza è che la “dittatura del creditore”, nell’area euro, finisce per essere una ricetta recessiva. Cosa che non permetterà di ridurre il debito neanche con una overdose rigorista. Secondo le tesi ottimistiche, una volta rassicurata sulla credibilità di Grecia, Spagna e Italia, la Germania sarà più disponibile a fare dei passi verso un’Unione fiscale: quella di cui avremmo bisogno», M. Dassù, La guerra dell’euro (https:// www. aspeninstitute. it/aspenia-online/article/la-guerra-delleuro). Inutile dire che il tempo delle “tesi ottimistiche” è passato da un pezzo.

(7) Gli è che, da un lato, la Germania non è così forte da imporre la propria “volontà di potenza” a tutto il continente europeo, tramite le istituzioni della UE, dacché almeno la Gran Bretagna e la Francia sono sicuramente abbastanza forti da impedirlo; dall’altro, però, la Germania è sufficientemente forte da impedire che la UE possa imporle una politica che non condivida.

(8) La svolta atlantista di Sarkozy è ancor più notevole se si considera che sia la Francia che la Germania si erano opposte all’invasione dell’Iraq da parte degli USA nel 2003. Non è nemmeno da escludere che abbia influito sulla scelta di Parigi la fine della guerra sotterranea in Africa con Washington, onde far fronte alla forte penetrazione economica cinese nel continente africano, fondata su scambi commerciali e rapporti economici vantaggiosi per gli africani, e non su politiche neocolonialiste come quelle degli Stati Uniti e della Francia (in parte responsabili perfino della spaventosa guerra tra tutsi e hutu nell’ultimo decennio del secolo scorso; vedi J. Ziegler, La fame nel mondo spiegata a mio figlio, Pratiche editrice, Milano, 1999e M. Chossudvsky, The Globalization of Poverty and the New World Order, Global Research, Pincourt, 2003).

(9)Vedi J. B. Duroselle, Storia diplomatica, dal 1919 al 1970, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1972, p. 625.

(10) Ivi, p. 638.

(11) Ivi, p. 641.

(12) Su questo argomento, mi permetto di rimandare al mio scritto Europeismo contro euroatlantismo, “Eurasia”, 1/2014, pp 55-64.
http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leuropa-nella-morsa-delleuro/ 
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