giovedì 13 dicembre 2018

I NEMICI DELL’EUROPA

Le improvvide e gravi dichiarazioni del ministro Salvini su Hezbollah e la politica di Israele hanno suscitato il più che comprensibile sdegno di molti italiani (tra cui non pochi sostenitori del “capitano del popolo” leghista), che non sono disposti a tollerare la pre-potenza di Israele (anche se detestano i pregiudizi antisemiti di non pochi che si definiscono  antisionisti), ma hanno pure offerto l’occasione agli “europeisti antiamericani” di sferrare un attacco durissimo contro i populisti e i cosiddetti “sovranisti”. Invero, è particolarmente significativa sotto il profilo geopolitico la posizione di coloro che considerano i “sovranisti” dei nemici dell’Europa (e della stessa Eurasia) più pericolosi dei neoliberali euro-atlantisti. Questa critica del populismo e del “sovranismo” si caratterizza  per la contrapposizione della politica degli Usa a quella della Ue, senza che sia preso in seria considerazione lo scontro in atto ai vertici della potenza d'oltreoceano.

In pratica, gli “europeisti antiamericani” prendono in esame solo un aspetto che contraddistingue oggi lo scenario geopolitico occidentale, ossia il “sovranismo”, sostenuto soprattutto da Trump e Bannon, in quanto si contrappone all'eurocrazia. In questo modo è facile dimostrare che i populisti (compresi i gilet gialli) o i “sovranisti” sono solo dei burattini della Casa Bianca, il cui scopo è mantenere l'Europa “sotto il tallone americano”, facendo a pezzi l'Ue e privilegiando i rapporti bilaterali tra gli Usa e i singoli Paesi europei.

Ovviamente costoro si guardano bene dal prendere in esame la politica degli eurocrati che ha permesso alla Nato di piantare saldamente le tende in Europa orientale o le conseguenze disastrose per l'Europa mediterranea del neomercantilismo (e del nazionalismo!) della Germania o il ruolo della Ue nel golpe neofascista di piazza Maidan, né prendono in esame la politica marcatamente “russofoba” di Bruxelles.

Agli “europeisti antiamericani” è bastato che Macron dichiarasse che per difendersi dall'America (di Trump, non della Clinton o di Robert Kagan!), dalla Russia e dalla Cina (ma senza che egli precisasse come dovrebbe essere questo esercito, chi dovrebbe comandarlo e in funzione di quali interessi dovrebbe essere costituito), per considerare Macron una sorta di “campione” dell’Europa antiamericana, come se il presidente francese (noto idolo dei “bobos” e dei “venusiani” europei per la sua difesa dei “mercati” e del peggiore melting pot) non avesse esplicitamente menzionato la Russia e la Cina tra i nemici della Ue, né fosse il “rappresentante” europeo di quel deep State americano che è così ferocemente ostile a Trump da accusare esplicitamente (Robert Kagan, Madeleine Albright, ecc.) il cowboy della Casa Bianca di essere “fascista” e amico di Putin (“peccato” imperdonabile per i neoliberali).

Non a caso l’Europa che buona parte di costoro hanno in mente è una specie di IV Reich. L'egemonia americana sul Vecchio Continente viene quindi sì criticata ma appunto in un'ottica geopolitica in sostanza non diversa da quella del III Reich. Si capisce quindi che essi vedano nell’Ue “egemonizzata” dalla Germania la possibilità di dar vita ad un nuovo Reich, dopo la catastrofica sconfitta della Germania nella Seconda guerra mondiale, che di fatto portò l’Europa occidentale ad essere dominata dall’America e quella orientale dall’Unione Sovietica. Ma è proprio la “condizione di vassallaggio” rispetto agli Stati Uniti  in cui si trova ancora l’Europa (occidentale e orientale) che impone ai gruppi (sub)dominanti europei (che sono tali in quanto non hanno intenzione di smarcarsi dall'America) di schierarsi dalla parte di Trump o di quella degli americani contro Trump, e che prova che le affermazioni di Macron sulla necessità di un esercito europeo sono mera propaganda euro-atlantista.

Nondimeno, secondo questi “europeisti” (che evidentemente non comprendono bene che cosa implichi la “condizione di vassallaggio” dell'Europa rispetto agli Stati Uniti) pure Macron può essere utile “alla causa”, dato che pare “riprendere” quel progetto di difesa europea (la Ced) che fallì (all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso) proprio per l’opposizione della Francia. Ci si “dimentica” però che la Ced era sostenuta dagli americani, i quali, una volta preso atto del fallimento del progetto di difesa europea (in funzione antisovietica), si adoperarono per far entrare la Germania federale nella Nato (il che portò pure alla nascita del Patto di Varsavia). Ben diversa era la politica di De Gaulle, che aveva compreso che l’europeismo in realtà non era altro che euro-atlantismo (proprio come l’europeismo di Macron). Certo anche la politica di De Gaulle non era esente da gravi difetti (a cominciare da uno sciovinismo anacronistico). Comunque sia, il generale francese non solo riconobbe la repubblica popolare cinese, allacciò rapporti con l’Unione Sovietica, fece uscire la Francia dal comando militare della Nato, si oppose all’intervento americano in Vietnam, criticò la politica di pre-potenza di Israele e contestò l’egemonia del dollaro, ma mirava a creare un’Europa delle patrie, ossia una Confederazione europea, rispettosa della sovranità nazionale dei diversi Paesi europei nonché delle molteplici espressioni culturali che caratterizzano il Vecchio Continente. In altri termini, De Gaulle mirava a smarcare l’Europa non dalla politica di un presidente americano ma dall’America, senza però che l’Europa tornasse ad essere minacciata dalla pre-potenza della Germania.


Questo significa allora che i “sovranisti” hanno ragione? Certamente no, né si possono ignorare i pericoli del “trumpismo”. Ma nella misura in cui la politica di Trump (benché sia detestabile soprattutto, ma non solo, per quel che riguarda il Medio Oriente) manda all'aria i disegni egemonici dell'euro-atlantismo, creando dis-ordine a livello geopolitico e indebolendo i centri di comando della Ue, “apre” nuovi scenari geopolitici, che rendono possibile una ridefinizione della politica dei singoli Paesi europei sia sotto il profilo economico che sotto quello geopolitico.

Tuttavia, il fatto che i populisti non sappiano o non vogliano approfittarne, ma preferiscano svolgere il ruolo di lacchè della Casa Bianca, privilegiando una forma di ottuso nazionalismo (senza comprendere che il multipolarismo rende necessaria una politica imperniata sui grandi spazi) e difendendo l’estremismo sionista, non implica certo che si debba fare l’apologia di un europeismo che è funzionale solo agli interessi dell’oligarchia neoliberale occidentale (ossia a quelli del gruppo dominante d’oltreoceano - che si oppone a Trump - e dei cosiddetti “europeisti”), con buona pace di chi pensa che l’orologio della storia si sia fermato nel 1945. In definitiva, i nemici più pericolosi dell’Europa non sono solo i populisti filoamericani  ma pure gli “europeisti”, che siano o non siano filoamericani, perché sia gli uni che gli altri di fatto “sognano” un’Europa senza europei.

Infatti, essere europei significa in primo luogo non essere sudditi - né dell’impero americano (“trumpista” o non “trumpista”) né del IV Reich né di qualsiasi altro impero - ma essere cittadini di una qualsiasi polis europea.  E ciascuna polis europea è contraddistinta da una storia che non si può comprendere senza comprendere la storia e le civiltà dell’Eurasia. La possibilità che le diverse poleis europee, a differenza dalle poleis dell'antica Grecia, coesistano e cooperino in unico grande spazio, superando definitivamente divisioni e opposizioni “incapacitanti”, non è diversa quindi dalla possibilità che anche l’Europa e l’Asia coesistano e cooperino in un grande spazio eurasiatico.

martedì 30 ottobre 2018

MULTIPOLARISMO E “PRAGMATISMO”

La vittoria di Bolsonaro difficilmente potrà riportare l’America Latina ai tempi dell’operazione Condor, ma certo segna l’inizio di una nuova fase storica per il continente americano dopo la breve fase del cosiddetto “socialismo dell’America Latina”, che comunque non potrà essere cancellata. Facile prevedere perciò anche per l’America Latina un periodo contrassegnato da nuove lotte e aspri conflitti, ma si può pure ritenere che la politica degli Usa nel continente americano dipenderà sempre più dai gruppi subdominanti latino-americani.
In ogni caso, la partita decisiva nei prossimi decenni sarà (salvo che non vi siano mutamenti improvvisi e di portata mondiale) quella in Estremo Oriente, che assorbirà sempre più le limitate risorse degli Usa. Pure in Medio Oriente del resto gli Usa si vedono già costretti a dipendere sempre più dai loro alleati (Israele e Arabia Saudita - non a caso Obama, con l’accordo sul nucleare con l'Iran, aveva cercato di evitare che la politica di questi Paesi potesse compromettere gli interessi degli Usa a livello globale) e qualcosa di simile vale pure per l'Europa.
Lo scontro in atto ai vertici della potenza egemone peraltro riguarda la ridefinizione del ruolo degli Usa anche a livello geopolitico (che non si può separare dalla questione dell'economia degli Usa) e in particolare il confronto con la Russia che per la parte del gruppo dominante ostile a Trump è ancora il nemico principale, anche se al riguardo la stessa politica di Trump è tutt’altro che coerente e chiara. Di fatto, gli Usa a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso hanno cercato di risolvere il problema del loro declino relativo (Paul Kennedy) mediante l’espansione del capitalismo finanziario (Giovanni Arrighi), puntando tutto sulla globalizzazione made in Usa. Il crollo dell’Urss favorì una “accelerazione” di questa politica e la prima guerra del Golfo illuse gli Usa di potere pure ridefinire la carta geopolitica mondiale con interventi di carattere militare. Invero, questa politica - confermando il giudizio di Fernand Braudel secondo cui la prevalenza del capitalismo finanziario è il segnale dell’autunno della potenza egemone - ha favorito l’eccezionale crescita della Cina, ha generato instabilità a livello mondiale, ha indebolito il sistema socio-economico americano, ha evidenziato la debolezza del sistema militare degli Usa per quanto concerne il controllo diretto di un Paese (Afghanistan e Iraq) e ha creato un caos che è stato sfruttato sul piano geopolitico sia dalla Russia che da potenze regionali, e su quello economico (oltre alla Cina e altri Paesi asiatici) soprattutto dalla Germania, cui tutto o quasi era stato concesso per saldarla all’Atlantico dopo il crollo dell’Urss.
In questo contesto non sarà facile quindi per gli Usa gestire la crisi della Ue, che non è altro che una aggregazione di Stati nazionali in lotta tra di loro (ossia una nullità geopolitica e militare) ed è prevedibile che anche in Europa gli Usa dovranno contare sempre più su gruppi subdominanti. Tuttavia, mentre il gruppo obamiano-clintoniano (per capirsi) sostiene decisamente l'euroatlantismo in funzione antirussa, secondo la logica deterritorializzante tipica del predominio del capitalismo finanziario, viceversa la politica di Trump cerca (non senza contraddizioni) di conciliare la politica di potenza degli Usa con una forma di riterritorializzazione della politica e dell’economia che vada a vantaggio della società americana nel suo complesso.
Comunque, sia che prevalga la politica di Trump sia che prevalga quella dei suoi avversari, è inevitabile che gli Usa si imbattano nei limiti della propria potenza, limiti che dipendono sia da una “sovraesposizione imperiale” dell'America sia dalla crescita di altre potenze. In altri termini, Trump o non Trump, il multipolarismo non solo è già una realtà, ma è pure una realtà che genererà nuovi conflitti e numerose scosse di terremoto geopolitico e geo-economico. Che questo possa pure essere occasione di crescita politica ed economica per diversi Paesi lo si può concedere, ma certo sempre più si evidenzieranno i difetti dell'architettura politica ed economica della stessa Ue, i cui centri di potere sono legati a doppio filo con la parte dello Stato profondo americano ostile a Trump.
 D’altronde l’Ue è imperniata sulla supremazia dell’area baltica, mentre l’area mediterranea è quella ormai che conta di più sotto il profilo geopolitico e geostrategico. E nei prossimi decenni l’“esplosione” demografica dell’Africa, potrebbe avere effetti devastanti per il continente europeo, tanto più se si considera il totale e vergognoso fallimento della Ue nel controllare l’immigrazione irregolare. In pratica, l’unica strategia degli eurocrati per quel che riguarda l'area mediterranea pare consistere nel dare carta bianca alla Francia, la cui politica nel continente africano oltre ad aver già danneggiato gravemente l’Italia è del tutto inadeguata a risolvere gli attuali problemi dell’Africa. Invero, l’ambiziosa e velleitaria politica della Francia, che da tempo non è più una grande potenza, potrà solo rendere ancora più difficili i rapporti tra l’Europa e l’Africa.
Pertanto, pare logico che la politica di un Paese come l’Italia nella presente fase storica dovrebbe essere il più possibile “pragmatica”. Nondimeno, è difficile non riconoscere che la politica dei giallo-verdi, benché sia attenta, a differenza dei governi precedenti, a difendere l’interesse nazionale, mostra già molteplici carenze sotto il profilo strategico. La mancanza di una vera strategia politica da parte dei giallo-verdi del resto è confermata dalla manovra del governo, che punta soprattutto sul consenso elettorale.
Una legislatura dura (in teoria) cinque anni. Vi era quindi tutto il tempo per rivedere la riforma delle pensioni e per introdurre il reddito di cittadinanza (al riguardo si sarebbe potuto agire in “modo graduale”) mentre essenziale sarebbe stato puntare subito su investimenti nella R&S, nelle infrastrutture e soprattutto nei settori strategici (energia, robotica, sistemi di difesa ecc.) e al tempo stesso ridefinire gli equilibri di potere nel nostro Paese, adottando nuovi dispositivi di legge e una serie di misure di carattere politico-culturale (a cominciare dal settore della comunicazione, sostenendo la piccola editoria e moltiplicando centri studi e di ricerca in funzione di un nuovo corso politico e culturale).
In questa prospettiva, lo scontro con gli eurocrati avrebbe avuto ben altro significato (e lo stesso vale per la possibile adozione di nuovi strumenti finanziari). In sostanza, barcamenarsi tra Scilla e Cariddi non significa essere “pragmatici” ma solo navigare a vista.














sabato 6 ottobre 2018

L’ITALIA, L’EUROPA E LA “GRANDE SCACCHIERA”





Smarcare l’Europa dall’egemonia degli Stati Uniti o, se si preferisce, dal polo atlantico, di per sé significa poco se non si chiarisce qual è lo scopo che si intende perseguire mettendo in discussione l’egemonia degli Stati Uniti sul Vecchio Continente. Pure i nazisti avevano come scopo quello di smarcarsi dalle potenze occidentali, ma non per questo si può definire il nazismo come una forma di eurasiatismo - termine con cui oggi nell’Europa occidentale si designano soprattutto quelle correnti di pensiero che giustamente ritengono che la contrapposizione tra Europa e Asia, oltre ad ignorare i molteplici rapporti (culturali, economici, ecc.) che comunque ci sono sempre stati tra l’Europa e l’Asia, non abbia più alcuna ragione di sussistere neanche sotto il profilo geopolitico. Questo non ha però nulla a che vedere con un progetto politico incentrato su una Europa egemonizzata dalla Germania, tanto più che, comunque la si pensi, la Germania attuale non avrebbe alcuna capacità di realizzare un simile progetto (che del resto non riuscì a realizzare nemmeno quando era una grande potenza militare e non solo economica). In quest’ottica difendere l’UE contro l’America di Trump equivale solo a difendere quei gruppi (sub)dominanti europei che sono tra i principali “agenti geopolitici” di quella parte del deep State americano, che fa apertamente la guerra a Trump.



Tuttavia, è innegabile che chi dice Eurasia dica pure Europa. Ma l’Europa non è l’UE, né si può pensare che il “neomercantilismo” della Germania o il neocolonialismo della Francia siano espressione di una autentica potenza continentale. Non a caso un analista intelligente e preparato come John Mearsheimer ritiene non solo che l’Estremo Oriente (e in specie l’area del Pacifico) sia destinato ad essere lo spazio geopolitico “decisivo” in questo secolo, ma che perfino il Medio Oriente nel prossimo futuro sarà più importante dell’Europa. A Mearsheimer non sfugge infatti che l’UE è una “nullità geopolitica”, dato che di fatto non è che una “aggregazione” di Stati nazionali, ciascuno con il proprio debito “sovrano”, la propria bilancia commerciale, la propria politica economica, la propria politica estera, il proprio apparato militare e produttivo, la propria lingua e le proprie istituzioni, al punto che gli Stati più forti della UE non hanno nemmeno esitato a difendere i propri interessi a scapito di quelli degli Stati europei più deboli. Ragion per cui, se fino a qualche decennio fa si poteva pure credere che l’UE fosse comunque necessaria per creare una “grande Europa”, libera e sovrana, oggi difficilmente si può ritenere che sia in buonafede o nel pieno possesso delle sue facoltà mentali chi si definisce eurasiatista ma al tempo stesso sostiene (più o meno esplicitamente) che ad un Paese come l’Italia convenga farsi dominare o addirittura massacrare dalla Francia e/o dalla Germania, perché questa sarebbe l’unica strategia possibile per giungere ad un’Europa non più sottomessa agli Stati Uniti e quindi perfino in grado di “stringere” un’alleanza stabile e vantaggiosa con la Russia.



Ovviamente non si deve neppure credere che basti difendere la sovranità nazionale per dar vita ad un nuovo corso geopolitico. Invero, il cosiddetto “sovranismo” (ben diverso da una equilibrata e “realistica” difesa della sovranità nazionale) non è altro che una forma di nazionalismo rozzo e ottuso. È chiaro infatti che i singoli Paesi europei (Germania e Francia comprese) in quanto tali sono spazi geopolitici di secondaria importanza e che in un mondo multipolare (ovvero caratterizzato dalla presenza di diversi e potenti poli geopolitici) non sarebbero altro che mere province di grandi potenze extraeuropee. D’altra parte, nessuna grande potenza europea è mai riuscita a conquistare l’egemonia su tutta l’Europa. Non vi riuscì la Spagna, non vi riuscì la Francia e nel secolo scorso non vi riuscì la Germania. Difatti, una potenza europea può sempre evitare di essere dominata da un’altra potenza europea alleandosi con altre potenze europee e/o con una grande potenza non europea. Peraltro, è pure evidente che un grande spazio europeo non può che essere un grande spazio policentrico e multidimensionale, a differenza non soltanto della Russia o della Cina ma anche degli Stati Uniti, dacché i diversi Stati degli USA non si possono certo paragonare ai diversi Stati europei. Ed è proprio questa “differenza” (che gli euro-atlantisti, in primis i “tecnici”, sembrano ignorare) che ha impedito e impedisce che l’UE possa diventare uno Stato federale europeo (i cosiddetti “Stati Uniti d’Europa”), nonostante che il continente europeo sotto il profilo culturale sia ormai una sorta di “colonia americana”. Un problema che non si può risolvere sognando “chimere geopolitiche” (se non si riesce neppure a creare un polo geopolitico europeo è davvero assurdo credere che si possa creare un polo geopolitico eurasiatico, da Brest a Vladivostok), ma che dimostra la necessità di fare i conti con le dure repliche della storia (e della geopolitica!).



Che l’Europa sia in primo luogo una molteplicità di “differenti identità politico-culturali” e che perciò non sia possibile, almeno in questa fase storica, creare una autentica unione (geo)politica europea non implica però che l’Europa sia comunque destinata ad un declino geopolitico (anche se non pochi europei se lo augurano, senza rendersi conto delle conseguenze disastrose sul piano politico, sociale ed economico – e perfino militare - che ciò avrebbe non solo per i ceti sociali subalterni ma per la stragrande maggioranza dei cittadini europei). Quel che si deve tenere presente è che l’Europa comprende perlomeno tre distinte aree geopolitiche e geo-economiche: quella baltica, quella danubiana e quella mediterranea, ciascuna delle quali esige ordini, misure e proporzioni particolari. Pertanto, è lecito ritenere che una confederazione europea (da non confondere con l’UE né a maggior ragione con gli “Stati Uniti d’Europa”) potrebbe non solo rispettare la sovranità nazionale (e popolare!) dei singoli Stati europei perché possano meglio tutelare i propri interessi (sia pure in un quadro di cooperazione con gli altri Paesi europei - che era quanto accadeva allorché vi era ancora il MEC) ma pure permettersi di giocare contemporaneamente su più tavoli e di conseguenza dipendere sempre meno dal polo atlantico.



Invero, da tempo la Russia e la Cina hanno compreso che nella cosiddetta “età della globalizzazione” non ha più senso ragionare come se vi fossero solo due blocchi geopolitici contrapposti (benché non si possa escludere che la crisi dell’egemonia statunitense possa portare ad un conflitto internazionale che renda invitabile una “scelta di campo” netta). Il multipolarismo difatti evidenzia non solo i limiti della potenza dell’attuale centro egemonico occidentale, ma pure quelli delle grandi potenze, a vantaggio sia delle potenze regionali che di “formazioni geopolitiche” complesse, come potrebbe essere una confederazione europea (o anche un polo geopolitico “mediterraneo”). In sostanza, i Paesi europei avrebbero ottime carte da giocare, qualora potessero agire sul piano internazionale secondo una “logica geopolitica polivalente”, pur condividendo una serie di principi e regole comuni.



Certamente, una formazione geopolitica di questo genere sarebbe più “instabile” di una grande potenza continentale, sia sotto l’aspetto economico che sotto quello politico-militare. In effetti, la mancanza di un unico centro di potenza, ovverosia in grado cioè agire come centro propulsore geopolitico e geo-economico, renderebbe assai difficile poter contare su una coerente “direzione strategica” sovranazionale, necessaria per potere affrontare una crisi (politica e/o economica) internazionale senza dovere risolvere al tempo stesso pericolosi contrasti tra i diversi membri della medesima formazione geopolitica. Tuttavia, anche in questo caso si tratta di capire che non basta distruggere la UE per risolvere i problemi di quei Paesi che come l’Italia sono stati gravemente penalizzati dalle scelte degli eurocrati, ma occorre sapere quale “modello geopolitico” dovrebbe sostituire la UE. Non si può neppure escludere che mutando radicalmente l’“architettura politica” della UE si possa giungere, in un periodo di tempo non eccessivamente lungo, a ridefinire in modo più coerente il profilo geopolitico del Vecchio Continente o perlomeno a creare le condizioni che permettano ad alcuni Paesi europei di elaborare una strategia (geo)politica non più subalterna agli interessi della grande potenza d’oltreoceano. Al riguardo però si devono fare diverse considerazioni.



In primo luogo, oggi il nemico più pericoloso dell’Europa è il “nemico interno”. L’americanizzazione dell’“anima europea” è un fenomeno assai più preoccupante delle presenza di numerosi basi americane in Europa. Il “panciafichismo” e il “nichilismo frivolo” sembrano ormai i tratti distintivi della middle class europea, sedicente cosmopolita ma di fatto sempre più incapace di confrontarsi con un mondo in rapida trasformazione. D’altra parte, l’America oggi non impone con le armi la sua politica ai Paesi europei né gli europei che “si sentono” più americani che europei (anche se pensano che debbano essere gli americani a combattere per gli europei) sono costretti ad esserlo da Washington. E questo non è un problema che si possa risolvere con la “fantageopolitica”, tanto più che si deve riconoscere che anche in settori culturali decisivi, come quelli che concernono la geopolitica e gli “affari militari”, l’America sopravanza di gran lunga il Vecchio Continente. Nondimeno, è innegabile che il declino (relativo, si intende) degli Stati Uniti rende possibili scenari geopolitici (e quindi pure culturali ed economici) fino a pochi anni fa impensabili. Il durissimo scontro ai vertici del potere pubblico che dopo il successo di Trump caratterizza la politica americana è solo l’effetto non certo la causa della profonda crisi del sistema politico e sociale della potenza egemone dell’Occidente. Da diversi anni la base produttiva degli Stati Uniti non è più in grado di “alimentare” la politica di potenza di Washington, che a partire dalla fine del secolo scorso si è rivelata sempre meno vantaggiosa per il popolo americano, benché sia proprio il ruolo di gendarme del grande capitale occidentale che ha permesso all’America di diventare la maggiore potenza mondiale.



Comunque sia, è pacifico che neanche l’America First sognata da Trump potrà fermare la crescita di centri (potenzialmente) anti-egemonici sia a livello mondiale che a livello regionale. La fase multipolare però è solo agli inizi e ci vorrà tempo prima che la Russia e la stessa Cina possano confrontarsi con l’America su un piano di sostanziale parità. L’eccezionale crescita economica della Cina consente sì a Pechino di sviluppare una serie di programmi militari che possono trasformare la Cina in una grande potenza aeronavale, ma verosimilmente dovrà ancora passare qualche lustro prima che la Cina possa realizzare questo ambizioso progetto. Nel frattempo la scacchiera geopolitica potrà mutare considerevolmente e offrire non poche opportunità agli attori geopolitici che meglio sapranno sfruttare i “nuovi spazi” generati proprio dal fatto che un “ordine mondiale multipolare” (ammesso che un tale “ordine” sia davvero possibile) è ancora tutto da realizzare. Perciò non è affatto assurdo ritenere che pure l’Italia potrebbe giocare un ruolo geopolitico di non secondaria importanza.



Si dovrebbe capire che è interesse non solo dell’Italia ma pure dell’Europa che l’Italia prema per cambiare l’UE. Certo, giocare la “carta americana” contro gli eurocrati è rischioso, ma necessario, dacché se non cambia l’UE il declino sia dell’Italia che dell’Europa con ogni probabilità sarà inevitabile. L’Italia peraltro nonostante l’elevato debito pubblico, dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (tranne il 2009, l’“anno nero” di questo inizio di secolo) vanta avanzi primari, una ricchezza nazionale che è oltre il triplo del debito pubblico, una liquidità che è di quasi mille miliardi di euro, una bilancia commerciale in attivo, punte di eccellenza in diversi settori strategici (basti pensare ad aziende come Leonardo-Finmeccanica, Fincantieri, Eni, Enel, senza dimenticare l’ITT ossia l’Istituto italiano di tecnologia che è all’avanguardia nel settore della robotica) e potrebbe sempre dotarsi di nuovi strumenti finanziari (come i Certificati di credito fiscale). In pratica, la posizione dell’Italia in Europa non è ancora quella di un vaso di coccio tra vasi di ferro, nonostante i danni inflitti al nostro Paese da una classe dirigente nazionale assai più attenta a difendere i propri privilegi anziché l’interesse nazionale e il benessere, morale e materiale, del popolo italiano. Se è vero quindi che l’errore che l’Italia adesso deve assolutamente evitare è quello di farsi strumentalizzare dalla Casa Bianca (la cosiddetta “trappola di Bannon”), è pur vero che per l’Italia sarebbe disastroso cercare lo scontro con l’America di Trump. Il nostro Paese paga ancora oggi le conseguenze della “fantageopolitica” del regime fascista, che, dopo l’entrata in guerra dell’Italia al fianco del III Reich il 10 giugno 1940, nella convinzione che l’impero britannico fosse già sconfitto e che perciò la guerra sarebbe stata di “rapido corso”, commise un errore più grave dell’altro per rimediare a quella “sconsiderata” decisione. Solo chi si ostina a “leggere” la geopolitica con categorie ideologiche “incapacitanti” (se non addirittura aberranti) o chi è completamente “digiuno” di storia politico-militare può ritenere che per l’Italia sia venuto il tempo di sbattere la porta in faccia sia alla Ue che all’America.



D’altronde, gli obiettivi a breve termine di Washington sono più di carattere economico che geopolitico. Le questioni geopolitiche più “spinose” attualmente sembrano essere quella delle sanzioni alla Russia e quella delle sanzioni all’Iran. Riguardo alle prime però è l’UE che si dimostra assai più “rigida” dell’America di Trump, al punto da essere “in linea” con quella parte del gruppo dominante americano “ferocemente” ostile a Trump e soprattutto alla Russia (ma non si deve nemmeno dimenticare che la Germania, in questi anni di egemonia economica sull’Europa, non ha mai ostacolato l’espansione verso Est della Nato). Diverso il discorso per quanto concerne l’Iran, ma è evidente che se sulla questione dell’accordo relativo al nucleare iraniano si dovesse arrivare ad un vero e proprio scontro tra gli USA e l’UE, ben difficilmente quest’ultima potrebbe sopravvivere senza mutare completamente la propria architettura (geo)politica.



Comunque, è quanto sostiene Mearsheimer riguardo alla Cina come centro di potenza anti-egemonico più pericoloso per gli Usa che si deve tenere nella massima considerazione. “Trump o non Trump”, nel medio-lungo periodo (ma più nel medio che nel lungo periodo) è inevitabile che sarà proprio questo il problema geopolitico più difficile da risolvere per gli USA (sempre che, come qualcuno afferma o si augura, gli USA o la Cina non “collassino” prima – ma è ipotesi assai poco probabile). La sfida con la Cina impegnerà quindi sempre più l’America, tanto è vero che destinare sempre maggiori risorse per non perdere la sfida con il gigante asiatico sarebbe necessario perfino nel caso che per i dirigenti americani la “pressione” più forte si dovesse esercitare non nei confronti della Cina bensì della Russia (una strategia “cara” a Brzezinski). Ma si può pure supporre che quanto più dovesse aumentare la “pressione” degli USA sulla Russia, tanto più forte diventerebbe l’alleanza tra la Russia e la Cina, i cui dirigenti sono comunque consapevoli delle ambizioni di egemonia globale che almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale caratterizzano la Weltanschauung dell’élite nordamericana. D’altro canto è difficile credere che per i dirigenti cinesi la Cina si dovrebbe accontentare di interpretare il ruolo di “comprimario” dell’America.



È logico quindi che nei prossimi anni, indipendentemente da chi sarà l’“inquilino” della Casa Bianca, gli USA (a condizione che l’America non sia disposta a scatenare una guerra mondiale, pur di non rinunciare ai propri progetti di egemonia globale) dovranno sempre più impiegare le loro risorse (tutt’altro che illimitate) per “reggere” il confronto con la Cina e di conseguenza, volenti o nolenti, dovranno limitare i loro impegni in altre aree del globo, lasciando così maggiore spazio ad altri attori geopolitici (Paesi europei compresi), sebbene sia ovvio che l’America e la Russia (che attualmente è il maggiore centro di potenza anti-egemonico) continueranno a “confrontarsi” sia nell’Europa orientale che in Medio Oriente e che i principali attori geopolitici dovranno tener conto delle ambizioni e degli interessi di potenze regionali che a loro volta potranno facilmente condizionare la politica delle grandi potenze. Perciò non si dovrebbe neppure sottovalutare il rischio che un conflitto regionale possa mutarsi in un pericoloso conflitto internazionale. E questo può verificarsi soprattutto in Medio Oriente, che è ancora l’area geopolitica più “calda” del pianeta e una regione in cui l’Europa conta assai poco.

Ma un’altra area geopolitica assai “calda” è l’intero continente africano, in cui la Cina ha messo salde radici, grazie ad una intelligente strategia politica ed economica, ben diversa da quella del capitalismo predatore occidentale e pure da quella della Francia, che – tenendo anche presente la straordinaria crescita demografica dei Paesi africani - potrebbe avere conseguenze catastrofiche per l’Europa e in specie per l’Italia (come la criminale e irresponsabile aggressione contro la Libia di Gheddafi ha già dimostrato). Non meraviglia allora che anche gli Usa abbiano rafforzato la loro presenza in Africa, mentre l’UE si è dimostrata incapace perfino di elaborare una strategia comune per gestire al meglio il fenomeno della immigrazione irregolare. Insomma, pure nel continente africano si gioca una complessa “partita geopolitica” che potrebbe e dovrebbe vedere l’Italia ricoprire un ruolo assai maggiore di quello che ha saputo svolgere in questi ultimi anni.



Pertanto, sarà sulla “grande scacchiera” (ma il termine “scacchiera” non inganni perché né la politica né la geopolitica sono un gioco che si svolge con regole precise e condivise, e in realtà non sono neppure un gioco, dato che la caratteristica di un gioco è proprio quella che consente ad un giocatore  dismettere di giocare quando vuole) che si deciderà il destino non solo dell’Europa ma anche e soprattutto dell’Italia, la cui invidiabile posizione geostrategica è diventata perfino più rilevante dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. Ma che l’area mediterranea da allora abbia acquisito sempre più importanza non è un mistero per nessuno, tranne per gli eurocrati per i quali l’area baltica e, in generale, l’Europa settentrionale sarebbero ancora il “cuore geopolitico” del Vecchio Continente se non addirittura del mondo. Una tale ristrettezza di vedute penalizza non poco l’Italia ma pure l’Europa, che già si trova relegata in una posizione di secondo piano a livello geopolitico, nonostante che la Francia si illuda di essere ancora una grande potenza.



Pare ovvio dunque che solo una saggia strategia di lungo termine potrebbe consentire all’Italia (e alla stessa Europa) di smarcarsi progressivamente dagli Stati Uniti, anche se questo può dispiacere a chi disprezza ogni forma di compromesso e di “mediazione” (benché saper “mediare” tra gli opposti e trovare la “giusta mescolanza” sia una caratteristica essenziale della civiltà e della cultura europea). Vale a dire che una tale strategia può dispiacere a quell’“anima bella” raffigurata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito e che per il filosofo tedesco non è altro che il “rifiuto dell’azione nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé”, poiché è sì un’anima “pura” ma proprio per questo motivo è completamente incapace di agire nel mondo. In altri termini, la politica non è astratto “dover essere”, contrapposto a “ciò che è”, bensì “poter essere”. Già oggi del resto il rapporto di sudditanza geopolitica dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti dipende più dagli europei che dagli americani. In definitiva, quel che l’Europa o l’Italia saranno dipenderà anche e soprattutto da quel che gli europei e in particolare gli italiani sapranno essere. Una ragione in più per non abbandonarsi ad un facile ottimismo.




sabato 22 settembre 2018

LA RUSSIA E LA POLVERIERA MEDIO-ORIENTALE

Un’analisi geopolitica per essere obiettiva (non “neutrale”, giacché è impossibile non privilegiare un determinato punto di vista) dovrebbe perlomeno evitare di interpretare la realtà sulla base di pregiudizi ideologici. Un’analisi meramente ideologica o che miri a suscitare il plauso della platea non aiuta certo a capire le complesse questioni geopolitiche.
In particolare, riguardo alla Siria, in rete “circola” una miriade di vere e proprie bufale e di analisi che sembrano essere espressione dei sentimenti che si nutrono nei confronti dei diversi attori geopolitici coinvolti nella guerra che da oltre sette anni si combatte in quel martoriato Paese. Ad esempio, per quanto concerne l’attacco israeliano di qualche giorno fa, si può addirittura leggere che tutti i missili lanciati dagli israeliani sarebbero stati deviati, nonostante che la stampa israeliana abbia diffuso le immagini della distruzione del deposito di armi e munizioni distrutto dagli F-16 di Israele (secondo i militari israeliani si trattava di un deposito di armamenti che dovevano essere consegnati ad Hezbollah, mentre la Siria afferma che era solo una fabbrica di alluminio, smentendo implicitamente che il raid israeliano sarebbe stato un fiasco). Peraltro, il 15 settembre scorso, Israele aveva già distrutto un Boeing 747 (con ogni probabilità iraniano) in un attacco all’aeroporto di Damasco. Ma vi è addirittura chi, interpretando gli eventi “alla rovescia” sostiene che questa volta si sia stati ad un passo dalla guerra termonucleare!
Comunque sia, se questi “errori” in un certo senso sono comprensibili, lascia invece esterrefatti il modo in cui si interpreta la politica russa in Siria. La Russia non è certo intervenuta militarmente in Siria per fare la guerra contro la Turchia o Israele ma per consolidare la sua posizione nella regione ed evitare la caduta del regime di Assad, ormai non più in grado di opporsi validamente non solo all’aggressione di molteplici di gruppi di islamisti appoggiati dalla Arabia Saudita, dagli Usa e dalla stessa Turchia, ma pure all’Isis (al punto che le forze armate di Damasco, paralizzate da lotte intestine e da gravi difficoltà logistiche, non riuscirono neppure a contrastare la colonna motorizzata dell’Isis che avanzava verso Palmira, anche se allora bastava un deciso attacco aereo per infliggere danni gravissimi ai miliziani dell’Isis).
In pratica, con un limitato impiego di uomini e mezzi e con un bassissimo numero di perdite, la Russia è riuscita a capovolgere la situazione a favore del regime di Assad e adesso è lecito affermare che i gruppi islamisti (compreso il cosiddetto “Stato islamico”) che hanno aggredito la Siria sono stati sconfitti. Rimangono alcune sacche di resistenza, ma anche la più pericolosa, ossia quella nella zona di Idlib, dopo l’accordo tra Russia e Turchia, non dovrebbe rappresentare più un serio problema per Damasco (e forse ora potrebbe rendere essere difficile risolvere la questione dei curdi, che, con l’appoggio degli americani, controllano una parte della Siria).
Eppure vi è chi ha criticato la Russia per questo accordo (accusandola di avere “ceduto” alla Turchia), senza neppure considerare che dato l’elevatissimo numero di civili presenti nella zona di Idlib, un attacco delle forze siriane sostenute dall’aviazione russa si sarebbe concluso comunque con un massacro di civili e avrebbe compromesso irrimediabilmente le relazioni tra la Russia e la Turchia. Invece, la Russia, che non perse la testa nemmeno dopo che un F-16 turco abbatté un aereo militare russo, non solo è riuscita a portare la Turchia (un Paese che è membro della Nato) dalla propria parte (al punto che osservatori turchi erano presenti alla esercitazione russo-cinese Vostok 2018), ma, dopo il fallimento dei colloqui di Astana, non ha neppure esitato a trattare direttamente con la Turchia, lasciando “fuori della porta” gli iraniani.
Difatti, lo scopo dell’intervento dell’Iran in Siria è ben diverso da quello russo. L’Iran insieme con varie milizie sciite è intervenuto sì per colmare i terribili vuoti aperti nelle file dell’esercito siriano dalle defezioni e dalla numerose perdite subite nella guerra contro i “ribelli” islamisti, ma soprattutto per rafforzare Hezbollah e installare in Siria numerosi basi missilistiche da cui poter colpire più facilmente il territorio di Israele. E non è un segreto per nessuno che l’Iran è il nemico “numero uno” di Israele né che non passa giorno senza che qualche “falco” iraniano minacci di distruggere Israele (e lo stesso Nasrallah ha addirittura dichiarato che Hezbollah è in grado di colpire con i propri missili i siti nucleari israeliani).
Non sono certo queste le posizioni di Putin, non solo perché in Israele vi sono numerosi ebrei di origine russa, ma perché Putin (che del resto, a quanto pare, ritiene che una delle cause del declino dell’Unione Sovietica sia stata proprio l’ostilità dei dirigenti sovietici verso gli ebrei, che privò l’Urss di cospicue risorse ed energie intellettuali) è perfettamente consapevole che nessun “equilibrio geopolitico” stabile vi può essere nella regione senza un’intesa con Israele (naturalmente non per questo la Russia può condividere la politica israeliana nei confronti dei palestinesi o l’ostilità dei “falchi” israeliani nei confronti di Hezbollah e dell’Iran).
Questa volta però gli israeliani, operando in una zona ritenuta di fatto off limits per gli aerei di Israele, hanno contribuito a creare le condizioni che hanno portato all’abbattimento dell’aereo da ricognizione russo e alla dolorosa perdita dei suoi 15 uomini di equipaggio. Ma che la responsabilità di questo grave incidente sia anche della difesa siriana, che in preda al panico avrebbe lanciato i missili senza accertarsi se l’aereo fosse russo (come sostengono gli israeliani) non si può negare. In effetti, è indubbio che qualche errore lo abbiano commesso pure i siriani ed è evidente che anche la sorveglianza della zona da parte dei russi non fosse affatto perfetta. Inoltre, nessun serio analista militare può davvero credere che i quattro F-16 israeliani abbiano sfruttato l’“impronta radar” dell’Il-20 russo, per lanciare il loro attacco, anche perché è assai improbabile che Israele volesse umiliare i russi (e la difesa russa, incluso l’aereo da ricognizione russo, non se ne sarebbe forse accorta in tempo?) D’altra parte, a differenza di quanto dichiarato da alcuni militari russi, si sa che a questo attacco non ha partecipato alcuna fregata francese. Si ha insomma l’impressione che con certe affrettate dichiarazioni si sia solo voluto “coprire” un grave scacco subito dalla difesa russo-siriana, che probabilmente ha sottovalutato il pericolo non aspettandosi che gli israeliani potessero lanciare un attacco aereo nella zona in cui vi sono le basi russe.
Comunque sia, una delegazione composta da alti ufficiali israeliani si è recata subito a Mosca per dare ai russi tutte le informazioni necessarie per capire come si sono realmente svolti i fatti. I militari israeliani hanno pure ribadito che Israele aveva informato i russi dell'attacco degli F-16 qualche minuto prima che l'attacco avvenisse e non meno di un minuto prima. Il rapporto di collaborazione tra i due Paesi dovrebbe pertanto continuare, sia pure con qualche modifica, dato che Mosca non ha intenzione di tollerare altri incidenti di questo genere. Tuttavia, gli israeliani hanno già dichiarato che per quanto sia importante la collaborazione con Russia non rinunceranno a compiere tutte quelle azioni militari che riterranno necessarie per la sicurezza di Israele.
Ragion per cui diversi analisti occidentali, tra cui Anshel Pfeffer, sostengono che la Russia, volente o nolente, debba “ingoiare il rospo”. Se al posto dei russi vi fossero gli americani, affermano, oggi vi sarebbero centinaia di aerei e decine di batterie antiaeree a difendere la Siria. Lo “scudo” russo insomma è troppo piccolo per impedire gli attacchi dell’aviazione israeliana e quindi il rispetto che Israele mostra verso la Russia sarebbe solo questione di forma e non di sostanza. Invero, le forze russe che si trovano in Siria (qualche decina di aerei, alcune batterie antiaeree più diverse navi presenti nel Mediterraneo) non sono in grado di confrontarsi con l’aviazione israeliana (anche se ovviamente possono causarle seri danni), che dispone di parecchie centinaia di aerei da combattimento, di ottimi piloti, di tecnologia avanzata, di un sofisticato apparato di comando, controllo e comunicazione, oltre a servizi di intelligence la cui efficienza è nota in tutto il mondo.
Nondimeno, questo non implica che Israele non tema di scontrarsi con la Russia, dacché Tel Aviv non può non tener conto della differenza tra le forze russe in Siria e la potenza complessiva della Russia (convenzionale e nucleare). E se la Russia dovesse alzare il livello del “confronto militare”, come ha già fatto reagendo ad alcune provocazioni degli americani nel Mar Nero, sarebbe Israele a trovarsi in difficoltà assai più della Russia. Non a caso tutte le maggiori potenze presenti in Medio Oriente (Russia, Stati Uniti, Israele e Turchia) hanno evitato (per ora) di scontrarsi tra di loro. Perfino Israele, che non mira (più) a far cadere il regime di Assad, ha colpito basi iraniane e di Hezbollah ma solo in Siria, evitando cioè di attaccare Hezbollah in Libano, per non scatenare un altro conflitto dalle conseguenze imprevedibili.
In sostanza né ad Israele né alla Russia conviene gettare benzina sul fuoco. Putin in particolare (cui i neoliberali attribuiscono la responsabilità di destabilizzare le democrazie occidentali, mentre sono proprio le élite neoliberali che destabilizzano le democrazie occidentali) ancora una volta ha dimostrato di avere nervi saldi e di sapere ragionare con la testa anziché con la pancia. Le migliori carte che la Russia può giocare sono quelle politiche, non quelle militari, e la Russia per ora è riuscita in pratica ad ottenere il massimo con il “minimo mezzo”. Per di più il tempo gioca a favore della Russia, la cui potenza miliare convenzionale è in continua crescita e che insieme con la Cina e la Turchia potrebbe dar vita ad un polo geopolitico eurasiatico in grado di affrontare qualsiasi sfida sul piano militare.
Il multipolarismo (che è solo agli inizi) non evidenzia però solo i limiti della potenza Stati Uniti ma quelli di ogni grande potenza, a vantaggio soprattutto delle potenze regionali. In questa prospettiva, è impossibile non criticare il sostegno pressoché incondizionato da parte della Casa Bianca ai “falchi” che da anni dominano la politica di Israele. Di fatto le sanzioni contro l’Iran (che comunque ha rispettato l’accordo sul nucleare) rafforzano solo i “falchi” iraniani, non certo le “colombe” che pure non mancano neanche in Iran. E proprio in queste ore alti ufficiali iraniani hanno esplicitamente accusato Israele e gli Stati Uniti di essere i responsabili dell’attentato ad Ahvaz (nel sudovest dell’Iran) in cui hanno perso la vita 29 persone. Ci vuol poco quindi in questa situazione per scatenare un conflitto internazionale, tanto più se si considera che l’Iran non appoggia solo Hezbollah contro Israele ma pure gli Houthy (nello Yemen) contro l’Arabia Saudita.
In definitiva, se gli attori geopolitici veramente capaci e responsabili sono quelli che sanno distinguere tra potenza e pre-potenza, solo la Russia e la Cina hanno più volte dimostrato di sapere fare questa distinzione. Troppo pochi però per evitare che la polveriera medio-orientale possa esplodere.





domenica 22 luglio 2018

GEO-POLITICAMENTE ABITA L'UOMO

Geopolitica è una parola composta da “geo” (che significa terra) e politica. Vale a dire che il termine geopolitica denota in primo luogo il rapporto tra la politica e la terra. Un discorso metapolitico, ossia sul Politico, non può quindi non confrontarsi con la geofilosofia di Heidegger e la geopolitica di Schmitt, ma pure con la filosofia della prassi di Gramsci, l’ontologia “forte” di Severino e quella “debole” di Vattimo. Ed è proprio il comunismo ermeneutico difeso da Vattimo che si deve criticare, al fine di mostrare che, se “geo-politicamente abita l’uomo”, allora non solo è possibile ma anche necessario un socialismo comunitario nell’età della tecnica scatenata e del capitalismo scatenato.

Errata Corrige. A pag. 58 si legga : il Leviatano (il mostro marino) e Behemoth (il mostro terrestre). A pag. 150 si legga: e sembra che non sia altro. In bibliografia: Deridda = Derrida; ID., Heidegger: gli ebrei...= EAD., ecc.


www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/store-2/products/geo-politicamente-abita-luomo/

lunedì 25 giugno 2018

IL FALLIMENTO DELLA SINISTRA E LE DURE REPLICHE DELLA STORIA

Se la vittoria di Trump nel novembre 2016 ha segnato la crisi del capitalismo neoliberale deterritorializzato e deterritorializzante (con tutte le contraddizioni che ne conseguono) e l'inizio di un nuovo corso politico sul piano internazionale - sempre più caratterizzato dal ruolo di nuovi attori geopolitici, sia a livello globale che a livello regionale - , anche la vittoria dei populisti in Italia segna la fine di un ciclo storico cominciato con il crollo del Muro e l'implosione dell'Unione Sovietica e che in Italia si suole definire il periodo della II Repubblica..
Come sarà il nuovo corso storico non lo sa nessuno, ma è certo che non si potrà comprendere con categorie politiche obsolete. La sinistra europea si è autodistrutta non solo per il fatto di essersi trasformata nella guardia bianca dei "mercati", ma anche a causa del suo "ritardo intellettuale" e della convinzione che la politica fosse ormai solo pubblica amministrazione ossia un "affare" di competenza di tecnocrati.
E' proprio l'intellighenzia di sinistra che ha clamorosamente fallito in questi anni, dimostrandosi incapace di saper leggere correttamente la realtà, confondendo le parole con le cose e rifiutando di mettersi in discussione quando già era chiaro che la storia non era affatto finita.
Augurarsi che i populisti falliscano o addirittura definirli i nuovi fascisti , come se si fosse negli anni Trenta del secolo scorso e il fallimento dei populisti potesse cancellare la storia di questi anni , è la migliore conferma che la sinistra europea è ormai defunta, perlomeno sotto il profilo politico-culturale.
Questo non significa che il futuro sia ormai dei populisti (peraltro assai diversi tra di loro) ma che solo se si saprà (dis)torcere il populismo in senso socialista e comunitario, si potrà costruire una valida alternativa all'oligarchia neoliberale.
Pochi esponenti della sinistra, con antenne più sensibili di altri, lo hanno compreso ma sono stati subito accusati di essere "rossobruni" da parte di coloro che assomigliano a quegli ufficiali di cavalleria che erano convinti che nulla fosse cambiato, dato che la potenza dei motori si continuava a misurare in base al numero di cavalli.
Invero nulla sarà più come prima. E prima lo si capirà meglio sarà. Questo vale non solo per la sinistra ma per tutti coloro che scambiano le chimere per la realtà, ignorando le dure repliche della storia.

domenica 13 maggio 2018

"CAPORETTO. UNA LEGGENDA DA SFATARE E UNA LEZIONE DA IMPARARE

  1. E' disponibile su Academia.edu il mio articolo "Caporetto. Una leggenda da sfatare e una lezione da imparare", pubblicato sul n. di "Eurasia" 4/2017.
    https://independent.academia.edu/Ffalchi

venerdì 4 maggio 2018

LA SANTABARBARA MEDIORIENTALE


Lunedì scorso il premier israeliano ‎Benjamin Netanyahu ha rivelato in un discorso alla Nazione che i servizi di intelligence israeliani sono riusciti ad impadronirsi del dossier segreto relativo al programma nucleare iraniano e che una copia di questo dossier è stata consegnata agli americani. Si tratta di numerosi documenti che, a giudizio del premier israeliano, proverebbero che Teheran ha intenzione di dotarsi di armi atomiche, violando così palesemente il Joint Comprehensive Plan of Action del 2015, ovvero il cosiddetto “accordo 5+1” (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania), in base a cui Teheran avrebbe dovuto sospendere il suo programma nucleare in cambio della cessazione delle sanzioni economiche imposte all’Iran proprio perché cessasse tale programma.

Com’era prevedibile le parole di Netanyahu hanno provocato una miriade di polemiche in tutto il mondo, tanto più che Trump aveva già dichiarato di voler “uscire” dall’intesa sul nucleare iraniano (il presidente degli Usa dovrebbe annunciare la sua decisione il prossimo 12 maggio). Del resto, si sa che quando si tratta di Israele gli animi si scaldano subito: vi è chi si schiera a priori a favore di Israele e chi si schiera a priori contro Israele. Ma questa volta la questione è troppo seria per lasciare la parola solo a chi fa il tifo per o contro Israele.

In primo luogo, si deve notare che secondo l’Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica) le dichiarazioni di Netanyahu non aggiungono nulla di nuovo a quanto già si sapeva nel 2015. Infatti, era noto che il programma nucleare dell’Iran aveva un duplice scopo, civile e militare, ma pure che questo programma, per quanto concerne la produzione di armi atomiche, dopo il 2003 era stato quasi del tutto "bloccato" e (di fatto) era cessato del tutto nel 2009. In effetti, se si riteneva che l’Iran non mirasse a dotarsi di armi atomiche (come invece Teheran ha sempre sostenuto) non vi sarebbe neppure stata la necessità di un’intesa sul nucleare iraniano. Intesa che l’Iran ha (nella sostanza) rispettato, come ha dichiarato lo stesso generale Gadi Eisenkot (Chief of General Staff of the Israel Defense Forces) solo qualche settimana prima delle “rivelazioni” di Netanyahu (1).

Nondimeno, si è pure osservato che Netanyahu ha evidenziato dei “punti nuovi” che meritano di essere analizzati e valutati seriamente, a cominciare dal fatto che secondo il premier israeliano l’Iran aveva in programma la costruzione di cinque bombe nucleari da quindici kilotoni ciascuna (“Bibi” ha pure indicato i siti in cui possono essere costruite) (2). Insomma, l’Iran avrebbe mentito spudoratamente riguardo agli scopi del suo programma nucleare. Ma questo (ammesso che sia vero) basta per “uscire” da un’intesa che comunque sta dando dei “buoni frutti” ovverosia “is working now” per usare le parole del capo di Stato maggiore israeliano?

Peraltro, vi è chi afferma che in ogni caso l’Iran farebbe bene a dotarsi di armi atomiche per la propria sicurezza, dato che Israele dispone di un vasto arsenale atomico, che comprende pure dei missili balistici a medio raggio (di preciso sui missili israeliani si sa poco, ma ad esempio le stime della gittata del Jericho III variano da 4.800 ad oltre 6.000 chilometri). Perciò alcuni ritengono che l’Iran, anche se potesse disporre di alcune armi atomiche, non rappresenterebbe una grave minaccia per Israele (che, secondo fonti attendibili, possiede circa 200 testate nucleari). Ma è ovvio che se l’Iran diventasse una potenza nucleare pure altri Paesi della regione (in specie la Turchia e l’Arabia Saudita) cercherebbero di dotarsi di armi atomiche, e una proliferazione nucleare in una regione instabile come il Medio Oriente avrebbe con ogni probabilità conseguenze catastrofiche.

A tale proposito si deve ricordare che gli Usa hanno ribadito che non ha senso chiedere ad Israele di rinunciare o ridurre il proprio arsenale atomico fin quando tutti gli altri Paesi della regione non riconosceranno in modo chiaro e netto il diritto all’esistenza di Israele. Ma si tratta di un punto di vista discutibile, in quanto l’ostilità nei confronti di Israele da parte di non pochi musulmani non giustifica il fatto che l’arsenale atomico di Israele (che non ha mai ammesso di possedere armi nucleari) non sia soggetto ad alcun controllo internazionale. Di conseguenza, il punto di vista degli americani pare portare acqua al mulino dei falchi iraniani. (Questi ultimi possono anche fare presente che l’Iran confina pure con il Pakistan, anch’esso una potenza nucleare e com’è noto, la maggioranza della popolazione pachistana è sunnita. Ma nel mondo musulmano conta soprattutto l’appartenenza al clan e comunque il “nemico tradizionale” del Pakistan è l’India, che è una potenza militare e nucleare decisamente maggiore del Pakistan).

D’altra parte, quel che più sembra preoccupare Israele è il programma missilistico iraniano, che secondo alcuni analisti occidentali dovrebbe essere preso in considerazione, per limitarlo il più possibile, se si vuole difendere “l’accordo 5+1” (una tesi sostenuta pure dal presidente francese). Teheran però considera il suo programma missilistico un affare interno dell’Iran e quindi “non negoziabile”. Ma il problema del nucleare iraniano è reso ancora più complicato dal cosiddetto “arco sciita”, che dall’Iran arriva fino al Libano passando per l’Iraq e la Siria - un Paese “lacerato” da sette anni di guerra (scatenata per rovesciare con la forza il regime di Assad) e in cui vi sono numerose basi iraniane che Israele ha più volte attaccato. L’ultimo di questi attacchi è avvenuto proprio poche ore prima del discorso di Netanyahu e avrebbe distrutto centinaia di missili (l’esplosione di un enorme deposito di armi e munizioni ha provocato perfino una scossa di terremoto di 2,6 gradi secondo la scala Richter). Invero, i vertici politico-militari israeliani non si sono neppure lasciati intimorire dalla presenza dei russi in Siria, il cui scudo difensivo pare proteggere le basi russe ma assai meno quelle siriane e iraniane. Anche per gli israeliani però il pericolo di uno scontro con i russi non si può sottovalutare, non tanto perché le forze russe che attualmente si trovano in Siria siano pericolose per Israele ma perché non è interesse di Israele confrontarsi direttamente con una grande potenza militare come la Russia, benché in passato si siano già registrati gravi incidenti tra i due Paesi (3).

Certo, si deve riconoscere che Mosca ha giocato bene le sue carte nella regione: Assad ora è saldamente in sella, gli islamisti sono stati sconfitti in gran parte della Siria e perfino i rapporti della Russia con Israele non sembrano “dei peggiori” (almeno per ora). Ma neppure Mosca può stabilizzare la situazione in tutto il Medio Oriente, portando ordine e pace. La potenza militare convenzionale della Russia nell’area mediterranea è, tutto sommato, di modeste proporzioni e di limitata capacità difensiva. In Siria, del resto, si continua a combattere e sono presenti, oltre ai soldati siriani e a diversi gruppi di terroristi islamisti (inclusi quelli appoggiati dai sauditi), soldati iraniani, le milizie di Hezbollah, militari russi, soldati turchi e combattenti curdi. E si deve pure tener conto degli interventi della coalizione a guida Usa e ovviamente di quelli di Israele. (In Occidente si è parlato pure del tentativo di Assad di coinvolgere i cinesi nella guerra che Damasco combatte contro gli islamisti dal 2011, ma la Cina agisce con prudenza e non pare interessata a gettare altra benzina sul fuoco).

In questo contesto “mandare all’aria” il Joint Comprehensive Plan of Action sarebbe dunque da irresponsabili e potrebbe fare esplodere quella gigantesca santabarbara che è diventato il Medio Oriente, sconvolgendo l’intera aerea mediterranea (e non solo). D’altronde, oltre alla crescente tensione tra Hezbollah (che possiede circa 100.000 missili e razzi) e Israele, pure la questione palestinese contribuisce ad infiammare gli animi, soprattutto a causa della politica di prepotenza di Israele che, anziché indebolire Hamas (come sarebbe necessario se si vuole davvero sostenere la causa palestinese), rischia di spingere tra le braccia degli islamisti anche la migliore gioventù palestinese. In definitiva, pur non negando l’importanza della questione del nucleare e dei missili iraniani, sono tutti i nodi del Medio Oriente che stanno venendo al pettine. Per evitare il peggio occorrerebbe che i principali attori geopolitici agissero in modo responsabile, lasciandosi condizionare il meno possibile dalle questioni di politica interna. Tuttavia, si deve anche prendere atto che sia l’arroganza di Netanyahu che il caos che regna alla Casa Bianca, nonché la russofobia che caratterizza lo “Stato profondo” americano, non promettono “nulla di buono”.



NOTE



1). Si veda Amos Harel, Israel's Double Front Against Iran: Military Strike in the Morning, Press Conference at Night, “Haaretz”, 01/05/2018.

2). Si veda, ad esempio, Yonah Jeremy Bob, What did the Mossad actually get from Iran?, “The Jerusalem Post”, 03/05/2018.

3) Si veda Isabella Ginor, Gideon Remez, The Soviet-Israeli War 1967-1973, Oxford University Press, Oxford, 2017.