venerdì 30 dicembre 2022

POLEMOS. IL POLITICO E LA GUERRA. CAPITOLO VII. L'OCCIDENTE

 

CAPITOLO VII

L’OCCIDENTE

 

Le macchine. Che il mercato fino al Medioevo incluso avesse una funzione assai diversa da quella svolta nei secoli successivi ben difficilmente lo si può mettere in discussione. Invero, fu soltanto nel corso del XVIII secolo che, in Inghilterra, maturarono le condizioni per la formazione di uno spazio economico veramente autonomo. Certo fu un mutamento di portata epocale. La rivoluzione industriale, infatti, non  solo avvantaggiò l’Inghilterra  rispetto agli altri Paesi europei, ma nel corso dell’Ottocento scavò un fossato quasi incolmabile tra l’Occidente e il resto del mondo[1]. Basta prendere in esame un settore chiave come il Pil pro capite (in dollari 1990) per rendersene conto: dal 1500 al 1820 quello della Gran Bretagna crebbe da 762 a 2.121, quello olandese da 754 a 1.821, quello francese da 727 a 1.230, quello degli Stati Uniti da 400 a 1.257, mentre quello cinese rimase di 600 e quello indiano addirittura diminuì passando da 550 a 533[2].

Analoghe considerazioni si possono fare se si prende in esame il settore manifatturiero: nel 1750 l’Europa (Russia inclusa) contribuiva alla produzione manifatturiera mondiale con una quota del 23,2%, nel 1860 la quota era del 53,2% (quella degli Stati Uniti era già salita dallo 0,1% del 1750 al 7,2%) e nel 1900 era del 62,0%, cui si deve aggiungere quella degli Stati Uniti (23,6%). E nulla cambia se si considera il livello di industrializzazione pro capite, giacché, se nel 1750 quello europeo era solo leggermente maggiore di quello del Terzo Mondo, nel 1900 quest’ultimo era un diciottesimo del primo (2% contro 35%). Se quindi l’industrializzazione cambiava rapidamente il volto del nostro pianeta[3], è indubbio che la rivoluzione industriale verificatasi in Inghilterra non fece che moltiplicare la potenza di questo Paese, uscito vincitore dalle guerre napoleoniche. E la definitiva sconfitta di Napoleone consentiva alla Gran Bretagna di mantenere quella balance of power in Europa che le garantiva la leadership mondiale.

 

Difatti, la Royal Navy aveva pur sempre una potenza effettiva pari alle altre tre o quattro più forti marine messe insieme ed era sufficiente per sorvegliare le rotte marittime mondiali e difendere l’impero coloniale, come dimostrò lo scontro con i pirati algerini nel 1816 o quello con la flotta turco-egiziana a Navarino nel 1827[4].. Del resto, l’impero britannico nel XIX secolo continuò ad espandersi: gli Inglesi acquisirono il controllo di punti strategici come Singapore, Aden, le Falkland/Malvinas e Hong Kong, mentre i coloni si spingevano nell’entroterra australiano e in quello canadese, oltre che nel veldt sudafricano, richiedendo talvolta l’appoggio di truppe britanniche. Ma la Gran Bretagna poté stabilire rapporti privilegiati sotto il profilo commerciale anche con l’America Latina, che si rese indipendente all’inizio del secolo dalla Spagna e dal Portogallo[5].

La Gran Bretagna invece non fu particolarmente danneggiata dalla perdita delle sue tredici colonie dell’America settentrionale, giacché aveva guadagnato il controllo dell’India con i suoi 100 milioni di abitanti, il che contribuì all’eccezionale crescita della manifattura britannica. Infatti, se prima i manufatti di cotone che venivano dati agli Africani in cambio di schiavi negri (deportati in America) erano prodotti dagli Indiani, adesso si faceva arrivare il cotone anche dall’America e lo si lavorava in Gran Bretagna a costi più che competitivi con quelli della manifattura indiana che venne così distrutta dalla concorrenza inglese.

 

In sostanza, l’India era considerata dall’Inghilterra un immenso mercato su cui smerciare i propri prodotti e come fornitore di alcune materie prime (juta e cotone) per l’industria del Lancashire[6]. Inoltre, la Gran Bretagna non solo consolidò la sua posizione in campo finanziario con l’accettazione del gold standard a partire dal 1821, ma promosse una forte migrazione verso le colonie. Un “flusso migratorio”, tra il 1820 e il 1913, di circa 12 milioni di persone (di cui la metà erano irlandesi) e che contribuì ad allentare le tensioni sociali in patria, mentre dal resto dell’Europa emigrarono, nello stesso periodo, 14 milioni di persone[7].

Era però inevitabile che la crescita dell’Inghilterra contribuisse anche allo sviluppo a lungo termine di altri Paesi, sia facendo progredire le loro industrie con frequenti interventi finanziari, sia costruendo ferrovie e navi a vapore. Ma fino a quando ilgap” economico tra l’Inghilterra e le altre potenze fosse rimasto così elevato, era chiaro che gli Inglesi erano al riparo da brutte sorprese, nonostante che le spese militari della Gran Bretagna ammontassero soltanto al 2-3% del Pnl, dato che «fino alla metà del diciannovesimo secolo il Regno Unito era una grande potenza di tipo diverso, e che non poteva venire giudicato secondo i criteri tradizionali dell’egemonia militare»[8]. Solo allora, infatti, l’Inghilterra si “convertì” alla dottrina del laissez faire, abbandonando decisamente la politica protezionistica e favorendo ovunque la nascita di quel “libero mercato” che non poteva non apparire ai suoi “concorrenti” come la difesa del principio “libera volpe in libero pollaio”, dacché i manufatti britannici non temevano più alcuna concorrenza.

Al riguardo, è significativo che Clough e Rapp affermino che «tutte le teorie economiche [per] quanto possano sembrare astratte […] sono sempre creature filosofiche della società in cui vengono formulate. Come il pensiero economico scolastico serviva un ordine sociale orientato verso la chiesa e la teoria mercantilistica predicava la tattica economica dei nascenti Stati nazionali accentrati, quella fisiocratica era la teoria economica adatta all’ancient régime, orientato verso la terra»[9] . Gli stessi Clough e Rapp sostengono che gli schemi del mercantilismo basati su una concezione “antagonistica” del commercio, vennero rovesciati dalla concezione secondo cui il libero scambio era un beneficio reciproco, concezione enunciata da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni (1776), elaborata da altri economisti (tra cui Ricardo, Mill e Marshall) e diventata parte integrante della teoria economica moderna, che non può anch’essa che essere una “creatura” della società che l’ha prodotta, ovvero la società di mercato occidentale. (Certo, l’idea che la quantità del commercio internazionale sia “finita” o che sia necessariamente un “gioco a somma zero” non è più sostenibile, poiché il commercio internazionale può comportare invece un reciproco vantaggio.  Ma appunto può darsi che lo sia e può darsi che non lo sia, in specie sotto il profilo politico).

 

D’altro canto, già nell’Ottocento opponendosi alla dottrina liberista, economisti come Henry Charles Carey o Friedrich List «argomentavano che una nazione, per essere economicamente forte e industrialmente potente, doveva avere una industria molto sviluppata e una produzione bene integrata; la politica economica nazionale doveva quindi aiutare la crescita economica con tariffe e sussidi»[10]. E, oltre alla “Guerra delle tariffe”, che durò fino alla Grande guerra, non si deve dimenticare che nella guerra di secessione americana se il Sud era liberista, il Nord era rigorosamente protezionista e si può immaginare che “potenza” sarebbe stata l’America, se il Nord si fosse basato sulla teoria ricardiana dei vantaggi comparati[11]. In realtà, la tesi secondo cui il mercato si autoregolerebbe grazie ad una “mano invisibile”, generando così pace e benessere, era funzionale alla conquista del potere da parte della borghesia ed è tuttora funzionale alla difesa di una società di mercato. In ogni caso, per spiegare lo squilibrio e il conflitto economico generati dalla società di mercato, non si possono non tener presenti gli studi di Karl Polanyi e quelli di Marx.

La grande trasformazione di Polanyi[12] prende in esame appunto il processo di trasformazione della terra, del lavoro e della moneta in mere merci, mediante il quale l’Economico non è più incsatonato in un ampio ventaglio di istituzioni politiche, sociali e culturali. Le terribili conseguenze di tale trasformazione erano manifeste a Polanyi che scrisse quest’opera negli anni Quaranta del secolo scorso. Ma la “grande trasformazione” fu essa stessa qualcosa di terribile e sconvolgente.

Un’intera civiltà contadina venne spazzata via nel giro di pochi decenni, annientando legami comunitari, usi e costumi che per secoli o addirittura per millenni avevano regolato la vita delle comunità di villaggio, di modo che l’industrializzazione si accompagnò ad uno sviluppo dell’agricoltura imperniato sulla grande azienda. I demani furono trasformati in proprietà privata a vantaggio dei ceti più abbienti, e i contadini divennero liberi (solo) di “vendere la propria forza lavoro” non avendo più gli “antichi diritti comunitari” né terra da lavorare. In Inghilterra gli enclosures acts (decreti di recinzione), che prevedevano la chiusura e la privatizzazione di terre che appartenevano alle comunità di villaggio, favorirono lo svilppo di una classe capitalistica, che ammodernò il sistema di coltura e promosse numerose innovazioni, ma ridusse i contadini ad essere dei poveri salariati o degli emigranti. Condizione non migliore era quella degli operai, la cui esistenza era altrettanto misera, vivendo in quartieri insalubri e soggetti a condizioni di lavoro inumane. E ciò non valeva solo per gli uomini, ma per decine di migliaia di donne, ragazzi e bambini, impiegati in turni di lavoro massacranti, completamente dipendenti dalle macchine, delle quali diventarono, in un certo senso, parte essi stessi.

 

 Enormi perciò furono gli squilibri che si vennero a creare, considerando pure che con l’avvento del nuovo modo di produzione si ebbe un aumento delle merci prodotte, beni alimentari inclusi, che a sua volta comportò un forte incremento demografico. L’Europa passò da 140 milioni di abitanti nel 1750 a 187 milioni nel 1800 e a 266 nel 1850 (peraltro anche in Asia, ove vi furono miglioramenti nelle tecniche agricole, netto fu l’incremento demografico, la popolazione passando da 400 milioni nel 1750 a 700 milioni nel 1850). Per quanto concerne la Gran Bretagna la popolazione che era di 10,5 milioni nel 1800 era salita a 27,6 milioni nel 1850 (e all’inizio del Novecento, nonostante la forte emigrazione, aveva superato i 40 milioni); nello stesso periodo quella francese era salita a 38,8 milioni (all’inizio del Novecento sarebbe stata di 39 milioni, ovvero inferiore a quella della Gran Bretagna).

Conflitti sociali e politici quindi avrebbero contrassegnato anche, e perfino più intensamente che nel passato, questo periodo storico, ma in una forma del tutto nuova, come comprese Marx. L’analisi marxiana della merce e del capitale, inteso come rapporto sociale e non come “cosa”, mira a svelare quindi i meccanismi oggettivi che permettono di costruire e riprodurre la realtà (sociale) secondo determinati rapporti di forza, che si manifestano, a giudizio di Marx, nella lotta tra due soggetti sociali: i possessori di capitale e i possessori della forza lavoro. Pertanto, basandosi su Marx, si considera la diffusione del lavoro salariato come l’elemento essenziale per la formazione del capitalismo. Si tratta di un processo che presuppone la recinzione delle terre comuni, la fine del modo di produzione mercantile “semplice”, l’espandersi dell’industria manifatturiera e l’avvento delle macchine nel ciclo produttivo[13], ma perché vi sia un modo di produzione capitalistico occorre che la massa della popolazione non possa sopravvivere senza vendere come merce la propria capacità lavorativa e che lo Stato quindi   reprima fenomeni come il vagabondaggio e il brigantaggio.

La società di mercato si struttura pertanto in funzione di un’eguaglianza formale che cela una sostanziale diseguaglianza e la libertà si riduce all’alternativa tra morire di fame o vendere sul mercato il proprio lavoro, cosicché il lavoro salariato è obbligato a “ri-produrre” la stessa società di mercato con le sue diseguaglianze reali. Si vengono perciò a formare delle catene invisibili, ma sotto certi aspetti perfino più difficili da spezzare di quelle che legavano lo schiavo al banco sulla galea.

Nondimeno con il diffondersi del modo di produzione capitalistico si diffuse (anche se non senza lotte e aspri conflitti sociali) la democrazia formale, criticata a fondo da Marx (lo Stato liberale come “comitato d’affari della borghesia”), perché la democrazia liberale “celava” i reali rapporti di potere tra i capitalisti e i lavoratori. Si deve però tener conto che per Marx la classe dei lavoratori comprende sia il semplice manovale che l’ingegnere. Perciò il pensatore di Treviri poteva ritenerla capace di dirigere l’intera società. In sintesi, per Marx, la classe dei proprietari dei mezzi di produzione con il passare del tempo (ma a suo parere questo mutamento era già in atto in Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento) si sarebbe sempre più allontanata dal processo produttivo, perdendo quella “potenza mentale della produzione” che caratterizzava i primi “capitani d’industria”, mentre tale funzione sarebbe stata sempre più svolta dai “tecnici” di alto livello. Pertanto, il modo di produzione capitalistico avrebbe bloccato o intralciato lo sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo e quindi la “classe operaia” (ingegneri, tecnici e così via fino all’ultimo manovale) si sarebbe sbarazzata prima o poi di questa “zavorra”, sostituendo il modo di produzione capitalistico con la socializzazione dei mezzi di produzione, mediante la progressiva riduzione dell’apparato dello Stato a mera “pubblica amministrazione”.

 

Naturalmente, non è possibile non cogliere i punti deboli dell’impianto teorico di Marx: lo schema “duale”, che porta a trascurare il ruolo dei ceti medi; la rigida distinzione tra struttura e sovrastruttura e la conseguente sottovalutazione dei fattori culturali; la concezione della “classe operaia” come soggetto rivoluzionario; la fiducia ingenua nel progresso; l’analisi del capitalismo incentrata sulla prima fase del capitalismo (quella inglese, ben diversa da quella americana); la mancanza di una teoria dello Stato, nonché le difficoltà (insuperabili) per quanto concerne la teoria del valore-lavoro e in particolare la spiegazione della trasformazione del valore in prezzi[14].

Eppure, rompendo” con l’ideologia del puro scambio mercantile Marx ha il merito di aver messo in luce non solo la reale diseguaglianza che è alla base della società di mercato, ma pure che, con il passaggio dalla società precapitalistica a quella capitalistica, la lotta per la supremazia si svolge nella stessa sfera economica. Ragion per cui secondo Gianfranco La Grassa occorre passare dal “primo disvelamento” attuato da Marx ad un “secondo disvelamento” che porti «alla luce ciò che il passaggio alla tipologia capitalistica della riproduzione dei rapporti sociali aveva celato: il cardine di tale riproduzione non è la proprietà dei mezzi di produzione bensì il conflitto tra strategie attuate dai vari gruppi dominanti»[15].

Comuqnue sia, è essenziale tener presente che il capitalismo si articola, nelle diverse fasi storiche, secondo formazioni sociali e politiche particolari in lotta fra loro. Lo scontro diviene particolarmente aspro in una fase storica caratterizzata da un netto multipolarismo o policentrismo sul piano internazionale. Si può dunque affermare che ad una faseprotocapitalistica”, dominata (benché solo in parte) dall’Olanda, seguì una fase di acuto conflitto tra potenze europee, che raggiunse la sua acme con lo scontro anglo-francese, da cui emerse nettamente vincitrice la Gran Bretagna, avvantaggiata da una combinazione di fattori culturali, economici, finanziari e geopolitici.

Dopo il 1815 - ossia dopo la definitiva sconfitta della Francia napoleonica - cominciò un periodo a netta predominanza britannica, durato fino alla seconda metà dell’Ottocento, in cui nessuna potenza europea era in grado di sfidare la Gran Bretagna. Solo allora si assisté alla formazione di altri centri di potenza in grado di sfidare l’egemonia britannica, in particolare la Germania e gli Stati Uniti, che - anche per l’emergere di nuove potenze (Russia, Giappone e Italia) e il declino di altre (in specie l’impero ottomano) - resero assai precario l’ordine mondiale imperniato sull’egemonia britannica, generando di conseguenza un autentico “cataclisma geopolitico”. Si aprì allora un’altra fase policentrica, contraddistinta dalle due depressioni economiche (quella di fine Ottocento e quella del 1929) e (non casualmente) da due guerre mondiali. Fase com’è noto, terminata con la sconfitta della Germania e la vittoria di una nuova potenza “continentale” (ossia l’Unione Sovietica) e soprattutto degli Stati Uniti, diventati (sotto ogni aspetto) la potenza capitalistica predominante al posto della Gran Bretagna. Sono dunque queste coordinate geopolitiche” che si devono tener presenti per “mettere a fuoco” i conflitti e le strategie negli ultimi due secoli.

 

I conflitti in Europa nel XIX secolo. La distinzione tra fase monocentrica e fase policentrica non significa che nella prima fase non vi possano essere dei conflitti, come dimostra la stessa storia europea dell’Ottocento, peraltro caratterizzata, com’è noto, dall’azione della società segrete, da moti rivoluzionari e da insurrezioni popolari, che pure influirono non poco sull’evoluzione delle diverse potenze europee, nonostante il chiaro intento da parte della cosiddetta “Santa Alleanza” (patto firmato a Parigi nel 1815 tra Austria, Prussia e Russia, e sottoscritto da vari governi europei, ma a cui non aderirono il papa, il principe reggente d’Inghilterra, il sultano ottomano) di frenare il processo storico avviatosi con la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, per garantire la solidità delle istituzioni monarchiche e lo status quo nel continente europeo, definito dal Congresso di Vienna.

Tale sistema di sicurezza portò in effetti alla repressione dei moti italiani nel 1820-21 e di quelli spagnoli nel 1823, ma entrò in crisi con la rivoluzione francese del 1830. Aspirazione all’indipendenza, idee liberali, democratiche e perfino socialiste non potevano essere sconfitte con le baionette. si poteva impedire la nascita del movimento operaio che in Inghilterra fra il 1829 e il 1834 vide il tentativo di organizzare una generale associazione di tutti i mestieri (trades union), mentre si diffondeva l’idea di ricorrere allo sciopero generale come strumento di lotta sociale[16]. Gli stessi moti rivoluzionari del 1848 dimostrarono chiaramente non solo che in Europa era impossibile soffocare il nazionalismo, ma che il corso della politica europea non poteva ridursi unicamente alla lotta tra liberali (borghesi) e reazionari (nobiltà e clero). Tanto è vero che, se la lotta contro l’Austria era all’insegna dell’indipendenza dei popoli, la rivoluzione in Francia fu caratterizzata dallo scontro tra la borghesia e il proletariato, che terminò con l’insurrezione popolare nel giugno del 1848 e la terribile repressione da parte del generale Cavignac, che fece fucilare migliaia di insorti dopo sei giorni di durissimi combattimenti. Ma è pure significativo che sia l’Austria che la Francia avrebbero visto il loro “peso geopolitico” ridursi alquanto, rispetto al secolo precedente, sia pure per motivi differenti e in misura diversa.

 

Per un impero multietnico come quello austro-ungarico, la crescita del nazionalismo non poteva non essere causa di forte instabilità e grave debolezza. La stessa scelta di Metternich (cui si riconosce il merito di avere contribuito a creare un equilibrio stabile e pacifico in Europa) di difendere la causa della “restaurazione” e della “reazione” non poteva impedire che a lungo andare l’Austria si indebolisse. L'impero austro-ungarico, infatti, era uscito dalle guerre napoleoniche con un debito pubblico elevatissimo, che costringeva Vienna a mantenere le spese militari ad un livello decisamente basso. Durante le diverse crisi che l’Austria dovette affrontare tali spese aumentarono, ma la debolezza di fondo dell’esercito austriaco permaneva, benché nel 1848-49 si mostrasse in grado di sconfiggere l’esercito piemontese.

Ciò dipese anche dall’abilità del maresciallo Radetzky, il quale, disponendo di poche truppe, allorché scoppiò l’insurrezione di Milano, evitò di rimanere intrappolato nella grande città lombarda, di modo che riuscì a respingere, presso Verona, l’esercito piemontese, anche se non poté impedire che i Piemontesi prendessero Peschiera e assediassero Mantova; ma, una volta ricevuti dei rinforzi, Radetzky passò al contrattacco sconfiggendo i Piemontesi a Custoza. E nella seconda fase della guerra, il maresciallo austriaco, riuscito a concentrare forze superiori contro quelle piemontesi, le batté di nuovo a Novara. Ma nonostante questa brillante vittoria per l’Austria i problemi permanevano tanto che anche sotto il profilo economico l’impero austriaco perdeva terreno rispetto alle altre potenze europee, compreso il vitale settore della produzione di carbone, che rivela il divario tra la Gran Bretagna e gli altri Paesi europei, ma anche la crescita della Germania e degli Stati Uniti, come mostra la seguente tabella[17]:

 

 

 

1850

1860

1870

Germania

6

12

34

Austria-Ung.

1,2

2,3

8,6

Francia

4,5

8,3

13,3

Gran Bretagna

57

81

112

Stati Uniti

-

3,4

10

 

 

Inoltre, l’Austria doveva far fronte alle mire della Russia sui Balcani (anche se ciò non impedì allo zar di inviare un’armata per aiutare Vienna a domare la ribellione degli Ungheresi) ma pure guardarsi da altre due minacce, quella italiana e quella, ben più grave, della Prussia, che aspirava ad unificare la Germania relegando in secondo piano Vienna. Ragion per cui l’Austria, che non poteva che difendere tenacemente lo status quo in Europa, evitò pure di impegnarsi nella guerra di Crimea (1852-56), che vide la Francia e la Gran Bretagna intervenire (nel 1854) al fianco della Turchia contro la Russia. (Nel 1855 anche il Piemonte di Cavour inviò in Crimea un corpo di spedizione di 15.000 soldati al fianco degli Anglo-Francesi, allo scopo di ottenere l’appoggio della Francia e della Gran Bretagna nella lotta contro l’Austria).

 

Il vero motivo di questa guerra era quello di fermare l’espansione russa verso il Mediterraneo, resa possibile dalla crescente debolezza dell’impero ottomano. I Russi dovevano però mantenere anche un forte esercito al Nord a causa della minaccia svedese e considerare la possibilità di un intervento austriaco, mentre dovevano battersi in condizioni non facili contro i Turchi nella regione del Caucaso. Comunque sia, il conflitto rivelò l’arretratezza della Russia e la sua impreparazione bellica. La flotta russa, anche se sconfisse facilmente quella turca a Sinope, non poteva fare pressoché nulla contro quella degli Anglo-Francesi (che, oltre ad impiegare razzi e proiettili shrapnel, erano in grado di costruire dozzine di potenti cannoniere). L’esercito russo aveva armi antiquate, pochi erano gli ufficiali competenti e insufficiente il numero dei riservisti addestrati (la servitù della gleba - abolita solo nel 1861, anche in seguito alla disfatta in Crimea imponeva alla Russia, che allora contava più di 70 milioni di abitanti, di basarsi su un esercito composto da soldati a lunga ferma, e l’immissione all’inizio della guerra di 400.000 reclute, tutt’altro che ben addestrate, non rese certo più efficiente l’esercito).

 Le gravi carenze logistiche dell’apparato militare russo furono rese vieppiù drammatiche dal blocco imposto dalla flotta britannica; inoltre, per finanziare la guerra, Mosca si indebitò sui “mercati” di Berlino e di Amsterdam; si mise perciò a stampare cartamoneta, facendo così aumentare l’inflazione e accrescendo il malcontento dei contadini. Anche gli Anglo- Francesi però avevano i loro problemi, sebbene, dopo la battaglia della Cernaia (o del ponte Traktir), in cui si distinsero le truppe piemontesi, riuscissero a conquistare Sebastopoli (11-12 settembre 1856). In particolare, la guerra di Crimea rivelò le gravissime deficienze logistiche dell’esercito britannico. Miglioramenti vennero fatti con l’aumento delle spese militari, ma lo sforzo maggiore durante questa campagna fu fatto dall’esercito francese, che oltre ad essere il più numeroso, mostrò di essere il più efficiente. La guerra durò fino a quando i Russi, sull’orlo del disastro finanziario e dopo aver perso oltre 400.000 uomini, si rassegnarono a riconoscere, con il trattato di Parigi del 1856, la “neutralità” del Mar Nero e la libertà di navigazione sul corso del Danubio.

 

L’Austria non poté invece fare a meno di scontrarsi con la Francia, che aveva dato il suo appoggio al Piemonte in cambio di Nizza e Savoia (accordi segreti di Plombierés del 1858). L’Austria, convinta di potere schiacciare rapidamente il Piemonte, intimò il disarmo immediato al piccolo Stato italiano, che forte del sostegno della Francia cercava la guerra. Respinto da Torino l’ultimatum di Vienna, gli Austriaci passarono all’azione, trovandosi coinvolti in una guerra contro i Franco-Piemontesi, che sconfissero gli Austro-Ungarici a Magenta e poi a Solferino, benché a prezzo di terribili perdite, tanto che la Croce Rossa venne creata proprio a Solferino, ove si era combattuta una tipica battaglia d’incontro, assai confusa, che aveva portato gli Austriaci a ritirarsi dietro il Mincio, ma dopo violentissimi combattimenti, che non avevano permesso ai Franco-Piemontesi di sfruttare il successo, come già era accaduto a Magenta.

 La sconfitta dell’Austria fu anche dovuta al fatto che Vienna aveva preferito tenere in Ungheria i soldati di origine tedesca e ceca, e impiegare in Italia soldati ungheresi, croati e italiani, che in buona misura disertarono (particolarmente preoccupante fu la diserzione dei soldati croati, su cui Vienna faceva parecchio affidamento)[18]. L’Austria si era pure trovata isolata, dacché la Prussia non era intervenuta al suo fianco, anche se, dopo Magenta, ma prima di Solferino, i Prussiani mobilitarono sei corpi d’armata[19]. La Francia temendo uno scontro con la Prussia e preoccupata per le insurrezioni nell’Italia centrale, si decise allora a firmare l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) con cui la Lombardia passò al Regno di Sardegna (l’armistizio violava gli accordi di Plombières, e suscitò le ire di Cavour, ma, in definitiva, la Francia era intervenuta solo per estendere la sua influenza sulla penisola italiana, non perché avesse realmente a cuore la causa dell’indipendenza italiana).

D’altra parte, si era venuta a delineare una situazione internazionale estremamente favorevole alle forze che spingevano all’unificazione dell’Italia; situazione di cui seppe approfittare Garibaldi, consapevole delle difficoltà che attraversava il regno borbonico delle Due Sicilie. Garibaldi, sbarcato a Marsala (con il tacito assenso del Piemonte, che si astenne dall’ostacolare i preparativi della spedizione garibaldina, e la “non interferenza” della marina britannica che aveva il controllo del Mediterraneo), con le sue mille “camicie rosse” sconfisse l’esercito borbonico a Calatafimi, suscitando l’entusiasmo di parte della popolazione siciliana. Presa, dopo aspri combattimenti, Palermo, Garibaldi batté di nuovo le truppe borboniche a Milazzo e poi sbarcò in Calabria puntando su Napoli.

Le truppe borboniche si ritirarono allora sulla linea del Volturno, ove furono definitivamente sconfitte dai garibaldini. Nel frattempo, il Piemonte si era deciso ad intervenire, occupando l’Umbria e le Marche, appartenenti allo Stato pontifico, il cui esercito venne battuto dai Piemontesi a Castelfidardo. Anche la borghesia meridionale era favorevole all’annessione al Piemonte per timore di altre insurrezioni popolari (quella dei contadini di Bronte, che reclamavano la terra, era stata repressa da Bixio, luogotenente di Garibaldi). Le due Sicilie, l’Umbria e le Marche vennero quindi annesse al Piemonte, che, dopo lo scioglimento dell’esercito garibaldino, riuscì a mettere fine all’ultima resistenza borbonica a Gaeta. Infine, il 17 marzo del 1861, venne proclamato il regno d’Italia. Rimanevano però le notevoli differenze tra Nord e Sud, come dimostrò drammaticamente il fenomeno del brigantaggio, che esplose nel Mezzogiorno già nel 1861. Era appoggiato dallo Stato pontificio e da ambienti “reazionari”, ma era anche l’effetto di un reale “malcontento popolare”, frutto di secoli di ingiustizie. La guerra contro le “bande” si concluse solo nel 1865 e avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia del Paese.

 

In questi anni era però l’intero quadro geopolitico europeo che stava cambiando. Nella seconda guerra d’indipendenza italiana Austriaci e Francesi avevano combattuto sotto l’occhio vigile dei Prussiani, ai quali non era sfuggito l’uso delle ferrovie da parte di entrambi l’eserciti, l’impiego di cannoni ad anima rigata da parte dei Francesi. Ma nemmeno erano sfuggite le incertezze e le debolezze di entrambi gli eserciti, che furono evidenziate nella relazione sull’intera campagna redatta da Moltke, la prima monografia storica scritta da un ufficiale di Stato maggiore, essenzialmente a scopo di studio. Si trattava di un interesse che celava dei seri pericoli non solo per l’Austria ma anche per la Francia.

Certo la Francia era un Paese più ricco e più forte dell’Austria, con più di 35 milioni di abitanti. Notevoli erano investimenti nel settore metallurgico e in quello degli armamenti, che portarono a diverse innovazioni, tra cui sono da ricordare le granate Paixhans, la nave corazzata La Gloire e la cosiddetta Minny ball[20]. Ma la potenza relativa della Francia era diminuita. Il Paese subiva le conseguenze delle guerre tra 1793 e 1815, costate un milione e mezzo di morti, e doveva fare i conti con i problemi derivanti da un processo di industrializzazione che incontrava diversi ostacoli. Per di più in Francia il “fuoco rivoluzionario” covava sempre sotto la cenere, a differenza della Gran Bretagna, in cui l’industrializzazione portò alla nascita di un forte movimento operaio che mirava soprattutto a migliorare le condizioni di lavoro degli operai (concezione nota come “tradeunionismo”).

Nondimeno, è innegabile che il regime di Napoleone III pareva garantire alla Francia una reale stabilità. In effetti, la paura della rivoluzione sociale e il timore di nuove violenze, avevano favorito le ambizioni di Luigi Bonaparte (nipote di Napoleone), e gli resero possibile attuare il colpo di Stato del 1851, poi confermato con un plebiscito, che portò alla proclamazione dell’impero nel 1852. Grazie anche al suo carisma, Napoleone III poté instaurare un regime autoritario, mettendo la magistratura sotto il controllo del governo e aumentando il potere di sorveglianza della polizia. Ma con Napoleone III la Francia riprese pure una forte politica coloniale (conquista della Cocincina, protettorato sulla Cambogia, apertura del canale di Suez su un’iniziativa francese), inoltre vennero istituiti forti organismi bancari e notevole impulso fu dato all’ampliamento della rete ferroviaria nonché al settore siderurgico.

 D’altronde, l’autoritarismo del regime si attenuò parecchio, come Luigi Bonaparte aveva promesso. Era chiaro comunque che il periodo della borghesia rivoluzionaria era terminato e che il conflitto sociale sarebbe stato soprattutto quello tra il “lavoro” (operai e contadini) e ilcapitale”, anche se non si deve trascurare il ruolo crescente dei ceti medi (piccola borghesia, funzionari statali, ufficiali, liberi professionisti, commercianti e così via) o la questione del nazionalismo, tanto più che in certi Paesi era sempre “viva” la questione dell’indipendenza o dell’unificazione nazionale. Ma sotto questo aspetto, decisiva per gli equilibri europei (e mondiali) sarebbe stata la politica della Prussia.

 

Anche in Prussia le idee liberali e democratiche circolavano, ma la tradizione militare e il forte senso del dovere nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni prevalevano su tutto. Nel marzo del 1848 si ebbero comunque duri scontri a Berlino tra rivoltosi e l’esercito, che sembrarono trasformare la Prussia in uno Stato liberale, ma alla fine prevalse una politica conservatrice che portò alla costituzione del febbraio del 1850, rimasta in vigore fino al 1918. Decisiva per la politica prussiana fu pure la formazione dell’unione doganale tedesca (Zollverein) del 1852, di cui la Prussia aveva la laeadership indiscussa e che si ritiene abbia accelerato l’espansione economica della Germania, la quale, grazie allo sfruttamento dei giacimenti di carbone della Ruhr, della Saar e della Slesia, era ormai la prima potenza industriale del continente europeo.

 L’intenzione della Prussia era appunto di avvalersi di tale potenza per prendere la guida politica dell’intera Germania e attuare una politica che ridefinisse gli equilibri europei. Grande interprete di questa politica fu Otto von Bismarck il quale, sostenne la riforma militare che avrebbe dovuto garantire alla Prussia il “mezzo” indispensabile per raggiungere il proprio scopo politico. Al riguardo, è indispensabile spendere qualche parola sulla celebre opera di Clausewitz, Della guerra[21], onde evitare di avallare tesi del tutto infondate e arbitrarie riguardo all’influenza che il pensiero del teorico prussiano avrebbe avuto sui conflitti europei e la politica di potenza tedesca. In particolare, si deve evitare l’errore (tipico di autori di lingua inglese e recentemente ripetuto da Keegan in La grande storia della guerra), secondo cui Clausewitz sarebbe stato una sorta di apostle of total war”, o di evil genius of military thought”, responsabile dei massacri della Grande guerra. In realtà Clausewitz, patriota prussiano che visse sino in fondo le contraddizioni del suo tempo, basò la sua opera sulla comprensione delle “lezioni” della rivoluzione dell’89 e delle guerre napoleoniche. La sua opera perciò non è tanto prescrittiva quanto piuttosto descrittiva. Il teorico prussiano può aver sottovalutato gli aspetti culturali della guerra (come ritiene Keegan), ma sostenere che con Clausewitz balza in primo piano, a scapito di ogni altro aspetto, l’annientamento del nemico e la guerra come “assoluto, privo di limiti”, e quindi che Clausewitz preparò il terreno per il militarismo e i massacri della Grande guerra, significa affermare l’opposto di quello che Clausewitz afferma esplicitamente (sia pure secondo uno “stile di pensiero” che richiede una certa familiarità con la filosofia tedesca del tempo e in specie quella hegeliana).

 

La celeberrima frase “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, non significa altro che è il Politico (che per Clausewitz coincide con lo Stato o il governo), cioè la razionalità politico-strategica, a dirigere gli “affari militari”, non viceversa[22]. Limitarsi ad affermare che Clausewitz definisce la guerra come un assoluto, ovvero un fenomeno «in cui mai si potrà introdurre un principio moderatore» è totalmente scorretto e “falsa” il suo pensiero non perché non vi siano queste parole nell’opera di Clausewitz (Della guerra, libro I, cap. I, § 3, Mondadori, Milano, 1982, p. 21), ma perché si altera del tutto il senso di esse, se non si precisa che secondo Clausewitz «poiché i due avversari non sono semplici astrazioni, ma Stati e governi reali, la guerra esce dal campo ideale […] Ritorna qui in campo un argomento che pel momento avevamo lasciato da parte (v. n. 2) e cioè lo scopo politico della guerra» (Della guerra, libro I, cap. I, § 10 e § 11, cit., p. 27).

Quel che conta davvero per Clausewitz allora è il legame necessario tra il Politico e la guerra. Ragion per cui essenziale è che scopo politico e obiettivo militare siano convergenti. Che Clausewitz abbia posto l’accento sullo Stato (nella cosiddetta “trinità”: popolo, esercito, Stato, corrispondenti al cieco istinto della massa, alla libera attività dell’anima e all’elemento razionale), è comprensibile, considerando sia il periodo storico in cui scriveva (il che può aiutare a spiegare perché egli non abbia dato il “giusto” peso a quella “strategia indiretta” che per Sun Tzu è l’arte suprema della guerra), sia il ruolo dello jus publicum europaeum nelle relazioni internazionali (da tener presente pure per intendere correttamente la dottrina hegeliana dello Stato)[23]. In ogni caso, quel che conta per Clausewitz è il fatto che la guerra è un «atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà» (Della guerra, libro I, cap. I, § 2, cit., p. 19). Giustamente, dunque, Gramsci sostiene che «Bismarck, sulla traccia di Clausewitz, sosteneva la supremazia del momento politico su quello militare, mentre Guglielmo II, come riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui l’opinione di Bismarck era riportata: così i Tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte le battaglie ma perdettero la guerra»[24]. Difficilmente in poche parole si poteva rendere meglio la questione dell’influenza dell’opera di Clausewitz sulla politica e su quella “ideologia tedesca” che fu alla base della riforma di Roon e Moltke[25].

Furono infatti Roon (ministro degli Esteri) e soprattutto Moltke (capo di Stato maggiore) che portarono a compimento la riforma dell’esercito prussiano, che era cominciata nell’ultima fase delle guerre napoleoniche. Fu istituito un servizio di tre anni nell’esercito attivo, di quattro nella riserva e di cinque nella milizia mobile (Landwehr); gli ultimi otto anni (fino a 40 anni quindi) si passavano nella milizia territoriale (Landstrum). In questo modo l’esercito mobilitato si componeva di sette classi di leva, che potevano salire rapidamente a dodici. L’istituzione che dirigeva l’intero apparato militare era lo Stato maggiore, il “cervello dell’esercito”. Fino allora venivano messi insieme i vari servizi quando era necessario, invece adesso vi erano degli ufficiali che dovevano preparare piani operativi per ogni evenienza. Particolare cura si prestò al servizio ferroviario e ai rifornimenti per un rapido trasferimento delle unità militari al fronte. Moltke puntava molto anche sulla flessibilità operativa dello strumento bellico, stimolando lo spirito d’iniziativa, che con il tempo si sarebbe diffusa “a cascata”, dallo Stato maggiore fino alle semplici squadre di combattimento. Nel 1864 la Prussia, alleata con l’Austria, aveva sopraffatto facilmente la Danimarca, ma l’esercito prussiano la vera prova la fece contro l’Austria nel 1866, entrata in urto con la Germania per l’amministrazione dei ducati dello Schleswig-Holstein, che erano stati la causa della guerra con i Danesi.

Lo scopo di Bismarck era quello di ridurre l’Austria a una potenza satellite della Germania, anche se ciò implicava la creazione di una “Piccola Germania” (ossia una Germania unita senza l’Austria). La prova venne brillantemente superata dall’esercito prussiano che inflisse una sconfitta decisiva agli Austriaci a Sadowa (il 3 luglio del 1866), costringendo l’Austria ad accettare che la Germania venisse unificata in base ai disegni di Bismarck. I Prussiani avevano cominciato a mobilitare dopo gli Austriaci, ma poterono usare cinque ottime linee ferroviarie, contro una sola usata dagli Austriaci. Perciò i Prussiani, prima che l’esercito austriaco si concentrasse in Moravia, invasero la Boemia, assicurandosi così una posizione strategica vantaggiosa. Peraltro, Moltke, grazie al telegrafo, poté dirigere gran parte dei movimenti delle armate prussiane, dal suo ufficio di Berlino, recandosi al fronte solo alla vigilia della battaglia. La vittoria prussiana rese pure possibile all’Italia, scesa in guerra contro l’Austria, di annettere il Veneto, benché fosse stata vinta per terra, a Custoza, e perfino sul mare, nella disastrosa battaglia di Lissa.

 

A Custoza (24 giugno 1866) un attacco della cavalleria austriaca “paralizzò” l’ala destra italiana, mentre al centro la pressione austriaca divenne sempre più forte costringendo gli italiani a ripiegare. Ma la ritirata su nuove posizioni avvenne in buon ordine, di modo che nulla era perduto. Lamarmora aveva cinque divisioni fresche e altre due in buone condizioni da opporre agli Austriaci che apparivano esausti. Ma, anziché tenere le posizioni e contrattaccare, preferì ritirarsi dietro l’Oglio, “regalando” così la vittoria agli Austriaci. A Lissa, il mese seguente, andò, se possibile, ancora peggio, nonostante che la flotta italiana fosse nettamente superiore a quella austriaca, allineando 12 navi corazzate e 19 di legno contro 7 navi di ferro e 20 di legno dell’ammiraglio Tegetthoff. Ma al momento dello scontro la linea italiana era frazionata, facendosi così cogliere di sorpresa dalla flotta austriaca. La punta del cuneo austriaco riuscì a penetrare nello spazio apertosi nella fila italiana, dopo che la corazzata Re d’Italia aveva rallentato per consentire il trasferimento dell’ammiraglio Persano su un’altra nave. Nella mischia che ne seguì gli Italiani persero la corazzata Re d’Italia e la piccola Palestro. La vittoria prussiana poi “aggiustò” tutto, ma rimase la gravità di una sconfitta che era la spia di problemi che andavano ben oltre la sfera militare[26].

 Le vicende dell’Italia non suscitarono scalpore in Francia che invece fu impressionata dalla vittoria prussiana, ma non al punto da valutare con obiettività quale fosse la reale forza della Prussia. La stessa riforma del 1868 si limitò a portare a quattro gli anni nella riserva, ma dei riservisti si continuava a non aver fiducia, mentre la guardia nazionale doveva badare all’ordine interno. Bismarck invece era sicuro della vittoria e provocò deliberatamente la Francia. I Francesi, accecati dallo sciovinismo, caddero nella trappola tesa loro dal cancelliere prussiano. Eppure non si deve pensare che per l’esercito prussiano, rinforzato pure da altri soldati tedeschi, sia stato facile battere la Francia nel 1870.

La campagna contro l’Austria del 1866 aveva già evidenziato i difetti ancora presenti nell’esercito prussiano. Le truppe, ad esempio, per inesperienza avevano attaccato o troppo presto o dalla parte sbagliata. La guerra franco-prussiana confermò non solo che vi erano ancora questi problemi, ma che i soldati francesi (come quelli italiani) avrebbero meritato comandanti migliori.

 

La Prussia mobilitò tre armate (380.000 uomini; altri tre corpi erano disponibili, ma per il momento erano tenuti in riserva per far fronte ad una eventuale minaccia austriaca) in diciotto giorni (ci vollero cinque settimane per radunare e trasferire al fronte l’esercito). I Francesi radunarono 200.000 soldati (sebbene poi salissero a 300.000), ma solo una parte di loro era al fronte per la confusione creatasi durante la mobilitazione. Moltke intendeva vincere la battaglia decisiva nella Saar, facendo leva sulla superiorità numerica del proprio esercito. Nella “nebbia della guerra” vi furono scontri duri ma confusi. Comunque furono l’imperizia e l’indecisione del generale francese Bazaine, che non seppe nemmeno sfruttare le buone occasioni che gli si presentarono nella battaglia di Gravelotte (18 agosto del 1870), a favorire i Tedeschi[27].

Dopo Gravelotte, Bazaine decise di ripiegare su Metz con i resti del suo esercito, rimanendo di conseguenza intrappolato in questa città. Anche l’armata di MacMahon (con la quale si trovava pure Napoleone III), dopo un scontro a Beaumont, vicino alla frontiera belga, si trovò imbottigliata a Sedan, ove si era diretta anche la IV armata tedesca. Dopo un vano tentativo di rompere l’assedio, l’imperatore francese fu costretto ad arrendersi (2 settembre). Crollava così il Secondo impero e veniva proclamata la Terza repubblica, ma la guerra ormai era persa, poiché la Francia non aveva più un esercito organizzato da contrapporre a quello di Moltke, che cingeva d’assedio Metz e Parigi.

 L’agonia francese durò ancora qualche mese, durante i quali l’improvvisata “resistenza popolare” venne facilmente debellata dai Tedeschi. Pertanto, il 28 di gennaio del 1871 la Francia dovette capitolare. Il trattato di pace, firmato il 10 maggio, le imponeva non solo di cedere l’Alsazia-Lorena, ma di pagare una salatissima indennità di guerra. La sconfitta, e soprattutto il modo in cui il Paese era stato sconfitto, e la rabbia nei confronti dell’occupante fecero esplodere il malcontento popolare. La Comune di Parigi durò poco, ma le riforme che promosse avevano il chiaro scopo di giungere ad una trasformazione radicale della società e dello Stato. Com’era prevedibile, l’esercito francese, formato in buona parte da prigionieri rilasciati dai Tedeschi, diede inizio ad un secondo assedio di Parigi. La Comune (che aveva pure previsto la sostituzione dell’esercito permanente con la milizia popolare) oppose una tenace resistenza all’esercito del governo di Versailles, che comunque entrò a Parigi il 21 maggio, anche se ci volle ancora una settimana di violentissimi scontri per debellare gli insorti. La repressione fu feroce: decine di migliaia di morti e di deportati si aggiunsero ai caduti durante la battaglia. Eppure la Francia si riprese rapidamente, riuscendo a pagare l’indennità di guerra senza particolari problemi, sorprendendo lo stesso Bismarck, che tuttavia era riuscito a realizzare il suo disegno. Proprio a Versailles, il 18 gennaio, dieci giorni prima della capitolazione della Francia, il re Guglielmo di Prussia era stato proclamato Deutscher Kaiser (“imperatore tedesco”).

 

Era chiaro ormai che gli equilibri geopolitici e sociali dell’Europa erano mutati e che le conseguenze della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale non potevano essere di breve durata. La Comune parigina poteva venire soffocata nel sangue, ma già nel 1864 era nata la I Internazionale, soprattutto per l’impegno di Marx. I dissensi con gli anarchici di Bakunin (che si staccarono dall’Internazionale nel 1872) e le polemiche che si ebbero dopo il fallimento della Comune, portarono allo scioglimento dell’organizzazione, ma nel 1875 due organizzazioni dei lavoratori tedeschi si fondevano, dando origine al partito socialdemocratico tedesco, e le idee socialiste (marxiste e non) si diffondevano rapidamente in Europa, portando alla nascita della II Internazionale, destinata a durare fino alla Grande guerra. Anche la chiesa cattolica, considerata un “bastione della reazione”, si confrontava con la questione sociale, benché ferma rimanesse la condanna del socialismo. Inoltre, il processo di industrializzazione continuava a trasformare il modo di produrre e di vivere degli Europei, anche se in buona misura era il mondo contadino a dovere pagare il prezzo di questi cambiamenti.

La stessa Germania di Bismarck doveva confrontarsi con tali questioni, benché in un contesto storico radicalmente diverso rispetto a quello creatosi con la sconfitta di Napoleone nel 1815. Sul piano della politica interna, dopo l’unificazione del Paese, la presenza dei cattolici costituiva un serio problema per il cancelliere. Bismarck cercò di risolverlo con una serie di leggi che non riuscirono ad eliminare la forza politica dei cattolici, tanto che fu obbligato a fare una parziale marcia indietro. Notevole fu invece la legislazione sociale al fine di sconfiggere il partito socialdemocratico. Queste leggi (tra cui, oltre all’assistenza contro le malattie e gli infortuni, degna di menzione è la legge sulle pensioni di vecchiaia) posero la Germania all’avanguardia anche nel settore delle riforme sociali, ma non indebolirono il partito socialdemocratico, che anzi accrebbe i propri consensi. Ma se la lotta con i cattolici e i socialisti si mostrava molto più aspra di quel che Bismarck si era aspettato, era l’intero sistema geopolitico che egli si era impegnato a costruire che minacciava di crollare.

In effetti, la politica di Bismarck mirava a rafforzare lo Stato tedesco mediante la difesa di un equilibrio geopolitico che non permettesse la formazione di un’alleanza tra Francia e Russia in funzione antitedesca, dato che una tale alleanza avrebbe obbligato la Germania a battersi su due fronti contemporaneamente. Perno della politica di potenza di Bismarck era quindi l’alleanza tra Germania, Russia e Austria. Ma la guerra russo-turca (1877-78), conclusasi con la vittoria della Russia, che impose ai Turchi un trattato contrario agli interessi dell’Austria, obbligò Bismarck ad una dolorosa scelta di campo[28]. Il Congresso di Berlino del 1878 (13 giugno-13 luglio), cui parteciparono i rappresentanti di tutte le potenze europee (Germania, Austria-Ungheria, Russia, Turchia, Italia, Francia e Gran Bretagna), se pareva significare l’apoteosi della diplomazia del cancelliere e il riconoscimento del ruolo egemone della Germania (come indicava la stessa decisione di tenere il Congresso nella capitale tedesca), in realtà segnava la fine del tentativo di dar vita ad un “blocco continentale” basato sull’alleanza fra i tre imperatori (tedesco, russo e austriaco).

 

Il Congresso riconobbe l’indipendenza di Serbia, Romania e Montenegro. La “Grande Bulgaria” venne divisa e si formò un principato di Bulgaria nominalmente dipendente dalla Turchia, che però dovette cedere vari territori alla Russia e alla Grecia; alla Francia fu concesso di occupare la Tunisia, la Gran Bretagna ottenne Cipro, mentre l’Austria occupò militarmente la Bosnia-Erzegovina. L’impero ottomano dunque ne uscì indebolito, il che aggravò l’instabilità della regione, lasciandoaperta la porta” alle manovre delle grandi potenze. Nel 1881 il patto dei tre imperatori venne rinnovato, ma la questione dei Balcani ne aveva alterato il significato, anche se con la Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia) del 1882 la Germania cercava dar vita a un nuovo equilibrio (anch’esso tutt’altro che stabile). Ma con la scomparsa di Guglielmo I e la salita al trono del giovane imperatore Guglielmo II era l’intera visione geopolitica di Bismarck che veniva messa in discussione.

Di fatto, la potenza della Germania non poteva più “manifestarsi nei canali diplomatici” creati da Bismarck e le forze che erano favorevoli ad una espansione coloniale avevano cominciato a prendere il sopravvento già durante gli ultimi anni del cancellierato di Bismarck, che invece era contrario a questa svolta politica, dacché riteneva essenziale evitare uno scontro con l’Inghilterra. Con Guglielmo II, ostile alla politica del cancelliere orientata in senso sempre più antisocialista, la “rottura” fu inevitabile e Bismarck nel 1890 dovette ritirarsi, lasciando così campo libero alla Weltpolitik del nuovo Kaiser. Ma la ragione di tale mutamento non si spiega solo con la differenza tra la personalità dell’imperatore e quella di Bismarck, pur se non si deve trascurare l’importanza dei singoli individui, in quanto interpreti di forze e tendenze “oggettive”. Invero, l’impero coloniale britannico e quello francese, parevano impedire alla Germania di accedere a nuovi mercati, mentre Francesi e Inglesi estendevano la propria area di influenza in tutto il mondo, cosicché era ovvio che anche gli ambienti della grande industria tedesca fossero inclini a cercare nuovi spazi per l’economia tedesca.

D'altronde a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento «il volume degli scambi internazionali e, soprattutto, la crescita della produzione manifatturiera aumentavano rapidamente. Lo sviluppo industriale, dapprima limitato alla Gran Bretagna e ad alcune aree dell’Europa continentale e del Nordamerica, iniziava a trasformare altre regioni»[29]. In particolare, la Germania nel 1880 forniva già l’8,5 cento della produzione manifatturiera mondiale, contro il 7,8% della Francia. Al tempo stesso si rafforzava il nazionalismo e si faceva strada il pangermanesimo (la sola Germania nel 1880 contava 45 milioni di abitanti), concezione secondo cui tutti i Tedeschi dovevano essere raggruppati in un unico Stato, la “Grande Germania”. Era l’inizio di un terremoto geopolitico, originatosi in Europa per l’“emergere” di una grande potenza continentale, che non poteva né voleva accettare l’“ordine” e la “pace” di Londra. Ma adesso la questione degli equilibri mondiali vedeva entrare in gioco anche attori geopolitici non europei, ossia gli Stati Uniti e il Giappone, quest’ultimo dopo una radicale e “dolorosa” trasformazione delle sue istituzioni, gli Stati Uniti invece dopo una guerra civile, considerata la prima guerra moderna e combattuta, peraltro, prima della guerra franco-prussiana.

 

La guerra civile americana e l’imperialismo. Se i reali contrasti che portarono alla guerra di secessione americana sono noti – il Nord industrializzato e protezionista era contrario al tipo di economia sudista basata sulle piantagioni di cotone (cioè sulla grande azienda agraria schiavista), e soprattutto all’introduzione di questo genere di economia nei nuovi Stati dell’Ovest; mentre il Sud era liberista e fautore di una maggiore autonomia dei singoli Stati rispetto al governo federale[30] meno noto forse è che già nell’Ottocento i salari negli Stati Uniti erano maggiori di circa un terzo di quelli in Europa e che l’abbondanza di terra, se rendeva scarsa la manodopera, nonostante il continuo arrivo di migranti, oltre a tener alti i salari, favoriva pure grandi investimenti in macchinari.

Anche il relativo “isolamento” del Paese aveva permesso di concentrare la maggior parte delle risorse nello sviluppo dell’economia, cui aveva dato forte impulso la seconda fase della rivoluzione industriale, con la ferrovia, il vapore e il telegrafo che avevano reso più facile i collegamenti tra i vari Stati, mentre crescevano gli scambi commerciali con la Gran Bretagna. Invidiabile poi era la posizione geopolitica, dacché all’infuori di un pericolo proveniente dal mare (ossia dalla Gran Bretagna), gli Stati Uniti non correvano alcun rischio di essere aggrediti da un’altra potenza.

 Inoltre, se con la cosiddetta “dottrina Monroe” (del 1823), gli Stati Uniti avevano chiaramente fatto intendere che non avrebbero tollerato nessuna “interferenza” europea negli affari interni del “Nuovo Continente”, nel 1819 si erano già fatti cedere la Florida dalla Spagna, nel 1846 si fecero confermare dagli Inglesi il possesso dell’Oregon e con la guerra contro il Messico (1846-48) entrarono in possesso del Texas, della California e di diversi altri territori. E nel 1867 acquistarono per 7,2 milioni di dollari l’Alaska dalla Russia, un acquisto che si sarebbe rivelato assai prezioso nel secolo seguente. Nel frattempo avevano respinto le tribù indiane al di del Mississippi. Pertanto, la vera questione da risolvere era come si sarebbe configurato il grande Stato nordamericano in futuro e che tipo di politica avrebbe svolto sulla scena mondiale una volta terminata la corsa verso l’Ovest, dacché non vi erano né confini naturali né nemici in grado di ostacolare l’espansione degli Stati Uniti. A risolvere tale questione sarebbe stata la guerra tra il Nord e il Sud.

 

Considerata la prima “vera” guerra moderna, sia per il numero degli uomini che per i mezzi impiegati, ma anche perché tale da coinvolgere la società nel suo complesso, implicando una sorta di “mobilitazione totale”, la guerra civile americana anticipò quel che sarebbe stato evidente dopo la guerra franco-prussiana, ossia l’importanza sempre maggiore della logistica e la necessità sia di ufficiali addestrati e preparati sia di un sistema di trasporti efficiente e di un buon servizio di informazioni. Inoltre, ancor più che nel conflitto franco-prussiano, si rivelò appieno l’eccezionale efficacia delle armi da fuoco rigate che avvantaggiavano enormemente coloro che si difendevano, in specie se disposti su posizioni naturali “forti” (colli, alture, cime ecc.) o se protetti da opere difensive (capisaldi, trincee, fortini ecc.). Ma la guerra civile americana dimostrò soprattutto che la guerra ormai si basava su una mobilitazione/combinazione di tutti i fattori sociali: militari, economici, tecnico- scientifici, culturali e ideologici. Sicché, perdere il passo con tale modernizzazione poteva equivalere ad una drastica riduzione della potenza “relativa” di un Paese, con conseguenze disastrose in caso di guerra. Tenendo conto di ciò, l’esito del conflitto tra nordisti e sudisti, non era dunque difficile prevederlo. Come avrebbe potuto la “campagna” sconfiggere la “città”?

La popolazione libera dell’Unione contava circa 19 milioni di individui (mentre i tre Stati schiavisti dell’Unione contavano poco meno di 2,5 milioni di abitanti, di cui solo 430.000 circa erano schiavi), la popolazione libera della Confederazione invece ammontava a poco meno di 6 milioni di bianchi cui si dovevano aggiungere poco più di 3,5 milioni di schiavi[31]. Ma com’era logico, i negri furono arruolati nell’esercito sudista solo negli ultimi mesi di guerra. Complessivamente fecero parte dell’Unione 2 milioni di soldati contro i 900.000 della Confederazione. Ma era sotto l’aspetto industriale che i rapporti di forza tra i due contendenti vedevano nettamente in vantaggio il Nord: 34.022 km di linea ferroviaria contro 14.141, 95.785 stabilimenti industriali contro 16.896, 801.257 operai nel settore industriale contro 88.390; la sola Pennsylvania produceva 580.000 tonnellate di ghisa di prima fusione contro le 36.700 di tutta la Confederazione. Migliore era la situazione del Sud nel campo dell’agricoltura, ma non nel fondamentale settore della finanza, dacché nell’Unione i depositi bancari ammontavano a 189 milioni di dollari contro i 47 milioni nella Confederazione, mentre le riserve metalliche nell’Unione erano pari a 45 milioni di dollari e a 27 milioni di dollari nella Confederazione.

Perfino per quanto riguarda le attività commerciali, che pure erano fiorenti nel Sud, la Confederazione si trovava in forte svantaggio per la debolezza della propria marina mercantile. E il Nord aveva stabilimenti per costruire motori marini, al contrario del Sud., anche se era ovvio che il blocco navale che il Nord avrebbe imposto al Sud sarebbe stato lungo e duro. La possibilità di aiuto esterno al Sud esisteva, ma poteva venire solo dalla Gran Bretagna, che era favorevole al libero scambio ma che difficilmente poteva impegnarsi in una guerra a grande distanza contro un Paese così potente, e per difendere un sistema sociale che si reggeva su principi opposti a quelli difesi dagli Inglesi. Ma anche per il Nord vi era un problema serio, giacché per costruire una “macchina bellica” efficiente ci voleva tempo. E questo pareva dare qualche chance alla Confederazione, a condizione che potesse infliggere il più rapidamente possibile all’Unione danni e perdite tali da indurla ad accettare le rivendicazioni del Sud oppure la stessa secessione come un “fatto compiuto”.

 

In effetti, nella prima fase della guerra sembrò possibile che si verificasse un tale scenario, grazie alle vittorie dei confederati che sconfissero i nordisti nella battaglia di Bull Run (luglio 1861) e, guidati da Lee, respinsero l’attacco di McClellan contro la capitale della Confederazione, Richmond. Respinta l’armata di McClellan, Lee si rivolse contro l’armata di Pope, disfacendola completamente nella seconda battaglia di Bull Run (agosto 1862). Lee passò quindi alla controffensiva invadendo il Maryland, ma la disparità delle forze in campo si rivelò troppo grande anche per un generale abile come Lee e dopo la battaglia di Antietam (combattuta il 17 settembre del 1862 e che vide circa 50.000 confederati con 200 cannoni opporsi ai 90.000 uomini e 275 cannoni di McClellan) Lee dovette fare marcia indietro.

La campagna del Maryland era stata dunque un fallimento sotto il profilo strategico, e ciò era tanto più preoccupante per il Sud dacché, nell’aprile dello stesso anno, un esercito dell’Unione, comandato da Ulysses Grant, aveva respinto a Pittsburg Landing, nel Tennessee, un attacco sudista, sia pure a carissimo prezzo (la battaglia è nota anche come battaglia di Shiloh). I confederati però vinsero nuovamente a Fredericksburg (dicembre 1862) e a Chancellorsville (maggio 1863), ma non furono battaglie decisive. Allora Lee decise di invadere di nuovo il Nord, minacciando la stessa Washington. La battaglia decisiva della campagna (e con ogni probabilità dell’intera guerra) venne combattuta a Gettysburg nel luglio del 1863. L’armata della Virginia settentrionale contava in tutto circa 80.000 uomini (compresa la cavalleria di Stuart), mentre l’armata del Potomac, comandata da Meade, contava, al 30 giugno, 104.256 soldati, da cui si devono sottrarre diverse truppe non immediatamente combattenti, per cui Meade disponeva di 85/95.000 soldati.

Un rapporto di forze che favoriva non poco i difensori (ossia i nordisti), i quali, tra l’altro, occupavano un’ottima posizione che correva da Culp’s Hill fino a Little Round Top attraverso la Cresta del Cimitero che dominava il terreno circostante. Eppure, un errore del generale nordista Sickles, che spinse imprudentemente avanti il suo corpo d’armata, offrì una buona opportunità ai confederati, che dopo aver respinto il corpo di Sickles assaltarono Little Round Top e furono fermati solo dopo durissimi combattimenti. Lee si risolse quindi a lanciare un attacco contro il centro dello schieramento nemico. Si trattava di una scelta audace, che in alcune battaglie del passato aveva garantito il successo, ma sul campo di battaglia di Gettysbug, nel 1863, contro un difensore tenace, armato con fucili ad anima rigata, si rivelò disastrosa. La divisione Pickett si lanciò contro le posizioni unioniste che difendevano la Cresta del Cimitero (assalto noto come Pickett’s charge), ma subì perdite spaventose (circa il 50% degli effettivi).

Lee quindi non poté che “gettare la spugna”, anche se l’Armata sudista si ritirò in buon ordine, non inseguita da Meade, timoroso di offrire al generale sudista la possibilità di una rivincita. Ma le cifre non lasciavano dubbi sulla disfatta subita dalla Confederazione, che aveva perduto quasi 29.000 uomini, mentre l’Unione ne aveva perduti 23.049; e molti feriti sudisti erano stati presi prigionieri (in tutto i prigionieri presi dai nordisti furono 12.700)[32]. Si trattava di perdite davvero eccessive per la Confederazione. A Gettysburg si era infranto definitivamente il sogno sudista di rovesciare le sorti della guerra con una grande vittoria in campo aperto. Ma ancora più grave per il Sud era che, pochi giorni prima che le truppe di Lee ripassassero sconfitte il Potomac, la fortezza di Vicksburg era caduta, dopo un assedio di un anno, nelle mani del generale Grant.

 

Con la vittoriosa campagna nella valle del Mississippi, mentre la marina unionista bloccava le coste della Confederazione (nell’aprile del 1862 l’ammiraglio nordista Farragaut aveva preso il porto di New Orleans), Grant aveva spezzato la linea di difesa sudista nell’Ovest. Vittoriosi anche a Chattanooga (nell’autunno del 1863) i nordisti puntarono sulla città di Atlanta, che cadde nel novembre del 1864. Cominciò allora la “cavalcata” del generale Sherman, che mise a ferro e fuoco la Georgia, conquistò Savannah e Charleston, e poi risalì verso nord prendendo “alle spalle” i confederati, che, dopo essere stati sconfitti da Sheridan nella battaglia di Five Forks (aprile 1865), dovettero abbandonare la stessa Richmond. La morsa si era chiusa intorno agli uomini di Lee. La guerra terminò così ad Appomatox, il 9 aprile del 1865, allorché Lee dovette arrendersi a Grant.  All’Unione la guerra era costata circa 360.000 morti e alla Confederazione 258.000. Inoltre, la politica di Lincoln aveva trasformaato la guerra tra nordisti e sudisti in una guerra contro la schiavitù, promuovendo la democraiza e favorendo la parità dei diritti[33].

La guerra civile americana, peraltro, non passò inosservata in Europa, ma non la si studiò con l’attenzione che meritava, ritenendo, erroneamente, che i suoi insegnamenti valessero perlopiù per il continente americano (maggiore attenzione si prestò alla guerra sul mare che aveva visto l’impiego di “semisommergibili” nonché lo scontro di Hampton Roads, nel marzo del 1862, tra la corazzata sudista Merrimack e il Monitor, un “battello corazzato” nordista)[34].

 

Fondamentale però per la “forrmazione” della nazione americana fu anche la guerra contro i Pellerossa[35].

Dopo la guerra d’indipendenza, fu inevitabile che i coloni cominciassero a spingersi oltre la linea degli Appalachi, scontrandosi con i nativi, i quali però trovarono nel capo dei Miami, Piccola Tartaruga, un condottiero d’eccezione, che dopo aver teso con successo un’imboscata agli uomini del generale Harmar nel 1790, riuscì ad infliggere all’esercito degli Stati Uniti una memorabile sconfitta nella battaglia sul fiume Wabash (combattuta il 4 novembre del 1791), in cui gli Statunitensi guidati da St. Clair persero quasi mille uomini. Nondimeno, tre anni dopo i nativi commisero l’errore di attaccare le forze superiori di Anthony Wayne, presso Fallen Timbers nell’Ohio, dando modo all’esercito degli Stati Uniti di prendersi la rivincita. Si giunse così a firmare il trattato di pace di Greenwille, che segnava una linea ai demarcazione tra i territori degli Indiani e quelli degli Statunitensi. Benché gli scontri non cessassero e i coloni continuassero a varcare la “frontiera”, per alcuni decenni la situazione non degenerò, anche perché i coloni non erano moltissimi. Quando però venne scoperto l’oro in California nel 1848, la corsa all’Ovest divenne inarrestabile, minacciando l’esistenza stessa dei nativi nomadi della Grande Prateria (che adesso “faceva gola” pure ad allevatori che con i loro cow-boys, cioè “vaccari”, affluivano in numero sempre maggiore).

Tuttavia, già prima di questa data a Washington si era fatta strada l’idea di concentrare i nativi americani in un territorio ad ovest del Mississippi, ovviamente allo scopo di “civilizzarli”. Nel 1830, infatti, gli Stati Uniti avevano approvato l’Indian Removal Act, che costrinse circa 100.000 indiani a trasferirsi ad ovest del fiume Mississippi. I nativi americani costretti a migrare in condizoni terribili furono quindi decimati. Com’è logico, questa politica del governo degli Stati Uniti nei confronti dei nativi avrebbe portato a diversi scontri e a dei veri e propri massacri. Nel 1863 la tribù dei Navajo fu costretta con la forza ad abbandonare la propria terra. Il loro bestiame fu ucciso e le loro case e i loro raccolti vennero bruciati. I Navajo dovettero allora percorrere a piedi centinaia di chilometri fino ad una riserva nel Nuovo Messico, e chi rimaneva indietro (malati, vecchi e donne incinte) veniva barbaramente ucciso. Tristemente noto, del resto, è anche il massacro di Sand Creek nel novembre del 1864, in cui furono uccisi oltre 150 Cheyenne e Arapaho.

 Fu dopo la fine della guerra civile comunque che si decise la “soluzione finale” della questione dei nativi americani. Lo straordinario sviluppo delle ferrovie che si ebbe dopo la guerra nei territori dell’Ovest (la ferrovia transcontinentale fu completata nel 1869) favorì l’arrivo di nuovi coloni, compresi agricoltori stanziali e avventurieri d’ogni risma, e indusse i responsabili delle Compagnie delle ferrovie ad organizzare la caccia al bisonte, onde ricavarne della carne alimentare. Ma con la ferrovia arrivarono pure le truppe comandate dal generale Sheridan, che aveva preconizzato e condotto la guerra totale nel Sud.

Secondo Sheridan, infatti, era necessario incendiare i raccolti, demolire le case e distruggere le risorse del Paese nemico, per affamare donne e bambini, costringendo così i nemici ad arrendersi[36]. Pertanto, Sheridan decise di applicare lo stesso “metodo” contro i Pellerossa, sterminando i bisonti per ridurre i “musi rossi” alla fame e alla resa. Come se non bastasse furono scoperti dei giacimenti d’oro nelle Colline Nere, ubicate al confine tra il Wyoming e il Dakota, ossia nel territorio dei Sioux, i quali non erano disposti a cedere quest’area agli Stati Uniti, dacché ritenevano che fosse una “terra sacra”. Contro i Sioux venne quindi intrapresa una campagna militare che prevedeva la distruzione dei loro villaggi.

 

La colonna comandata dal generale George Crook, che contava circa un migliaio di uomini, fu attaccata di sorpresa presso Rosebud Creek (17 giugno 1876) da circa 700 Indiani guidati da Cavallo Pazzo, che, sfruttando abilmente il terreno e lanciando improvvise cariche di cavalleria, obbligò gli uomini di Crook (il quale nel 1872 aveva sconfitto gli Apache) a tornare alla propria base. Dopo questa vittoria, il grande accampamento indiano (che comprendeva, oltre ai Lakota Sioux, Cheyenne e Arapaho) venne spostato sulle rive del Little Big Horn, per contrastare un’altra colonna, dalla quale si era distaccato il cavalleria del tenente colonnello Custer[37], il cui compito consisteva nell’attaccare l’accampamento indiano da sud, mentre il resto della colonna, comandata dal generale Terry, doveva attaccare da nord.

Custer, nel 1868, si era già “distinto” con il 7° cavalleria nell’assalto contro il pacifico villaggio dei Cheyenne di Pentola Nera, massacrando un centinaio di Indiani, mentre la banda militare del suonava Garry Owen[38]. Volendo ripetere il “successo” contro Pentola Nera, Custer divise la sua colonna in quattro sezioni, dando l’ordine d’attacco senza aspettare l’arrivo di Terry. Questa volta aveva però fatto male i suoi conti e i Pellerossa guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto annientarono la colonna di Custer. D’ora in avanti l’esercito statunitense non avrebbe più commesso l’errore di sottovalutare gli Indiani e avrebbe impiegato mitragliatrici e artiglieria. I coraggiosi Sioux cercarono ancora di resistere, ma il primo maggio del 1877 Cavallo Pazzo con i suoi guerrieri fu costretto ad arrendersi alla soverchiante potenza di fuoco degli Statunitensi.

La guerra contro i Pellerossa però non era terminata, giacché non era ancora stato sconfitto Giuseppe, il leggendario capo dei Nez Percés (Nasi Forati), nelle cui terre erano stati scoperti dei giacimenti d’oro, di cui ovviamente gli Statunitensi volevano impadronirsi. Giuseppe riuscì a tenere testa agli Statunitensi, infliggendo loro anche cocenti sconfitte, ma neppure Giuseppe e i suoi valorosi guerrieri poterono sottrarre il proprio popolo alla sorte già toccata agli altri nativi. Varcate le rive del Missouri per dirigersi in Canada, che distava ormai solo 50 chilometri, i guerrieri indiani si trovarono la strada sbarrata dall’esercito degli Stati Uniti e Giuseppe, per evitare una strage, il 5 ottobre del 1877, preferì arrendersi al colonnello Miles insieme con i suoi 79 guerrieri, metà dei quali feriti. Ma ci erano voluti 2.000 soldati per aver ragione degli Indiani di Giuseppe, i quali, solo nell’ultima battaglia, causarono ai loro nemici 266 perdite. Nel 1886 venne catturato anche il capo degli Apache, Geronimo. La conquista dell’Ovest da parte degli Stati Uniti adesso si poteva ritenere davvero terminate

Le guerre indiane conobbero però un altro tragico episodio, allorché (il 29 dicembre 1890), nella valle del torrente Wounded Knee, i soldati del 7° cavalleria massacrarono circa 300 Sioux, inclusi donne e bambini, che dopo l’assassinio di Toro Seduto (il 15 dicembre del 1890) si stavano dirigendo (guidati da Piede Grosso) verso Pine Ridge, per mettersi sotto la protezione di Nuvola Rossa. In definitiva, benché anche alcolismo e corruzione avessero contribuito ad indebolire i popoli della Grande Prateria, la sconfitta dei Pellerossa fu possibile essenzialmente perché non presentarono un fronte unito e compatto contro gli invasori e ovviamente per la superiorità materiale e tecnica dell’esercito statunitense. All’inizio del XIX secolo si calcola che i nativi americani negli Stati Uniti fossero 600.000 ma alla fine del 1800 erano circa 237.000[39].

 

 D’altro canto, non si deve nemmeno trascurare che perfino il Sud venne ridotto ad uno stato “semicoloniale”, tanto che nel 1900 produceva solo il 10% della ricchezza nazionale. Di fatto, il Sud divenne «mercato obbligato di sbocco per la produzione industriale del Nord (in seguito alla tariffa di protezione)»[40] e venne imposta pure una fortissima tassa sul cotone, mentre i negri venivano aizzati contro i vinti da demagoghi sudisti, alleatisi con speculatori settentrionali, che avevano preso il posto delle élites locali. Tutto ciò, oltre a suscitare un forte risentimento verso il Nord, portò alla formazione di società segrete (tra cui il Ku-Klux-Klan), che avrebbero inciso profondamente sulla storia politica e sociale degli Stati Uniti.

Con la fine della guerra di secessione non si vennero a creare però solo le condizioni che mutarono la struttura sociale del Sud e che segnarono il destino degli Indiani, ma l’intero Paese nordamericano si trasformò ancor più rapidamente di quanto si fosse verificato nei decenni precedenti, tanto più che la guerra aveva dato forte impulso all’industria statunitense aprendo la strada ai magnati delle ferrovie (Vanderbilt) e del petrolio (Rockefeller). Del resto, se da un lato, il “mito americano” attirava un numero sempre maggiore di immigrati, che venivano assimilati piuttosto rapidamente da un Paese in espansione e continua crescita, dall’altro, era inevitabile che la “macchina” che si era messa in moto contro i Pellerossa non si fermasse sulle sponde del Pacifico. Forse che non erano state le “navi nere” del commodoro americano Matthew Perry nel 1853, cioè assai prima della guerra civile americana, ad obbligare il Giappone ad “aprirsi” al mercato e all’Occidente, dopo oltre 250 anni di “isolamento”?

 

Certo, dall’inizio del XX secolo le potenze straniere, Inghilterra in testa, premevano in questo senso. Ma senza successo, al contrario degli Americani. Lo shock in Giappone fu enorme, e l’ondata di xenofobia prevedibile, soprattutto quando arrivò (nel 1856) il primo ambasciatore occidentale, l’americano Townsend Harris. In questi secoli di “isolamento” dal resto del mondo comunque il Giappone non era rimasto immobile e i progressi del Paese risalivano almeno al XVIII secolo: «Si verificò allora un aumento della popolazione, un grande aumento della produzione di riso, l’impianto di nuove colture [...] Le città si ingrandirono. Nel secolo XVIII Yedo contava almeno un milione di abitanti»[41].

In effetti, il Giappone feudale era già sulla “via del tramonto” quando apparvero le navi americane, e l’era dei Meiji sarebbe incomprensibile senza la storia giapponese dei secoli precedenti. Il giovane imperatore Meiji Temno nel 1868 quindi prese in mano le redini del potere e trasferì la capitale a Tokyo (1869). La ribellione dei Tokugawa venne soffocata e nel 1871 il feudalesimo fu abolito ufficialmente. Un anno dopo vennero resi obbligatori l’istruzione e il servizio militare. Nel 1877 venne domata l’ultima ribellione dei samurai, guidati dal “leggendario” Saigo Takamori, e il Giappone, che contava più di 50 milioni di abitanti, cominciò a modernizzarsi velocemente, cercando di conciliare “tradizione” e occidentalizzazione, benché in un’ottica imperialistica e militaristica. Anche sotto questo aspetto, le “navi nere” del commodoro Perry “avevano fatto scuola”.

Mutava così la mappa geopolitica mondiale, sebbene fosse sempre caratterizzata dal colonialismo, ragion per cui la crescente rivalità tra potenze rese ancora più complicato il sistema delle relazioni internazionali. Né si deve dimenticare che nell’Ottocento si manifestarono anche periodiche crisi di sovrapproduzione che divennero più frequenti a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Come sostengono Clough e Rapp, «il “neoimperialismo” del periodo 1874-1915 fu motivato […] da una […] mistura di nazionalismo e di volontà di espansione, e diventò particolarmente virulento durante la “grande depressione” del 1873- 1896»[42].

 

Difatti, nel maggio 1873 si verificò la crisi finanziaria della borsa di Vienna che si propagò velocemente nei Paesi europei e negli Stati Uniti. La crisi finanziaria naturalmente ebbe forti ripercussioni sull’economia reale, specialmente nel settore industriale e ferroviario, e vari Paesi adottarono il gold standard nel tentativo di stabilizzare la moneta e di frenare l’inflazione e la speculazione. D’altronde, fu proprio nella seconda metà del XIX secolo che si verificò la seconda rivoluzione industriale, contraddistinta da uno stretto rapporto tra scienza, tecnologia e industria, e che portò a numerose invenzioni e scoperte, al predominio dell’industria metalmeccanica e all’enorme sviluppo delle comunicazioni (ferrovie e trasporti in generale, compreso il telegrafo, usato in campo militare già nella guerra di Crimea). Pur rimanendo ancora essenziali il ferro e il carbone, cominciò allora l’età del petrolio, dell’elettricità, della chimica e dell’acciaio549, e si crearono le condizioni per un’eccezionale espansione del mondo degli affari e della finanza internazionale, dato che i movimenti di capitale, che erano favoriti dalle innovazioni tecnologiche, trovavano nel credito industriale ottime opportunità d’investimento.

In questo medesimo torno di tempo si assisté quindi ad una fortissima concentrazione del capitale con la formazione di trusts (fusione di società o industrie) e cartelli (accordi di mercato tra imprese), e ad una compenetrazione tra banche e industrie che promuoveva uno sviluppo capitalistico che non si poteva più limitare all’ambito nazionale (gli investimenti inglesi all’estero dal 1862 al 1893 aumentarono di oltre dieci volte)[43]. Pertanto, mentre la “razionalizzazione” delle tecniche di produzione e dei ritmi di lavoro avrebbe condotto, all’inizio del Novecento, all’adozione del cosiddetto “sistema fordista” (attuato a partire dal 1913 da Henry Ford nella sua fabbrica di automobili e che si basava su un tipo di produzione “a catena” ideato da Frederick W. Taylor), si era andata pure formando una eccedenza di capitale e di risorse finanziarie che necessitava di nuovi mercati, dando così avvio a una nuova fase imperialistica incentrata sull’assoggettamento politico ed economico dei Paesi più deboli.

 

È opportuno dunque tener presente che si trattava sempre di mutamenti concernenti sia i rapporti sociali di produzione sia gli equilibri geopolitici mondiali, perciò sarebbe errato interpretare questo complesso processo di trasformazione in un’ottica economicistica. Quel che invece si deve evidenziare è che già alla fine dell’Ottocento i fattori economici veicolavano” precise “strategie di potenza”, ossia erano espressione di differenti centri di potenza sia pure ancora in formazione. Come sintetizza efficacemente La Grassa, «ogni crisi capitalistica presenta sempre, nel suo primo manifestarsi, l’aspetto finanziario che investe le borse valori, il sistema bancario, ecc.; a volte con il crollo violento e improvviso. Poi però, in un più lungo lasso di tempo, si vanno manifestando le disfunzioni nei vari mercati, ivi compreso quello della forza lavoro (le cui conseguenze sociali diventano particolarmente gravi e avvertite dalla massa della popolazione). E lo sconvolgimento dei mercati presenta gli aspetti della caduta della domanda complessiva: degli investimenti (con crisi industriale) e dei consumi per perdita di salari [...] Infine, si presenta quella che, per i liberisti (i più ingenui e rozzi “economicisti”), è una “eccezione” legata al comportamento “irrazionale” degli umani: il regolamento di conti bellico»[44]. Si può comprendere allora perché l’imperialismo abbia contraddistinto in questo periodo la politica delle potenze europee e non, benché fosse l’impero coloniale della Gran Bretagna a registrare la maggiore espansione (un impero che contava quasi 400 milioni di abitanti alla vigilia della Grande guerra).

 

Fu appunto in questi anni che avvenne la spartizone dell’Africa e dell’Asia. In Africa si assisté alla rapida espansione dei domini coloniali della Gran Bretagna. Gli Inglesi, dopo essersi assicurati il controllo dell’Egitto (ovvero dopo l’acquisto di circa la metà delle azioni del Canale di Suez), penetrarono nel Sudan, ove però dovettero combattere un duro conflitto con i dervisci, i quali, guidati dal “Mahdi”, sconfissero un esercito anglo-egiziano a El Obeid (1883) e successivamente riuscirono perfino ad assediare e sconfiggere le truppe anglo-egiziane a Khartoum (la città cadde nel 1885 e la guarnigione anglo-egiziana venne massacrata). Il regime mahadista venne abbattuto solo dopo la vittoria di Omdurman, nel settembre del 1898, quando 25.000 soldati anglo-egiziani, armati con fucili rigati, 44 cannoni e 20 mitragliatrici Maxim, e supportati da dieci cannoniere, fecero a pezzi l’esercito mahdista che pure contava 60.000 uomini (l’esercito mahadista subì perdite spaventose, quasi 10.000 morti e oltre 16.000 feriti, contro meno di 50 morti e circa 400 feriti anglo-egiziani).

Il dominio inglese si estese anche alla Somalia e alla Nigeria, mentre nel 1874 la Costa d’Oro (l’odierno Ghana) fu dichiarata colonia britannica. Diverse invece furono le vicende riguardanti il Sudafrica. Presa dagli Inglesi la Colonia del Capo nel 1815, i Boeri furono respinti verso il Natal, in cui diedero vita a due distinte repubbliche, quella dell’Orange e quella del Transvaal (che nel 1870 contavano rispettivamente 30.000 e 40.000 bianchi contro i quasi 250.000 coloni del Capo)[45], riducendo ulteriormente le terre appartenenti agli indigeni, in gran parte ridotti in schiavitù. La grave crisi finanziaria che attraversava la repubblica del Transvaal non consentiva però ai Boeri di far fronte alla forte e pericolosa pressione degli Zulu.

Agli Inglesi si presentò allora la possibilità di annettere questa repubblica con il pretesto di difenderla dagli aggressivi guerrieri africani[46]. Ma la guerra con gli Zulu non fu facile, dato che erano eccellenti guerrieri, con un forte senso della disciplina. La tattica che preferivano in battaglia (denominata impi) consisteva nel far procedere il centro più lentamente delle ali, affinché queste ultime potessero avvolgere lo schieramento avversario. Ad Isandhlwana, nel 1879, gli Zulu travolsero un accampamento inglese (1.329 soldati del contingente coloniale inglese vennero uccisi dai guerrieri africani, che avevano tratto in inganno gli Inglesi occultando il grosso delle proprie forze). Solo con il ricorso ad una massiccia potenza di fuoco gli Inglesi ebbero ragione degli Zulu, sconfiggendoli nella battaglia di Ulundi, presso il fiume White Umvolosi.

 

Dopo la guerra con gli Zulu, nei territori dei Boeri vennero scoperti dei giacimenti d’oro e di diamanti, il che indusse gli Inglesi ad acquistare un protettorato a nord delle repubbliche boere, amministrato dal governatore del Capo, Cecil Rhodes, il quale fece il possibile per impadronirsi di tali ricchezze, fino ad organizzare il raid di Jameson per provocare una guerra con i Boeri (il Transvaal era tornato ai Boeri dopo che questi ultimi avevano sconfitto gli Inglesi nella battaglia di Majuba Hill nel 1881). I Boeri passarono però subito all’offensiva, ponendo l’assedio a Mafeking, Kimberley, Ladysmith. Invero i Boeri in questa guerra si sarebbero dimostrati abilissimi tiratori (erano armati con l’ottimo fucile Mauser), profondi conoscitori del territorio in cui combattevano e ottimi cavalieri, tanto da sopraffare gli Inglesi a Colenso (1899) e a Spion Kop (ove un esercito di quasi 30.000 soldati inglesi fu respinto da un’armata boera di 6/8.000 uomini).

Di conseguenza, gli Inglesi dovettero far affluire numerosi rinforzi (in tutto impiegarono oltre 200.000 soldati), per liberare le città assediate e sconfiggere i Boeri a Diamond Hill (giugno 1900). Il presidente del Transvaal, Krüger, dopo che i soldati inglesi ebbero preso Pretoria (giugno 1900), chiese aiuto alla Germania, ai Paesi Bassi e alla Francia, ma senza alcun esito. I Boeri ricorsero allora alla guerriglia, guidati da un capo di genio, Christian de Wet, e furono in grado di resistere altri due anni, applicando fino all’estremo limite il principio della nazione in armi. Per debellare la resistenza dei Boeri, lord Kirtchner fece distruggere le fattorie e internare la popolazione civile nei campi di concentramento (in cui morirono circa 20.000 donne e bambini). Nel frattempo il Paese venne diviso in diversi settori, e ciascuno di essi venne “battuto” palmo a palmo dagli Inglesi, finché i Boeri, giunti allo stremo delle loro forze, dovettero arrendersi (1902).

 

Anche i domini coloniali francesi conobbero una forte espansione in Africa. Del resto, la Francia occupava l’Algeria già dal 1830. Occupare però non è sinonimo di “controllare”. La politica d’intesa con i capi locali fu un fallimento e all’interno del Paese regnava l’anarchia. I Francesi reagirono usando il “pugno di ferro”: distrussero uliveti, razziarono raccolti e bestiame, espropriarono terre per i coloni. La battaglia presso il fiume Isly (1844), nelMarocco orientale sembrò mettere fine alla resistenza algerina e dare ai Francesi la possibilità di attuare una politica di “pacificazione”. Ma il fuoco della rivolta non si spense del tutto e dopo la sconfitta contro la Prussia nel 1870 la ribellione divampò ancora e ci volle parecchio tempo per domarla, ma non fu mai soffocata del tutto. Nel frattempo, la Francia muovendo dal Senegal e dalla Costa d’Avorio, estese i suoi possedimenti verso l’interno del continente africano. L’occupazione dell’Algeria permise poi ai Francesi di penetrare in Tunisia (1881) e di approfittare della debolezza dell’esercito marocchino, sconfitto dalla Spagna a Tetuan e Gueldras (1860), per inglobare anche il Marocco nel proprio impero coloniale (1912)[47].

Oltre alla già menzionata politica coloniale tedesca nell’ultima fase del cancellierato di Bismarck, occorre ricordare anche la politica coloniale dell’Italia e del Belgio, dacché anche questi Paesi parteciparono alla spartizione di quel che rimaneva del libero del territorio africano. L’impresa coloniale italiana parve cominciare bene con l’acquisto della baia di Assab, nel Mar Rosso, e l’occupazione di Massaua, ma la penetrazione verso l’interno si rivelò ben più ardua e una colonna di 500 soldati italiani venne massacrata a Dogali (1887). Reclutando ascari e sfruttando le rivalità tra gli indigeni, gli Italiani riuscirono comunque a fondare la colonia d’Eritrea e con gli Etiopi venne firmato il trattato di Uccialli, che secondo gli Italiani avrebbe dovuto comportare un protettorato italiano sull’intero Paese.

Tuttavia, gli Etiopi interpretavano il trattato in modo assai diverso, ragion per cui le ostilità non poterono che riprendere. Gli Italiani, pur respingendo ad Agordat i mahadisti, che dal Sudan si infiltravano in Eritrea, furono sopraffatti dagli Etiopi ad Amba Alagi e poi massacrati ad Adua. Qui 17.500 soldati al comando di Baratieri, senza alcuna conoscenza della zona né alcuna ricognizione, avanzarono suddivisi in tre colonne (che non si “sostenevano” reciprocamente) contro l’esercito di Menelik, molto più numeroso (60.000 guerrieri, forse addirittura 80/100.000), che disponevano di numerose armi da fuoco. Le perdite furono enormi: 6.000 morti (di cui 1.000 ascari), 1.500 feriti, 2.700 prigionieri; persa pure tutta l’artiglieria[48]. L’Italia, umiliata, firmò il trattato di Addis Abeba con cui riconobbe l’indipendenza dell’Etiopia (1896. D’altro canto, anche la conquista italiana della Libia fu possibile per le gravi difficoltà nei Balcani che doveva affrontare l’impero ottomano. Il cosiddetto “scatolone di sabbia” (conquistato oltre a Rodi e ad altre isole dell’Egeo nel 1912), non lo si poté nemmeno “pacificare” facilmente, tanto che nel settembre del 1915 (ossia dopo la disfatta di Gasr bu Hàdi nell’aprile 1915, in cui caddero 256 soldati italiani e 242 ascari) il dominio italiano in Libia si sarebbe ridotto a pochi lembi costieri[49].

La vicenda del Congo belga rileva invece per motivi differenti. Infatti, Carl Schmitt considera come ultimo grande atto dello jus publicum europaeum il Congresso di Berlino (1884-85) che trattò la questione del Congo belga. Le Disposizioni sul Congo vengono definite da Schmitt «l’ultimo singolare documento di una fede ininterrotta nella civiltà, nel progresso e nel libero scambio, e della pretesa - che su tale fede si basava - alla libera occupazione da parte europea del suolo aperto del continente africano»[50]. Questa fase dello jus publicum europaeum era certamente improntata a concezioni universalistiche, ma come nota Schmitt «con il termine umanità si intendeva innanzitutto l’umanità europea, con civiltà ovviamente solo la civiltà europea e il progresso era l’evoluzione lineare di questa civiltà»[51]. Al Congresso di Berlino erano presenti anche gli Stati Uniti, ossia una potenza extraeuropea, segno questo della crisi dell’eurocentrismo, che secondo Schmitt si verificò nella seconda metà del XIX secolo, con la progressiva espansione dell’economia mondiale e con accordi internazionali positivistici (come le conferenze dell’Aja del 1899 e del 1907), che venivano a sostituire un ordinamento di tipo “spaziale”.

 

Invero, una volta conquistato l’Ovest, consolidato il dominio sulla Grande Prateria, a scapito dei Pellerossa, e riordinato il Paese in funzione degli interessi del Nord, l’“isolazionismo” diffcielmente poteva essere la caratteristica della politica estera della élite dominante statunitense. Si decise allora di formare una marina oceanica anche per influenza della concezione sostenuta da Alfred T. Mahan, che metteva in risalto i vantaggi che potevano derivare dal dominio dei mari. Come scrive Santoni «la prima avanzata americana sugli oceani si ebbe con l’acquisizione dell’arcipelago delle Hawaii nel Pacifico, dove nel 1893 erano avvenuti alcuni moti di piazza, sostenuti dai più influenti proprietari terrieri legati agli Stati Uniti e protetti dal drappello dei marines dell’incrociatore corazzato Boston, che portarono alla caduta della monarchia e alla proclamazione della repubblica»[52].

 Le Hawaii furono però annesse agli Stati Uniti solo nel 1898, allorché gli Americani erano impegnati in una guerra contro la Spagna, ossia in una ulteriore avanzata su entrambi gli oceani. Da tempo Washington appoggiava una rivolta a Portorico e a Cuba contro gli Spagnoli, ma l’occasione per intervenire direttamente si presentò allorché la corazzata statunitense Maine, che si trovava all’Avana allo scopo di difendere i cittadini americani presenti nella città cubana, affondò per una esplosione dovuta a una combustione spontanea delle polveri. Washington accusò subito gli Spagnoli di aver compiuto un atto di sabotaggio, e non passò molto tempo prima che la Spagna si trovasse coinvolta in una guerra contro il potente Stato nordamericano. La flotta spagnola era quantitativamente e qualitativamente inferiore a quella statunitense, cosicché aveva ben poche probabilità di uscire vittoriosa da uno scontro con quella degli Usa.

La flotta statunitense del Pacifico, infatti, distrusse la squadra navale spagnola delle Filippine e in seguito gli Americani presero Guam e occuparono Manila. Le Filippine divennero quindi un dominio degli Usa, ma la battaglia principale si combatté a Cuba, ove la flotta statunitense dell’Atlantico riuscì ad imbottigliare nel porto di Santiago un’altra squadra navale spagnola, mentre 16.000 soldati Americani tentavano, senza grande successo, di superare la reistenza dei 9.000 uomini del generale Linares. Le navi spagnole cercarono allora di forzare il blocco, ma la superiore potenza di fuoco delle navi americane le costrinse ad arenarsi. Ai difensori di Santiago non rimase quindi altra scelta che arrendersi. Cuba fu riconosciuta formalmente indipendente (dicembre 1898), ma in realtà diventò un protettorato degli Usa, che conservarono pure l’importante base di Guantánamo.

Pochi anni dopo la fine della guerra contro la Spagna, gli Usa sostennero un movimento separatista in Colombia, creando così lo “Stato vassallo” di Panama (1903) che dovette concedere agli Statunitensi una striscia di territorio, in cui venne scavato l’omonimo canale, onde permettere il rapido passaggio delle navi da un oceano all’altro. Di fatto, gli Usa emergevano dalla guerra contro la Spagna come una grande potenza che interpretava la dottrina Monroe in chiave imperialistica, riducendo un intero continente a quello che gli Statunitensi consideravano il loro “cortile di casa”. Ma con la guerra contro la Spagna gli Usa si erano assicurati pure una serie di basi nell’Oceano Pacifico, necessarie per raggiungere l’importante “mercato cinese”. Anche in Asia ormai era l’imperialismo che “dettava legge”, benché anche in questa parte del pianeta la potenza dominante fosse ancora, nonostante tutto, la Gran Bretagna.

 

L’equilibrio (relativo) creatosi in Europa dopo il 1815 aveva dato all’Inghilterra la possibilità di concentrare l’attenzione sul consolidamento e l’estensione del proprio impero anche in Oriente, a partire dal gioiello più prezioso della corona inglese, ovvero l’India. Dopo la definitiva sconfitta nel 1818 dei Maharatti, gli Inglesi cominciarono ad estendere i proprio dominio su tutto il subcontinente indiano, in cui era rimasta un’unica potenza in grado di opporsi agli Inglesi, quella dei Sikh che furono sconfitti in due guerre nella metà dell’Ottocento, alla fine delle quali i guerrieri Sikh vennero incorporati nell’esercito britannico. Ancora prima di questi conflitti, la rivalità con la Russia, che cercava di estendere la sua influenza nella regione, condusse alla prima guerra anglo-afghana (1839-42), finita con uno scacco cocente per gli Inglesi. L’esercito britannico occupò facilmente i centri principali del Paese, però la capacità di resistenza e la determinazione degli Afghani vennero sottovalutate e una rivolta scoppiata a Kabul si rivelò impossibile da domare, costringendo gli Inglesi a ritirarsi verso l’India. La colonna di circa 4.000 soldati inglesi e indiani, che marciavano insieme con 12.000 civili, venne continuamente attaccata dagli Afghani, mentre si dirigeva verso Jalalabad, e pressoché annientata presso Gandamack. Diverso fu l’esito della seconda guerra anglo-afghana. Sempre allo scopo di frustrare il tentativo della Russia di inserirsi nel “grande gioco” in Asia centrale, gli Inglesi intervennero nel 1879 in Afghanistan, questa volta ottenendo pieno successo. Con l’accordo anglo-russo del 1887 l’Afghanistan diventò un “semiprotettorato” britannico (ma nel 1919 sarebbe scoppiata un’altra rivolta, che costrinse la Gran Bretagna a riconoscere l’indipendenza del Paese).

Anche in India, nel 1857, gli Inglesi avevano dovuto fronteggiare una rivolta o meglio un ammutinamento di soldati indiani (noto come la rivolta dei sepoys) che fu represso con ferocia e portò a una riorganizzazione dell’esercito coloniale britannico (in seguito a questi fatti la Compagnia delle Indie orientali vide ridursi il suo potere e successivamente venne sciolta). Anche se gli Inglesi avevano tratto notevole vantaggio dalla decadenza delle tradizioni e dei costumi indù, era logico che la politica coloniale inglese, basata sulla modernizzazione (ferrovie, telegrafo ecc.), generasse tensioni che, oltre a causare l’ammutinamento dei sepoys, con il passare del tempo avrebbero favorito anche in India la nascita di unacoscienza politica nazionale”. Degno di nota è l’effetto disastroso che comportò la difesa da parte dell’amministrazione inglese delle “leggi di mercato” in relazione alle terribili carestie del 1876-79 e del 1896-1902, poiché si ritiene che abbiano causato la morte di decine di milioni di Indiani (la prima 6,1/10,3 milioni, la seconda 6,1/19 milioni)[53], in quanto le comunità di villaggio dell’India erano state completamente sconvolte dall’occupazione inglese fondata sui principi del “libero mercato”[54]. Ma che la politica coloniale britannica fosse senza scrupoli, allorché vi erano in gioco interessi politici ed economici di primaria importanza, lo prova la guerra dell’oppio scoppiata nel 1839.

 

La Cina all’inizio dell’Ottocento non era più una grande potenza in grado di resistere ad un’aggressione europea, anche se i Cinesi parevano non esserne consapevoli fintanto che non furono obbligati a scontrarsi con gli Inglesi. Lo scontro dipese dal fatto che l’Inghilterra doveva far fronte ad un grave deficit della propria bilancia commerciale, dato che la Compagnia britannica delle Indie orientali importava dalla Cina tè, seta e porcellane. Perciò, allo scopo di annullare il deficit commerciale che tale traffico creava, gli Inglesi cominciarono ad esportare in Cina grandi quantità d’oppio. Pechino in ogni modo cercò di impedire l’importazione della droga e il vizio del fumo d’oppio, non solo per i suoi effetti nocivi, ma anche perché tale “libero commercio” comportava per la Cina una gravissima emorragia di argento. Vi furono anche trattative diplomatiche, ma tutto fu inutile, e la Cina si trovò in guerra con la Gran Bretagna.

Gli Inglesi, fatti giungere dei rinforzi dall’India, conquistarono Shanghai e risalirono lo Yangzi, costringendo l’imperatore cinese ad accettare le loro condizioni con il trattato di Nanchino (1842). Ormai la Cina era il “grande malato” dell’Asia, tanto più che la prima guerra dell’oppio favorì la cosiddetta “rivolta dei Taiping” (la cui ideologia presentava le caratteristiche del ribellismo contadino, ma anche una concezione militaristica della società), che nel 1853 occuparono Nanchino e la elessero a capitale del loro regno. Infine, gli inglesi con la seconda guerra dell’oppio (1856-1860), causata dal tentativo cinese di mettere fine al commercio dell’oppio, presero addirittura Pechino e imposero nuovemente alla Cina dei trattati ineguali[55].

 

Del resto, era sempre l’Inghilterra a svolgere il ruolo di potenza principale anche in Asia, grazie al controllo dei traffici marittimi che si estendevano dal Golfo del Bengala fino ad Hong-Kong, passando per Singapore. Nel 1893 l’Inghilterra occupò completamente la Birmania, dopo che la Francia (nel 1884) aveva annesso il Tonchino (parte settentrionale del Vietnam), che venne aggiunto alla Cocincina (Vietnam meridionale) e alla Cambogia che la Francia possedeva fin dal 1863. Nel 1893 alla colonia francese dell’Indocina venne aggiunto pure il Laos. Rimase indipendente solo il Siam (odierna Thailandia), che nella seconda metà del Settecento era intervenuto nella guerra civile che infuriava nel Vietnam, inviando nel delta del Mekong un esercito di 20/50.000 uomini, che fu distrutto in una imboscata da un esercito vietnamita comandato da Nguyen Hue.

Nel 1789 erano stati invece i Cinesi a invadere il Vietnam e ad occupare Thang Long (Hanoi), per appoggiare la dinastia Le. Ma i Vietnamiti si rivelarono avversari assai “ostici” anche per i Manciù. Nguyen Hue (diventato l’imperatore Qang Trung) sferrò un attacco notturno proprio durante il capodanno lunare (il Tet), violando la santità di una festa osservata sia dai Vietnamiti che dai Cinesi, i quali, colti di sorpresa, subirono una vera e propria disfatta, tanto che dovettero rinunciare a fare del Vietnam un loro protettorato. Nguyen Hue morì a causa di una malattia solo tre anni dopo (1792). Nel caos che ne seguì Nguyen Anh (ossia l’imperatore Gia Long), con l’aiuto dei Francesi si impose ai suoi avversari e riunificò il Paese. Fu proprio Nguyen Anh a spostare la capitale a Hué (1802) e a fondare la dinastia Nguyen, che sarebbe durata fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. Anche in Vietnam, tuttavia, la persecuzione del cristianesimo negli anni seguenti fornì il pretesto per un intervento militare dei Francesi che, anche grazie alla loro superiore potenza di fuoco, poterono, nel giro di qualche decennio, occupare tutto il Paese. Ma lo spirito d’indipendenza del popolo vietnamita era stato solo “represso” non certo annientato.

Peraltro, al “grande gioco” che si svolgeva in quest’area del mondo adesso era in grado di partecipare anche il Giappone. I Giapponesi avevano creato nel giro di pochissimo tempo un forte esercito e una forte marina. Il Giappone, difatti, intendeva estendere il proprio dominio sulla Corea, una costante della politica di potenza giapponese e un motivo di continuo attrito con la Cina, che non era mai stata così debole come adesso. Un esercito cinese di 12.000 soldati, equipaggiati con armi antiquate, fu distrutto da 14.000 Giapponesi presso Pyongyang il 16 settembre 1894, mentre il giorno dopo anche la flotta cinese, che soffriva di gravi deficienze tecniche e logistiche subì una disfatta sul fiume Yalu.

Questa vittoria diede ai Giapponesi la possibilità di occupare la penisola del Liatong, ove si trovava Port Arthur e di porre l’assedio alla base di Wei-hai-Wei, nello Shantung, contro la quale all’inizio del 1895 lanciarono una serie di attacchi con le torpediniere, che inflissero notevoli danni alla squadra cinese. La Cina dovette riconoscere la propria sconfitta, anche se il Giappone si vide costretto a rinunciare a gran parte dei frutti della sua vittoria per l’ostilità della Germania, della Francia e soprattutto della Russia, che dalla Cina, oltre ad ottenere concessioni ferroviarie in Manciuria, si fece concedere in affitto per 25 anni la base di Port Arthur. In Cina allora scoppiò la rivolta xenofoba dei Boxer che condusse all’intervento delle potenze straniere che occuparono Pechino e imposero alla Cina il pagamento di un’enorme indennità (eventi che prepararono il terreno per la fine della dinastia Manciù e le guerre civili che ne seguirono). Il Giappone invece uscì da questo conflitto con la Cina umiliato ma deciso a prendersi una rivincita.

 

In Russia proprio allora il ministro Vitte aveva avviato una serie di riforme per modernizzare il Paese, anche se le condizioni del proletariato russo erano tra le peggiori d’Europa. Sempre più numerosi erano coloro che erano convinti della necessità di un mutamento radicale e vi era chi riteneva opportuno passare direttamente dalla comunità di villaggio (il mir) al socialismo, senza cioè che fosse necessaria la fase intermedia del capitalismo borghese, attirandosi di conseguenza le critiche di chi come Plechanov, puntava tutto sulla forza rivoluzionaria di una classe operaia. si trattava solo di ragionamenti astratti, dato che a Pietroburgo si svolgeva già l’azione di Lenin e nel 1898 venne fondato a Minsk il partito socialdemocratico, mentre nel 1902 nasceva il partito socialista rivoluzionario, che considerava i contadini la vera forza rivoluzionaria del Paese. Nel frattempo, una carestia e la recessione per l’esiguità del mercato interno accentuarono il malcontento delle masse. La situazione interna, insomma, era incandescente, mentre quella internazionale pareva promettente per la Russia dello zar.

Nonostante la rivalità con l’Inghilterra in Asia centrale, l’alleanza con la Francia nel 1892 (la cosiddetta “Duplice Intesa”) proteggeva la Russia da un attacco tedesco e le consentiva di svolgere una politica aggressiva ad est, che avrebbe dovuto rafforzare il regime dello zar con una “facile vittoria” contro i Giapponesi. Un calcolo politico che, oltre a non tenere nella giusta considerazione le difficoltà logistiche che avrebbe comportato una guerra in Estremo Oriente, trascurava l’efficienza militare raggiunta dal Giappone, tanto che furono proprio i Giapponesi (con cui Londra nel 1902 aveva scelto di allearsi, onde contrastare l’espansionismo russo in Estremo Oriente, mettendo così fine al suo cosiddetto “splendido isolamento”) a prendere l’iniziativa (senza dichiarazione di guerra), attaccando la base di Port Arthur e sbarcando in Corea  (febbraio 1904).

La I armata giapponese avanzò verso il fiume Yalu e proseguì verso la Manciuria. Nel frattempo il tentativo di imbottigliare la flotta russa a Port Arthur ebbe scarso successo. L’ammiraglio Togo decise comunque di rischiare, comunicando che la base russa era bloccata (il che non era vero), e nella penisola di Liaotung sbarcò la II armata giapponese. L’ammiraglio giapponese aveva giocato d’azzardo, ma i fatti gli diedero ragione. Sconfitte le truppe russe nella battaglia di Nanshan (fine maggio), i Giapponesi si diressero verso la base di Port Arthur, difesa da circa 45.000 soldati russi[56]. Una volta isolata la base russa con la III armata, la II armata giapponese respinse il I corpo siberiano, accorso in aiuto alla base assediata, mentre il mese seguente fallì pure un tentativo russo di riprendere il passo di Mo-tien presidiato dalla I armata nipponica. Ora vi era davvero il pericolo che la flotta russa rimanesse intrappolata a Port Arthur, perciò venne deciso di trasferirla a Vladivostok, da dove i Russi attaccavano il traffico nipponico. L’operazione (agosto 1904) si risolse in un totale fallimento: alcune navi russe si fecero internare in porti neutrali, un incrociatore dovette gettarsi in secca e le altre navi furono costrette a rientrare a Port Arthur, il cui assedio da terra però si stava rivelando più arduo del previsto.

La sola conquista della collina 174 costò ai Giapponesi 1.800 perdite; un ulteriore assalto vide un intero reggimento giapponese perdere 1.600 uomini su 1.800 effettivi, mentre le due divisioni giapponesi che avevano attaccato persero in tutto ben 16.000 uomini[57]. A fine agosto i Russi ripresero l’offensiva anche per alleggerire la pressione su Port Arthur, godendo di un considerevole vantaggio, ma il servizio d’intelligence nipponico aveva fatto un ottimo lavoro, tanto che i Giapponesi erano informati delle mosse dei Russi, che, oltre a non avere un buon sistema di comunicazioni, non disponevano di mappe di questa zona della Manciuria. Ancor più grave fu che durante la battaglia un certo numero di soldati russi si rifiutò di combattere, tanto che l’esercito russo dovette ritirarsi nonostante avesse avuto meno perdite di quello giapponese. Intanto continuavano gli attacchi contro la base di Port Arthur e solo negli ultimi sei giorni d’ottobre i Giapponesi persero 4.800 soldati senza ottenere alcunché, anche se nello stesso mese respinsero un altro attacco dei Russi, presso Mukden.

Allorché arrivarono dal Giappone dei pezzi d’artiglieria pesante, però la situazione volse nettamente a favore dei soldati del Sol Levante. Il 5 dicembre la collina 203 era nelle mani dei Giapponesi, sebbene un’intera divisione nipponica fosse stata distrutta. Ormai la sorte della base di Port Arthur era segnata e il 2 gennaio del 1905 cessò ogni resistenza: 24.369 soldati e 8.956 marinai russi consegnarono le armi ai Giapponesi (ma negli ospedali di Port Arthur vi erano altri 15.000 soldati russi, feriti o malati). Kuropaktin, il comandante russo in Manciuria, decise allora di passare ad una nuova offensiva sul fronte di Mukden, prima che potesse sopraggiungere la III armata giapponese da Port Arthur. Ma l’attacco russo, assai male coordinato, fu inconcludente e passò un mese prima che si combattesse la battaglia che avrebbe deciso le sorti in questo teatro di operazioni.

 

I Russi schieravano tre armate, oltre ad una divisione di cavalleria cosacca, comandate da Rennenkampf. In tutto disponevano di 275.000 soldati (oltre a 16.000 cavalieri cosacchi) e di 1.439 pezzi d’artiglieria. L’esercito giapponese contava cinque armate, ma era numericamente inferiore rispetto a quello russo, dato che un’armata giapponese era equivalente ad un corpo d’armata russo od occidentale (in tutto le cinque armate nipponiche disponevano di poco meno di 200.000 soldati, 7.350 cavalieri e 924 pezzi d’artiglieria; solo per quanto concerne il numero delle mitragliatrici i Giapponesi godevano di un forte vantaggio, ovverosia 174 contro 56). Il piano giapponese consisteva nel lanciare un attacco diversivo contro l’ala sinistra russa con l’armata dello Yalu, mentre la III armata giapponese, doveva avanzare per avvolgere l’ala destra russa. I Russi non compresero che l’attacco dell’armata dello Yalu era solo un attacco diversivo, anche perché furono tratti in inganno dalla presenza in questa zona del fronte dell’11ª divisione, che apparteneva alla III armata giapponese, mentre in realtà quest’ultima stava avanzando per avvolgere l’altra ala russa. Una volta avanzata la III armata, anche la IV armata nipponica, al centro dello schieramento, passò decisamente all’attacco allo scopo di riunirsi alla III armata e circondare così le forze russe.

Quando le truppe giapponesi giunsero alla linea ferroviaria a nord di Mukden, Kuropaktin non poté che cercare di ritirare i propri uomini prima che si chiudesse la tenaglia nipponica (12 marzo 1905). La ritirata dell’esercito russo fu caotica e disordinata, ma anche i Giapponesi pagarono un prezzo assai elevato per la vittoria: 15.892 caduti e 59.516 feriti (mentre le perdite russe assommarono ad oltre 40.000 morti o prigionieri e 40.000 feriti)[58]. La guerra aveva dimostrato senza ombra di dubbio che trincee e potenza di fuoco, filo spinato e mitragliatrici, potevano costare agli attaccanti perdite spaventose. Eppure in Europa anche questa “lezione” venne del tutto ignorata. L’eurocentrismo (gli stessi Russi erano agli occhi degli altri Europei “mezzo asiatici”) rendeva gli Europei “sordi e ciechi” come già era accaduto per la guerra civile americana.

La battaglia che decise la guerra russo-giapponese comunque venne combattuta sul mare. Pietroburgo, infatti, dopo la sconfitta della squadra russa di Port Arthur nel mese d’agosto, inviò un’altra squadra navale nel Pacifico. La flotta si radunò nel Baltico, giacché quella del Mar Nero era “bloccata” per la convenzione sugli Stretti del 1841 (voluta dalla Gran Bretagna). Il 14 ottobre del 1904 salparono 40 unità da guerra e ausiliarie, dirette a Port Arthur. Enormi furono le difficoltà affrontate per compiere una traversata così lunga e l’ammiraglio russo Rojestvensky dovette pure reprimere dei disordini scoppiati a bordo delle navi, allorché si diffusero le notizie dei moti rivoluzionari di Pietroburgo. In ogni caso dopo la caduta di Port Arthur, Rojestvensky non poteva che dirigersi a Vladivostok.

La flotta russa, dopo essere salpata dall’Indocina francese (ove Rojestvensky era stato raggiunto da altre navi russe che invece egli aveva saggiamente scartato prima di partire perché assai malandate), puntò verso lo stretto di Corea, in mezzo al quale si trova l’isola di Tsushima, anziché cercare di passare a levante del Giappone. Non si trattò di una scelta felice. Avvistate le navi russe, l’ammiraglio Togo si diresse immediatamente verso Tsushima, nelle cui acque il 27 maggio del 1905 avvenne lo scontro tra le due flotte. Per ben due volte le navi di Togo “tagliarono la T” alla flotta nemica, potendo riversare su di essa un diluvio di fuoco. L’azione dei Giapponesi fu devastante: 19 navi colate picco (di cui sette corazzate) e cinque catturate (di cui quattro corazzate); inoltre due navi da guerra russe fecero naufragio, mentre quattro si fecero internare in porti neutrali. I Giapponesi invece persero solo tre torpediniere. I Russi non poterono quindi che firmare un trattato di pace (5 settembre 1905) che concedeva ai Giapponesi non solo Port Arthur e il controllo della penisola coreana (annessa dal Giappone nel 1910), ma pure la metà meridionale dell’isola di Sakhalin.

 

Il conflitto russo-giapponese sanzionò dunque l’ascesa del Giappone tra le grandi potenze, ma ebbe pure profonde ripercussioni in Russia, dove, dopo i primi disastri della guerra, ci furono proteste che sfociarono negli scontri del primo gennaio (la cosiddetta “domenica rossa”), quando i manifestanti vennero mitragliati dalle truppe davanti al Palazzo d’Inverno. Malgrado ciò, scioperi e sommosse continuarono e un mese dopo la sconfitta di Tsushima scoppiò la famosa rivolta a bordo della corazzata Potemkin nel porto di Odessa; ad ottobre venne creato il soviet di Pietroburgo e nel mese di dicembre a Mosca vi fu un’insurrezione armata.

All’inizio del 1906 era evidente però che il tentativo rivoluzionario era fallito, anche se come scrisse Lenin, si era trattato della “prova generale” della rivoluzione del 1917. Lo sciopero generale organizzato dal soviet di Pietroburgo nell’ottobre del 1905 aveva convinto lo zar ad istituire la duma, cui venne affidata la funzione legislativa, ma dopo la fine della guerra lo zar poté mettere in atto una repressione (che parve “tagliare le gambe” al movimento rivoluzionario) e sciogliere la duma, per sostituirla con un’altra più “docile” (ma anche questa venne sciolta quasi subito, e quando scoppiò la rivoluzione del 1917 vi era la quarta duma, eletta nel 1912). La sconfitta contro il Giappone ebbe anche come conseguenza un maggiore interessamento della Russia verso i Balcani, in chiave antiaustriaca e antitedesca, con grande soddisfazione della Gran Bretagna con cui, nel 1907, la Russia risolse pure l’annosa “questione afghana”. Sicché, la “Duplice Intesa” franco-russa, cui nel 1904 era seguita l’“Intesa cordiale” franco-britannica (che aveva segnato una svolta radicale nelle relazioni internazionali), diventava la “Triplice Intesa” anglo-franco-russa. L’Europa era divenuta una gigantesca santabarbara.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Si badi che per semplicità di linguaggio ho ritenuto opportuno usare i termini Inghilterra/Inglesi e Gran Bretagna/Britannici come sinonimi, e i termini Inglesi e Britannici anche (benché non sempre) per designare i soldati del Commonwealth.

[2] Vedi A. Maddison, The World Economy, Parigi, 2006, p. 92.

[3] Secondo David Landes la rivoluzione industriale trasformò nell’arco di due generazioni la vita dell’uomo occidentale, la natura della sua società e le sue relazioni con gli altri popoli del mondo. Il cuore della rivoluzione industriale fu una successione interrelata di cambiamenti tecnologici; essenziali furono i nuovi attrezzi meccanici, il vapore e la disponibilità di materie prime, in particolare per le industrie metallurgiche e chimiche (vedi D. S. Landes, Prometeo liberato, Torino, 2000).

[4] Questa fu l’ultima importante battaglia navale in cui tutte le navi erano a vela (vedi Morillo S., Black J., Lococo P., War in World History, New York, 2009, p. 487) e si verificò nella guerra che portò all’indipendenza della Grecia. Il sultano, per reprimere l’insurrezione dei Greci, aveva chiesto aiuto al suo potente vassallo, il pascià dell’Egitto Mehemet Alì, il quale, grazie alla collaborazione di tecnici francesi, aveva dotato l’Egitto di una flotta e un esercito moderni. Suo figlio, sbarcato in Grecia nel 1825, riconquistò la Morea, Navarino e la cittadina di Missolungi, alla difesa della quale parteciparono numerosi stranieri. Missolungi infine venne presa dai Turchi (gli ultimi difensori si fecero saltare in aria con la fortezza). Dopo che i Greci avevano perso pure l’Acropoli d’Atene, la Russia, la Gran Bretagna e la Francia decisero di intervenire dalla parte della Grecia. Comunque, solo quando i Russi invasero la Turchia il sultano si decise a firmare il trattato di Adrianopoli (1829) con cui riconobbe l’indipendenza della Grecia.

[5] La popolazione delle colonie spagnole d’America ammontava allora a circa 17 milioni di abitanti (3.300.000 bianchi, 800.000 negri, 5.300.000 meticci e 7.500.000 Indios). La ricchezza era concentrata nelle mani dei creoli (bianchi nati in America), ma il potere politico era ancora nelle mani dei funzionari spagnoli, il che era fonte di contrasti e tensioni tra la madrepatria e le élites locali che erano fortemente influenzate dalle idee e dall’azione della massoneria (il cui ruolo nella rivoluzione francese benché ancora oggetto di discussione non fu trascurabile), ma anche interessate ad avere pieni poteri per controllare direttamente gli Indios. Il crollo della monarchia spagnola nel 1808 accentuò il distacco delle colonie dalla madrepatria che infine poterono conquistare l’indipendenza, una volta terminata la guerra contro Napoleone. Alcuni storici ritengono che la lotta per l’indipendenza sia stata influenzata della rivoluzione americana, altri da quella del riformismo aristocratico inglese. Una questione a parte comunque è quella dei successivi conflitti tra Paesi dell’America Latina. Qui si possono brevemente ricordare la guerra paraguaiana (1865-70), che vide la sconfitta del Paraguay contro l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay (che aveva acquisito l’indipendenza staccandosi dal Brasile nel 1825, ma che dal 1838 al 1851 fu teatro di una terribile guerra civile combattuta tra i colorados, espressione della borghesia urbana, sostenuti dal Brasile, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, e i blancos, espressione dei latifondisti, sostenuti dall’Argentina, e terminata con la vittoria dei colorados); la guerra del Pacifico (1879-84), originatasi per il controllo della zona mineraria che attualmente si trova nella parte settentrionale del Cile, e che si concluse con la vittoria di questo Paese contro la Bolivia e il Perù; la guerra per il controllo del Chaco (1932-35) tra Bolivia e Paraguay, terminata con la vittoria del Paraguay.

[6] In India i saccheggi e le malversazioni dei primi anni di occupazione avevano già causato danni immensi: «Tutta un serie di conseguenze disastrose fu prodotta da un incremento dell’economia monetaria, di cui l’India non aveva mai conosciuto l’eguale» (F. Braudel, Il mondo attuale, Torino, 1966, p. 279.

[7] Vedi A. Maddison, op., cit., p. 100.

[8] P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, 1989, p. 229.

[9] S. B. Clough, R. T. Rapp, Storia economica dEuropa, Roma, 1987, p. 246.

[10] Ivi, p. 370.

[11] Secondo l’economista inglese David Ricardo ogni Paese avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione dei beni sui quali era in grado di ottenere maggiori vantaggi; ad esempio, secondo tale teoria l’Inghilterra doveva specializzarsi nella produzione di stoffa e il Portogallo in quella di vino. Anche in questo caso si è in presenza di una teoria economica che è “espressione” (ovviamente non in malafede) di certi rapporti di potere e di certi interessi (quelli appunto della potenza capitalistica predominante).

[12] Vedi K. Polanyi, La grande trasformazione, Torino, 2000.

[13] Si badi che per Marx rileva il modo di produzione capitalistico in “senso stretto”. Comunque sia, nelle pagine che seguono useremo società di mercato come sinonimo di società capitalistica, intendendo con questi sintagmi la società capitalistica nata dalla rivoluzione industriale.

[14] Argomento complesso ma di fondamentale importanza. Al riguardo si veda lanalisi assai chiara di S. Cesaratto, Heterodox Challenges in Economics, Cham, 2020, pp. 36-58.

[15] G. La Grassa, Oltre l'orizzonte, Lecce, 2011, p. 123.

[16] Nel 1833 il Parlamento inglese abolì la schiavitù nelle colonie britanniche (provvedimento certo giusto, ma che deve essere messo in relazione con la mercificazione del lavoro). L’esempio inglese venne comunque seguito dalla Francia nel 1848 e poi da altri Paesi.

[17] Produzione di carbone negli anni 1850-70, in milioni di tonnellate di carbone (vedi A. J. P. Taylor, LEuropa delle grandi potenze, Roma-Bari, vol. I, p. 27).

[18] Vedi NCMH (New Cambridge Modern History), vol. X., The Zenith of European Power, 1830-70, Cambridge, 1960, p. 539.

[19] Ivi, p. 506.

[20] Le granate Paixhans erano proietti incendiari in grado di squarciare le fiancate di legno delle navi da guerra. Sicché si rese necessario, proprio quando si stava passando dalla vela al vapore, corazzare gli scafi. E con il fucile ad anima rigata cambiò il “volto della battaglia”, dato che ora si poteva colpire un bersaglio a 1.000 metri (il tiro era preciso fino a 600 metri). Ci volle però ancora del tempo per produrre un eccellente fucile a retrocarica. L’unico fucile a retrocarica decente allora era il prussiano Dreyse, che presentava però vari inconvenienti, tanto che durante la guerra civile americana si usarono perlopiù fucili (e cannoni) ad avancarica. Il primo fucile a retrocarica veramente soddisfacente fu lo Chassepot, un fucile francese che fece la sua comparsa nel 1867, a Mentana, contro i garibaldini. La rigatura venne ovviamente adottata anche per i cannoni, ma furono i Prussiani, con i cannoni Krupp, che fecero i maggiori progressi. Un’altra invenzione (francese) fu la mitrailleuse, una mitragliatrice che poteva sparare 150 colpi al minuto. Nella guerra franco-prussiana i Francesi ne fecero un pessimo uso, tenendola nelle retrovie, benché si debba considerare che nessuno ne comprese davvero il reale potenziale bellico, tanto che nel 1914 nessun esercito aveva più di due mitragliatrici per battaglione (vedi NCMH, vol. X., op. cit., p. 307).

[21] Vom Kriege uscì a Berlino nel 1832, ossia due anni dopo la scomparsa di Clausewitz.

[22] L’espressione “vera guerra” (usata da Clausewitz poche volte in tutta l’opera) si riferisce alla guerra “veramente” combattuta durante le campagne napoleoniche. Peraltro, nell’opera di Clausewitz si trovano pure enunciati i principi concernenti le guerre di liberazione nazionale, la guerriglia e la lotta partigiana. Come scrive Lucio Ceva, «a torto, perciò, Clausewitz è ritenuto esponente del militarismo sfrenato. Al contrario, egli implicitamente contestava l’intera organizzazione dello Stato tedesco, dove i militari potevano tenere segreti i loro piani a politici […] Non a caso, infatti, nell’edizione di Vom Kriege del 1853 le autorità prussiane alterarono il passo dove Clausewitz assegnava il controllo della strategia al governo e non allo Stato maggiore, facendogli dire l’esatto contrario» (L. Ceva, Le forze armate, Torino, 1981, p. 14).

[23] La critica che Martin van Creveld muove a Clausewitz (vedi M. van Creveld, The Transformation of War, New York, 1991) è appunto quella di aver imperniato la propria riflessione sulla centralità dello Stato, mentre non solo prima di Vestfalia ma anche nell’età presente sono perlopiù soggetti politici “non statali” a fare la guerra (vedi M. van Creveld, The Rise and Decline of the State, Cambridge, 1999). La critica di van Creveld, benché in parte condivisibile, sottovaluta (probabilmente per ragioni ideologiche) il ruolo ancora decisivo della politica di potenza degli Stati Uniti e di altri Stati nei conflitti contemporanei.

[24] Vedi Della guerra, cit., p. XXV. Ricorda giustamente Carlo Jean che per Clausewitz la guerra è un “camaleonte”, poiché inevitabilmente varia a seconda delle circostanze, ma che comunque è solo uno strumento della politica, che la dirige e ne fissa gli obiettivi (vedi C. Jean, Manuale di studi strategici, Milano, 2004, pp. 24-25).

[25] L’opera dello svizzero Jomini è decisamente meno importante di quella del teorico prussiano, anche se ebbe grande influenza in Francia e in Russia. Jomini comprese assai bene la strategia annientatrice di Napoleone, l’importanza di concentrare la massa delle proprie forze in un “punto decisivo”, ma oltre a tesi discutibili (come quella secondo cui l’obiettivo strategico da perseguire consisterebbe nell’occupare la capitale nemica o quella secondo cui i trinceramenti erano inutili e dannosi allo “spirito combattivo”) protestò contro l’intromissione della politica negli “affari militari”, lasciandosi sfuggire, come giustamente ricorda Raimondo Luraghi, quella verità che Clausewitz esprime scrivendo che «la guerra non può mai essere separata dal lavoro politico; e se, eventualmente, si vuol fare astrazione da esso nelle ponderazioni, tutti i fili dei rapporti vengono in certo qual modo rotti e ne esce una cosa priva di senso e scopo» (R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, Milano, 1994, p. 278).

[26] Vi era comunque ancora da risolvere la questione dello Stato pontificio. Dopo il tentativo garibaldino frustrato dai Francesi a Mentana, Roma venne occupata dalle truppe del generale Raffaele Cadorna (breccia di Porta Pia, del 20 settembre 1870) e venne votata l’annessione all’Italia, anche se il papa non riconobbe il governo italiano e vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica del Paese, rendendo ancora più fragile il “giovane” Stato italiano.

[27] A Gravelotte gli attacchi della II armata tedesca contro le posizioni difese dai Francesi conseguirono scarsi successi (le perdite degli attaccanti furono pesantissime) e su tutto il fronte l’assalto venne respinto. Il contrattacco francese però non ci fu, benché un altro assalto dei Tedeschi venisse respinto dal micidiale tiro di fucileria francese, che causò scompiglio e disordine nelle file degli uomini di Moltke. Ma allorché l’ala destra di Bazaine venne attaccata anche dal XII corpo d’armata dei Sassoni, la pressione divenne troppo forte per i Francesi, che dovettero ritirarsi.

[28] La guerra russo-turca scoppiò dopo che la Turchia intervenne per reprimere una rivolta in Bosnia Erzegovina e una in Bulgaria. Qui le truppe turche impiegarono metodi così brutali che fornirono ai Russi il pretesto per un intervento. La conquista di Plevna costò ai Russi decine di migliaia di perdite, ma una volta presa Plevna, i Russi si spinsero attraverso i passi montani fino a Plovdiv, giungendo a minacciare Costantinopoli. Anche in Armenia, i Russi conquistarono dopo un duro assedio Kars e poi Erzurum. Queste sconfitte indussero i Turchi a chiedere un armistizio.

[29] P. Kennedy, op. cit., p. 279.

[30] Si deve ricordare pure che nell’Unione vi erano tre Stati schiavisti (Kentucky, Maryland e Missouri) che finirono per dare combattenti ad entrambe le parti in lotta.

[31] Vedi R. Luraghi, op cit., p. 230. Con il “Proclama di emancipazione degli schiavi” Lincoln stabilì che dal primo gennaio del 1863 sarebbero stati liberi coloro che erano tenuti come schiavi nei territori della Confederazione, ma l’abolizione totale della schiavitù fu approvata solo il 31 gennaio del 1865. D’altra parte, la minaccia più seria per il Sud proveniva dal movimento dei freesoilers, che non ne volevano sapere di introdurre la schiavitù nei Territori dell’Ovest, che invece erano di vitale importanza per il Sud, la cui economia si basava su una agricoltura perlopiù estensiva.

[32] Ivi, p. 869.

[33] Vedi B. Levine, La guerra civile americana. Una nuova storia, Torino, 2015.

[34] Si rammenti che a partire dal 1875 le navi corazzate cominciarono a perdere la loro attrezzatura velica e a dotarsi di cannoni più potenti, mentre il primo sommergibile “moderno” fu il francese Gymnote realizzato nel 1888. Nel 1899 apparve il Gustave Zédé, che navigò ad una velocità di 8 nodi a 18 metri di profondità. E l’uso dei siluri portò all’adozione delle torpediniere e dei cacciatorpediniere. In definitiva, nella seconda metà dell’Ottocento si assisté in campo navale «ad un grande sviluppo tecnologico che si manifestò in cinque direzioni e cioè con l’affermazione della propulsione meccanica ad elica, con le costruzioni in ferro, con l’applicazione di corazze, con l’introduzione di nuove armi (quali i cannoni rigati e a retrocarica, le granate, le mine subacquee, i primi sommergibili  a vapore e i primi siluri) e infine con la disposizione dei cannoni dell’armamento principale in torri corazzate girevoli» (A. Santoni, Storia e politica navale dell’età contemporanea, Roma, 2003, p. 15).

[35] Nell’800 non furono comunque solo gli Statunitensi a sterminare dei popoli indigeni, basti ricordare lo sterminio dei Maori da parte degli Inglesi (anch’essi usarono l’alcol per corrompere e indebolire i nativi). D’altronde, tra il 1864 e il 1870, anche i Russi, impegnati nella conquista del Caucaso fin dalla seconda metà del Settecento, non esitarono a sterminare i Circassi e altri popoli caucasici.

[36] Vedi R. Luraghi, Sul sentiero della guerra, Milano, 2000, p. 79.

[37] Benché nominato generale nella guerra civile, Custer non era stato confermato nel grado e venne perciò retrocesso al grado (effettivo) di tenente colonnello.

[38] Vedi W. Pedrotti, Le guerre indiane, Colognola ai Colli (VR), 1998, p. 53.

[39] Vedi R. Thornton, American Indian Holocaust and Survival, Norman e Londra, 1987, p. 32 e p. 43.

[40] R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, cit., p. 1282.

[41] F. Braudel, op. cit., p. 339

[42] S. B. Clough. e R. T. Rapp, op., cit., p. 426.

[43] Per quanto concerne il volume pro-capite del commercio estero il periodo di massima crescita si ebbe tra l’inizio degli anni Quaranta e il 1873, anche a seguito del trattato Cobden-Chevalier tra Inghilterra e Francia nel 1860, ma il sopraggiungere della crisi economica portò i Paesi a reintrodurre misure protezionistiche.

[44] G. La Grassa, Un ripensamento complessivo. Parte II, (http:// www. conflittiestrategie.it/parte- seconda-un-ripensamento-complessivo).

[45] Vedi R. Oliver e R. Fage, Breve storia dellAfrica, Torino, 1974, p. 171.

[46] Ivi, pp. 172-173.

[47] Nel 1905 Guglielmo II era sbarcato a Tangeri dichiarando di voler difendere il sovrano e gli interessi dei Tedeschi nel Paese. La tensione con la Francia si allentò solo dopo la conferenza di Algesiras (1906). Ma l’intervento di truppe francesi su richiesta del sultano assediato a Fez provocò un’altra crisi con la Germania (incidente di Agadir nel 1911). La crisi venne risolta lasciando campo libero alla Francia in Marocco, in cambio della cessione alla Germania di una fascia di territorio del Congo. Nel 1898 si era rischiato anche uno socntro tra Francesi e Inglesi per il possesso di Fashoda nel Sudan, ma infine prevalse la necessità da parte della Francia di accordarsi con l’Inghilterra. Ovviamente la rivalità tra le potenze europee in Africa deve essere interpretata avendo presente la tensione creatasi in Europa per la crescita della potenza tedesca.

[48] Vedi L. Ceva, op. cit., p. 110.

[49] Vedi A. Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hàdi, Milano, 2004.

[50] C. Schmitt, Il Nomos della terra, Milano, 1991. p. 272.

[51] Ivi, p. 288.

[52] A. Santoni, op. cit., p. 11. Una “strategia di penetrazione” in un Paese straniero che gli Stati Uniti da allora hanno saputo “affinare” notevolmente.

[53] Vedi M. Davis, Late Victorian Holocausts, Londra, 2001, p. 7. Le cifre dei morti variano molto a seconda delle fonti.

[54] Questa è la tesi di Karl Polanyi che viene difesa da Mike Davis, anche se secondo Amartya Sen è decisamente esagerata (vedi A. Sen, Apocalypse Then, disponibile in rete). Indubbio però è che l’operato del plenipotenziario per la carestia del 1876, l’inglese Richard Temple, sia stato catastrofico, tanto che Mike Davis lo definisce «the personification of free market as a mask for colonial genocide» (vedi M. Davis, op. cit., pp. 36- 43). Invero, nel sistema sociale indiano tradizionale governatori e proprietari terrieri dovevano prendersi cura dei loro sudditi nei momenti di bisogno, fornendo loro il cibo necessario alla sopravvivenza. Gli Inglesi sostituirono questo sistema sociale con un sistema imperniato sul “libero mercato” e in molti casi, i vecchi proprietari terrieri si trasformarono in capitalisti “rampanti” (vedi P. R. Greenough, Prosperity and Misery in Modern Bengal, New York-Oxford, 1982, pp. 42-61). La conseguenza fu la distruzione dei mezzi di sostentamento di molti agricoltori e braccianti, e la moltiplicazione del numero delle vittime durante una carestia.

[55] La Gran Bretagna e anche la Francia misero comunque delle truppe a disposizione dell’impero manciù, di modo che Nanchino poté essere cinta d’assedio. La cttà cadde nel luglio 1864 e i vincitori non ebbero pietà dei vinti, tanto che si stima che circa 100.000 difensori siano stati trucidati.

[56] Vedi G. Jukes, The Russo-Japanese War, Oxford, 2002, p. 48.

[57] Ibidem.

[58] Ivi, p. 68.