CAPITOLO VII
L’OCCIDENTE
Le
macchine. Che il mercato fino al Medioevo
incluso avesse una funzione assai diversa da quella svolta
nei secoli successivi ben difficilmente lo
si può mettere in discussione. Invero, fu
soltanto nel corso del XVIII secolo che, in Inghilterra, maturarono le condizioni per la formazione di uno spazio
economico veramente autonomo. Certo fu un mutamento di
portata epocale. La rivoluzione industriale, infatti, non solo avvantaggiò l’Inghilterra rispetto agli altri Paesi europei, ma nel corso dell’Ottocento scavò un
fossato quasi incolmabile tra l’Occidente e il resto del mondo[1]. Basta prendere in esame un settore chiave come
il Pil pro capite (in dollari 1990) per rendersene conto:
dal 1500 al 1820 quello della Gran Bretagna crebbe da 762 a 2.121, quello
olandese da 754 a 1.821, quello francese da 727 a 1.230, quello degli Stati Uniti da
400 a 1.257, mentre quello cinese rimase di 600 e quello indiano addirittura
diminuì passando da 550 a 533[2].
Analoghe
considerazioni si possono
fare se si prende in esame il settore
manifatturiero:
nel 1750 l’Europa (Russia inclusa) contribuiva alla produzione
manifatturiera mondiale con una quota del 23,2%, nel 1860 la quota era del 53,2%
(quella degli Stati
Uniti era già salita dallo
0,1% del 1750 al
7,2%) e nel 1900 era del 62,0%,
cui si deve aggiungere quella
degli Stati Uniti (23,6%).
E nulla cambia
se si considera il livello
di industrializzazione pro
capite, giacché, se nel 1750 quello europeo era solo leggermente maggiore di quello
del Terzo Mondo, nel 1900
quest’ultimo era un diciottesimo del primo (2% contro 35%). Se quindi
l’industrializzazione cambiava rapidamente il volto del
nostro pianeta[3],
è indubbio che la rivoluzione industriale verificatasi in Inghilterra non fece che
moltiplicare la potenza di
questo Paese, uscito vincitore dalle
guerre napoleoniche. E la definitiva sconfitta di Napoleone consentiva alla
Gran Bretagna di mantenere quella balance of power in Europa che le garantiva la leadership mondiale.
Difatti,
la Royal Navy aveva pur sempre una potenza effettiva pari alle altre tre o quattro più forti marine messe insieme ed
era sufficiente per sorvegliare le rotte marittime mondiali e difendere
l’impero coloniale, come dimostrò lo scontro con i pirati
algerini nel 1816 o quello
con la flotta turco-egiziana
a Navarino nel 1827[4].. Del
resto, l’impero britannico nel XIX secolo continuò ad
espandersi: gli Inglesi acquisirono il controllo di punti strategici come
Singapore, Aden, le Falkland/Malvinas e Hong Kong, mentre i coloni si spingevano
nell’entroterra australiano e in quello canadese, oltre che nel veldt sudafricano, richiedendo talvolta l’appoggio di truppe britanniche. Ma la Gran Bretagna
poté stabilire rapporti privilegiati sotto il profilo
commerciale anche con l’America Latina,
che si rese
indipendente all’inizio del secolo dalla
Spagna e dal Portogallo[5].
La Gran Bretagna invece non fu
particolarmente danneggiata dalla perdita delle sue tredici colonie dell’America
settentrionale, giacché aveva guadagnato
il controllo dell’India con i suoi 100 milioni di abitanti, il che contribuì all’eccezionale crescita della manifattura britannica. Infatti, se prima i manufatti
di cotone che venivano dati agli Africani in cambio di
schiavi negri (deportati in America) erano prodotti dagli Indiani, adesso si faceva arrivare il cotone anche
dall’America e lo si lavorava in Gran Bretagna
a costi più che competitivi con quelli della
manifattura indiana che venne così
distrutta dalla concorrenza inglese.
In
sostanza, l’India era considerata dall’Inghilterra un immenso mercato su cui
smerciare i propri prodotti e come fornitore di alcune
materie prime (juta e cotone) per l’industria del Lancashire[6]. Inoltre, la Gran Bretagna non solo consolidò la sua posizione in campo finanziario con
l’accettazione del gold standard
a partire dal 1821,
ma promosse una forte
migrazione verso le colonie. Un “flusso migratorio”, tra il 1820 e il 1913, di circa 12 milioni di persone (di cui la metà erano
irlandesi) e che contribuì ad
allentare le tensioni sociali in patria, mentre dal resto dell’Europa
emigrarono, nello stesso periodo, 14 milioni di persone[7].
Era
però inevitabile che la crescita dell’Inghilterra contribuisse anche allo sviluppo a lungo
termine di altri Paesi,
sia facendo progredire le loro industrie con
frequenti interventi finanziari, sia costruendo ferrovie
e navi a vapore. Ma fino a quando il “gap” economico tra l’Inghilterra e le altre potenze fosse rimasto così elevato,
era chiaro che gli Inglesi
erano al riparo da brutte sorprese, nonostante che
le spese militari della Gran Bretagna ammontassero soltanto al 2-3% del Pnl,
dato che «fino alla metà del diciannovesimo secolo il Regno Unito era una
grande potenza di tipo diverso, e
che non poteva venire giudicato secondo i criteri tradizionali dell’egemonia militare»[8]. Solo allora,
infatti, l’Inghilterra si “convertì” alla dottrina del laissez faire, abbandonando decisamente la politica protezionistica e favorendo
ovunque la nascita
di quel “libero mercato” che non poteva non
apparire ai suoi “concorrenti” come la difesa del principio “libera volpe in
libero pollaio”, dacché i manufatti britannici non temevano più alcuna
concorrenza.
Al
riguardo, è significativo che Clough e Rapp affermino che «tutte le teorie
economiche [per] quanto possano sembrare astratte […] sono sempre creature
filosofiche della società in cui vengono formulate. Come il pensiero economico
scolastico serviva un ordine sociale orientato verso la chiesa e la teoria
mercantilistica predicava la tattica economica dei nascenti Stati nazionali
accentrati, quella fisiocratica era la teoria economica adatta all’ancient régime, orientato verso la
terra»[9]
. Gli stessi Clough e Rapp sostengono che gli schemi del mercantilismo basati
su una concezione “antagonistica” del commercio, vennero rovesciati dalla concezione secondo cui il libero scambio
era un beneficio reciproco, concezione enunciata da Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni (1776), elaborata da altri economisti (tra
cui Ricardo, Mill e Marshall) e diventata parte integrante della teoria economica moderna,
che non può anch’essa che essere una “creatura” della società che l’ha
prodotta, ovvero la società di mercato occidentale. (Certo,
l’idea che la quantità del commercio
internazionale sia “finita” o che sia necessariamente
un “gioco a somma zero” non è più sostenibile, poiché
il commercio internazionale può comportare invece un reciproco vantaggio. Ma appunto
può darsi
che lo sia e può darsi che non lo sia, in
specie sotto il profilo politico).
D’altro
canto, già nell’Ottocento
opponendosi alla dottrina liberista, economisti come
Henry Charles Carey o Friedrich List
«argomentavano che una nazione, per essere economicamente forte e
industrialmente potente, doveva avere una industria molto sviluppata e una
produzione bene integrata; la politica economica nazionale doveva quindi aiutare la crescita economica
con tariffe e sussidi»[10]. E, oltre alla “Guerra delle tariffe”,
che durò fino alla Grande guerra, non si deve dimenticare che nella guerra di secessione americana se il Sud era liberista, il
Nord era rigorosamente
protezionista e si può immaginare che “potenza” sarebbe stata l’America, se il Nord si fosse
basato sulla teoria ricardiana dei vantaggi
comparati[11]. In realtà, la tesi
secondo cui il mercato si autoregolerebbe grazie ad una “mano invisibile”,
generando così pace e benessere, era funzionale alla
conquista del potere da parte della borghesia ed è tuttora funzionale alla difesa di una società
di mercato. In ogni caso, per spiegare lo squilibrio e il conflitto economico
generati dalla società
di mercato, non si possono
non tener presenti
gli studi di Karl Polanyi e quelli di Marx.
La grande
trasformazione di Polanyi[12] prende in esame appunto il processo di trasformazione della terra,
del lavoro e della moneta in mere merci, mediante il quale l’Economico non è
più incsatonato in un ampio ventaglio di istituzioni politiche, sociali e culturali. Le terribili conseguenze di tale
trasformazione erano manifeste a Polanyi che scrisse quest’opera negli anni Quaranta
del secolo scorso. Ma la “grande
trasformazione” fu essa
stessa qualcosa di terribile e sconvolgente.
Un’intera
civiltà contadina venne spazzata via nel giro di pochi decenni, annientando legami comunitari, usi e
costumi che per secoli o addirittura per millenni avevano regolato la vita delle comunità di villaggio, di modo che
l’industrializzazione si accompagnò ad uno sviluppo dell’agricoltura imperniato
sulla grande azienda. I demani furono trasformati in proprietà privata a vantaggio dei ceti più abbienti, e i contadini divennero liberi (solo) di
“vendere la propria forza lavoro” non avendo
più né gli “antichi diritti comunitari” né terra da lavorare. In
Inghilterra gli enclosures acts (decreti di recinzione), che prevedevano la chiusura e la
privatizzazione di terre che appartenevano
alle comunità di villaggio, favorirono lo svilppo di una classe capitalistica, che ammodernò il sistema di coltura e promosse
numerose innovazioni, ma ridusse i contadini ad essere dei poveri salariati o degli emigranti. Condizione non migliore era quella degli operai, la cui esistenza era altrettanto misera, vivendo
in quartieri insalubri e soggetti a condizioni di lavoro inumane. E ciò non valeva solo per gli uomini, ma per decine
di migliaia di donne, ragazzi e bambini, impiegati in turni di lavoro massacranti,
completamente dipendenti dalle macchine, delle quali diventarono, in un certo senso, parte essi stessi.
Enormi perciò furono gli squilibri che si vennero a creare,
considerando pure che con l’avvento
del nuovo modo di produzione si ebbe un aumento delle merci prodotte, beni
alimentari inclusi, che a sua volta comportò un forte incremento demografico. L’Europa
passò da 140 milioni di abitanti nel 1750 a 187 milioni
nel 1800 e a 266 nel 1850 (peraltro anche in Asia, ove vi furono miglioramenti nelle tecniche
agricole, netto fu l’incremento demografico, la popolazione passando da 400 milioni nel 1750 a 700 milioni
nel 1850). Per quanto concerne
la Gran Bretagna la popolazione che era di 10,5 milioni
nel 1800 era salita a 27,6 milioni
nel 1850 (e all’inizio del Novecento, nonostante la forte
emigrazione, aveva superato i 40 milioni); nello stesso periodo
quella francese era salita a 38,8 milioni
(all’inizio del Novecento sarebbe stata di 39
milioni, ovvero inferiore a
quella della Gran Bretagna).
Conflitti sociali e politici quindi
avrebbero contrassegnato anche, e perfino più intensamente che nel passato, questo
periodo storico, ma in una forma del tutto nuova, come comprese Marx. L’analisi marxiana della
merce e del capitale, inteso
come rapporto sociale e non
come “cosa”, mira a svelare quindi i meccanismi oggettivi che permettono di costruire e riprodurre
la realtà (sociale) secondo determinati rapporti di forza,
che si manifestano, a giudizio di Marx, nella
lotta tra due soggetti sociali: i possessori di capitale e i
possessori della forza lavoro. Pertanto,
basandosi su Marx, si considera la diffusione del lavoro salariato come l’elemento essenziale
per la formazione del capitalismo. Si tratta di un
processo che presuppone la recinzione
delle terre comuni, la fine del modo di produzione mercantile “semplice”,
l’espandersi dell’industria manifatturiera e l’avvento delle macchine nel
ciclo produttivo[13], ma perché vi sia un
modo di produzione capitalistico occorre che la massa
della popolazione non possa sopravvivere senza vendere come merce la
propria capacità lavorativa e che lo
Stato quindi reprima fenomeni come il vagabondaggio e il brigantaggio.
La società di mercato si struttura pertanto
in funzione di un’eguaglianza formale che cela una sostanziale diseguaglianza e la libertà si riduce all’alternativa tra morire di fame o vendere
sul mercato il proprio lavoro, cosicché il lavoro salariato è obbligato a “ri-produrre”
la stessa società di mercato con le sue diseguaglianze reali.
Si vengono perciò a
formare delle catene invisibili, ma sotto certi aspetti perfino più difficili da spezzare di quelle che legavano lo schiavo
al banco sulla galea.
Nondimeno con il diffondersi del modo di
produzione capitalistico si diffuse (anche se non senza lotte e aspri conflitti sociali) la democrazia formale, criticata a fondo da Marx (lo Stato liberale come “comitato d’affari
della borghesia”), perché la democrazia liberale “celava”
i reali rapporti di potere tra i capitalisti e i lavoratori. Si deve però tener
conto che per Marx la classe dei lavoratori comprende sia il semplice
manovale che l’ingegnere. Perciò il pensatore di Treviri poteva ritenerla capace
di dirigere l’intera
società. In sintesi,
per Marx, la classe dei proprietari
dei mezzi di produzione con il passare del tempo (ma a suo parere questo
mutamento era già in atto
in Gran Bretagna nella seconda
metà dell’Ottocento) si sarebbe sempre più allontanata dal processo produttivo, perdendo quella “potenza mentale della produzione” che caratterizzava i
primi “capitani d’industria”, mentre tale funzione sarebbe stata sempre più
svolta dai “tecnici” di alto
livello. Pertanto, il modo
di produzione capitalistico avrebbe bloccato o intralciato lo sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo e quindi
la “classe
operaia” (ingegneri, tecnici e così via fino all’ultimo manovale) si sarebbe
sbarazzata prima o poi di questa “zavorra”, sostituendo il modo di produzione capitalistico con la socializzazione dei mezzi di
produzione, mediante la progressiva riduzione dell’apparato dello Stato
a mera “pubblica amministrazione”.
Naturalmente, non è possibile non cogliere i punti deboli dell’impianto teorico
di Marx: lo schema “duale”, che porta a trascurare il ruolo dei ceti medi; la rigida distinzione tra struttura
e sovrastruttura e la conseguente sottovalutazione dei fattori culturali; la concezione della
“classe operaia” come soggetto rivoluzionario; la fiducia ingenua
nel progresso; l’analisi
del capitalismo incentrata sulla prima fase del
capitalismo (quella inglese, ben diversa da quella americana); la mancanza di una teoria
dello Stato, nonché le difficoltà
(insuperabili) per quanto concerne la teoria del valore-lavoro e in particolare
la spiegazione della trasformazione del valore in prezzi[14].
Eppure, “rompendo” con l’ideologia del
puro scambio mercantile Marx ha il merito di aver messo in luce non solo la reale diseguaglianza che è alla
base della società di mercato, ma pure che, con il passaggio dalla società precapitalistica a quella
capitalistica, la lotta per la supremazia si svolge nella stessa sfera
economica. Ragion per cui secondo
Gianfranco La Grassa occorre
passare dal “primo
disvelamento” attuato da Marx ad
un
“secondo disvelamento” che porti «alla luce ciò che il passaggio alla tipologia capitalistica della riproduzione dei rapporti sociali
aveva celato: il cardine di tale riproduzione non è la proprietà dei mezzi di produzione bensì
il conflitto tra strategie attuate dai vari gruppi dominanti»[15].
Comuqnue sia, è essenziale tener presente che il capitalismo si articola, nelle diverse fasi storiche, secondo
formazioni sociali e politiche particolari
in lotta fra loro.
Lo scontro diviene particolarmente aspro in una fase storica caratterizzata da un netto multipolarismo
o policentrismo
sul piano internazionale. Si può dunque affermare che ad una fase “protocapitalistica”, dominata
(benché solo in parte) dall’Olanda, seguì una fase di acuto conflitto tra
potenze europee, che raggiunse la sua acme con lo scontro anglo-francese, da
cui emerse nettamente vincitrice la Gran Bretagna, avvantaggiata da una combinazione di fattori culturali, economici, finanziari e geopolitici.
Dopo
il 1815 - ossia dopo la definitiva sconfitta della Francia napoleonica - cominciò
un periodo a netta predominanza britannica, durato fino alla seconda metà
dell’Ottocento, in cui
nessuna potenza europea
era in grado di sfidare
la Gran Bretagna. Solo allora
si assisté alla formazione di altri centri di potenza in grado di sfidare
l’egemonia britannica, in particolare la Germania e gli Stati Uniti, che - anche per l’emergere
di nuove potenze
(Russia, Giappone e Italia) e il declino di altre (in specie l’impero ottomano)
- resero
assai precario l’ordine mondiale imperniato sull’egemonia britannica, generando di conseguenza un autentico
“cataclisma geopolitico”. Si aprì allora un’altra
fase policentrica, contraddistinta dalle due depressioni economiche
(quella di fine Ottocento e quella del 1929) e
(non casualmente) da due guerre mondiali. Fase com’è noto,
terminata con la sconfitta della Germania e la vittoria di una nuova potenza “continentale” (ossia
l’Unione Sovietica) e soprattutto degli Stati Uniti,
diventati (sotto ogni aspetto) la potenza capitalistica predominante al posto
della Gran Bretagna. Sono dunque queste “coordinate geopolitiche” che si devono
tener presenti per “mettere a fuoco” i conflitti e le strategie negli ultimi
due secoli.
I conflitti in Europa nel XIX secolo. La distinzione
tra fase monocentrica e fase policentrica non significa
che nella prima fase non vi possano
essere dei conflitti, come dimostra la stessa storia europea dell’Ottocento, peraltro
caratterizzata, com’è noto, dall’azione della società
segrete, da moti rivoluzionari e da insurrezioni popolari, che pure influirono
non poco
sull’evoluzione delle diverse potenze europee,
nonostante il chiaro intento da parte della cosiddetta “Santa Alleanza” (patto firmato
a Parigi nel 1815 tra Austria, Prussia e Russia, e sottoscritto da vari governi
europei, ma a cui non aderirono né il papa, né il principe reggente d’Inghilterra, né il sultano
ottomano) di frenare il processo
storico avviatosi con la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale, per garantire la solidità
delle istituzioni monarchiche e lo status quo
nel continente
europeo, definito dal Congresso di Vienna.
Tale sistema di sicurezza portò
in effetti alla repressione
dei moti italiani nel 1820-21 e di quelli spagnoli nel 1823, ma entrò in crisi con la rivoluzione francese del
1830. Aspirazione all’indipendenza, idee liberali,
democratiche e perfino
socialiste non potevano
essere sconfitte con le baionette. Né si poteva impedire
la nascita del movimento operaio
che in Inghilterra fra il 1829 e il 1834 vide il tentativo di organizzare una generale
associazione di tutti i mestieri
(trades union), mentre si diffondeva l’idea
di ricorrere allo sciopero generale come
strumento di lotta sociale[16]. Gli stessi moti
rivoluzionari del 1848 dimostrarono chiaramente non solo che in Europa era impossibile soffocare il
nazionalismo, ma che il corso della politica
europea non poteva ridursi
unicamente alla lotta tra liberali (borghesi) e reazionari (nobiltà
e clero). Tanto è vero che, se la lotta contro l’Austria era all’insegna dell’indipendenza dei popoli, la rivoluzione in
Francia fu caratterizzata dallo scontro tra la borghesia
e il proletariato, che terminò
con l’insurrezione popolare nel giugno del 1848 e la terribile repressione da parte del generale
Cavignac, che fece fucilare migliaia
di insorti dopo sei giorni
di durissimi
combattimenti. Ma è pure significativo che sia l’Austria che la Francia avrebbero visto il loro “peso geopolitico” ridursi alquanto, rispetto
al secolo precedente, sia pure per
motivi differenti e in misura
diversa.
Per un impero multietnico come quello austro-ungarico, la crescita del nazionalismo non poteva non essere causa di forte instabilità e grave debolezza. La stessa scelta di Metternich (cui si riconosce il merito di avere contribuito a creare un equilibrio stabile e pacifico in Europa) di difendere la causa della “restaurazione” e della “reazione” non poteva impedire che a lungo andare l’Austria si indebolisse. L'impero austro-ungarico, infatti, era uscito dalle guerre napoleoniche con un debito pubblico elevatissimo, che costringeva Vienna a mantenere le spese militari ad un livello decisamente basso. Durante le diverse crisi che l’Austria dovette affrontare tali spese aumentarono, ma la debolezza di fondo dell’esercito austriaco permaneva, benché nel 1848-49 si mostrasse in grado di sconfiggere l’esercito piemontese.
Ciò
dipese anche dall’abilità del maresciallo Radetzky, il quale, disponendo di poche truppe,
allorché scoppiò l’insurrezione di
Milano, evitò di rimanere intrappolato nella grande
città lombarda, di modo che riuscì a respingere, presso Verona,
l’esercito piemontese, anche se non poté impedire
che i Piemontesi prendessero Peschiera e
assediassero Mantova; ma, una volta ricevuti dei rinforzi, Radetzky passò al
contrattacco sconfiggendo i Piemontesi a Custoza. E nella seconda
fase della guerra,
il maresciallo austriaco, riuscito a
concentrare forze superiori contro quelle piemontesi, le batté di nuovo a Novara. Ma nonostante questa
brillante vittoria per
l’Austria i problemi permanevano tanto
che anche sotto il profilo
economico l’impero austriaco
perdeva terreno rispetto alle altre potenze
europee, compreso il vitale settore della produzione di carbone, che rivela il
divario tra la Gran Bretagna e gli altri Paesi
europei, ma anche
la crescita della
Germania e degli
Stati Uniti, come mostra
la seguente tabella[17]:
|
1850 |
1860 |
1870 |
Germania |
6 |
12 |
34 |
Austria-Ung. |
1,2 |
2,3 |
8,6 |
Francia |
4,5 |
8,3 |
13,3 |
Gran Bretagna |
57 |
81 |
112 |
Stati Uniti |
- |
3,4 |
10 |
Inoltre, l’Austria
doveva far fronte alle mire della Russia sui Balcani (anche se ciò non impedì allo zar di inviare un’armata
per aiutare Vienna a
domare la ribellione degli Ungheresi) ma pure guardarsi
da altre due minacce, quella italiana e quella, ben più grave,
della Prussia, che aspirava ad unificare la Germania relegando in secondo
piano Vienna. Ragion
per cui l’Austria, che non poteva
che difendere tenacemente lo status quo in Europa,
evitò pure di impegnarsi nella guerra di Crimea (1852-56), che vide la Francia e la Gran Bretagna intervenire (nel 1854)
al fianco della
Turchia contro
la Russia. (Nel 1855 anche il Piemonte
di Cavour inviò in Crimea un corpo di spedizione di 15.000 soldati al fianco degli
Anglo-Francesi, allo scopo di ottenere l’appoggio della
Francia e della Gran Bretagna
nella lotta contro
l’Austria).
Il vero motivo di questa guerra
era quello di fermare l’espansione russa verso il Mediterraneo, resa possibile
dalla crescente debolezza dell’impero ottomano. I Russi
dovevano però mantenere anche un
forte esercito al Nord a causa della minaccia svedese e considerare la
possibilità di un intervento austriaco, mentre dovevano battersi in condizioni non facili contro i Turchi nella regione del Caucaso. Comunque sia, il conflitto rivelò
l’arretratezza della Russia e la sua impreparazione
bellica. La flotta russa, anche se sconfisse facilmente quella turca a Sinope,
non poteva fare pressoché nulla contro quella
degli Anglo-Francesi (che,
oltre ad impiegare razzi e proiettili shrapnel, erano
in grado di costruire dozzine di potenti cannoniere). L’esercito russo aveva armi antiquate,
pochi erano gli ufficiali competenti e insufficiente il numero dei riservisti addestrati (la servitù
della gleba - abolita solo nel 1861, anche in seguito alla disfatta in Crimea – imponeva alla Russia, che allora contava più di 70
milioni di abitanti, di basarsi su un esercito composto da soldati a lunga ferma,
e l’immissione all’inizio della guerra di 400.000
reclute, tutt’altro che ben
addestrate, non rese certo più efficiente l’esercito).
Le gravi carenze logistiche dell’apparato
militare russo furono rese vieppiù drammatiche dal
blocco imposto dalla flotta britannica; inoltre,
per
finanziare la guerra, Mosca si indebitò sui “mercati” di Berlino e di Amsterdam; si mise perciò a stampare cartamoneta, facendo così
aumentare l’inflazione
e accrescendo il malcontento dei contadini. Anche gli
Anglo- Francesi però avevano i loro
problemi, sebbene, dopo la battaglia della Cernaia (o del ponte Traktir), in
cui si distinsero le truppe piemontesi, riuscissero a conquistare Sebastopoli (11-12 settembre 1856).
In particolare, la guerra di Crimea
rivelò le gravissime deficienze logistiche dell’esercito
britannico. Miglioramenti vennero fatti con l’aumento delle
spese militari, ma lo
sforzo maggiore durante
questa campagna fu fatto dall’esercito francese, che oltre ad essere il più numeroso,
mostrò di essere
il più efficiente. La guerra durò fino a quando i Russi,
sull’orlo del disastro finanziario e dopo aver perso oltre 400.000
uomini, si rassegnarono a riconoscere, con
il trattato di Parigi
del 1856, la “neutralità” del Mar Nero e la libertà di navigazione sul corso del Danubio.
L’Austria
non poté invece fare a meno di scontrarsi con la
Francia, che aveva dato il suo appoggio
al Piemonte in cambio di Nizza e Savoia (accordi segreti di Plombierés del 1858). L’Austria,
convinta di potere schiacciare rapidamente il Piemonte, intimò il disarmo
immediato al piccolo Stato italiano, che forte
del sostegno della Francia cercava
la guerra. Respinto
da Torino l’ultimatum di Vienna, gli Austriaci passarono
all’azione, trovandosi coinvolti in una guerra contro i Franco-Piemontesi, che sconfissero
gli Austro-Ungarici a Magenta
e poi a Solferino, benché
a prezzo di terribili perdite, tanto che la Croce Rossa venne
creata proprio a Solferino, ove si
era combattuta una tipica battaglia d’incontro, assai confusa, che aveva portato sì gli Austriaci a ritirarsi dietro
il Mincio, ma dopo violentissimi combattimenti, che non avevano
permesso ai Franco-Piemontesi di sfruttare il successo, come già era accaduto
a Magenta.
La sconfitta dell’Austria fu anche
dovuta al fatto che Vienna aveva preferito tenere in Ungheria i
soldati di origine tedesca e ceca, e impiegare
in Italia soldati
ungheresi, croati e italiani, che in
buona misura disertarono (particolarmente preoccupante fu la diserzione dei soldati croati, su cui Vienna
faceva parecchio affidamento)[18]. L’Austria si era pure trovata
isolata, dacché la Prussia non era intervenuta al suo fianco, anche se, dopo Magenta, ma prima di Solferino, i Prussiani mobilitarono sei corpi
d’armata[19]. La Francia temendo uno scontro con la Prussia e preoccupata per le insurrezioni nell’Italia centrale, si decise
allora a firmare l’armistizio di Villafranca (11
luglio 1859) con cui la Lombardia passò al Regno di Sardegna (l’armistizio violava gli accordi
di Plombières, e suscitò le ire di Cavour,
ma, in definitiva, la Francia
era intervenuta solo per estendere la sua influenza sulla
penisola italiana, non perché avesse realmente a cuore la causa
dell’indipendenza italiana).
D’altra
parte, si era venuta a delineare una
situazione internazionale estremamente favorevole alle forze che spingevano all’unificazione dell’Italia; situazione di cui
seppe approfittare Garibaldi, consapevole delle difficoltà che attraversava il
regno borbonico delle Due Sicilie. Garibaldi, sbarcato a Marsala (con il tacito assenso del Piemonte, che si astenne
dall’ostacolare i preparativi della
spedizione garibaldina, e la “non
interferenza” della marina britannica che aveva il controllo del Mediterraneo), con le sue
mille “camicie rosse” sconfisse l’esercito borbonico a Calatafimi, suscitando l’entusiasmo di parte della popolazione siciliana. Presa, dopo aspri combattimenti, Palermo, Garibaldi batté di nuovo
le truppe borboniche a Milazzo e poi sbarcò in Calabria puntando
su Napoli.
Le truppe borboniche si ritirarono allora
sulla linea del Volturno, ove furono
definitivamente sconfitte dai
garibaldini. Nel frattempo,
il Piemonte si era deciso ad intervenire, occupando l’Umbria e le Marche,
appartenenti allo Stato pontifico, il cui esercito
venne battuto dai Piemontesi a Castelfidardo. Anche la borghesia meridionale era
favorevole all’annessione al Piemonte per timore di altre
insurrezioni popolari (quella dei contadini di Bronte, che reclamavano la
terra, era stata repressa da Bixio, luogotenente di Garibaldi). Le due Sicilie, l’Umbria e le Marche vennero quindi annesse al Piemonte, che, dopo lo scioglimento dell’esercito garibaldino,
riuscì a mettere fine all’ultima resistenza borbonica a Gaeta. Infine,
il 17 marzo del 1861,
venne proclamato il regno d’Italia.
Rimanevano però le notevoli differenze tra Nord e Sud, come dimostrò
drammaticamente il fenomeno
del brigantaggio, che esplose
nel Mezzogiorno già nel 1861. Era appoggiato dallo Stato pontificio e da ambienti “reazionari”, ma era anche l’effetto di un reale “malcontento popolare”, frutto
di secoli di ingiustizie. La guerra contro le “bande” si concluse
solo nel 1865
e avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia del Paese.
In
questi anni era però l’intero quadro geopolitico europeo che stava cambiando.
Nella seconda guerra d’indipendenza italiana Austriaci e Francesi avevano combattuto sotto l’occhio vigile
dei Prussiani, ai quali non era sfuggito né l’uso delle
ferrovie da parte
di entrambi l’eserciti, né l’impiego di cannoni ad anima rigata da parte dei Francesi.
Ma nemmeno erano sfuggite
le incertezze e le debolezze di entrambi gli eserciti, che furono evidenziate nella relazione sull’intera campagna redatta
da Moltke, la prima monografia storica
scritta da un ufficiale di Stato maggiore, essenzialmente a scopo di studio. Si trattava di un interesse
che celava dei seri pericoli non solo per l’Austria ma anche per la Francia.
Certo la Francia
era un Paese più ricco
e più forte
dell’Austria, con più di 35 milioni di abitanti. Notevoli erano investimenti nel settore
metallurgico e in quello degli armamenti, che portarono
a diverse innovazioni, tra cui sono da ricordare le granate Paixhans, la nave corazzata La Gloire
e la cosiddetta “Minny ball[20]. Ma
la potenza relativa della Francia era diminuita. Il Paese subiva le conseguenze delle guerre tra 1793 e 1815, costate un milione e mezzo
di morti, e doveva fare i conti con
i problemi derivanti da un processo di industrializzazione che incontrava
diversi ostacoli. Per di più in
Francia il “fuoco rivoluzionario” covava sempre sotto la cenere, a differenza della Gran Bretagna,
in cui l’industrializzazione portò alla
nascita di un forte movimento operaio che mirava soprattutto a migliorare le
condizioni di lavoro degli operai (concezione nota come “tradeunionismo”).
Nondimeno, è innegabile che il regime di Napoleone III pareva garantire alla Francia una reale
stabilità. In effetti,
la paura della
rivoluzione sociale e il
timore di nuove violenze, avevano favorito
le ambizioni di Luigi Bonaparte (nipote di Napoleone), e gli
resero possibile attuare il colpo di Stato del 1851, poi confermato con un
plebiscito, che portò alla proclamazione dell’impero nel 1852. Grazie anche al suo carisma, Napoleone III poté instaurare un regime autoritario, mettendo la magistratura sotto il controllo del governo e aumentando il
potere di sorveglianza della polizia. Ma con Napoleone III la Francia
riprese pure una forte politica
coloniale (conquista della Cocincina, protettorato sulla Cambogia, apertura del canale
di Suez su un’iniziativa francese), inoltre vennero istituiti forti organismi bancari e notevole impulso fu
dato all’ampliamento della rete ferroviaria nonché al settore
siderurgico.
D’altronde,
l’autoritarismo del regime
si attenuò parecchio, come Luigi Bonaparte aveva promesso. Era chiaro
comunque che il periodo della
borghesia rivoluzionaria era
terminato e che il conflitto sociale sarebbe stato soprattutto quello tra il “lavoro”
(operai e contadini) e il “capitale”, anche
se non si deve trascurare il ruolo crescente dei ceti medi (piccola borghesia, funzionari statali, ufficiali, liberi professionisti, commercianti e così via)
o la questione del nazionalismo, tanto più che in certi Paesi era sempre “viva” la
questione dell’indipendenza o dell’unificazione nazionale. Ma sotto questo
aspetto, decisiva per gli equilibri europei (e mondiali) sarebbe
stata la politica
della Prussia.
Anche in Prussia le idee liberali e
democratiche circolavano, ma la
tradizione militare e il forte senso del dovere nei confronti dello Stato e delle
sue istituzioni prevalevano su tutto. Nel marzo del 1848 si ebbero comunque duri scontri a Berlino
tra rivoltosi e l’esercito, che sembrarono trasformare la Prussia in uno Stato liberale, ma alla fine prevalse una politica conservatrice che portò alla costituzione
del febbraio del 1850, rimasta in vigore fino al 1918. Decisiva per la politica
prussiana fu pure la formazione dell’unione doganale tedesca
(Zollverein) del 1852,
di cui la Prussia aveva la laeadership indiscussa e che si
ritiene abbia accelerato l’espansione economica
della Germania, la quale, grazie allo sfruttamento dei
giacimenti di carbone della Ruhr, della
Saar e della Slesia, era ormai la prima potenza industriale del continente europeo.
L’intenzione della Prussia era appunto di avvalersi di tale
potenza per prendere la guida politica dell’intera Germania e attuare una politica che ridefinisse gli equilibri europei. Grande interprete di questa politica
fu Otto von Bismarck il quale,
sostenne la riforma
militare che avrebbe
dovuto garantire alla Prussia il
“mezzo” indispensabile per raggiungere il proprio scopo
politico. Al riguardo, è indispensabile spendere
qualche parola sulla celebre
opera di Clausewitz, Della guerra[21], onde evitare di
avallare tesi del tutto infondate e arbitrarie riguardo all’influenza che il
pensiero del teorico prussiano avrebbe avuto sui conflitti europei
e la politica di potenza
tedesca. In
particolare, si deve evitare l’errore (tipico di autori di lingua inglese e recentemente ripetuto da Keegan
in La grande storia della guerra), secondo cui Clausewitz sarebbe stato una sorta di “apostle of total war”, o di “evil genius
of military thought”, responsabile dei massacri della
Grande guerra. In realtà Clausewitz, patriota prussiano che visse sino in fondo le contraddizioni del suo tempo, basò la sua opera sulla comprensione delle
“lezioni” della rivoluzione dell’89 e delle guerre napoleoniche. La sua opera
perciò non è tanto prescrittiva quanto piuttosto
descrittiva. Il teorico prussiano può aver sottovalutato gli aspetti culturali della guerra (come
ritiene Keegan), ma sostenere che con Clausewitz balza in
primo piano, a scapito di ogni altro
aspetto,
l’annientamento del nemico e la guerra come “assoluto, privo di limiti”, e quindi
che Clausewitz preparò il terreno per il
militarismo e i massacri della Grande guerra, significa affermare l’opposto di quello che Clausewitz afferma esplicitamente (sia pure secondo
uno “stile di pensiero”
che richiede una certa familiarità con la filosofia
tedesca del tempo e in specie quella hegeliana).
La celeberrima frase
“la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, non significa
altro che è il Politico
(che per Clausewitz coincide con lo Stato
o il governo), cioè la razionalità politico-strategica, a dirigere
gli “affari militari”, non viceversa[22]. Limitarsi ad
affermare che Clausewitz definisce la guerra come un assoluto, ovvero un fenomeno «in cui mai si potrà introdurre un principio moderatore»
è totalmente scorretto e “falsa” il suo pensiero non perché non vi siano queste
parole nell’opera di Clausewitz (Della guerra, libro I, cap. I, § 3, Mondadori, Milano, 1982,
p. 21), ma perché
si altera del tutto il senso di esse, se non si precisa che
secondo Clausewitz «poiché i due avversari non sono
semplici astrazioni, ma Stati e governi reali,
la guerra esce dal campo ideale […] Ritorna qui in campo un argomento che pel momento avevamo lasciato
da parte (v. n. 2) e cioè lo scopo politico
della guerra» (Della
guerra, libro I, cap.
I, § 10 e § 11, cit., p. 27).
Quel che
conta davvero per Clausewitz allora
è il legame necessario tra il Politico e la guerra.
Ragion per cui essenziale è che scopo
politico e obiettivo militare siano convergenti. Che Clausewitz abbia posto l’accento sullo
Stato (nella cosiddetta “trinità”: popolo, esercito, Stato, corrispondenti al cieco istinto
della massa, alla
libera attività dell’anima e all’elemento razionale), è comprensibile, considerando sia il periodo storico in cui scriveva (il che può aiutare a spiegare perché egli non abbia
dato il “giusto” peso a quella
“strategia indiretta” che per Sun Tzu è l’arte suprema
della guerra), sia il ruolo dello jus publicum europaeum nelle
relazioni internazionali (da tener presente pure per intendere correttamente la dottrina hegeliana dello Stato)[23]. In ogni caso, quel
che conta per Clausewitz è il fatto che la guerra è un «atto di forza che ha per iscopo
di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra
volontà» (Della guerra, libro I, cap. I, § 2, cit.,
p. 19). Giustamente,
dunque, Gramsci sostiene che «Bismarck, sulla traccia
di Clausewitz, sosteneva la supremazia del
momento politico su quello militare, mentre Guglielmo II, come riferisce
Ludwig, annotò
rabbiosamente un giornale in cui l’opinione di Bismarck era riportata: così i Tedeschi vinsero
brillantemente quasi tutte le battaglie ma perdettero la guerra»[24]. Difficilmente in poche
parole si poteva rendere meglio la questione dell’influenza dell’opera di Clausewitz sulla
politica e su quella “ideologia tedesca” che fu alla base
della riforma di Roon e Moltke[25].
Furono infatti Roon (ministro degli Esteri) e soprattutto Moltke
(capo di Stato maggiore) che
portarono a compimento la riforma dell’esercito prussiano, che era cominciata nell’ultima fase delle guerre napoleoniche. Fu istituito un servizio
di tre anni nell’esercito attivo, di quattro nella riserva
e di cinque nella milizia mobile
(Landwehr); gli ultimi otto anni (fino a 40 anni quindi) si passavano nella milizia
territoriale (Landstrum). In questo modo l’esercito mobilitato si componeva di sette classi di leva, che potevano
salire rapidamente a dodici. L’istituzione che dirigeva l’intero
apparato militare era lo Stato maggiore, il “cervello
dell’esercito”. Fino allora venivano messi
insieme i vari servizi quando era necessario, invece
adesso vi erano degli ufficiali che dovevano
preparare piani operativi per ogni evenienza. Particolare cura si prestò
al servizio ferroviario e ai rifornimenti per un rapido trasferimento delle
unità militari al fronte. Moltke puntava molto anche sulla flessibilità operativa dello strumento bellico, stimolando lo spirito d’iniziativa, che con il tempo
si sarebbe diffusa “a cascata”, dallo Stato maggiore fino alle semplici
squadre di combattimento. Nel 1864 la Prussia,
alleata con
l’Austria, aveva sopraffatto facilmente la Danimarca, ma l’esercito
prussiano la vera prova la fece contro l’Austria nel 1866, entrata
in urto con la
Germania per l’amministrazione dei ducati dello Schleswig-Holstein, che erano stati la causa della guerra con
i Danesi.
Lo scopo di Bismarck era quello di ridurre l’Austria
a una potenza satellite della Germania, anche se ciò implicava la creazione di una “Piccola
Germania” (ossia una Germania
unita senza l’Austria). La prova venne
brillantemente superata dall’esercito prussiano
che inflisse una sconfitta decisiva agli Austriaci a Sadowa (il 3 luglio del 1866), costringendo l’Austria ad accettare che la Germania venisse unificata in base ai disegni
di Bismarck. I Prussiani avevano cominciato
a mobilitare dopo gli Austriaci, ma poterono usare cinque ottime linee
ferroviarie, contro una sola usata dagli Austriaci. Perciò i Prussiani, prima
che l’esercito austriaco si concentrasse in Moravia, invasero la Boemia, assicurandosi così una posizione strategica vantaggiosa.
Peraltro, Moltke, grazie al telegrafo, poté dirigere gran parte dei movimenti delle armate prussiane, dal suo ufficio
di Berlino, recandosi al fronte solo
alla vigilia della
battaglia. La vittoria
prussiana rese pure possibile all’Italia, scesa in guerra contro l’Austria, di annettere il Veneto,
benché fosse stata vinta per terra, a Custoza, e perfino sul mare, nella
disastrosa battaglia di Lissa.
A
Custoza (24 giugno 1866) un attacco della cavalleria austriaca “paralizzò”
l’ala destra italiana, mentre al centro la pressione austriaca divenne sempre
più forte costringendo gli italiani a ripiegare. Ma la ritirata su nuove
posizioni avvenne in buon ordine, di modo che nulla era perduto. Lamarmora aveva cinque
divisioni fresche e altre due in buone
condizioni da opporre agli
Austriaci che apparivano esausti. Ma, anziché tenere le posizioni e contrattaccare,
preferì ritirarsi dietro
l’Oglio, “regalando” così la vittoria agli Austriaci. A Lissa, il mese seguente,
andò, se possibile, ancora peggio,
nonostante che la flotta
italiana fosse nettamente superiore a quella
austriaca, allineando 12 navi corazzate e 19 di legno contro
7 navi di ferro e 20 di legno dell’ammiraglio Tegetthoff. Ma al momento dello
scontro la linea italiana era frazionata,
facendosi così cogliere di sorpresa dalla flotta austriaca. La punta del cuneo
austriaco riuscì a penetrare nello spazio apertosi nella fila italiana, dopo che la corazzata Re d’Italia aveva rallentato per consentire il trasferimento
dell’ammiraglio Persano su un’altra nave. Nella
mischia che ne seguì gli Italiani
persero la corazzata
Re d’Italia e la piccola
Palestro. La vittoria
prussiana poi “aggiustò” tutto, ma rimase la gravità di una sconfitta che era la spia di problemi che andavano ben
oltre la sfera
militare[26].
Le vicende dell’Italia non suscitarono scalpore in Francia
che invece fu impressionata dalla vittoria prussiana, ma non al punto da valutare
con obiettività quale fosse la reale forza della Prussia. La stessa riforma
del 1868 si limitò a portare a
quattro gli anni nella riserva, ma dei riservisti si continuava a non aver fiducia, mentre la guardia nazionale doveva badare all’ordine interno. Bismarck
invece era sicuro della vittoria e provocò deliberatamente la Francia. I Francesi,
accecati dallo sciovinismo, caddero nella trappola tesa loro dal cancelliere prussiano. Eppure non si deve pensare
che per l’esercito prussiano, rinforzato pure da altri soldati
tedeschi, sia stato facile
battere la Francia nel 1870.
La campagna
contro l’Austria del 1866 aveva già evidenziato i difetti ancora
presenti nell’esercito prussiano. Le truppe, ad esempio,
per inesperienza avevano attaccato o
troppo presto o dalla parte sbagliata. La guerra
franco-prussiana confermò non solo che vi erano
ancora questi problemi, ma che i soldati francesi (come quelli italiani)
avrebbero meritato comandanti migliori.
La Prussia mobilitò tre armate (380.000
uomini; altri tre corpi erano disponibili, ma per il momento erano tenuti in
riserva per far fronte ad una eventuale minaccia austriaca) in diciotto giorni
(ci vollero cinque
settimane per radunare
e trasferire al fronte l’esercito). I Francesi radunarono 200.000 soldati (sebbene poi salissero a
300.000), ma solo una parte di loro era al fronte per la confusione creatasi
durante la mobilitazione. Moltke intendeva vincere la battaglia decisiva nella
Saar, facendo leva sulla superiorità numerica del proprio esercito. Nella
“nebbia della guerra” vi furono scontri duri ma confusi. Comunque furono
l’imperizia e l’indecisione del generale francese Bazaine, che non seppe
nemmeno sfruttare le buone occasioni che gli si presentarono nella battaglia di
Gravelotte (18 agosto del 1870), a favorire i Tedeschi[27].
Dopo Gravelotte, Bazaine decise
di ripiegare su Metz con i resti del suo esercito, rimanendo
di conseguenza intrappolato in questa città. Anche l’armata di MacMahon (con la quale
si trovava pure Napoleone III), dopo un
scontro a Beaumont, vicino alla frontiera belga, si trovò imbottigliata a
Sedan, ove si era diretta anche la
IV armata tedesca. Dopo
un vano tentativo di rompere l’assedio, l’imperatore francese
fu costretto ad arrendersi (2 settembre). Crollava
così il Secondo impero e veniva proclamata
la Terza repubblica, ma la guerra
ormai era persa, poiché la Francia
non aveva più un esercito organizzato da contrapporre a quello di Moltke, che cingeva d’assedio Metz e Parigi.
L’agonia francese
durò ancora qualche mese, durante i quali l’improvvisata
“resistenza popolare” venne facilmente debellata dai Tedeschi.
Pertanto, il 28 di gennaio
del 1871 la Francia dovette
capitolare. Il trattato
di pace, firmato
il 10 maggio, le imponeva
non solo di cedere l’Alsazia-Lorena,
ma di pagare una salatissima indennità di guerra. La sconfitta, e soprattutto il modo in cui il Paese era stato sconfitto, e la rabbia nei confronti
dell’occupante fecero esplodere il malcontento popolare. La Comune di Parigi durò
poco, ma le riforme
che promosse avevano il chiaro scopo di giungere ad una trasformazione radicale della società
e dello Stato.
Com’era
prevedibile, l’esercito francese, formato in buona parte da prigionieri rilasciati dai Tedeschi,
diede inizio ad un secondo assedio di Parigi. La Comune (che aveva pure previsto la sostituzione
dell’esercito permanente con la milizia
popolare) oppose una tenace resistenza all’esercito del governo di Versailles, che comunque entrò a Parigi il
21 maggio, anche se ci volle ancora una settimana di violentissimi scontri per
debellare gli insorti. La repressione fu feroce: decine di migliaia di morti e
di deportati si aggiunsero ai caduti durante la battaglia. Eppure la Francia si
riprese rapidamente,
riuscendo a pagare l’indennità di guerra senza
particolari problemi, sorprendendo lo stesso Bismarck, che tuttavia era
riuscito a realizzare il suo disegno. Proprio
a Versailles, il 18 gennaio, dieci
giorni prima della
capitolazione della Francia, il re Guglielmo di Prussia era stato proclamato Deutscher Kaiser (“imperatore
tedesco”).
Era chiaro
ormai che gli equilibri geopolitici e sociali
dell’Europa erano mutati e che
le conseguenze della
rivoluzione francese e della rivoluzione industriale non potevano essere di breve durata. La Comune
parigina poteva venire soffocata nel sangue,
ma già nel 1864 era nata la I Internazionale, soprattutto per l’impegno di Marx. I dissensi con gli anarchici di
Bakunin (che si staccarono dall’Internazionale nel
1872) e le polemiche che
si ebbero dopo il fallimento della Comune,
portarono allo scioglimento dell’organizzazione,
ma nel 1875 due organizzazioni dei lavoratori tedeschi
si fondevano, dando
origine al partito socialdemocratico tedesco,
e le idee socialiste (marxiste
e non) si diffondevano rapidamente in Europa, portando alla nascita
della II Internazionale, destinata a durare fino alla Grande guerra. Anche la
chiesa cattolica,
considerata un “bastione della reazione”, si confrontava con la questione sociale, benché ferma rimanesse la condanna del
socialismo. Inoltre, il processo
di industrializzazione continuava a trasformare il modo di produrre e di vivere degli Europei,
anche se in buona misura era il mondo contadino a dovere pagare il prezzo di questi cambiamenti.
La stessa Germania di Bismarck doveva confrontarsi con tali questioni, benché in un contesto storico radicalmente diverso
rispetto a quello creatosi con la sconfitta di Napoleone nel 1815. Sul piano
della politica interna, dopo l’unificazione del Paese, la presenza dei cattolici costituiva un serio problema per il cancelliere. Bismarck
cercò di risolverlo con una serie di leggi che non riuscirono ad eliminare la forza politica
dei cattolici, tanto che fu obbligato a fare
una parziale marcia
indietro. Notevole fu invece
la legislazione sociale
al fine di sconfiggere il partito socialdemocratico. Queste leggi (tra
cui, oltre all’assistenza contro
le malattie e gli infortuni, degna di menzione
è la legge sulle pensioni di vecchiaia) posero la Germania all’avanguardia
anche nel settore delle riforme sociali, ma non
indebolirono il partito socialdemocratico, che anzi accrebbe i propri consensi. Ma se la lotta con i
cattolici e i socialisti si mostrava molto più aspra di quel che Bismarck
si era aspettato, era
l’intero sistema geopolitico che egli si era impegnato
a costruire che minacciava di crollare.
In effetti, la politica di Bismarck mirava a rafforzare lo Stato tedesco
mediante la difesa di un equilibrio
geopolitico che non permettesse la formazione di un’alleanza tra
Francia e Russia
in funzione antitedesca, dato che una tale alleanza avrebbe obbligato la
Germania a battersi su due fronti contemporaneamente. Perno della politica di potenza di Bismarck era quindi
l’alleanza tra
Germania, Russia e Austria. Ma la guerra
russo-turca
(1877-78), conclusasi con la vittoria della Russia, che impose ai Turchi un trattato contrario agli
interessi dell’Austria, obbligò
Bismarck ad una dolorosa
scelta di campo[28]. Il Congresso di Berlino
del 1878 (13 giugno-13
luglio), cui parteciparono i rappresentanti di tutte le potenze europee
(Germania, Austria-Ungheria, Russia, Turchia,
Italia, Francia e Gran Bretagna), se pareva
significare l’apoteosi della
diplomazia del cancelliere e il riconoscimento del ruolo egemone della Germania (come indicava la stessa
decisione di tenere il Congresso
nella capitale tedesca), in realtà segnava
la fine del tentativo di dar vita ad un “blocco continentale” basato sull’alleanza fra i tre imperatori (tedesco, russo e austriaco).
Il Congresso riconobbe l’indipendenza di Serbia,
Romania e Montenegro. La “Grande Bulgaria” venne divisa e si formò un principato di Bulgaria nominalmente dipendente dalla Turchia, che però dovette
cedere vari territori alla Russia e alla Grecia; alla Francia fu concesso di
occupare la Tunisia, la Gran Bretagna ottenne Cipro, mentre
l’Austria occupò militarmente la Bosnia-Erzegovina. L’impero ottomano dunque
ne uscì indebolito, il che aggravò
l’instabilità della regione, lasciando “aperta
la porta” alle
manovre delle grandi
potenze. Nel 1881
il patto dei tre imperatori
venne rinnovato, ma la questione dei
Balcani ne aveva alterato il significato, anche se con la Triplice
Alleanza (Germania, Austria, Italia) del 1882 la Germania cercava
dar vita a un nuovo equilibrio (anch’esso tutt’altro che stabile). Ma con la scomparsa di Guglielmo I e la salita al trono
del
giovane imperatore Guglielmo II era l’intera visione geopolitica di Bismarck che veniva messa
in discussione.
Di fatto,
la potenza della Germania non poteva più “manifestarsi nei canali
diplomatici” creati da Bismarck e le forze che erano favorevoli ad una espansione coloniale avevano
cominciato a prendere
il sopravvento già durante gli ultimi anni del
cancellierato di Bismarck,
che invece era contrario a questa svolta politica,
dacché riteneva essenziale evitare uno scontro con l’Inghilterra. Con
Guglielmo II, ostile alla politica del cancelliere orientata in senso
sempre più antisocialista, la “rottura” fu inevitabile e Bismarck nel 1890 dovette
ritirarsi, lasciando così
campo libero alla Weltpolitik del nuovo Kaiser. Ma la ragione di tale mutamento
non si spiega solo con la
differenza tra la personalità dell’imperatore e quella di Bismarck, pur se non si deve trascurare l’importanza dei singoli individui, in quanto interpreti di forze e tendenze “oggettive”. Invero,
l’impero
coloniale britannico e quello francese, parevano
impedire alla Germania di accedere a nuovi mercati, mentre Francesi e Inglesi estendevano la propria area di influenza in tutto
il mondo, cosicché
era ovvio che anche gli ambienti
della grande industria
tedesca fossero inclini
a cercare nuovi
spazi per l’economia tedesca.
D'altronde a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento «il volume degli
scambi internazionali e, soprattutto,
la crescita della produzione manifatturiera aumentavano
rapidamente. Lo sviluppo industriale, dapprima
limitato alla Gran Bretagna e ad alcune aree
dell’Europa
continentale e del Nordamerica, iniziava a trasformare altre regioni»[29]. In particolare, la Germania nel 1880 forniva
già l’8,5 cento della
produzione manifatturiera mondiale, contro il 7,8% della Francia.
Al tempo stesso si rafforzava il nazionalismo e si faceva
strada il pangermanesimo (la sola Germania nel 1880 contava 45 milioni di abitanti), concezione secondo cui tutti i Tedeschi
dovevano essere raggruppati in un unico Stato, la “Grande Germania”. Era l’inizio di un terremoto geopolitico, originatosi in Europa per l’“emergere” di una grande potenza continentale,
che non poteva né voleva accettare l’“ordine” e la
“pace” di Londra. Ma adesso la questione degli equilibri mondiali vedeva
entrare in gioco anche attori geopolitici non europei, ossia gli
Stati Uniti e il Giappone, quest’ultimo dopo una radicale e “dolorosa” trasformazione delle sue istituzioni, gli Stati Uniti
invece dopo una guerra civile,
considerata la prima guerra moderna e combattuta, peraltro, prima della
guerra franco-prussiana.
La guerra
civile americana e l’imperialismo. Se i reali contrasti
che portarono alla guerra di
secessione americana sono noti – il Nord industrializzato e protezionista era
contrario al tipo di economia sudista basata sulle piantagioni di cotone (cioè
sulla grande azienda agraria schiavista), e soprattutto all’introduzione di
questo genere di economia nei nuovi Stati dell’Ovest; mentre il Sud era liberista
e fautore di una maggiore autonomia dei singoli Stati
rispetto al governo
federale[30] – meno noto forse è
che già nell’Ottocento i salari negli Stati Uniti erano maggiori
di circa un terzo di quelli in Europa e che
l’abbondanza di terra, se rendeva scarsa la manodopera, nonostante il continuo
arrivo di migranti, oltre a tener alti i salari, favoriva pure grandi investimenti in macchinari.
Anche
il relativo “isolamento” del Paese
aveva permesso di concentrare la maggior parte
delle risorse nello sviluppo dell’economia, cui aveva dato
forte impulso la seconda
fase della rivoluzione industriale, con la ferrovia, il vapore e il telegrafo
che avevano reso più facile i collegamenti tra i vari Stati, mentre
crescevano gli scambi
commerciali con la Gran Bretagna. Invidiabile poi era la posizione geopolitica, dacché
all’infuori di un pericolo proveniente dal mare (ossia
dalla Gran Bretagna), gli Stati Uniti non correvano alcun rischio di
essere aggrediti da un’altra potenza.
Inoltre, se con la cosiddetta “dottrina
Monroe” (del 1823), gli Stati Uniti avevano
chiaramente fatto intendere che non avrebbero tollerato nessuna
“interferenza” europea negli affari interni del “Nuovo Continente”, nel 1819 si erano già fatti cedere la Florida dalla Spagna, nel 1846 si fecero
confermare
dagli Inglesi il possesso dell’Oregon e con la guerra contro il Messico (1846-48) entrarono in possesso del Texas, della California e di diversi altri territori. E nel 1867
acquistarono per 7,2 milioni di dollari l’Alaska dalla Russia, un acquisto che si sarebbe
rivelato assai prezioso
nel secolo seguente. Nel frattempo avevano respinto
le tribù indiane
al di là del Mississippi.
Pertanto, la vera questione da risolvere era come si sarebbe configurato il
grande Stato nordamericano in futuro e che tipo di politica avrebbe svolto
sulla scena mondiale una volta terminata la corsa verso l’Ovest,
dacché non vi erano né confini naturali né nemici in grado di ostacolare
l’espansione degli Stati Uniti. A risolvere tale questione sarebbe
stata la guerra
tra il Nord e il Sud.
Considerata la prima “vera” guerra moderna,
sia per il numero degli uomini che per i mezzi
impiegati, ma anche perché tale da coinvolgere la società nel suo complesso, implicando una sorta
di “mobilitazione totale”,
la guerra civile americana
anticipò quel che sarebbe stato evidente dopo la guerra franco-prussiana, ossia l’importanza sempre maggiore
della logistica e la necessità sia di ufficiali addestrati e preparati sia di un sistema di trasporti
efficiente e di un buon servizio di informazioni. Inoltre, ancor più
che nel conflitto franco-prussiano, si rivelò appieno l’eccezionale efficacia
delle armi da fuoco rigate che avvantaggiavano enormemente coloro che si
difendevano, in specie se disposti su posizioni naturali “forti” (colli,
alture, cime ecc.) o se protetti da opere difensive (capisaldi, trincee,
fortini ecc.). Ma
la guerra civile
americana dimostrò soprattutto che la guerra ormai si basava
su una mobilitazione/combinazione di tutti i fattori
sociali: militari, economici, tecnico- scientifici, culturali e ideologici. Sicché, perdere il passo con tale modernizzazione poteva equivalere
ad una drastica riduzione della potenza “relativa” di un Paese, con conseguenze disastrose in caso
di guerra. Tenendo conto di ciò,
l’esito del conflitto tra nordisti e sudisti, non era dunque
difficile prevederlo. Come avrebbe
potuto la “campagna” sconfiggere la “città”?
La
popolazione libera dell’Unione contava circa 19 milioni di individui (mentre i tre Stati
schiavisti dell’Unione contavano poco meno di 2,5 milioni di abitanti, di cui solo 430.000 circa
erano schiavi), la popolazione libera
della Confederazione invece ammontava a poco meno di 6 milioni di bianchi cui si dovevano
aggiungere poco più di 3,5 milioni di schiavi[31]. Ma com’era logico, i negri furono arruolati nell’esercito sudista solo negli ultimi
mesi di guerra.
Complessivamente fecero parte dell’Unione 2 milioni di soldati contro i 900.000 della
Confederazione. Ma era
sotto l’aspetto industriale che i
rapporti di forza tra i due contendenti vedevano nettamente in vantaggio il Nord: 34.022 km di linea ferroviaria
contro 14.141, 95.785 stabilimenti industriali contro 16.896, 801.257 operai
nel settore industriale contro 88.390; la sola Pennsylvania produceva 580.000 tonnellate di ghisa di prima
fusione contro le 36.700 di tutta la Confederazione. Migliore era la situazione del Sud nel campo
dell’agricoltura, ma non nel fondamentale settore della finanza, dacché
nell’Unione i depositi bancari ammontavano a 189 milioni
di dollari contro i 47 milioni
nella Confederazione, mentre
le riserve metalliche nell’Unione erano pari a 45
milioni di dollari e a 27 milioni di dollari
nella Confederazione.
Perfino per quanto riguarda le attività
commerciali, che pure erano fiorenti
nel Sud, la Confederazione si trovava in
forte svantaggio per la debolezza della propria marina mercantile.
E il Nord aveva stabilimenti per costruire motori marini, al contrario del Sud., anche
se era ovvio che il blocco navale
che il Nord avrebbe imposto al Sud sarebbe stato lungo e duro. La possibilità di aiuto esterno al
Sud esisteva, ma poteva venire solo dalla Gran Bretagna, che era sì favorevole al libero scambio
ma che difficilmente poteva impegnarsi in una guerra a grande distanza contro un
Paese così potente, e per difendere
un sistema sociale che si reggeva su principi opposti a quelli difesi dagli Inglesi. Ma anche per il Nord vi era un problema
serio, giacché per costruire una
“macchina bellica” efficiente ci voleva tempo.
E questo pareva dare qualche chance alla Confederazione, a
condizione che potesse infliggere il più rapidamente possibile all’Unione danni e perdite tali da indurla ad accettare le rivendicazioni del
Sud oppure la stessa secessione come un “fatto compiuto”.
In effetti, nella
prima fase della
guerra sembrò possibile che si verificasse un tale scenario, grazie
alle vittorie dei confederati che sconfissero i nordisti
nella battaglia di Bull Run
(luglio 1861) e, guidati da Lee, respinsero l’attacco di McClellan contro la
capitale della Confederazione, Richmond. Respinta l’armata di McClellan, Lee si
rivolse contro l’armata di Pope, disfacendola completamente nella
seconda battaglia di Bull Run (agosto 1862).
Lee passò quindi alla controffensiva invadendo
il Maryland, ma la disparità delle forze in campo
si rivelò troppo grande anche per un generale abile come Lee e dopo la battaglia di Antietam (combattuta il 17 settembre del 1862 e che vide circa 50.000 confederati con 200
cannoni opporsi ai 90.000 uomini e 275 cannoni
di McClellan) Lee dovette fare marcia
indietro.
La campagna del Maryland era stata dunque un
fallimento sotto il profilo strategico, e ciò era tanto più preoccupante per il Sud dacché, nell’aprile dello stesso anno, un esercito
dell’Unione, comandato da Ulysses Grant, aveva
respinto a Pittsburg Landing, nel Tennessee, un attacco sudista, sia pure a
carissimo prezzo (la battaglia è nota anche come battaglia di Shiloh). I
confederati però vinsero nuovamente a Fredericksburg (dicembre 1862) e a Chancellorsville (maggio 1863), ma non furono battaglie decisive. Allora Lee
decise di invadere di nuovo il Nord, minacciando la stessa Washington. La battaglia decisiva
della campagna
(e con ogni probabilità dell’intera guerra) venne combattuta a Gettysburg nel luglio del 1863. L’armata
della Virginia settentrionale contava in tutto circa 80.000 uomini
(compresa la cavalleria di Stuart), mentre l’armata del Potomac, comandata da Meade, contava,
al 30 giugno, 104.256 soldati, da cui si devono sottrarre diverse truppe non
immediatamente combattenti, per cui Meade
disponeva di 85/95.000 soldati.
Un rapporto di forze che favoriva non poco i difensori (ossia i
nordisti), i quali, tra l’altro, occupavano un’ottima posizione che correva da Culp’s Hill fino a Little Round Top attraverso la
Cresta del Cimitero che dominava il terreno circostante. Eppure, un errore del
generale nordista Sickles, che spinse imprudentemente avanti il suo corpo d’armata, offrì
una buona opportunità ai
confederati, che dopo aver respinto
il corpo di Sickles assaltarono Little Round Top
e furono fermati solo dopo durissimi combattimenti. Lee si risolse
quindi a lanciare un attacco contro il centro dello schieramento nemico. Si trattava di una scelta audace,
che in alcune battaglie del passato aveva garantito il successo, ma sul campo
di battaglia di Gettysbug, nel 1863,
contro un difensore tenace, armato con fucili ad anima rigata, si rivelò disastrosa. La divisione Pickett si
lanciò contro le posizioni unioniste che difendevano la Cresta del Cimitero (assalto
noto come Pickett’s charge), ma subì perdite
spaventose (circa il 50% degli
effettivi).
Lee
quindi non poté che “gettare la spugna”, anche se l’Armata sudista si ritirò in buon ordine, non inseguita da Meade, timoroso
di offrire al generale
sudista la possibilità di una rivincita. Ma le cifre
non lasciavano dubbi sulla
disfatta subita dalla
Confederazione, che aveva perduto
quasi 29.000 uomini, mentre l’Unione ne aveva perduti 23.049; e molti feriti
sudisti erano stati presi prigionieri (in tutto i prigionieri presi dai nordisti
furono 12.700)[32]. Si trattava di perdite davvero
eccessive per la Confederazione. A Gettysburg si era
infranto definitivamente il sogno sudista
di rovesciare le sorti della
guerra con una grande vittoria in campo aperto.
Ma ancora più grave per il Sud era
che, pochi giorni prima che le
truppe di Lee ripassassero sconfitte il Potomac,
la fortezza di Vicksburg era caduta, dopo un assedio di un anno, nelle mani del generale Grant.
Con la vittoriosa campagna nella valle del
Mississippi, mentre la marina unionista bloccava
le coste della Confederazione (nell’aprile del 1862 l’ammiraglio nordista Farragaut aveva preso il porto di New Orleans), Grant aveva spezzato la linea di difesa sudista nell’Ovest. Vittoriosi anche a Chattanooga (nell’autunno del 1863) i
nordisti puntarono sulla città di Atlanta, che cadde
nel novembre del 1864. Cominciò allora la
“cavalcata” del generale Sherman, che mise a ferro e fuoco
la Georgia, conquistò Savannah e Charleston, e poi risalì verso nord prendendo “alle
spalle” i confederati, che, dopo
essere stati sconfitti da Sheridan nella
battaglia di Five Forks (aprile
1865), dovettero abbandonare la stessa Richmond. La morsa si era chiusa intorno agli uomini
di Lee. La guerra terminò così ad Appomatox, il 9 aprile
del 1865, allorché
Lee dovette arrendersi a
Grant. All’Unione la guerra era costata circa 360.000 morti e alla Confederazione 258.000. Inoltre, la politica di Lincoln
aveva trasformaato la guerra tra nordisti e sudisti in una guerra contro la
schiavitù, promuovendo la democraiza e favorendo la parità dei diritti[33].
La guerra civile
americana, peraltro, non passò inosservata in Europa,
ma non la si studiò con l’attenzione che meritava, ritenendo, erroneamente, che i suoi
insegnamenti valessero perlopiù per il continente americano (maggiore attenzione si prestò
alla guerra sul mare che aveva visto
l’impiego di “semisommergibili” nonché
lo scontro di Hampton Roads,
nel marzo del 1862, tra la corazzata sudista
Merrimack e
il Monitor, un “battello corazzato” nordista)[34].
Fondamentale però per la “forrmazione” della
nazione americana fu anche la guerra contro i Pellerossa[35].
Dopo la guerra d’indipendenza, fu inevitabile che i coloni cominciassero
a spingersi oltre la linea degli Appalachi, scontrandosi con i nativi, i quali
però trovarono nel capo dei Miami, Piccola Tartaruga, un condottiero d’eccezione, che dopo aver teso con successo
un’imboscata agli uomini
del generale
Harmar nel 1790, riuscì ad infliggere all’esercito degli Stati Uniti una memorabile sconfitta
nella battaglia sul fiume Wabash (combattuta il 4 novembre del 1791), in cui gli Statunitensi guidati
da St. Clair persero quasi mille uomini. Nondimeno, tre anni
dopo i nativi commisero l’errore di attaccare le forze
superiori di Anthony Wayne, presso
Fallen Timbers nell’Ohio, dando modo
all’esercito degli Stati Uniti di prendersi la rivincita.
Si giunse così a firmare il trattato di pace di Greenwille, che segnava una
linea ai demarcazione tra i territori degli Indiani e quelli degli Statunitensi. Benché gli scontri
non cessassero e i coloni
continuassero a varcare
la “frontiera”, per alcuni decenni
la situazione non degenerò, anche perché i
coloni non erano moltissimi. Quando però venne
scoperto l’oro in California nel 1848, la corsa all’Ovest divenne
inarrestabile, minacciando l’esistenza stessa dei nativi nomadi
della Grande Prateria (che adesso “faceva gola” pure ad allevatori che con i loro
cow-boys, cioè “vaccari”, affluivano in numero sempre maggiore).
Tuttavia,
già prima di questa data a Washington
si era fatta strada
l’idea di concentrare i nativi americani in un territorio ad ovest del Mississippi, ovviamente allo scopo di
“civilizzarli”. Nel 1830, infatti, gli Stati Uniti avevano approvato l’Indian
Removal Act, che costrinse circa 100.000 indiani a trasferirsi ad ovest del
fiume Mississippi. I nativi americani costretti a migrare in condizoni
terribili furono quindi decimati. Com’è logico, questa politica del governo
degli Stati Uniti nei confronti dei nativi avrebbe
portato a diversi scontri e a dei veri e propri massacri. Nel 1863 la tribù dei Navajo fu costretta con la
forza ad abbandonare la propria terra. Il loro bestiame fu ucciso e le loro
case e i loro raccolti vennero bruciati. I Navajo dovettero allora percorrere a
piedi centinaia di chilometri fino ad una riserva nel Nuovo Messico, e chi
rimaneva indietro (malati, vecchi e donne incinte) veniva barbaramente ucciso.
Tristemente noto, del resto, è anche
il massacro di Sand Creek nel
novembre del 1864, in cui
furono uccisi oltre 150 Cheyenne e Arapaho.
Fu dopo la fine della guerra civile
comunque che si decise la “soluzione finale” della questione dei nativi americani. Lo straordinario sviluppo delle ferrovie
che si ebbe dopo la guerra
nei territori dell’Ovest (la ferrovia transcontinentale fu completata nel 1869) favorì
l’arrivo di nuovi coloni, compresi agricoltori
stanziali e avventurieri d’ogni risma, e
indusse i responsabili delle Compagnie delle ferrovie ad organizzare la caccia al bisonte, onde ricavarne della carne
alimentare. Ma con la ferrovia arrivarono pure le truppe comandate dal generale
Sheridan, che aveva preconizzato e condotto la guerra totale nel Sud.
Secondo Sheridan, infatti, era necessario incendiare
i raccolti, demolire le case e distruggere le risorse del Paese nemico, per affamare donne e bambini,
costringendo così i nemici
ad arrendersi[36]. Pertanto, Sheridan decise di applicare
lo stesso “metodo” contro i Pellerossa, sterminando i bisonti per ridurre i
“musi rossi” alla fame e alla resa. Come se non bastasse furono scoperti dei giacimenti d’oro nelle Colline Nere,
ubicate al confine tra il Wyoming e
il Dakota, ossia nel territorio dei Sioux, i quali non erano disposti a cedere quest’area agli Stati Uniti, dacché
ritenevano che fosse una
“terra sacra”. Contro i Sioux venne
quindi intrapresa una campagna militare che prevedeva la distruzione dei loro villaggi.
La colonna comandata dal generale George Crook,
che contava circa un migliaio di uomini, fu attaccata di sorpresa presso Rosebud Creek
(17 giugno 1876)
da circa 700 Indiani guidati da Cavallo Pazzo, che, sfruttando abilmente il terreno
e lanciando improvvise cariche di cavalleria, obbligò gli uomini di Crook (il
quale nel 1872 aveva sconfitto gli
Apache) a tornare alla propria base. Dopo questa vittoria, il grande accampamento indiano (che comprendeva, oltre ai Lakota Sioux, Cheyenne e Arapaho) venne
spostato sulle rive del Little Big
Horn, per contrastare un’altra colonna, dalla quale si era distaccato il 7° cavalleria del
tenente colonnello Custer[37], il cui compito
consisteva nell’attaccare
l’accampamento indiano da sud, mentre
il resto della
colonna, comandata dal generale Terry, doveva attaccare da nord.
Custer, nel 1868, si era già “distinto” con il 7°
cavalleria nell’assalto contro il pacifico villaggio dei Cheyenne di Pentola Nera, massacrando un centinaio di Indiani,
mentre la banda militare del
7° suonava Garry Owen[38]. Volendo ripetere
il “successo” contro Pentola Nera, Custer divise la sua colonna in quattro sezioni, dando l’ordine d’attacco senza aspettare
l’arrivo di Terry. Questa volta
aveva però fatto male i suoi conti e i Pellerossa guidati
da Cavallo Pazzo e Toro Seduto
annientarono la colonna
di Custer. D’ora in avanti
l’esercito statunitense non avrebbe più commesso l’errore di
sottovalutare gli Indiani e avrebbe impiegato mitragliatrici e artiglieria. I coraggiosi Sioux
cercarono ancora di resistere, ma il primo maggio del 1877 Cavallo
Pazzo con i suoi guerrieri fu costretto ad arrendersi alla soverchiante potenza
di fuoco degli Statunitensi.
La guerra contro
i Pellerossa però non era terminata, giacché
non era ancora stato sconfitto Giuseppe, il
leggendario capo dei Nez Percés (Nasi Forati), nelle cui terre erano stati scoperti dei giacimenti d’oro, di cui ovviamente gli Statunitensi volevano impadronirsi. Giuseppe riuscì a tenere
testa agli Statunitensi, infliggendo loro anche cocenti
sconfitte, ma neppure Giuseppe e i suoi valorosi guerrieri poterono sottrarre il proprio popolo
alla sorte già toccata
agli altri nativi.
Varcate le rive del Missouri
per dirigersi in Canada, che distava ormai
solo 50 chilometri, i guerrieri indiani
si trovarono la strada sbarrata
dall’esercito degli Stati Uniti e Giuseppe, per evitare una strage, il 5 ottobre del 1877, preferì arrendersi al colonnello
Miles insieme con i suoi 79 guerrieri, metà dei quali feriti. Ma ci erano voluti 2.000 soldati
per aver ragione
degli Indiani di Giuseppe, i quali, solo nell’ultima battaglia, causarono
ai loro nemici 266 perdite. Nel 1886 venne catturato anche il capo degli Apache, Geronimo. La conquista dell’Ovest da parte
degli Stati Uniti adesso si poteva ritenere
davvero terminate
Le
guerre indiane conobbero però un altro tragico episodio, allorché (il 29
dicembre 1890), nella valle del torrente Wounded
Knee, i soldati del 7° cavalleria massacrarono circa 300 Sioux, inclusi
donne e bambini, che dopo l’assassinio di Toro
Seduto (il 15 dicembre del 1890) si stavano dirigendo (guidati da Piede Grosso)
verso Pine Ridge,
per mettersi sotto la protezione di Nuvola Rossa. In
definitiva, benché anche alcolismo e corruzione avessero contribuito ad
indebolire i popoli della Grande Prateria,
la sconfitta dei Pellerossa fu possibile essenzialmente perché non presentarono un
fronte unito e compatto contro gli invasori e ovviamente per la superiorità
materiale e tecnica dell’esercito statunitense. All’inizio del XIX secolo si
calcola che i nativi americani negli Stati Uniti fossero 600.000 ma alla fine
del 1800 erano circa 237.000[39].
D’altro canto,
non si deve nemmeno trascurare che perfino il
Sud venne ridotto ad uno stato “semicoloniale”,
tanto che nel 1900 produceva solo il
10% della ricchezza nazionale. Di fatto, il Sud divenne «mercato obbligato di
sbocco per la produzione industriale del Nord (in seguito alla tariffa di
protezione)»[40] e venne imposta pure una fortissima tassa sul cotone,
mentre i negri venivano aizzati contro i vinti da
demagoghi sudisti, alleatisi con speculatori settentrionali, che avevano preso il posto delle élites locali. Tutto ciò, oltre a suscitare un forte risentimento verso il Nord, portò alla formazione di società segrete
(tra cui il Ku-Klux-Klan), che avrebbero inciso profondamente sulla
storia politica e sociale degli Stati Uniti.
Con la fine della guerra di secessione non si vennero
a creare però solo le condizioni che mutarono la struttura
sociale del Sud e che segnarono il destino degli Indiani, ma l’intero Paese
nordamericano si trasformò ancor più rapidamente di quanto si fosse verificato nei decenni
precedenti, tanto più che la guerra aveva dato forte impulso all’industria statunitense aprendo
la strada ai magnati delle ferrovie (Vanderbilt) e del petrolio (Rockefeller).
Del resto, se da un
lato, il “mito americano” attirava
un numero sempre
maggiore di immigrati, che venivano assimilati piuttosto rapidamente
da un Paese in espansione e continua crescita, dall’altro, era inevitabile che la “macchina” che si era messa in moto contro i Pellerossa non si fermasse
sulle sponde del Pacifico.
Forse che non erano
state le “navi nere” del commodoro americano Matthew Perry
nel 1853, cioè assai prima
della guerra civile americana, ad obbligare il Giappone ad “aprirsi” al mercato
e all’Occidente, dopo oltre 250 anni di “isolamento”?
Certo, dall’inizio del XX secolo le
potenze straniere, Inghilterra in testa, premevano in questo senso. Ma senza
successo, al contrario degli Americani. Lo shock in Giappone fu enorme, e
l’ondata di xenofobia prevedibile, soprattutto quando arrivò (nel 1856) il
primo ambasciatore occidentale, l’americano Townsend Harris. In questi
secoli di “isolamento” dal
resto del mondo comunque il Giappone non era rimasto immobile
e i progressi del Paese risalivano almeno al XVIII secolo: «Si verificò allora
un aumento della popolazione, un grande aumento della produzione di riso, l’impianto di nuove colture [...] Le città si ingrandirono. Nel secolo
XVIII Yedo contava almeno
un milione di abitanti»[41].
In effetti,
il
Giappone feudale era già sulla “via del tramonto” quando apparvero le navi
americane, e l’era dei Meiji sarebbe incomprensibile senza la storia giapponese dei secoli precedenti. Il giovane imperatore Meiji Temno nel 1868 quindi prese in mano le redini del potere e trasferì la capitale a Tokyo (1869). La ribellione dei Tokugawa
venne soffocata e nel 1871 il feudalesimo fu abolito ufficialmente. Un anno dopo vennero resi obbligatori l’istruzione e il servizio militare. Nel 1877 venne domata l’ultima ribellione dei samurai, guidati dal “leggendario” Saigo Takamori, e il Giappone,
che contava più di
50 milioni di abitanti, cominciò a modernizzarsi
velocemente, cercando di conciliare “tradizione” e occidentalizzazione, benché in
un’ottica imperialistica e militaristica. Anche sotto questo
aspetto, le “navi nere” del commodoro Perry “avevano
fatto scuola”.
Mutava così la mappa geopolitica mondiale,
sebbene fosse sempre caratterizzata dal colonialismo, ragion per cui la
crescente rivalità tra potenze rese ancora più complicato il sistema delle
relazioni internazionali. Né si deve dimenticare che
nell’Ottocento si manifestarono anche
periodiche crisi di sovrapproduzione che divennero più frequenti a cavallo tra il XIX e il
XX secolo. Come sostengono Clough e Rapp,
«il “neoimperialismo” del periodo 1874-1915 fu motivato […] da una […] mistura di nazionalismo e di
volontà di espansione, e diventò particolarmente
virulento durante la “grande depressione” del 1873-
1896»[42].
Difatti,
nel maggio 1873
si verificò la crisi finanziaria della borsa di Vienna che si propagò
velocemente nei Paesi
europei e negli Stati Uniti.
La crisi finanziaria
naturalmente ebbe forti ripercussioni sull’economia
reale, specialmente nel settore industriale e
ferroviario, e vari Paesi adottarono il gold standard nel tentativo di stabilizzare la moneta e di frenare
l’inflazione e la speculazione. D’altronde, fu proprio nella seconda metà del XIX secolo che si verificò la seconda
rivoluzione industriale, contraddistinta da uno stretto rapporto tra scienza,
tecnologia e industria, e che portò a numerose invenzioni e scoperte, al predominio
dell’industria metalmeccanica e all’enorme sviluppo delle comunicazioni
(ferrovie e trasporti in generale, compreso il
telegrafo, usato in campo militare già nella guerra di Crimea). Pur rimanendo ancora essenziali il ferro e il carbone,
cominciò allora l’età del petrolio, dell’elettricità, della chimica e dell’acciaio549, e si crearono le condizioni per un’eccezionale
espansione del mondo degli affari e della finanza
internazionale, dato che i movimenti di capitale, che erano favoriti dalle
innovazioni tecnologiche, trovavano nel
credito industriale ottime opportunità d’investimento.
In
questo medesimo torno di tempo si assisté quindi ad una
fortissima concentrazione del capitale con la formazione di trusts (fusione di società o
industrie) e cartelli (accordi di mercato tra imprese), e ad una compenetrazione tra banche e industrie che promuoveva uno sviluppo capitalistico che non
si poteva più limitare all’ambito nazionale (gli investimenti inglesi
all’estero dal 1862 al 1893 aumentarono di oltre dieci volte)[43]. Pertanto, mentre la
“razionalizzazione” delle tecniche di produzione e dei ritmi di lavoro avrebbe condotto,
all’inizio del Novecento, all’adozione del cosiddetto “sistema
fordista” (attuato a partire dal 1913 da Henry Ford nella sua fabbrica di automobili e
che si basava su un tipo di produzione “a catena”
ideato da Frederick W. Taylor), si
era andata pure formando una eccedenza di capitale e di risorse
finanziarie che necessitava di nuovi mercati, dando così avvio a una nuova fase imperialistica incentrata sull’assoggettamento politico
ed economico dei Paesi più deboli.
È opportuno dunque tener presente che si
trattava sempre di mutamenti concernenti sia i rapporti sociali di produzione sia gli equilibri geopolitici mondiali,
perciò sarebbe errato interpretare questo complesso
processo di trasformazione in un’ottica economicistica. Quel che invece si deve evidenziare è che
già alla fine dell’Ottocento i fattori economici “veicolavano” precise “strategie di potenza”, ossia
erano espressione di differenti centri di potenza sia pure
ancora in formazione. Come sintetizza efficacemente La Grassa, «ogni crisi capitalistica
presenta sempre, nel suo primo manifestarsi, l’aspetto finanziario che
investe le borse valori, il sistema bancario, ecc.;
a volte con il crollo
violento e improvviso. Poi però,
in un più lungo lasso di tempo,
si vanno manifestando le disfunzioni nei vari mercati, ivi compreso quello della forza lavoro (le cui conseguenze sociali
diventano particolarmente gravi e avvertite dalla massa della
popolazione). E lo sconvolgimento dei mercati presenta gli aspetti della caduta
della domanda complessiva: degli investimenti (con crisi industriale) e dei
consumi per perdita di salari
[...] Infine, si presenta quella che, per i liberisti
(i più ingenui e rozzi “economicisti”), è una “eccezione” legata al
comportamento “irrazionale” degli umani: il regolamento di conti bellico»[44]. Si può comprendere allora perché l’imperialismo abbia contraddistinto in questo periodo la politica delle
potenze europee e non, benché fosse l’impero coloniale della Gran Bretagna
a registrare la maggiore espansione (un impero che contava quasi 400 milioni di abitanti
alla vigilia della
Grande guerra).
Fu
appunto in questi anni che avvenne la spartizone dell’Africa e dell’Asia. In
Africa si assisté alla rapida espansione dei domini
coloniali della Gran Bretagna. Gli Inglesi, dopo essersi assicurati il
controllo dell’Egitto (ovvero
dopo l’acquisto di circa la metà delle
azioni del Canale
di Suez), penetrarono nel Sudan, ove però dovettero combattere un duro conflitto con i dervisci, i quali, guidati
dal “Mahdi”, sconfissero un esercito anglo-egiziano a El Obeid (1883) e successivamente riuscirono
perfino ad assediare e sconfiggere le truppe anglo-egiziane a Khartoum (la città cadde nel 1885 e la guarnigione
anglo-egiziana venne massacrata). Il regime mahadista venne abbattuto solo dopo
la vittoria di Omdurman, nel settembre del 1898, quando 25.000
soldati anglo-egiziani, armati con fucili rigati, 44 cannoni e 20 mitragliatrici Maxim, e supportati da dieci cannoniere, fecero a pezzi l’esercito
mahdista che pure contava 60.000 uomini (l’esercito
mahadista subì perdite
spaventose, quasi 10.000
morti e oltre 16.000 feriti, contro meno di 50 morti e circa 400 feriti anglo-egiziani).
Il dominio inglese si estese anche alla Somalia e alla Nigeria,
mentre nel 1874 la Costa d’Oro (l’odierno Ghana)
fu dichiarata colonia britannica.
Diverse invece furono le vicende riguardanti il Sudafrica. Presa dagli Inglesi
la Colonia del Capo nel 1815, i Boeri furono respinti verso il Natal, in cui
diedero vita a due distinte repubbliche, quella dell’Orange e quella del Transvaal
(che nel 1870 contavano rispettivamente 30.000
e 40.000 bianchi contro i quasi 250.000 coloni del Capo)[45], riducendo ulteriormente
le terre appartenenti agli indigeni, in gran parte ridotti in schiavitù. La grave crisi finanziaria che attraversava la repubblica
del Transvaal non consentiva però ai
Boeri di far fronte alla forte e pericolosa
pressione degli Zulu.
Agli Inglesi si presentò allora
la possibilità di annettere questa repubblica con il
pretesto di difenderla dagli aggressivi guerrieri africani[46]. Ma la guerra
con gli Zulu non fu facile, dato che erano eccellenti guerrieri, con un forte
senso della disciplina. La tattica che preferivano
in battaglia (denominata impi)
consisteva nel far procedere il centro più lentamente delle ali, affinché queste ultime potessero avvolgere lo
schieramento avversario. Ad
Isandhlwana, nel 1879, gli Zulu travolsero un accampamento inglese (1.329
soldati del contingente coloniale inglese vennero uccisi dai guerrieri africani,
che avevano tratto in inganno gli Inglesi occultando il grosso delle proprie forze). Solo con il ricorso ad una
massiccia potenza di fuoco gli Inglesi
ebbero ragione degli Zulu, sconfiggendoli nella battaglia di Ulundi, presso il fiume
White Umvolosi.
Dopo la guerra con gli Zulu, nei territori
dei Boeri vennero scoperti dei giacimenti d’oro e di diamanti, il che indusse gli Inglesi ad
acquistare un protettorato a nord delle repubbliche
boere, amministrato dal governatore del Capo,
Cecil Rhodes, il quale fece il possibile per impadronirsi di tali
ricchezze, fino ad organizzare il raid di Jameson per provocare una guerra con i Boeri (il Transvaal
era tornato ai Boeri dopo che questi ultimi avevano sconfitto gli Inglesi nella
battaglia di Majuba Hill nel 1881). I Boeri passarono però subito all’offensiva, ponendo
l’assedio a Mafeking, Kimberley, Ladysmith. Invero i Boeri in questa guerra
si sarebbero dimostrati abilissimi tiratori (erano
armati con
l’ottimo fucile Mauser), profondi conoscitori del
territorio in cui combattevano e ottimi cavalieri, tanto da sopraffare gli
Inglesi a Colenso (1899) e a Spion Kop (ove
un esercito di quasi 30.000 soldati inglesi fu respinto da un’armata boera
di 6/8.000 uomini).
Di conseguenza, gli Inglesi dovettero far affluire
numerosi rinforzi (in tutto impiegarono oltre 200.000
soldati), per liberare le città assediate e sconfiggere i Boeri a Diamond Hill (giugno 1900). Il presidente del Transvaal, Krüger, dopo che i soldati
inglesi ebbero preso Pretoria (giugno 1900), chiese aiuto alla Germania,
ai Paesi Bassi e alla Francia, ma
senza alcun esito. I Boeri ricorsero
allora alla guerriglia, guidati da un capo di genio,
Christian de Wet, e furono
in grado di resistere altri due anni,
applicando fino all’estremo limite
il principio della nazione in armi. Per debellare
la resistenza dei Boeri, lord Kirtchner fece distruggere
le fattorie e internare la popolazione civile nei campi di concentramento (in
cui morirono circa 20.000 donne e bambini). Nel frattempo il Paese venne diviso
in diversi settori, e ciascuno di essi venne
“battuto” palmo
a palmo dagli
Inglesi, finché i Boeri, giunti
allo stremo delle loro forze,
dovettero arrendersi (1902).
Anche i domini coloniali francesi
conobbero una forte espansione in Africa. Del resto,
la Francia occupava
l’Algeria già dal 1830. Occupare però non
è sinonimo di “controllare”. La
politica d’intesa con i capi
locali fu un fallimento
e all’interno
del Paese regnava l’anarchia. I Francesi reagirono usando il “pugno di ferro”: distrussero uliveti, razziarono raccolti e bestiame, espropriarono terre per i coloni. La battaglia presso
il fiume Isly (1844), nelMarocco orientale sembrò mettere
fine alla resistenza algerina
e dare ai Francesi la possibilità di attuare una politica
di “pacificazione”. Ma il fuoco della rivolta
non si spense del tutto e dopo la sconfitta contro la Prussia nel 1870 la
ribellione divampò ancora e ci volle parecchio tempo per domarla, ma non fu mai soffocata del tutto.
Nel frattempo, la Francia muovendo dal Senegal e
dalla Costa d’Avorio, estese i suoi
possedimenti verso l’interno del continente africano. L’occupazione dell’Algeria permise poi ai Francesi
di penetrare in Tunisia (1881)
e di approfittare della debolezza
dell’esercito marocchino, sconfitto dalla Spagna a Tetuan e Gueldras (1860), per inglobare
anche il Marocco nel proprio impero coloniale (1912)[47].
Oltre
alla già menzionata politica coloniale tedesca nell’ultima fase del cancellierato
di Bismarck, occorre ricordare anche la politica coloniale dell’Italia e del Belgio, dacché anche questi Paesi parteciparono alla
spartizione di quel che rimaneva del
libero del territorio africano. L’impresa coloniale italiana
parve cominciare bene con l’acquisto della baia di Assab, nel Mar Rosso, e l’occupazione di Massaua, ma la
penetrazione verso
l’interno si rivelò ben più ardua e
una colonna di 500 soldati italiani venne massacrata a Dogali (1887).
Reclutando ascari e sfruttando le rivalità
tra gli indigeni, gli Italiani riuscirono comunque a fondare la colonia d’Eritrea e con gli Etiopi venne
firmato il trattato
di Uccialli, che secondo gli Italiani avrebbe dovuto comportare un protettorato italiano
sull’intero Paese.
Tuttavia, gli Etiopi interpretavano il trattato in modo assai diverso,
ragion per cui le ostilità non poterono che riprendere. Gli Italiani, pur
respingendo ad Agordat i mahadisti, che dal Sudan si infiltravano in Eritrea,
furono sopraffatti dagli Etiopi
ad Amba Alagi
e poi massacrati ad Adua.
Qui 17.500 soldati al comando
di Baratieri, senza alcuna conoscenza della zona né alcuna ricognizione,
avanzarono suddivisi in tre colonne (che non si “sostenevano” reciprocamente)
contro l’esercito di Menelik, molto più numeroso (60.000
guerrieri, forse addirittura 80/100.000), che disponevano di numerose armi da fuoco. Le
perdite furono enormi: 6.000 morti (di cui 1.000 ascari), 1.500 feriti,
2.700 prigionieri; persa pure tutta l’artiglieria[48].
L’Italia, umiliata, firmò il trattato di Addis Abeba con cui riconobbe
l’indipendenza dell’Etiopia (1896. D’altro canto,
anche la conquista
italiana della Libia fu
possibile per le gravi difficoltà nei Balcani che
doveva affrontare l’impero ottomano.
Il cosiddetto “scatolone di sabbia” (conquistato oltre a Rodi e ad altre isole dell’Egeo nel 1912), non lo si poté nemmeno
“pacificare” facilmente, tanto che nel settembre del 1915 (ossia dopo la disfatta di Gasr bu
Hàdi nell’aprile 1915, in cui caddero 256 soldati italiani
e 242 ascari) il dominio italiano
in Libia si sarebbe ridotto a pochi lembi costieri[49].
La vicenda del Congo belga rileva invece
per motivi differenti. Infatti, Carl Schmitt considera come ultimo grande
atto dello jus publicum europaeum
il Congresso di Berlino
(1884-85) che trattò la questione del Congo belga.
Le Disposizioni sul Congo
vengono definite da Schmitt «l’ultimo singolare documento di una
fede ininterrotta nella civiltà, nel progresso e nel
libero scambio, e della pretesa - che su tale fede si basava - alla libera
occupazione da parte europea
del suolo aperto del continente africano»[50]. Questa fase dello jus publicum europaeum era certamente improntata a concezioni
universalistiche, ma come nota Schmitt «con il termine umanità si intendeva
innanzitutto l’umanità europea, con civiltà ovviamente
solo la civiltà europea e il progresso era l’evoluzione lineare di questa
civiltà»[51]. Al Congresso di Berlino erano presenti anche gli Stati
Uniti, ossia una potenza extraeuropea, segno questo della crisi dell’eurocentrismo,
che secondo Schmitt si verificò nella seconda metà del
XIX secolo, con la progressiva espansione dell’economia mondiale e con
accordi internazionali positivistici (come le conferenze dell’Aja
del 1899 e del 1907), che venivano a
sostituire un ordinamento di tipo “spaziale”.
Invero, una volta conquistato l’Ovest, consolidato il dominio sulla Grande Prateria, a scapito dei Pellerossa, e riordinato il Paese in
funzione degli
interessi del Nord, l’“isolazionismo” diffcielmente poteva essere la
caratteristica della politica estera della élite dominante
statunitense. Si decise allora di formare una marina oceanica anche
per influenza della
concezione sostenuta da Alfred T. Mahan, che metteva in risalto i vantaggi
che potevano derivare
dal dominio dei mari. Come scrive Santoni
«la prima avanzata
americana sugli oceani
si ebbe
con l’acquisizione dell’arcipelago delle Hawaii nel Pacifico, dove nel 1893 erano avvenuti
alcuni moti di piazza, sostenuti dai più influenti proprietari terrieri
legati agli Stati Uniti e protetti dal drappello dei marines dell’incrociatore corazzato Boston, che portarono alla caduta della
monarchia e alla proclamazione della repubblica»[52].
Le Hawaii
furono però annesse
agli Stati Uniti solo nel 1898, allorché gli Americani erano impegnati
in una guerra contro la Spagna, ossia in una ulteriore avanzata su entrambi gli oceani. Da tempo Washington appoggiava una rivolta a Portorico e a Cuba contro gli Spagnoli, ma l’occasione per intervenire direttamente si presentò allorché la corazzata statunitense Maine, che
si trovava all’Avana
allo scopo di difendere i
cittadini americani presenti nella città cubana, affondò per una esplosione
dovuta a una combustione spontanea delle polveri. Washington accusò subito gli Spagnoli di aver compiuto un atto di sabotaggio, e non passò molto tempo
prima che la Spagna si trovasse
coinvolta in una guerra contro il potente Stato nordamericano. La flotta
spagnola era quantitativamente e qualitativamente inferiore a quella
statunitense, cosicché aveva ben poche probabilità di uscire
vittoriosa da uno scontro con quella degli Usa.
La flotta statunitense del Pacifico,
infatti, distrusse la squadra navale spagnola
delle Filippine e in seguito gli Americani presero Guam e occuparono Manila.
Le Filippine divennero quindi un dominio
degli Usa, ma la battaglia principale si combatté a
Cuba, ove la flotta statunitense dell’Atlantico riuscì
ad imbottigliare nel porto di Santiago un’altra
squadra navale spagnola, mentre 16.000 soldati Americani tentavano, senza grande
successo, di superare la reistenza dei 9.000 uomini del generale Linares. Le
navi spagnole cercarono allora di forzare il blocco,
ma la superiore potenza di fuoco delle navi americane le costrinse ad
arenarsi. Ai difensori di Santiago non rimase quindi altra scelta che
arrendersi. Cuba fu riconosciuta formalmente indipendente (dicembre 1898), ma
in realtà diventò un protettorato degli Usa, che conservarono pure l’importante
base di Guantánamo.
Pochi anni dopo la fine della guerra contro la Spagna, gli Usa sostennero un movimento
separatista
in Colombia, creando così lo “Stato vassallo” di Panama (1903) che
dovette concedere agli
Statunitensi una striscia
di territorio, in cui
venne scavato
l’omonimo canale, onde
permettere il rapido
passaggio delle
navi da un oceano all’altro. Di fatto, gli
Usa emergevano dalla guerra contro la Spagna come una grande potenza che interpretava la
dottrina Monroe in chiave imperialistica, riducendo un intero continente a quello che gli Statunitensi
consideravano il loro “cortile di casa”. Ma con la guerra contro la Spagna gli Usa si erano assicurati pure una serie di basi nell’Oceano
Pacifico, necessarie per raggiungere l’importante “mercato cinese”. Anche in Asia ormai era l’imperialismo che
“dettava legge”, benché
anche in questa parte del
pianeta la potenza dominante fosse ancora, nonostante tutto, la Gran Bretagna.
L’equilibrio
(relativo) creatosi in Europa dopo il 1815 aveva dato all’Inghilterra la possibilità di concentrare l’attenzione sul consolidamento e l’estensione del proprio impero anche
in Oriente, a partire dal gioiello più prezioso della corona inglese, ovvero l’India. Dopo
la definitiva sconfitta nel 1818 dei Maharatti, gli Inglesi cominciarono ad estendere i proprio dominio su tutto il subcontinente
indiano, in cui era rimasta un’unica potenza in grado
di opporsi agli Inglesi, quella dei Sikh che furono sconfitti in due guerre nella metà dell’Ottocento, alla fine delle quali
i guerrieri Sikh vennero
incorporati
nell’esercito britannico. Ancora prima di questi conflitti, la rivalità con la Russia, che cercava di estendere la sua influenza nella regione,
condusse alla prima guerra anglo-afghana (1839-42), finita con uno scacco cocente per gli Inglesi.
L’esercito britannico occupò facilmente i centri principali del Paese, però la capacità di resistenza e la determinazione degli Afghani vennero sottovalutate e una rivolta
scoppiata a Kabul
si rivelò impossibile da domare,
costringendo gli Inglesi a ritirarsi verso l’India. La colonna di circa 4.000
soldati inglesi e indiani, che marciavano insieme con 12.000 civili, venne continuamente attaccata dagli
Afghani, mentre si dirigeva verso Jalalabad, e pressoché annientata presso Gandamack. Diverso
fu l’esito della seconda guerra anglo-afghana. Sempre allo scopo di frustrare
il tentativo
della Russia di inserirsi nel “grande gioco” in Asia centrale, gli Inglesi intervennero nel 1879 in Afghanistan, questa volta ottenendo
pieno successo.
Con l’accordo anglo-russo del 1887 l’Afghanistan
diventò un “semiprotettorato” britannico (ma nel 1919 sarebbe scoppiata
un’altra rivolta, che costrinse la Gran Bretagna
a riconoscere l’indipendenza del Paese).
Anche in India, nel 1857, gli Inglesi avevano dovuto fronteggiare una rivolta o
meglio un ammutinamento di soldati indiani (noto come la rivolta dei sepoys) che fu represso con
ferocia e portò a una riorganizzazione dell’esercito coloniale britannico (in seguito
a questi fatti
la Compagnia delle Indie orientali vide ridursi il
suo potere e successivamente venne sciolta). Anche se gli Inglesi
avevano tratto
notevole vantaggio dalla decadenza delle tradizioni e dei costumi indù, era logico
che la politica coloniale inglese, basata sulla modernizzazione (ferrovie,
telegrafo ecc.), generasse tensioni che, oltre a causare l’ammutinamento dei sepoys, con il passare
del tempo avrebbero favorito anche in India la nascita di una “coscienza politica nazionale”. Degno di
nota è l’effetto disastroso che comportò la difesa da parte dell’amministrazione inglese
delle “leggi di mercato” in relazione alle terribili carestie
del 1876-79 e del 1896-1902, poiché si ritiene
che abbiano causato la morte di decine di milioni di Indiani (la prima 6,1/10,3
milioni, la seconda 6,1/19
milioni)[53], in quanto le comunità di villaggio dell’India erano state completamente sconvolte dall’occupazione inglese fondata
sui principi del “libero mercato”[54]. Ma che la politica coloniale britannica fosse senza scrupoli, allorché vi erano in gioco interessi politici ed economici di
primaria importanza,
lo prova la guerra dell’oppio
scoppiata nel 1839.
La
Cina all’inizio dell’Ottocento non era più una grande potenza in grado di resistere ad un’aggressione europea, anche
se i Cinesi parevano non esserne consapevoli fintanto che non
furono obbligati a scontrarsi con gli Inglesi. Lo scontro
dipese dal fatto che l’Inghilterra doveva far fronte ad un
grave deficit della propria bilancia commerciale, dato
che la Compagnia britannica delle Indie orientali importava dalla Cina tè, seta
e porcellane. Perciò, allo scopo
di annullare il deficit commerciale che tale traffico
creava, gli
Inglesi cominciarono ad esportare in Cina grandi quantità d’oppio. Pechino in ogni modo cercò di impedire l’importazione della droga e il vizio del fumo d’oppio, non solo per i
suoi effetti nocivi, ma anche perché tale “libero commercio” comportava per la
Cina una gravissima emorragia di argento. Vi furono
anche trattative diplomatiche, ma tutto fu inutile, e la Cina si trovò in
guerra con la Gran Bretagna.
Gli Inglesi, fatti giungere dei rinforzi dall’India,
conquistarono Shanghai e risalirono lo Yangzi,
costringendo l’imperatore cinese ad accettare le loro condizioni con il trattato di Nanchino (1842). Ormai la Cina era il
“grande malato” dell’Asia, tanto più che la prima guerra dell’oppio
favorì la cosiddetta “rivolta dei Taiping” (la cui ideologia presentava le
caratteristiche del ribellismo contadino, ma anche una concezione militaristica
della società), che nel 1853 occuparono Nanchino e la elessero a capitale del
loro regno. Infine, gli inglesi con la seconda guerra dell’oppio (1856-1860), causata dal tentativo cinese
di mettere fine al commercio dell’oppio, presero addirittura Pechino e imposero
nuovemente alla Cina dei trattati ineguali[55].
Del
resto, era sempre l’Inghilterra a svolgere il ruolo
di potenza principale anche in Asia, grazie al
controllo dei traffici marittimi che si estendevano dal Golfo del Bengala fino ad Hong-Kong, passando per Singapore. Nel 1893 l’Inghilterra occupò
completamente la Birmania, dopo che la Francia (nel 1884) aveva annesso il Tonchino (parte settentrionale del
Vietnam), che venne aggiunto alla Cocincina (Vietnam meridionale) e alla
Cambogia che la Francia possedeva fin dal 1863. Nel 1893 alla colonia francese
dell’Indocina venne aggiunto pure il Laos. Rimase indipendente solo il Siam
(odierna Thailandia), che nella seconda metà del Settecento era intervenuto
nella guerra civile che infuriava nel Vietnam, inviando nel delta del Mekong un
esercito di 20/50.000 uomini, che fu distrutto in una imboscata da un esercito
vietnamita comandato da Nguyen Hue.
Nel
1789 erano stati invece i Cinesi a invadere il Vietnam e ad occupare Thang Long
(Hanoi), per appoggiare la dinastia Le. Ma
i Vietnamiti si rivelarono avversari assai “ostici” anche per i Manciù. Nguyen
Hue (diventato l’imperatore Qang Trung) sferrò un attacco notturno proprio
durante il capodanno lunare (il Tet), violando
la santità di una festa osservata sia dai Vietnamiti che dai Cinesi, i quali,
colti di sorpresa, subirono una vera e propria disfatta, tanto che dovettero
rinunciare a fare del Vietnam un loro protettorato. Nguyen Hue morì a causa di una malattia
solo tre anni dopo (1792). Nel caos che ne seguì Nguyen Anh
(ossia l’imperatore Gia Long), con l’aiuto dei Francesi si impose ai suoi
avversari e riunificò il Paese. Fu proprio Nguyen Anh a spostare la capitale a
Hué (1802) e a fondare la dinastia Nguyen, che sarebbe durata fino agli anni
Cinquanta del secolo scorso. Anche in Vietnam,
tuttavia, la persecuzione del cristianesimo negli anni seguenti fornì il
pretesto per un intervento militare dei Francesi che, anche grazie alla loro
superiore potenza di fuoco, poterono, nel giro di qualche decennio, occupare
tutto il Paese. Ma lo spirito d’indipendenza del popolo vietnamita era stato
solo “represso” non certo annientato.
Peraltro, al “grande
gioco” che si svolgeva in quest’area del mondo adesso era in grado di partecipare anche il Giappone. I Giapponesi avevano creato
nel giro di pochissimo tempo un forte esercito e una forte marina. Il Giappone,
difatti, intendeva estendere il proprio dominio sulla Corea, una costante della
politica di potenza giapponese e un motivo di continuo attrito
con la Cina, che non era
mai stata così debole come adesso. Un esercito cinese di 12.000 soldati,
equipaggiati con armi antiquate, fu distrutto da 14.000 Giapponesi presso
Pyongyang il 16 settembre 1894, mentre il giorno dopo anche la flotta cinese, che soffriva di gravi deficienze tecniche e logistiche subì una disfatta sul fiume Yalu.
Questa vittoria diede ai Giapponesi la
possibilità di occupare
la penisola del Liatong, ove si trovava
Port Arthur e di
porre
l’assedio alla base di Wei-hai-Wei, nello
Shantung, contro la quale all’inizio del 1895 lanciarono una serie di attacchi con le
torpediniere, che inflissero notevoli danni alla squadra cinese. La Cina dovette
riconoscere la propria sconfitta, anche se il Giappone si vide costretto a rinunciare
a gran parte dei frutti della sua vittoria per l’ostilità della Germania, della Francia
e soprattutto della
Russia, che dalla Cina, oltre ad ottenere concessioni ferroviarie in Manciuria, si fece concedere in affitto per 25 anni la base di Port Arthur. In Cina
allora scoppiò
la rivolta xenofoba dei Boxer che
condusse all’intervento delle potenze straniere che
occuparono Pechino e imposero alla
Cina il pagamento
di un’enorme indennità (eventi che prepararono il
terreno per la fine della dinastia Manciù e le guerre civili
che ne seguirono). Il Giappone invece uscì da questo conflitto con la
Cina umiliato ma deciso a prendersi una rivincita.
In Russia proprio allora il ministro Vitte
aveva avviato una serie di riforme
per modernizzare il Paese, anche se
le condizioni del proletariato russo erano tra le peggiori
d’Europa. Sempre più numerosi erano coloro che erano convinti
della necessità di un mutamento
radicale e vi era chi riteneva
opportuno passare direttamente dalla comunità di villaggio (il mir) al socialismo, senza cioè che fosse necessaria la fase
intermedia del capitalismo borghese, attirandosi di conseguenza le critiche di
chi come Plechanov, puntava tutto
sulla forza rivoluzionaria di una classe operaia.
Né si trattava solo di ragionamenti astratti,
dato che a Pietroburgo si svolgeva già l’azione
di Lenin e nel 1898 venne fondato
a Minsk il partito
socialdemocratico, mentre nel 1902 nasceva il partito
socialista rivoluzionario, che considerava i contadini la vera forza
rivoluzionaria del Paese. Nel frattempo, una carestia
e la recessione per l’esiguità del mercato interno accentuarono il malcontento delle masse. La situazione
interna, insomma, era incandescente, mentre quella internazionale pareva promettente per la Russia
dello zar.
Nonostante la rivalità con l’Inghilterra in Asia centrale, l’alleanza con la
Francia nel 1892 (la cosiddetta “Duplice Intesa”) proteggeva la
Russia da un attacco tedesco e le consentiva di svolgere
una politica aggressiva ad est, che avrebbe dovuto rafforzare il regime dello zar con
una “facile vittoria” contro i Giapponesi. Un calcolo politico che, oltre a non tenere
nella giusta considerazione le difficoltà logistiche che avrebbe comportato una
guerra in Estremo Oriente, trascurava l’efficienza militare raggiunta
dal Giappone, tanto che furono proprio i Giapponesi (con cui Londra nel 1902 aveva scelto di allearsi, onde contrastare l’espansionismo russo in Estremo Oriente, mettendo così fine al suo cosiddetto “splendido
isolamento”) a prendere l’iniziativa (senza dichiarazione
di guerra), attaccando la base di Port Arthur e sbarcando in Corea (febbraio 1904).
La I armata giapponese avanzò verso il fiume Yalu e proseguì verso la Manciuria. Nel
frattempo il tentativo di imbottigliare la flotta russa a Port Arthur ebbe
scarso successo. L’ammiraglio Togo decise comunque
di rischiare, comunicando che la base russa era bloccata (il che non era vero),
e nella penisola
di Liaotung sbarcò
la II armata
giapponese. L’ammiraglio giapponese aveva giocato
d’azzardo, ma i fatti gli diedero ragione. Sconfitte le truppe russe nella battaglia di Nanshan (fine
maggio), i Giapponesi si diressero verso la base di Port Arthur,
difesa da circa
45.000 soldati russi[56]. Una volta isolata la base russa
con la III armata, la II
armata giapponese respinse il I corpo siberiano, accorso in aiuto alla base
assediata, mentre il mese seguente fallì pure un tentativo russo di riprendere il passo
di Mo-tien presidiato dalla I armata
nipponica. Ora vi era davvero il pericolo che la flotta russa rimanesse intrappolata
a Port Arthur, perciò venne deciso
di trasferirla a Vladivostok, da dove i
Russi attaccavano il traffico nipponico. L’operazione (agosto 1904) si risolse in un totale fallimento: alcune navi russe si
fecero internare in porti
neutrali, un incrociatore dovette gettarsi in secca e le altre navi furono costrette a rientrare a Port Arthur,
il cui assedio da terra però si stava rivelando più arduo del
previsto.
La sola conquista della collina 174 costò
ai Giapponesi 1.800 perdite; un ulteriore assalto vide un intero reggimento
giapponese perdere 1.600 uomini su 1.800 effettivi, mentre le due divisioni giapponesi che avevano attaccato persero in tutto ben 16.000
uomini[57]. A fine agosto
i Russi ripresero l’offensiva anche per alleggerire la pressione su Port
Arthur, godendo di un considerevole vantaggio, ma il servizio d’intelligence nipponico
aveva fatto un ottimo lavoro, tanto
che i Giapponesi erano informati delle mosse dei Russi, che, oltre a non avere un buon sistema di comunicazioni,
non disponevano di mappe di questa zona della Manciuria. Ancor più grave fu che
durante la battaglia un certo numero di soldati russi si rifiutò di combattere,
tanto che l’esercito russo dovette
ritirarsi nonostante avesse avuto
meno perdite di quello
giapponese. Intanto
continuavano gli attacchi contro la base di Port Arthur e solo negli ultimi sei giorni d’ottobre i Giapponesi persero
4.800 soldati senza ottenere alcunché, anche se nello stesso
mese respinsero un altro attacco dei Russi, presso Mukden.
Allorché arrivarono dal Giappone dei pezzi d’artiglieria pesante, però la situazione volse nettamente a favore dei soldati del Sol Levante. Il 5
dicembre la collina 203 era nelle mani dei Giapponesi, sebbene
un’intera divisione nipponica fosse stata distrutta. Ormai la
sorte della base di Port Arthur era segnata e il 2 gennaio del 1905 cessò ogni
resistenza: 24.369 soldati e 8.956 marinai russi consegnarono le armi ai
Giapponesi (ma negli ospedali di Port Arthur vi erano altri 15.000 soldati russi, feriti o malati).
Kuropaktin, il comandante russo in Manciuria, decise allora di passare ad una nuova
offensiva sul fronte di Mukden, prima che potesse sopraggiungere la III armata
giapponese da Port Arthur.
Ma l’attacco russo, assai male
coordinato, fu inconcludente e passò un mese prima che si combattesse la
battaglia che avrebbe deciso le sorti in questo teatro di operazioni.
I Russi schieravano tre armate, oltre
ad una divisione di cavalleria cosacca, comandate da
Rennenkampf. In tutto disponevano di 275.000 soldati (oltre a 16.000
cavalieri cosacchi) e di 1.439 pezzi d’artiglieria. L’esercito giapponese contava cinque armate, ma era
numericamente inferiore rispetto a quello russo, dato che un’armata
giapponese era equivalente ad un corpo d’armata russo od occidentale (in tutto
le cinque armate nipponiche disponevano di poco meno di
200.000 soldati, 7.350 cavalieri e 924 pezzi d’artiglieria; solo per quanto concerne il numero delle mitragliatrici
i Giapponesi godevano di un forte vantaggio, ovverosia 174 contro 56). Il piano giapponese consisteva nel lanciare un attacco diversivo
contro
l’ala sinistra russa con l’armata dello Yalu,
mentre la III armata giapponese, doveva avanzare per avvolgere l’ala destra
russa. I Russi non compresero che l’attacco
dell’armata dello Yalu era solo un attacco diversivo, anche perché furono tratti in inganno
dalla presenza in questa zona del fronte dell’11ª divisione, che
apparteneva alla III armata giapponese, mentre in realtà quest’ultima stava avanzando per avvolgere l’altra
ala russa. Una
volta avanzata la III armata, anche la IV armata
nipponica, al centro dello schieramento, passò decisamente all’attacco allo scopo di riunirsi alla III armata e circondare così le forze russe.
Quando le truppe giapponesi giunsero alla
linea ferroviaria a nord di Mukden, Kuropaktin non poté che cercare di ritirare
i propri uomini prima che si chiudesse la tenaglia nipponica (12 marzo 1905).
La ritirata dell’esercito russo fu caotica
e disordinata, ma anche
i Giapponesi pagarono un prezzo
assai elevato per la vittoria: 15.892 caduti e 59.516 feriti (mentre le perdite russe
assommarono ad oltre 40.000 morti o
prigionieri e 40.000 feriti)[58]. La guerra aveva dimostrato senza ombra di dubbio che trincee e potenza di fuoco, filo spinato e mitragliatrici, potevano costare agli attaccanti perdite
spaventose. Eppure in Europa anche questa “lezione” venne del tutto
ignorata. L’eurocentrismo (gli stessi Russi erano agli occhi degli altri Europei “mezzo asiatici”) rendeva
gli Europei “sordi e
ciechi” come già era accaduto per la guerra
civile americana.
La battaglia che decise la guerra russo-giapponese comunque venne combattuta sul mare. Pietroburgo,
infatti, dopo la sconfitta della squadra russa di Port Arthur nel mese d’agosto,
inviò un’altra squadra navale nel Pacifico. La flotta
si radunò nel Baltico, giacché quella del Mar Nero era “bloccata” per la convenzione sugli Stretti del 1841 (voluta dalla Gran
Bretagna). Il 14 ottobre del 1904 salparono 40
unità da guerra
e ausiliarie, dirette
a Port Arthur. Enormi furono
le difficoltà affrontate per compiere una traversata così lunga e l’ammiraglio russo
Rojestvensky dovette pure reprimere dei disordini scoppiati
a bordo delle navi, allorché si diffusero le notizie dei moti rivoluzionari di
Pietroburgo. In ogni caso dopo la caduta di Port Arthur, Rojestvensky non poteva che dirigersi a Vladivostok.
La flotta russa, dopo essere salpata
dall’Indocina francese (ove
Rojestvensky era stato
raggiunto da altre navi russe che invece egli aveva
saggiamente scartato prima di partire
perché assai malandate), puntò verso lo stretto
di Corea, in mezzo al quale si trova l’isola di Tsushima, anziché cercare di passare a
levante del Giappone. Non si trattò
di una scelta
felice. Avvistate le navi russe,
l’ammiraglio Togo si
diresse immediatamente verso Tsushima, nelle cui acque il 27 maggio del 1905 avvenne
lo scontro tra le due flotte.
Per ben due volte le navi di Togo “tagliarono la T” alla
flotta nemica, potendo
riversare su di essa un diluvio di fuoco. L’azione
dei Giapponesi fu devastante: 19 navi colate
picco (di cui sette
corazzate) e cinque catturate (di cui quattro
corazzate); inoltre due navi da guerra russe fecero naufragio, mentre quattro
si fecero internare
in porti neutrali.
I Giapponesi invece persero
solo tre torpediniere. I Russi non poterono quindi che firmare un trattato
di pace (5 settembre 1905) che concedeva
ai Giapponesi non solo Port
Arthur e il controllo della penisola coreana (annessa dal Giappone nel
1910), ma pure
la metà meridionale dell’isola di Sakhalin.
Il conflitto russo-giapponese sanzionò
dunque l’ascesa del Giappone tra le grandi
potenze, ma ebbe pure profonde ripercussioni in Russia, dove, dopo i primi disastri della guerra, ci furono proteste che
sfociarono negli scontri
del primo gennaio (la cosiddetta “domenica rossa”), quando i manifestanti
vennero mitragliati dalle truppe davanti al Palazzo d’Inverno. Malgrado ciò, scioperi e sommosse continuarono e un mese dopo la
sconfitta di Tsushima scoppiò la
famosa rivolta a bordo della corazzata Potemkin nel porto
di Odessa; ad ottobre venne
creato il soviet di Pietroburgo e nel mese di dicembre a Mosca vi fu un’insurrezione armata.
All’inizio del 1906 era
evidente però che il tentativo rivoluzionario era fallito, anche se come scrisse
Lenin, si era
trattato della “prova
generale” della rivoluzione del 1917. Lo sciopero generale organizzato dal soviet di Pietroburgo nell’ottobre
del 1905 aveva convinto
lo zar ad istituire la duma, cui venne affidata la funzione legislativa, ma dopo la fine della
guerra lo zar poté mettere
in atto una repressione (che parve “tagliare le gambe” al movimento rivoluzionario) e
sciogliere la duma, per sostituirla con un’altra più “docile” (ma anche questa venne sciolta
quasi subito, e quando scoppiò
la rivoluzione del 1917
vi era la quarta duma, eletta nel 1912). La sconfitta contro
il Giappone ebbe anche come
conseguenza un maggiore interessamento della Russia verso i Balcani, in chiave antiaustriaca e antitedesca, con
grande soddisfazione della Gran Bretagna con cui, nel 1907, la Russia risolse
pure l’annosa “questione afghana”. Sicché, la “Duplice Intesa”
franco-russa,
cui nel 1904 era seguita
l’“Intesa cordiale” franco-britannica (che aveva segnato
una
svolta radicale nelle relazioni internazionali), diventava la “Triplice Intesa” anglo-franco-russa. L’Europa era divenuta una gigantesca
santabarbara.
[1] Si badi che per semplicità di linguaggio ho ritenuto opportuno usare i termini Inghilterra/Inglesi
e Gran Bretagna/Britannici come sinonimi, e i termini Inglesi e Britannici anche
(benché non sempre) per designare i soldati del Commonwealth.
[2] Vedi A.
Maddison, The World Economy,
Parigi, 2006, p. 92.
[3] Secondo David Landes la rivoluzione
industriale trasformò nell’arco di due generazioni la vita dell’uomo
occidentale, la natura della sua società e le sue relazioni con gli altri
popoli del mondo. Il cuore della
rivoluzione industriale fu una successione interrelata di cambiamenti
tecnologici; essenziali furono i nuovi attrezzi meccanici, il vapore e la
disponibilità di materie prime, in particolare per le industrie metallurgiche e
chimiche (vedi D. S. Landes, Prometeo
liberato, Torino, 2000).
[4]
Questa fu l’ultima importante battaglia navale in cui tutte
le navi erano a vela (vedi Morillo S., Black J., Lococo P., War in World
History, New York, 2009, p. 487) e si verificò nella guerra che portò
all’indipendenza della Grecia. Il sultano, per reprimere
l’insurrezione dei Greci, aveva chiesto aiuto al suo potente vassallo, il
pascià dell’Egitto Mehemet Alì, il quale, grazie alla collaborazione di tecnici
francesi, aveva dotato l’Egitto di una flotta e un esercito moderni. Suo
figlio, sbarcato in Grecia nel 1825, riconquistò la Morea, Navarino e la
cittadina di Missolungi, alla difesa della quale parteciparono numerosi
stranieri. Missolungi infine venne presa dai Turchi (gli ultimi difensori si
fecero saltare in aria con la fortezza). Dopo che i Greci avevano perso pure
l’Acropoli d’Atene, la Russia, la Gran Bretagna e la Francia decisero di
intervenire dalla parte della Grecia. Comunque, solo quando i Russi invasero la
Turchia il sultano si decise a firmare il trattato di Adrianopoli (1829) con
cui riconobbe l’indipendenza della Grecia.
[5] La
popolazione delle colonie spagnole d’America
ammontava allora a circa 17 milioni di abitanti (3.300.000 bianchi, 800.000 negri, 5.300.000
meticci e 7.500.000 Indios). La ricchezza era concentrata nelle mani dei creoli (bianchi
nati in America), ma il potere politico
era ancora nelle
mani dei funzionari spagnoli, il che era fonte di contrasti e tensioni
tra la madrepatria e le élites locali che erano fortemente influenzate dalle idee
e dall’azione della
massoneria (il cui ruolo nella
rivoluzione francese benché ancora oggetto di discussione non fu
trascurabile), ma anche interessate ad avere
pieni poteri per controllare direttamente gli Indios. Il crollo della
monarchia spagnola nel 1808 accentuò il distacco delle colonie dalla
madrepatria che infine poterono conquistare l’indipendenza, una volta terminata la guerra contro Napoleone. Alcuni storici ritengono che la lotta
per l’indipendenza sia stata influenzata della rivoluzione americana, altri da
quella del riformismo aristocratico inglese. Una questione a parte comunque è
quella dei successivi conflitti tra Paesi dell’America Latina. Qui si possono
brevemente ricordare la guerra paraguaiana (1865-70), che vide la sconfitta del
Paraguay contro l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay (che aveva acquisito
l’indipendenza staccandosi dal Brasile nel 1825, ma che dal 1838 al 1851 fu
teatro di una terribile guerra civile combattuta tra i colorados, espressione della borghesia urbana, sostenuti dal
Brasile, dalla Francia e dalla Gran Bretagna, e i blancos, espressione dei latifondisti, sostenuti dall’Argentina, e
terminata con la vittoria dei colorados);
la guerra del Pacifico (1879-84), originatasi per il controllo della zona
mineraria che attualmente si trova nella parte settentrionale del Cile, e che
si concluse con la vittoria di questo Paese contro la Bolivia e il Perù; la
guerra per il controllo del Chaco (1932-35) tra Bolivia e Paraguay, terminata
con la vittoria del Paraguay.
[6] In India
i saccheggi e le malversazioni dei primi anni di occupazione avevano già
causato danni immensi: «Tutta un
serie di conseguenze disastrose fu prodotta da un incremento dell’economia
monetaria, di cui l’India non aveva mai conosciuto l’eguale» (F. Braudel, Il mondo attuale, Torino, 1966,
p. 279.
[7] Vedi A.
Maddison, op., cit., p. 100.
[8] P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Milano, 1989, p. 229.
[9] S. B. Clough, R. T. Rapp,
Storia economica d’Europa, Roma, 1987, p. 246.
[10] Ivi, p. 370.
[11] Secondo l’economista inglese David Ricardo ogni Paese
avrebbe dovuto specializzarsi nella produzione dei beni sui quali era in grado
di ottenere maggiori vantaggi; ad esempio, secondo tale teoria l’Inghilterra
doveva specializzarsi nella produzione di stoffa e il Portogallo in quella di
vino. Anche in questo caso si è in presenza di una teoria economica che è
“espressione” (ovviamente non in malafede) di certi rapporti di potere e di
certi interessi (quelli appunto della potenza capitalistica predominante).
[12] Vedi K.
Polanyi, La grande trasformazione, Torino,
2000.
[13] Si badi che per Marx
rileva il modo di produzione capitalistico
in “senso stretto”. Comunque sia, nelle pagine che seguono useremo società
di mercato come sinonimo di società capitalistica, intendendo con questi
sintagmi la società capitalistica nata dalla rivoluzione industriale.
[14] Argomento complesso ma di fondamentale
importanza. Al riguardo si veda l’analisi assai
chiara di S. Cesaratto, Heterodox Challenges in Economics, Cham, 2020,
pp. 36-58.
[15] G. La Grassa, Oltre l'orizzonte, Lecce, 2011, p. 123.
[16] Nel 1833 il Parlamento inglese abolì la schiavitù nelle
colonie britanniche (provvedimento certo giusto, ma che deve essere messo in
relazione con la mercificazione del lavoro). L’esempio
inglese venne comunque
seguito dalla Francia
nel 1848 e poi da altri Paesi.
[17] Produzione di
carbone negli anni 1850-70, in milioni di tonnellate di carbone (vedi A. J. P. Taylor,
L’Europa delle
grandi potenze, Roma-Bari, vol. I, p. 27).
[18] Vedi NCMH (New Cambridge Modern History), vol. X., The Zenith of
European Power, 1830-70, Cambridge,
1960, p. 539.
[19] Ivi, p. 506.
[20] Le granate Paixhans erano
proietti incendiari in grado di squarciare le fiancate di legno delle navi da
guerra. Sicché si rese necessario, proprio quando si stava passando dalla vela
al vapore, corazzare gli scafi. E con il fucile ad anima rigata cambiò il
“volto della battaglia”, dato che ora si poteva colpire un bersaglio a 1.000
metri (il tiro era preciso fino a 600 metri). Ci volle però ancora del tempo
per produrre un eccellente fucile a retrocarica. L’unico fucile a retrocarica decente allora era il prussiano
Dreyse, che presentava però vari inconvenienti, tanto che durante la guerra
civile americana si usarono perlopiù fucili (e cannoni) ad avancarica. Il primo fucile a retrocarica veramente
soddisfacente fu lo Chassepot, un fucile francese che fece la sua comparsa nel
1867, a Mentana, contro i garibaldini. La rigatura
venne ovviamente adottata anche per i cannoni, ma furono i Prussiani, con i
cannoni Krupp, che fecero i maggiori progressi. Un’altra invenzione (francese)
fu la mitrailleuse, una
mitragliatrice che poteva sparare 150 colpi al minuto. Nella guerra
franco-prussiana i Francesi ne fecero un pessimo uso, tenendola nelle retrovie,
benché si debba considerare che nessuno ne comprese davvero il reale potenziale
bellico, tanto che nel 1914 nessun esercito aveva più di due mitragliatrici per battaglione (vedi NCMH, vol. X., op. cit.,
p. 307).
[21] Vom Kriege uscì a Berlino nel 1832, ossia due anni dopo la scomparsa di Clausewitz.
[22] L’espressione “vera guerra” (usata da Clausewitz poche volte
in tutta l’opera) si riferisce alla guerra “veramente” combattuta durante le campagne
napoleoniche. Peraltro, nell’opera di Clausewitz si trovano pure enunciati i
principi concernenti le guerre di liberazione nazionale, la guerriglia e la lotta partigiana.
Come scrive Lucio Ceva, «a torto, perciò, Clausewitz è ritenuto esponente del
militarismo sfrenato. Al contrario, egli implicitamente contestava l’intera
organizzazione dello Stato tedesco, dove i militari potevano tenere segreti i
loro piani a politici […] Non a caso, infatti, nell’edizione di Vom Kriege
del 1853 le autorità prussiane alterarono il passo dove Clausewitz
assegnava il controllo della strategia al governo e non allo Stato maggiore,
facendogli dire l’esatto contrario» (L. Ceva,
Le forze armate, Torino, 1981, p. 14).
[23] La critica che Martin van Creveld muove a Clausewitz (vedi M.
van Creveld, The Transformation of War,
New York, 1991) è appunto quella di aver imperniato la propria
riflessione sulla centralità dello Stato, mentre non solo prima di Vestfalia ma anche nell’età presente sono
perlopiù soggetti politici “non
statali” a fare la guerra (vedi M. van Creveld, The Rise and Decline of the State, Cambridge, 1999). La critica di van Creveld, benché in parte
condivisibile, sottovaluta (probabilmente per ragioni ideologiche) il ruolo
ancora decisivo della politica di potenza degli Stati Uniti e di altri Stati nei conflitti contemporanei.
[24] Vedi Della guerra, cit., p. XXV. Ricorda
giustamente Carlo Jean che per Clausewitz la guerra è un “camaleonte”, poiché
inevitabilmente varia a seconda delle circostanze, ma che comunque è solo uno strumento della politica, che la dirige
e ne fissa gli obiettivi (vedi C. Jean, Manuale
di studi strategici, Milano, 2004, pp. 24-25).
[25] L’opera dello
svizzero Jomini è decisamente meno importante di quella del teorico prussiano,
anche se ebbe grande influenza in Francia e in Russia. Jomini comprese assai
bene la strategia annientatrice di Napoleone, l’importanza di concentrare la
massa delle proprie forze in un “punto decisivo”, ma oltre a tesi discutibili (come quella secondo cui l’obiettivo
strategico da perseguire consisterebbe nell’occupare la capitale nemica o
quella secondo cui i trinceramenti erano inutili e dannosi allo “spirito
combattivo”) protestò contro l’intromissione della politica negli “affari militari”,
lasciandosi sfuggire, come giustamente ricorda Raimondo Luraghi, quella verità
che Clausewitz esprime scrivendo che «la guerra
non può mai essere separata dal lavoro politico; e se, eventualmente, si vuol
fare astrazione da esso nelle ponderazioni, tutti i fili dei rapporti vengono
in certo qual modo rotti e ne esce una cosa priva di senso e scopo» (R.
Luraghi, Storia della guerra
civile americana, Milano, 1994, p. 278).
[26] Vi era
comunque ancora da risolvere la questione dello Stato pontificio. Dopo il
tentativo garibaldino frustrato dai Francesi a Mentana, Roma venne occupata
dalle truppe del generale Raffaele Cadorna (breccia di Porta Pia, del 20
settembre 1870) e venne votata l’annessione all’Italia, anche se il papa non
riconobbe il governo italiano e vietò ai cattolici di partecipare alla vita
politica del Paese, rendendo ancora più fragile il “giovane” Stato
italiano.
[27] A Gravelotte gli
attacchi della II armata tedesca contro le posizioni difese dai Francesi conseguirono
scarsi successi (le perdite degli attaccanti furono pesantissime) e su tutto il fronte l’assalto
venne respinto. Il contrattacco francese però non ci fu, benché un altro
assalto dei Tedeschi venisse
respinto dal micidiale tiro di fucileria francese, che causò
scompiglio e disordine nelle file degli uomini
di Moltke. Ma allorché l’ala
destra di Bazaine
venne attaccata anche dal XII corpo d’armata dei Sassoni, la pressione divenne
troppo forte per i Francesi, che dovettero ritirarsi.
[28] La guerra
russo-turca scoppiò dopo che la Turchia intervenne per reprimere una rivolta in
Bosnia Erzegovina e una in Bulgaria. Qui le truppe turche impiegarono metodi
così brutali che fornirono ai Russi il pretesto per un intervento. La conquista di Plevna costò ai Russi
decine di migliaia di perdite, ma una volta presa Plevna, i Russi si spinsero
attraverso i passi montani fino a Plovdiv, giungendo
a minacciare Costantinopoli. Anche in Armenia, i Russi conquistarono dopo un
duro assedio Kars e poi Erzurum. Queste sconfitte indussero i Turchi a chiedere un armistizio.
[29] P. Kennedy, op. cit., p. 279.
[30] Si deve ricordare pure che nell’Unione vi erano tre Stati
schiavisti (Kentucky, Maryland e
Missouri) che finirono per dare combattenti ad entrambe le parti in lotta.
[31] Vedi R. Luraghi, op cit., p. 230. Con il “Proclama di
emancipazione degli schiavi” Lincoln stabilì che dal primo gennaio del 1863
sarebbero stati liberi coloro che erano tenuti come schiavi nei territori della
Confederazione, ma l’abolizione totale della schiavitù fu approvata solo il 31
gennaio del 1865. D’altra parte, la minaccia più seria per il Sud proveniva dal
movimento dei freesoilers, che non ne
volevano sapere di introdurre la schiavitù nei Territori dell’Ovest, che invece erano di vitale importanza per
il Sud, la cui economia si basava su una agricoltura perlopiù estensiva.
[32] Ivi, p. 869.
[33] Vedi B. Levine, La guerra civile americana. Una nuova
storia, Torino, 2015.
[34] Si rammenti che a partire dal 1875 le navi corazzate
cominciarono a perdere la loro attrezzatura velica e a dotarsi di cannoni più
potenti, mentre il primo sommergibile “moderno” fu il francese Gymnote realizzato nel 1888. Nel 1899
apparve il Gustave Zédé, che navigò
ad una velocità di 8 nodi a 18 metri di profondità. E l’uso dei siluri portò
all’adozione delle torpediniere e dei cacciatorpediniere. In definitiva, nella seconda metà
dell’Ottocento si assisté in campo navale «ad un grande sviluppo tecnologico
che si manifestò in cinque direzioni e cioè con l’affermazione della
propulsione meccanica ad elica, con le costruzioni in ferro, con l’applicazione
di corazze, con l’introduzione di nuove armi (quali i cannoni rigati e a
retrocarica, le granate, le mine subacquee, i primi sommergibili a vapore e i primi siluri) e infine con la
disposizione dei cannoni dell’armamento principale in torri corazzate girevoli»
(A. Santoni, Storia e politica navale
dell’età contemporanea, Roma, 2003,
p. 15).
[35] Nell’800 non furono comunque solo gli Statunitensi a
sterminare dei popoli indigeni, basti ricordare lo sterminio dei Maori da parte
degli Inglesi (anch’essi usarono l’alcol per corrompere e indebolire i nativi).
D’altronde, tra il 1864 e il 1870, anche i Russi, impegnati nella conquista del
Caucaso fin dalla seconda metà del Settecento, non esitarono a sterminare i
Circassi e altri popoli caucasici.
[36] Vedi R. Luraghi, Sul sentiero della
guerra, Milano, 2000, p. 79.
[37] Benché
nominato generale nella guerra civile, Custer non era stato confermato nel
grado e venne perciò retrocesso al grado (effettivo) di tenente colonnello.
[38] Vedi W. Pedrotti, Le guerre indiane, Colognola ai Colli
(VR), 1998, p. 53.
[39] Vedi R. Thornton, American Indian Holocaust and Survival,
Norman e Londra, 1987, p. 32 e p. 43.
[40] R. Luraghi, Storia della
guerra civile americana, cit., p. 1282.
[41] F. Braudel,
op. cit., p. 339
[42] S. B. Clough. e R.
T. Rapp, op., cit., p. 426.
[43] Per quanto concerne il volume pro-capite del commercio
estero il periodo di massima crescita si ebbe tra l’inizio degli anni Quaranta
e il 1873, anche a seguito del trattato Cobden-Chevalier tra Inghilterra e
Francia nel 1860, ma il sopraggiungere della crisi economica portò i Paesi a reintrodurre misure protezionistiche.
[44] G. La Grassa, Un ripensamento complessivo. Parte II,
(http:// www. conflittiestrategie.it/parte-
seconda-un-ripensamento-complessivo).
[45] Vedi R. Oliver e R. Fage, Breve
storia dell’Africa, Torino, 1974, p. 171.
[46] Ivi, pp. 172-173.
[47] Nel 1905 Guglielmo II era sbarcato a Tangeri dichiarando di voler difendere il sovrano e gli interessi dei Tedeschi nel Paese. La tensione
con la Francia si allentò solo dopo la conferenza di Algesiras (1906). Ma
l’intervento di truppe francesi su richiesta del sultano assediato a Fez provocò un’altra crisi con la Germania
(incidente di Agadir nel 1911). La crisi
venne risolta lasciando campo libero alla Francia in Marocco, in cambio della
cessione alla Germania di una fascia di territorio del Congo. Nel 1898 si era
rischiato anche uno socntro tra Francesi e Inglesi per il possesso di Fashoda
nel Sudan, ma infine prevalse la necessità da parte della Francia di accordarsi
con l’Inghilterra. Ovviamente la rivalità tra le potenze europee in Africa deve
essere interpretata avendo presente la tensione creatasi in Europa per la
crescita della potenza tedesca.
[48] Vedi L. Ceva, op. cit., p. 110.
[49] Vedi A.
Del Boca, La disfatta di Gasr bu Hàdi,
Milano, 2004.
[50] C. Schmitt, Il Nomos della
terra, Milano, 1991. p. 272.
[51] Ivi, p. 288.
[52] A. Santoni, op. cit., p.
11. Una “strategia di penetrazione” in un Paese straniero che gli Stati Uniti
da allora hanno saputo “affinare” notevolmente.
[53] Vedi M. Davis, Late Victorian Holocausts,
Londra, 2001, p. 7. Le cifre dei
morti variano molto a seconda delle fonti.
[54] Questa è la tesi di Karl Polanyi che viene
difesa da Mike Davis, anche se secondo Amartya Sen è decisamente esagerata (vedi
A. Sen, Apocalypse Then, disponibile
in rete). Indubbio però è che l’operato del plenipotenziario per la
carestia del 1876, l’inglese Richard Temple,
sia stato catastrofico, tanto che Mike Davis lo definisce «the
personification of free market as a mask for colonial genocide» (vedi M.
Davis, op. cit., pp. 36- 43). Invero,
nel sistema sociale indiano tradizionale governatori e proprietari terrieri
dovevano prendersi cura dei loro sudditi nei momenti di bisogno, fornendo loro
il cibo necessario alla sopravvivenza. Gli Inglesi
sostituirono questo sistema sociale con un sistema imperniato sul “libero
mercato” e in molti casi, i vecchi proprietari terrieri si trasformarono in
capitalisti “rampanti” (vedi P. R.
Greenough, Prosperity and Misery in
Modern Bengal, New York-Oxford, 1982, pp. 42-61). La conseguenza fu la distruzione dei mezzi
di sostentamento di molti agricoltori e braccianti, e la moltiplicazione del numero delle vittime durante
una carestia.
[55] La Gran Bretagna e anche la Francia
misero comunque delle truppe a disposizione dell’impero manciù, di modo che
Nanchino poté essere cinta d’assedio. La cttà cadde nel luglio 1864 e i
vincitori non ebbero pietà dei vinti, tanto che si stima che circa 100.000
difensori siano stati trucidati.
[56] Vedi G. Jukes, The Russo-Japanese War, Oxford,
2002, p. 48.
[57] Ibidem.
[58] Ivi, p. 68.
Nessun commento:
Posta un commento