venerdì 17 febbraio 2012

BREVE NOTA SULLA COSIDDETTA "NEUTRALITA' SCIENTIFICA"





E' indubbio che da Kant in poi la questione dell'oggettività si sia rivelata inseparabile da quella della intersoggettività, nel senso che, una volta riconosciuto che non può essere oggetto di esperienza un mondo totalmente indipendente dal soggetto della conoscenza, "essere oggettivo" non può che significare "essere valido per tutti", cioè conforme ad un metodo. Inevitabile quindi che si sia dovuto prendere coscienza che le singole osservazioni delle scienze empiriche non sono "puri" dati dì esperienza, bensì particolari “asserzioni” e che proprio la questione del “linguaggio” sia stata a fondamento della crisi del neopositivismo logico e della nascita della epistemologia "post-positivistica" (rappresentata soprattutto, ma non solo, da Kuhn, Lakatos e Feyerabend).(1)

Ed è opportuno sottolineare che si tratta di una epistemologia "post-popperiana", in quanto viene messo in discussione il fatto che vi sia una base empirica “neutrale” come criterio di "falsificabilità" delle teorie scientifiche, non essendo possibile considerare il contesto della giustificazione e il linguaggio osservativo indipendenti, rispettivamente, dal contesto della scoperta e dal linguaggio teorico. Da qui, la negazione dell'esistenza di un metodo scientifico universalmente valido (Feyerabend) e il sempre maggiore rilievo, più che alle singole teorie scientifiche, ai programmi di ricerca (Lakatos) oppure ai paradigmi (Kuhn), nonché alle strategie argomentative, per capire le decisioni della comunità scientifica. Ma soprattutto la necessità di una nuova e approfondita riflessione sui problemi dell'olismo (Quine) e su quegli aspetti della scienza contemporanea, come le descrizioni equivalenti e i paradossi della logica matematica, che hanno radicalmente cambiato la visione scientifica del mondo - anzi che sono all'origine delle diverse immagini scientifiche del mondo (Goodman).

Non a caso, uno dei più importanti filosofi della scienza, Hilary Putnam, pur criticando il relativismo e l'incommensurabilità dei paradigmi scientifici, sostiene l'impossibilità gnoseologica del realismo “esterno” (secondo cui la realtà consiste di una precisa totalità di oggetti, è “esterna” rispetto alla mente umana - non dipende cioè in alcun modo dalle categorie impiegate dal soggetto della conoscenza - e di essa vi è solo un'unica descrizione vera), dato che non vi è nessun criterio che permetterebbe di ridurre le diverse visioni/interpretazioni del mondo ad una sola (corretta) visione/interpretazione del mondo. Tanto è vero, osserva Putnam, che se ci si domanda quanti oggetti ci sono, è possibile, dal punto di vista della matematica, rispondere perlomeno in due modi differenti (ed analoghe considerazioni valgono per la definizione del punto e così via), ad ulteriore conferma che non si può paragonare nessuna descrizione della realtà alla realtà in sé, bensì unicamente ad un'altra descrizione della realtà. In definitiva, non si può descrivere il mondo senza descriverlo: « Parlare di “fatti” senza aver specificato in quale linguaggio stiamo parlando è parlare di nulla; la parola “fatto” non ha un uso fissato nella Realtà in Sé più di quanto lo abbiano la parola “esiste” o la parola “oggetto”».(2)

Di conseguenza, è pure del tutto logico che la ricerca epistemologica contemporanea venga a rafforzare quella concezione del rapporto tra intepretandum e intepretans che si suole definire "circolo ermeneutico" (messo chiaramente in luce per la prima volta da Heidegger nel § 32 di Essere e tempo),(3) in quanto la struttura della comprensione si contraddistingue per non poter non muovere da una serie di "pre-giudizi" su cui si fonda la stessa comprensione, di modo che quel che si deve comprendere, in una certa misura, si è già compreso. Ciò però non implica che il "circolo ermeneutico" debba essere ritenuto un circolo vitiosus, poiché, come precisa Heidegger, ritenendolo già indice di quell'apertura linguistica del mondo che contraddistingue la “seconda fase” del suo pensiero, «in esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario».(4) Infatti, non si può neanche escludere che «chi cerca di comprendere, [sia] esposto agli errori derivati da pre-supposizioni che non trovano conferma nell'oggetto». Ad esempio, «chi vuol comprendere un testo deve lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all'alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un'obiettiva 'neutralità' [corsivo nostro] né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi».(5)

Del resto, argomenta Apel, «al criterio fornito dal paradigma di Kuhn corrisponde la Lichtung [radura, chiarita] di Heidegger, interpretabile come apertura linguistica del mondo, che libera l'orizzonte di senso entro il quale sono possibili le domande della scienza – e, come ha dimostrato Gadamer, dei giudizi giusti o sbagliati vanno per forza intesi come delle risposte a delle domande, attuali o almeno possibili». Per questo, conclude Apel, «tutti i risultati della scienza occidentale dipendono da orizzonti di senso o orizzonti interrogativi paradigmatici che non si sono potuti aprire ad altre culture, dotate di diverse aperture linguistiche del mondo (ad esempio, gli indiani Hopi del Nuovo Messico)».(6)


Essenziale è allora rendersi conto che si è sempre “radicati" in una certa tradizione, ossia che la nostra realtà dipende da ciò che Gadamer denomina "storia degli effetti" (Wirkungsgeschichte), di modo che non può che essere assurdo pretendere di studiare la storia da una prospettiva “neutrale”, metastorica e metaculturale. A tale proposito, si può ricordare che anche Pareyson (7) sottolinea l'aspetto rivelativo e al tempo stesso plurale della stessa nozione di verità, dato che la formulazione della verità non può che essere mediata dal linguaggio. In particolare, Pareyson non nega l'unicità della verità, ma la paragona a quella di un'opera musicale che rimane la stessa pur non essendo possibile comprenderla se non interpretandola. E ovviamente non vi è la possibilità di paragonare l'interpretazione di un'opera all'opera in sé, sebbene si possa condividere un insieme di regole, metodi, postulati e convinzioni che mostrano che è l'opera ad “orientare” l'interpretazione, sia pure in funzione dei nostri "interessi" (teorici, pratici o emancipativi che siano, in base alla celebre distinzione proposta da Habermas).(8) Il che tra l'altro spiega sia perché ormai tenda a prevalere una concezione strumentalistica della scienza, che, oltre a valorizzare gli aspetti pragmatistici presenti nel pensiero di autori quali Quine e Putnam, giustifica una determinata ontologia secondo il sistema di riferimento scelto e in base agli scopi del sistema medesimo; sia perché la retorica della scienza "pura" sembra aver lasciato posto alla convinzione secondo cui, come sostiene Heidegger, è la scienza moderna a fondarsi sulla tecnica moderna, e non viceversa. 

Naturalmente, i percorsi di ricerca che possono derivare da tale "svolta linguistica" (che qualcuno ha paragonato ad una sorta di nuova rivoluzione copernicana) sono diversi e perfino opposti tra di loro, giacché non può non essere questa stessa “svolta” (questione del relativismo inclusa) oggetto di differenti interpretazioni, ma è innegabile che essa sia un tratto distintivo ed essenziale non solo della filosofia della scienza, ma di ogni branca della filosofia contemporanea, compresa “la filosofia prima”, cioè quella che si occupa di questioni ontologiche e metafisiche. (Si badi che, anche se è evidente che non tutto è interpretazione, pure chi difende la concezione della cosiddetta "metafisica classica", su basi platoniche o "neoplatoniche", aristoteliche o aristotelico-tomiste, ritiene che l'identità intenzionale tra essere e pensiero si renda manifesta grazie al medium spirituale del linguaggio. Una posizione diversa sul linguaggio, nel senso stretto del termine, è invece sostenuta da Colli, per il quale comunque la stessa ragione è "es-pressione" di qualcos'altro, di modo che, in ogni caso, la nostra esperienza del mondo viene a costituirsi e a formarsi  nel "fiume delle interpretazioni").

Perciò, queste nostre considerazioni possono apparire, se si vuole, perfino banali, ovvero luoghi comuni della cultura contemporanea. Tuttavia, non è affatto raro che si tenda a confondere la - più che legittima e necessaria - critica dell'ideologia, intesa come sapere dogmatico e aprioristico, non aperto al confronto, con la difesa di una presunta “neutralità scientifica”, perlopiù in quei settori della conoscenza, che sono di gran lunga meno “strutturati” delle scienze della natura - e sono tali non perché ci si ostini a non impiegare linguaggi matematici (ché in molti testi di astrologia vi è più matematica che nei testi di fisica, ma non per questo l'astrologia viene considerata una scienza), bensì perché è l'oggetto stesso di certe scienze che si presta poco ad essere compreso mediante la matematica. Non necessariamente le scienze umane però sono meno rigorose di quelle della natura, al punto che Heidegger non esita ad affermare che «le presupposizioni del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l'idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all'ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti».(9) In ogni caso, si dovrebbe tenere sempre presente non solo l'oggettività ma anche l'adeguatezza della conoscenza, anche perché, come Gadamer ha più volte affermato, per quel che riguarda le scienze dello spirito non sono tanto le spiegazioni che contano quanto piuttosto la comprensione del nostro orizzonte storico (senza dimenticare che nella realtà storica è l'eccezione, per così dire, ad essere la regola), di modo da poter "cor-rispondere" all'appello che il presente storico ci rivolge in quanto esseri umani.


D'altra parte, che dalla “svolta linguistica”, che caratterizza la filosofia e l'epistemologia contemporanea, consegua un certa forma di relativismo, lo si deve pur concedere. Nondimeno, è significativo che l'ultimo Feyerabend - l'antimetodologo anarchico che i relativisti annoverano tra i loro “campioni” - «sostiene (o almeno scrive come se lo sostenesse) che ha senso parlare di una natura umana comune poiché ogni cultura (o tradizione) è in potenza tutte le altre».(10) Se, però, ciò da un lato pare avvalorare la tesi che le diverse tradizioni esprimono una “sostanza comune” (11) (sicché vi sarebbe la reale possibilità per i popoli di intendersi tra di loro, ciascun popolo potendo interpretare e rinnovare la propria tradizione “dia-logando” e “con-frontandosi” con altri popoli), dall'altro fa comprendere perché la “mondializzazione” sia un processo che rischia di annientare ogni stile di vita che non sia funzionale al sistema di potere occidentale.

Sotto questo profilo, non sembra azzardato ritenere che sia proprio la geopolitica a mostrare meglio di altre discipline come qualunque attività umana non possa prescindere né da un concreto riferimento spazio-temporale né dal “conflitto” delle interpretazioni, e ad evidenziare che la difesa di un punto di vista “neutrale”, in realtà, oggi, equivale a condividere i presupposti di quel pensiero “politicamente corretto”, che non è altro che l'espressione ideologica della società di mercato occidentale. Pertanto, anziché criticare l'ideologia, si finisce col fare l'inconsapevole apologia della peggiore forma di ideologia, se si pensa di evitare di “prendere posizione”; mentre, se si vuol essere veramente “obiettivi”, ciò che rileva è saper "prendere posizione". Vale a dire che conta “come” e “perché” si prende una determinata posizione.



Note

1. Oltre ai testi di questi autori, si vedano, per una comprensione perlomeno dei principali aspetti della ricerca epistemologica contemporanea, Nicola Abbagnano-Giovanni Fornero, Storia della filosofia, Utet, Torino, vol. IV, 1991/1994, Giovanni Fornero-Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2002, Storia della filosofia (diretta da Mario Dal Pra), Piccin Nuova Libraria, Padova, 1998 e Giulio Giorello, Introduzione alla filosofia della scienza, Bompiani, Milano, 1994. Ancora fondamentale è Paul K. Feyerabend-Giulio Giorello, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976. Utili e importanti anche i due libri di Marcello Pera, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Bari,1980 e Scienza e retorica, Laterza, Bari, 1991. Sul neopositivismo logico, si vedano la magistrale ricostruzione storico-filosofica di Francesco Barone, Il neopositivismo logico, Laterza, Bari, 1953 e l'analisi teoretica di Emanuele Severino, Legge e caso, Adelphi, Milano, 1979.
2. Hilary Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano, 1991, p. 51 In relazione a questo tema, di Putnam si veda anche Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano,1998, in specie il cap. 6.
3. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, § 32, pp. 188-195.
4. Ibidem, p. 195.
5. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 314 e 316.
6. Karl-Otto Apel, Autocritica o autoeliminazione della filosofia?, in Filosofia '91 (a cura di Gianni Vattimo), Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 35.
7. Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1972.
8. Hans Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, in Id., Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari, 1969, p. 9.
9. Martin Heidegger, op. cit., p 195.
10. Valerio Meattini, Natura umana, scetticismo, valori. Orientamenti, Giuseppe Laterza, Bari, 2009, p. 31. Meattini si riferisce al saggio di Paul.K. Feyerabend, Contro l'ineffabilità culturale, in "Volontà", 2-3, 1994, pp. 97-107.
11. E' interessante notare che anche per Toshihiko Izutsu, impegnato a delineare i contorni di una "metafilosofia", è indispensabile che uno studio comparato sia filologicamente fondato, onde evitare «di ricadere nel difetto positivista di pretendere che possa esistere un "occhio" neutrale [ovvero] che il soggetto indagante sia indifferente, immune, e neutrale rispetto ai problemi interni [agli oggetti assunti a tema dell'indagine]», Giangiorgio Pasqualotto, introduzione a Toshihiko Izutsu, Sufismo e taoismo, Mimesis, Milano, 2010, p. 10.