lunedì 29 ottobre 2012

IL MEDITERRANEO FATTO A PEZZI


Sorprende che il direttore di “Stratfor”, George Friedman, nella sua analisi (1) dell’assassinio dell’ambasciatore statunitense in Libia, Christopher Stevens, non prenda in alcuna considerazione la strategia dell’amministrazione Obama, ma si concentri invece sul fatto, abbastanza scontato, che la caduta di un regime ostile ai “valori” della democrazia liberale occidentale non comporta necessariamente che si producano delle condizioni più favorevoli per gli interessi dell’Occidente, ossia, in primo luogo, per gli interessi degli Stati Uniti. In particolare, a Friedman sembra premere di mettere in evidenza che la situazione che si è venuta a creare in Libia potrebbe ripetersi anche in Sira, qualora dovesse cadere il regime di Assad, dato che per il direttore di “Stratfor” è palese che la retorica dei diritti umani senza “realismo politico” può facilmente generare l’opposto di quel che gli attivisti per i diritti umani si propongono di realizzare.

Nondimeno, questo non significa che Friedman sia così ingenuo da ritenere che la contrapposizione tra essere e dover essere sia la vera questione geopolitica che gli Usa devono attualmente risolvere. Piuttosto, al di là del senso letterale delle sue parole,è lecito supporre che egli si faccia portavoce, in qualche modo, delle preoccupazioni di certi ambienti statunitensi che temono che l’alleanza degli Usa con l’islamismo radicale e il ruolo sempre maggiore delle monarchie del Golfo sulla scena internazionale possano condurre gli Stati Uniti a trovarsi in situazioni ancor più complesse e pericolose di quelle che, con l’amministrazione di Bush junior, hanno di fatto mostrato i limiti della potenza americana, sancendo il definitivo tramonto dell’unipolarismo statunitense.

Ma è proprio tale declino relativo (e l’accento si deve porre tanto sul sostantivo quanto sull’aggettivo) che non lascia molto spazio all’azione strategica della maggiore potenza occidentale (e mondiale), che pur si deve necessariamente confrontare con una realtà multipolare, benché ancora allo “stato nascente”, se non vuole  collassare sotto il peso, per così dire, del proprio gigantesco apparato militare. Un apparato – si badi – senza il quale verrebbe meno quella funzione di gendarme dell’oligarchia occidentale che gli Stati Uniti svolgono da decenni e che garantisce al grande Paese nordamericano di poter continuare a finanziare con capitali stranieri un debito pubblico enorme, con una bilancia commerciale in passivo a partire addirittura dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso.

In quest’ottica, allora, si dovrebbe comprendere che le conseguenze “non volute” di quella che si suole definire come la geopolitica del caos sono, in un certo senso, un rischio che gli Usa non possono permettersi di non correre, potendo anzi esse stesse configurare degli scenari tali da offrire all’America l’opportunità di nuovi “interventi umanitari”, anche laddove altrimenti sarebbe, se non  impossibile, indubbiamente assai più difficile intervenire. Del resto, è noto che l’America si è fatta “sorprendere” così tante volte (da Pearl Harbor all’ 11 settembre 2001) da rendere plausibili perfino le ipotesi complottiste più strane ed assurde, anche per aver quasi sempre saputo sfruttare al meglio siffatte “sorprese strategiche”. Comunque sia – indipendentemente dall’affermazione di Friedman secondo cui «it is simply not clear [...] that removing a dictator automatically improves matters. What is clear to me is that if you wage war for moral ends, you are morally bound to manage the consequences» – (2) avendo preferito un “approccio indiretto” allo “scontro frontale” (o, se si preferisce, una guerra di movimento ad una guerra di posizione) che caratterizzava l’amministrazione neocon di Bush junior, è inevitabile che l’America possa, suo malgrado, trovarsi ad interpretare il ruolo dell’apprendista stregone che evoca forze che non è in grado di controllare.

Ecco perché, a nostro avviso, è necessario considerare la strategia globale degli Stati Uniti, in una fase storica in cui non si sono ancora delineati gli equilibri di un ordine mondiale multipolare, per capire che  cosa spinge gli Usa a impegnarsi così a fondo nell’area mediterranea, nonostante la sfida con la Cina sia più decisiva ogni giorno che passa. E quale sia la ragione che spinge gli Stati Uniti a cercare ad ogni costo di ridisegnare l’intera mappa geopolitica dell’area mediterranea lo ha chiarito, con la consueta lucidità intellettuale, Gianfranco La Grassa, a cui non sfugge che la strategia mediterranea degli Stati Uniti è da mettere in relazione con il fatto che per i “centri egemonici” atlantisti il nemico principale è ancora la Russia. Tanto è vero che La Grassa rimprovera, giustamente, alla Maglie (che ha scritto un articolo dal titolo significativo: Ci siamo portati Al Qaeda in casa. Ecco il risultato della folle guerra voluta da Sarkò, Obama e Napolitano) (3) di non aver capito «gran che della differenza tra strategia di impegno diretto (che nel Pacifico ha solo scopi di “contenimento” rispetto alla Cina) e strategia di attacco indiretto tramite appunto il caos e il pantano, in cui si mira come obiettivo primario alla piena subordinazione dell’Europa in funzione anti-russa».(4)

Infatti, se da un lato l’articolo della Maglie ci induce a tener presente quanto siano forti le tensioni all’interno del “gruppo dominante” statunitense a meno di due mesi dalle elezioni presidenziali  americane e soprattutto quanto possa essere forte la pressione delle lobby (filo)sioniste perché Washington appoggi nella maggior misura possibile Israele (in specie nei confronti dell’Iran -  sebbene al riguardo si debba constatare la convergenza “oggettiva” della politica israeliana con quella delle petromonarchie), di modo che gli Usa possano venire coinvolti direttamente nel Medio  e Vicino Oriente per sostenere la politica di potenza dello Stato sionista, dall’altro è di vitale importanza per gli Stati Uniti agire in una prospettiva geostrategica che non può non essere globale. Il che dovrebbe farci riflettere anche sul ruolo determinante (e politico!) dei tecnocrati cosiddetti “europeisti” nell’azzerare la civiltà sociale europea e nel dissolvere le identità nazionali del Vecchio Continente nel mercato globale.

Di fatto, è indubbio che si sia in presenza di un’unica strategia di attacco che si sviluppa su diversi fronti, relativamente indipendenti l’uno dall’altro (è per questo che le vere cause della rivolta contro il regime di Assad sono di natura geopolitica, contando molto più l’azione di potenze straniere che non quella dell’opposizione “interna”). Epperò è il disegno complessivo (certo in continua evoluzione e soggetto anche a notevoli cambiamenti) che conferisce una reale unità d’azione alla politica statunitense, sì che si deve ritenere che lo stesso conflitto tra “dominanti”, benché possa essere assai duro, concerna nella sostanza non tanto il fine quanto i mezzi per conseguire il fine (pur tenendo conto di tutto ciò che questa lotta può implicare sotto il profilo delle differenti sfere di influenza, della distribuzione delle quote di potere e così via).

Pertanto, a nostro giudizio, sono pienamente condivisibili le considerazioni di La Grassa, il quale sostiene esplicitamente che «l’utilizzazione dell’area nord-africana e medio-orientale e di quella europea (entrambe da non considerarsi in una loro, inesistente, indifferenziata unità) [...] ha sue finalità specifiche in merito alla lotta per la supremazia in vista di una fase di crescente multipolarismo (se non ancora di accentuato policentrismo conflittuale) [e] tutto ciò è fondamentale per capire quanto accade in Italia» (5). Insomma, come dicono i francesi, tout se tient, anche se solo  i prossimi mesi ci potranno aiutare a distinguere l’essenziale dal contingente, in specie una volta che si conoscerà l’orientamento geopolitico in base a cui la Casa Bianca prenderà le sue decisioni.

Tuttavia, appare evidente che se per l’America può valere il detto che “chi semina tempesta, raccoglie vento”, i maggiori danni verranno subiti non tanto dall’America quanto dall’Europa – e soprattutto da Paesi mediterranei, come la Grecia, la Spagna e l’Italia. Peraltro, contrariamente a quel che le “anime semplici” possono pensare, ne sono una dolorosa conferma proprio le ripetute dichiarazioni di stima nei confronti di Monti da parte di Obama. E siamo sicuri che sia facile intuire i motivi che ci portano a questa conclusione, a patto che si sappia leggere correttamente la storia recente del nostro Paese. Una storia di cui non si conosce tutto, ma abbastanza per valutare e giudicare, ora che, “defenestrato” il clown di Arcore, è il popolo italiano che deve subire le conseguenze drammatiche di una crisi geopolitica ed economica che sta facendo a pezzi l’intera regione del Mediterraneo allo scopo di salvaguardare gli interessi della grande isola d’Oltreoceano e dei suoi principali alleati.





(1)https://mail.google.com/mail/u/0/hl=it&zx=1timxn745yvmz&shva=1#inbox/139d8d93bc67db4b

(2)Ibidem.

(3)”Libero”, giovedì 13 settembre 2012, p.9.

(4)http://www.conflittiestrategie.it/chi-semina-vento-scritto-da-giellegi-il-16-settembre-12

lunedì 8 ottobre 2012

EURASIATISMO E SOVRANITA’ NAZIONALE




In due articoli, pubblicati circa un anno fa (1), avevamo sollevato la questione della sovranità nazionale nell’epoca che Carl Schmitt denomina l’epoca dei “grandi spazi” (ci riferiamo cioè alla cosiddetta Grossraumteorie), mettendo in evidenza che indipendenza dell’Europa e sovranità dei singoli Stati europei sono due facce della medesima medaglia. Una concezione che non solo esclude di per sé ogni “tentazione” di carattere nazionalista, ma che soprattutto non lascia dubbi su quale sia l’autentico nemico dell’Europa, tanto è vero che siamo ancora fermamente convinti che sia «della massima importanza capire che uno Stato europeo dovrebbe esercitare la propria sovranità “nei limiti e nelle forme” di uno “blocco geopolitico continentale”, ammesso che l’Europa non voglia rassegnarsi ad essere una provincia degli Stati Uniti». (2)

Non possiamo quindi non condividere quanto afferma Claudio Mutti, in una recente intervista rilasciata a Michele De Feudis, secondo cui «la sovranità italiana, che è inseparabile da quella tedesca ed europea, può essere recuperata solo ricacciando l’occupante statunitense oltre l’oceano dal quale è arrivato una settantina d’anni fa» (3). Al riguardo, è  degno di nota che anche Gianfranco La Grassa, sia pure in un’ottica culturale diversa, metta in guardia dal «seguire ambienti falsamente sovranisti» giacché, se non si deve (giustamente) fare «nessuna concessione al vecchio nazionalismo e al mero concetto di Patria, tanto meno all’idea di superiorità di un qualche popolo o di una qualche cultura» (4), è fondamentale pure comprendere che la critica dell’europeismo si può considerare in funzione di una reale sovranità nazionale se e solo se si individua l’obiettivo principale di questa critica negli Stati Uniti e di conseguenza nella pressoché totale subalternità dell’Unione Europea agli interessi d’Oltreoceano. Con le parole di La Grassa: «La UE è nata in definitiva sotto l’egida, e quasi continuazione, dell’opera compiuta ben prima tramite la Nato». (5) Sotto questo punto vista, è evidente che l’indipendenza dell’Europa presuppone la critica “in radice” dell’europeismo dei tecnocrati al servizio dei “mercati», ossia dei vari Draghi e Monti.

Ci si dovrebbe allora rendere conto della necessità di appoggiare tutti quei movimenti “sovranisti” a cui non sfugga che in questa fase storica la stessa lotta sociale dipende in primo luogo dal conflitto per il controllo di aree di vitale importanza sotto il profilo geopolitico e geoeconomico. Non a caso, è proprio la classe dirigente italiana – ovvero la più anti-nazionale ed anti-sovranista d’Europa – a svolgere un ruolo essenziale nell’Europa occidentale in qualità di “agente” della potenza predominante e al tempo stesso ad essere “in prima linea” contro il sistema sociale europeo per adeguarlo agli standard del capitalismo angloamericano. Sotto questo aspetto, affermare con La Grassa che «solo una lotta sempre più acuta tra [...] dominanti, come avevano capito Lenin e Mao, può scardinare le loro strutture di potere e aprire varchi a effettivamente radicali mutamenti storici» (6), significa riconoscere che è indispensabile saper agire in base ai reali rapporti di forza, individuando correttamente lo Schwerpunkt nel dispositivo nemico, secondo la lezione di Von Clausewitz, il grande teorico della guerra: «[...] come il centro di gravità si trova sempre là dove è concentrata la maggior parte della massa, ed ogni urto contro tale centro ha la massima efficacia sull’insieme, così deve avvenire in guerra e perciò l’urto più forte deve avvenire contro il centro di gravità».(7) Sicché colpire lo Schwerpunkt equivale a poter dissolvere la coesione del dispositivo nemico e creare nuove “sfere di azione”, non solo per quanto concerne la geopolitica, ma appunto anche per quanto concerne le relazioni sociali ed economiche.

In questa prospettiva, ci pare che siano “più avanti”, almeno in un certo senso, quei movimenti politici – denominati, assai genericamente, “populisti” – che, pur non potendo essere considerati “socialisti”, mostrano di essere delle forze effettivamente “antagoniste” nei confronti degli Stati Uniti e, in generale, dell’oligarchia atlantista, sulla base di un orientamento che si potrebbe denominare ”nazionalpopolare”. Non meraviglia pertanto che Mutti osservi che «sarebbe già sufficiente se l’Italia potesse prendere a modello l’esperienza politica ungherese. Ma nella classe politica italiana non si riesce a vedere nessuno che abbia gli attributi di Viktor Orbán». (8) Tuttavia, si deve prendere atto che anche negli altri Paesi europei si è ancora in presenza di una protesta nei confronti dell’europeismo (made in Usa, per intendersi), in particolare per motivi socio-economici (peraltro più che condivisibili), da parte di gruppi politici scarsamente collegati tra loro, mentre oggi più che mai occorrerebbe una strategia imperniata sull’esigenza di difendersi da un nemico comune. In ogni caso, decisivo è non cadere nell’errore di demonizzare la Germania, avendo ben presente qual è la potenza che i “mercati” sovrani rappresentano o che comunque permette ai “mercati” di essere sovrani – dato che senza lo Stato verrebbe meno proprio quella funzione  che Gramsci definisce l’egemonia corazzata di coercizione. (9)

Nondimeno, l’enorme incremento della potenza distruttiva dell’apparato bellico statunitense, sembra mascherare in qualche modo (giacché è solo apparentemente un paradosso) l’indebolimento degli Stati Uniti come unico “centro regolatore” a livello mondiale; un indebolimento che, lasciando ampi margini d’azione a centri (sub)dominanti, potrebbe generare anche le premesse per un’azione politica e culturale che abbia di mira una ridefinizione della sovranità nazionale, secondo un’immagine dell’Europa che sia espressione delle diverse identità che la costituiscono. Il che è possibile non solo riconoscendo la più ampia autonomia possibile ai singoli Stati europei (nonché valorizzando la specificità delle diverse aree europee, come quella mediterranea e quella baltica), ma anche (a conferma che la geopolitica è necessaria, ma non sufficiente) facendo valere un’idea di bene comune , di “giusta misura”, contro la prepotenza dei “mercati”. Vale a dire un progetto che sarebbe realizzabile solo dando  vita ad una alternativa multipolare che mettesse fine all’egemonia atlantista. Perciò è innegabile che «la via da percorrere [...] non è quella del pollaio nazionalistico, ma quella della liberazione dell’Europa, in sinergia coi grandi Stati eurasiatici che si oppongono all’unipolarismo americano». (10) Ed è proprio l’esigenza di combattere contro un nemico comune, per tutelare le proprie radici e per promuovere la giustizia sociale, che richiede di superare ogni forma di nazionalismo, al punto che non è azzardato ritenere che un movimento europeo che voglia essere davvero sovranista dovrebbe anche far leva su quella dimensione spirituale della storia che ci rende impossibile non considerare l’Oriente come parte costitutiva del nostro essere europei. In questo senso, l’eurasiatismo, mostrandosi solidale con un’idea di Europa intesa come un tutto differenziato e non come un’appendice occidentale del “mercato americanocentrico”, permette di difendere una forma equilibrata di “sovranismo”, a partire dal quale sia possibile riprendere insieme con le genti dell’Eurasia un cammino iniziatosi molti secoli fa e che, in verità, non si è mai del tutto interrotto.





NOTE:

1.http://www.cpeurasia.eu/1724/sovranita-nazionale-e-alternativa-multipolar;
http://www.cpeurasia.eu/1762/indipendenza-delleuropa-sovranita-nazionale-e-crisi-globale .

2.http://www.cpeurasia.eu/1762/indipendenza-delleuropa-sovranita-nazionale-e-crisi-globale .

3.http://www.eurasia-rivista.org/oltre-il-nazionalismo-per-difendere-il-soggetto-europa/17102/ .

4.http://www.conflittiestrategie.it/difficile-lettura-della-fase-scritto-da-giellegi-25-sett-12

5.Ibidem.

6.Ibidem.

7.Von Clausewitz, Della guerra, l. 6, cap.XXVII.

8.Claudio Mutti, cit.

9.Gramsci, Quaderni dal carcere, 4 voll., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, pp. 763-764.

10.Claudio Mutti, cit.

http://www.eurasia-rivista.org/eurasiatismo-e-sovranita-nazionale/17146/