mercoledì 27 novembre 2019

IL POLITICO E LA GUERRA: MASCHERA E VOLTO DELL'OCCIDENTE: ERRATA CORRIGE

p. 21: Mosca si indebitò= Pietroburgo si indebitò
p. 49: Christian de Wiet=Christiaan de Wet
p. 52: dal 1914 al 1914=dal 1904 al 1914
p. 60: scontri del primo gennaio=scontri del 22 gennaio
p. 66: 1900 (prima tabella)= 1914
p.69: arciduca Fernando=arciduca Ferdinando
p.111: favorino=favorirono
p. 126: Il primo giugno 1936, la concentrazione= Il 3 ottobre del 1935 la concentrazione
p.126: ignominiosi scacchi:= ignominiosi scacchi, tanto che il primo giugno del 1935 in Etiopia vi erano
p. 143: Nondimeno, contrariamente=Peraltro, contrariamente/ già notevolmente=notevolmente
p. 145: la marina e del Terzo Reich= la marina del Terzo Reich
p. 155: Il Bef, aveva perso=Il Bef aveva perso
p. 160: per narrazione=per una narrazione
p. 166: nel giugno 1940=nel luglio 1940/Ploesti=Ploiesti
p. 161: ne perse 2091.=ne produsse 2091.
p.167: nel novembre del 1941=nel novembre del 1940.
p. 210: avrebbe evitato avrebbe evitato=avrebbe evitato
p. 211: dell'aeroporto di Ciampino=degli aeroporti di Cerveteri e Furbara
p. 220: Morghentau=Morgenthau
p. 233: agosto 1944=luglio 1944
p. 320: Eppure, si trattava=Si trattava
p. 349; "potenza" non possa="potenza" che non possa
p. 363: alla fine del I millennio a. C.=alla fine del II millennio a. C.
Per quanto concerne la nota 346  a p. 182 si legga anziché Nel 1946 il segretario di Stato Stimpson ammise..., L'ex segretario di Stato (per la guerra) Henry Stimson ammise... Inoltre, il titolo esatto  del "controverso" libro di C. A. Beard è The President Roosevelt and the Coming of the War 1941, Yale University Press, New Haven, 1948.

martedì 8 ottobre 2019

IL BASTONE AMERICANO E Il "VENTRE MOLLE" DELL'OCCIDENTE

È opinione diffusa tra coloro che (giustamente) criticano la politica di pre-potenza degli Stati Uniti che sarebbe giunto finalmente il momento non solo per l'Italia ma per l'UE di ribellarsi agli USA, perché la politica americana dei dazi e delle sanzioni arbitrarie non colpisce solo l’Italia ma tutta l'Europa. In realtà, è la guerra commerciale degli USA contro l'UE e in particolare contro la Germania che colpisce pure l'Italia. Comunque sia, pensare che ci si debba schierare con la Germania o dalla parte dell'UE per smarcarsi dagli USA significa interpretare i rapporti tra gli USA e l'UE in modo semplicistico e fuorviante.
Invero, la stessa supremazia economica della Germania in Europa (e in generale dell'Europa del Nord rispetto ai Paesi europei dell'area mediterranea) non sarebbe possibile senza l'egemonia (geo)politica degli USA sul Vecchio Continente, giacché gli interessi economici della UE di fatto sono garantiti, sotto il profilo geopolitico e militare, proprio dalla NATO, cioè dagli USA, tanto che se l'UE (che non è né uno Stato federale europeo né una Confederazione europea) dovesse smarcarsi dall'America, rischierebbe di precipitare in un caos geopolitico che non potrebbe non avere conseguenze disastrose per l'Europa. 
In sostanza, l'UE, se si sganciasse dagli USA, per non sfasciarsi dovrebbe mutare l'intera sua struttura politica ed economica, per trasformarsi in un vero "soggetto" (geo)politico, rinunciando di conseguenza ad essere una unione competitiva europea, con tutto ciò che ne deriverebbe riguardo ai rapporti tra i diversi Paesi della UE. 
Non a caso è sulla debolezza geopolitica e militare della UE che cerca di far leva l'America di Trump, che non è più disposta a subire la concorrenza europea (e soprattutto l'enorme surplus commerciale della Germania) a scapito della bilancia commerciale americana. Difatti, l'amministrazione di Trump rappresenta gli interessi non tanto della middle class cosmopolita americana quanto piuttosto quelli dei ceti medi americani che più sono stati penalizzati dalla crisi economica di questi ultimi anni, ovverosia Trump concepisce la politica di pre-potenza americana in funzione degli interessi della nazione americana più che in funzione della élite cosmopolita neoliberale, e dato che la UE è sì una potenza economico-commerciale ma anche un nano (geo)politico e militare è evidente che l'America di Trump sia convinta di potere vincere la partita contro la Germania o qualunque altro Paese europeo. 
Certo, in teoria l'UE "a trazione" franco-tedesca (ma di fatto soprattutto "a trazione" tedesca) potrebbe allearsi con la Russia per cercare di smarcarsi dagli USA, ma chiaramente (perlomeno in questa fase storica) un simile mutamento di rotta geopolitica è pressoché impossibile. Del resto, i gruppi (sub)dominanti europei condividono la stessa ideologia neoliberale e "politicamente corretta" che caratterizza i gruppi (sub)dominanti americani che si oppongono a Trump, né si deve dimenticare che sia in America che in Europa (Italia compresa) gran parte della ricchezza si è concentrata nelle mani di circa il 10% della popolazione, ragion per cui per i gruppi (sub)dominanti occidentali è necessario difendere comunque il sistema (geo)politico ed economico euro-atlantista per opporsi non solo ai nuovi centri di potenza anti-egemonici (Russia, Cina, ecc.) ma anche alle classi sociali subalterne occidentali (che ormai comprendono la maggior parte dei ceti medi). 
Vale a dire che (euro)atlantismo e neoliberalismo simul stabunt simul cadent, di modo che, anche se sotto il profilo  economico l'America e l'UE (e in specie la Germania) possono avere obiettivi diversi e perfino opposti, è ovvio che sia i "dem" che gli "eurocrati" considerino estremamente pericolosa la politica di Trump, che (benché  si tratti di una politica che non è esente da notevoli "oscillazioni" e contraddizioni, poiché neppure Trump non può non tener conto degli interessi del deep State statunitense) sembra ignorare il nesso strettissimo che unisce (euro)atlantismo e neoliberalismo, privilegiando invece una prospettiva populista e nazionalista, che rischia di danneggiare gli interessi politici ed economici delle élites cosmopolite neoliberali.
Sia Trump che i populisti europei costituiscono pertanto una minaccia che i gruppi (sub)dominanti neoliberali devono assolutamente eliminare, anche se paradossalmente i populisti (americani ed europei), tranne qualche eccezione, condividono gli stessi principi politici ed economici dei neoliberali.
D'altronde, non è un segreto che la strategia della oligarchia neoliberale mira a promuovere la colonizzazione di qualsiasi sfera sociale e personale da parte del mercato capitalistico e perfino una immigrazione irregolare di massa, nonostante la difficoltà di integrare buona parte dei cosiddetti "migranti economici" (da non confondere con i profughi che sono solo una piccola parte dei "migranti"). Al riguardo è significativo che non vi sia nemmeno una agenzia europea per l'immigrazione in Europa di cittadini extracomunitari che abbiano i requisiti necessari per inserirsi rapidamente nel sistema produttivo, mentre il flusso dei "migranti" che provengono dall'Africa viene gestito da organizzazioni criminali (a conferma, come ben sapeva Thomas Sankara, che coloro che sfruttano l'Africa sono gli stessi che sfruttano l'Europa). 
In effetti, tanto più si indeboliscono il legame comunitario e il "senso di appartenenza", che caratterizzano gli Stati nazionali, tanto più è difficile che emergano delle "contro-élites" capaci di sfruttare l'attuale crisi (non solo economica ma anche di legittimazione) per opporsi al sistema neoliberale (ovviamente secondo una prospettiva politico-culturale nettamente diversa da quella che contraddistingue il neofascismo). 
Tuttavia, non è impossibile che da una "costola" del populismo (che peraltro è l'effetto della crisi di un sistema che non sa più risolvere i problemi che esso stesso genera) possa nascere una forza politica in grado di mettere fine alla pre-potenza delle élites neoliberali. In altri termini, parafrasando Carl Schmitt, non si può escludere che si veda solo insensato disordine (anche e soprattutto "mentale") dove invece un nuovo senso può essere già in lotta per il suo ordinamento. Di questo però sono consapevoli anche gli strateghi del grande capitale (anche se non necessariamente i politici o gli intellettuali neoliberali), dato che difficilmente possono ignorare che l'indipendenza dell'Europa presuppone la sconfitta dell'oligarchia neoliberale.

martedì 6 agosto 2019

"CHI DICE UMANITÀ CERCA DI INGANNARVI"

Giorgio Agamben è un intellettuale di punta della sinistra neoliberale, certo colto e non privo di talento. Tuttavia, anche Agamben (contro il quale Losurdo non esitò a scagliare i suoi strali) nella sostanza si muove, sia pure in modo originale, nel solco tracciato dal pensiero post-strutturalista e post-marxista francese, secondo cui il "nemico" è soprattutto lo Stato nonché il maestro, il poliziotto, il commerciante, l'operaio, la famiglia, il padre, il maschio, l'"uomo "bianco" o la "donna bianca", l'eterosessuale, ecc.
Non a caso nel suo libro La comunità che viene, Agamben scrive:
"Poiché il fatto nuovo della politica che viene è che essa non sarà più lotta per la conquista o il controllo dello stato, ma lotta fra lo stato e il non-stato (l'umanità), disgiunzione incolmabile delle singolarità qualunque e dell'organizzazione statale»", (Giorgio Agamben," La comunità che viene", Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 58).

Del Politico, nel senso forte del termine e di conseguenza della serietà della storia, non c'è quindi neppure più traccia. Né la lotta per l'egemonia, né la lotta tra gli Stati, né la lotta sociale contano.
Da una parte della barricata c'è lo lo Stato, dall'altra l'umanità.

Ma Agamben va ben oltre. Ad esempio, nella  Ragazza indicibile, un interessante saggio sulla Kore e i misteri di Eleusi, Agamben, oltre a fare sfoggio di una notevole e pregevole erudizione, parte da premesse condivisibili ma per giungere, con una "forzatura ermeneutica" evidente, ad una conclusione che è in contraddizione con tali premesse.
Certo il mistero è solo nominabile, non dicibile (tanto che Kerényi afferma che il nome di Apollo, ad esempio, è il "mito", mentre mitologemi sono i cosiddetti "miti" che riguardano la figura di Apollo). In altri termini, il verbo Essere già tradisce (ossia lo tramanda tradendolo) il mistero. 
Ma per Agamben il mistero non è il silenzio da cui sgorga la parola, compresa quella di Apollo che scatena il conflitto delle interpretazioni, né il volto nascosto del Dio da cui si irradiano le catene espressive che formano il mondo (Giorgio Colli), né il punto extraspaziale da cui nascono i paradossi di Zenone. 
La parola non "ri-vela" il mistero. Non c'è, infatti, nessun mistero. Questo è il mistero. Sicché Agamben conclude:
"Vivere la vita come un'iniziazione. Ma a che cosa? Non a una dot­trina, ma alla vita stessa e alla sua assenza di mistero. Questo ab­biamo appreso, che non c'è alcun mistero, soltanto una ragazza in­dicibile.
Gli uomini sono dei viventi che, a differenza degli altri anima­li, devono essere iniziati alla loro vita, devono, cioè, prima perder­si nell'umano per ritrovarsi nel vivente e viceversa".

Nessun significato nascosto, nessuna esperienza "sovra-individuale", nessun "essere in fusione", giacché il silenzio indicibile non è che un nome, Kore, ossia il nome di quell'umanità il cui nemico mortale oggi sarebbe esclusivamente lo Stato.
Eppure Agamben sa bene che secondo Carl Schmitt "Wer Menschheit sagt, will betrügen", ossia "chi dice umanità cerca di ingannarvi" e che già Pierre-Joseph Proudhon aveva espresso il medesimo concetto. 

domenica 4 agosto 2019

L'EUROPA E LA QUESTIONE TEDESCA

Il nuovo scontro tra Stati Uniti e Germania sulla missione marittima nello Stretto di Hormuz (missione pianificata da Washington per impedire che gli iraniani possano minacciare la libera navigazione in quello Stretto, attaccando o sequestrando delle petroliere come ritorsione per il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano del luglio 2015 - ossia dal Joint Comprehensive Plan of Action - nonché per le sanzioni adottate dagli americani contro l’Iran), è certamente un altro segno del deterioramento dei rapporti tra l’America e Unione Europea. Anche se Berlino afferma che questa missione (cui, se ci sarà, non è escluso che anche la Germania possa parteciparvi) non farebbe altro che gettare benzina sul fuoco, in realtà questo scontro tra la Germania e gli Stati Uniti ha un significato che va ben oltre la questione del nucleare iraniano. In gioco, infatti, vi sono interessi economici e questioni geopolitiche più importanti che la divergenza di opinioni sulla strategia da adottare nei confronti della Repubblica islamica dell’Iran. Per capirlo però occorre fare “qualche passo indietro”.

È noto che l’Unione Europea (e in particolare l’euro) avrebbe dovuto essere lo “strumento” politico-economico mediante il quale ancorare saldamente la Germania all’Atlantico dopo il crollo del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica. Invero, la Germania, ottenendo che l’Unione Europea fosse una “unione competitiva europea” anziché una vera “unione politica europea”, ha saputo usare questo “strumento” per diventare una grande potenza economica, caratterizzata da un enorme surplus della propria bilancia commerciale. Si tratta però di una mera crescita economica che, oltre a creare ogni genere di squilibri all’interno della stessa Unione Europea, ha danneggiato non solo i Paesi dell’area mediterranea ma pure l’economia degli Stati Uniti. In pratica, il cosiddetto “neomercantilismo” della Germania ha contribuito a trasformare l’Unione Europea in un mero “aggregato di Stati nazionali” in lotta tra di loro e al tempo stesso ha reso più tesi i rapporti tra l’UE e l’America. Una situazione resa ancora più complicata dalla vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane del novembre 2016, tanto che perfino l’attuale “attrito” tra l’Unione Europea e l’America è – almeno in parte - un “semplice riflesso” del durissimo scontro ai vertici del potere pubblico della grande potenza d’Oltreoceano (peraltro, anch’esso, come l’abnorme espansione della finanza rispetto alle forze produttive, un “segnale dell’autunno” della potenza egemone e indice di quella crisi di “sovraesposizione imperiale” dell’America già ben analizzata, sia pure nei suoi aspetti essenziali, dallo storico Paul Kennedy nel suo famoso libro “Ascesa e declino delle grandi potenze” pubblicato negli Ottanta del secolo scorso).

D'altra parte, è innegabile che sia ancora la NATO, ossia l’America, a garantire la sicurezza dei Paesi europei e che se l’UE è una nullità geopolitica e militare anche la Germania è pur sempre un nano geopolitico e militare. Insomma, se sotto il profilo economico l’UE è “egemonizzata” dalla Germania, sotto il profilo geopolitico e militare è ancora l’America che “detta legge” in Europa (né il direttorio franco-tedesco può cambiare granché al riguardo, nonostante la megalomania dell’inquilino dell’Eliseo che si illude che la Francia da sola possa controbilanciare la potenza economica della Germania, dato che la Francia è solo una media potenza, non certo una grande potenza, né militare né economica, da circa un secolo – d’altronde, la stessa force de frappe non è che una forza di “dissuasione nucleare”). Facile quindi capire perché Washington non sia disposta a tollerare una politica economica tedesca che danneggi l’America e che non perda occasione per rammentare alla Germania la sua condizione di “Stato vassallo”.

Invero, è la questione dell’atlantismo che è mutata di senso in questi ultimi anni. I dirigenti americani si rendono conto, infatti, che gli Stati Uniti non hanno i mezzi e le risorse per dominare l’intera scacchiera globale ovverosia per dominare l’America Latina, il continente africano, l’area del Pacifico, il Medio Oriente e l’Europa, allo scopo di contrastare l’ascesa della Russia e la Cina (ritenuta ormai anche dai “dem”, ossia i “circoli democratici” del deep State americano, una “potenza maligna”). In questo senso, il neoatlantismo (o neoimperialismo) di Trump si differenzia dall’euro-atlantismo, che è incentrato sul rapporto privilegiato tra America ed UE soprattutto in funzione antirussa. Tuttavia anche Trump, che verosimilmente non è ostile per principio nei confronti della Russia di Putin, sembra “prigioniero” dei falchi del gigantesco Warfare State americano che, come i “dem, ritengono ancora la Russia il nemico principale dell’America e quindi considerano i Paesi dell’UE alleati di fondamentale importanza. In effetti, uno degli scopi principali della NATO è quello di garantire che la Germania non possa varcare la “linea rossa” che separa l’UE dalla Russia. Il rischio, pertanto, secondo i “dem” e gran parte degli “strateghi” americani, è che la politica di Trump possa indebolire la posizione geostrategica dell’America in Europa e al tempo stesso impedire agli Stati Uniti di potere giocare la carta della “pax americana” in Medio Oriente (non si deve dimenticare che sono stati proprio “dem” a volere l’accordo sul nucleare iraniano), creando così una situazione di “caos geopolitico” di cui si potrebbe avvantaggiare solo la Russia.

In questo contesto, però è ovvio che il neoatlantismo di Trump costituisca pure una minaccia per la Germania, che grazie all’euro-atlantismo ha potuto conquistare la supremazia economica in Europa ma che non ha certo la “stazza” per confrontarsi direttamente con le grandi potenze (Stati Uniti, Russia, e Cina) e nemmeno la potenza militare per difendere i suoi interessi economici nel caso di un conflitto internazionale “ad alta intensità”. La strategia economica della Germania, imperniata non sulla crescita economica e geopolitica dell’Europa ma solo sulla crescita economica della Germania e sull’espansione ad Est della NATO, si sta pertanto imbattendo nei propri limiti, tanto che la Germania rischia di finire in una “trappola strategica”. Difatti, la stessa espansione ad Est della NATO rende praticamente impossibile la formazione di un asse geopolitico russo-tedesco, mentre la russofobia che caratterizza l’euro-atlantismo ha favorito la formazione di un asse russo-cinese. In sostanza, la Germania sembra ritenere di potere da un lato “inglobare” la Russia nello spazio geo-economico egemonizzato dai tedeschi (che si può definire il loro Lebensraum) e dall’altro “condizionare” la politica di Mosca mediante la NATO. Un disegno geopolitico che per realizzarsi esigerebbe non solo che la Russia cedesse alla pre-potenza della NATO ma che la potenza militare dell’America fosse “al servizio” degli interessi della Germania.

Ovviamente, sebbene non si possa certo affermare che i tedeschi dopo Bismarck si siano distinti per acume politico-strategico, anche i dirigenti tedeschi sono consapevoli dei rischi che corre la Germania per la sua debolezza geopolitica e militare. Tuttavia, questo non significa affatto che la Germania sia pronta a “smarcarsi” dagli Stati Uniti per trasformare l’Unione Europea in una grande potenza economica e militare. Questo è solo il “sogno” di coloro che pensano che le lancette della storia si siano fermate nell’agosto del 1939, cioè allorché fu firmato il patto Molotov-Ribbentrop. Di fatto, la Germania in questi anni si è solo limitata  a trarre il maggior profitto possibile dal declino relativo della grande potenza d’Oltreoceano, cercando sì di fare “affari” anche con la Russia, ma nel contempo adoperandosi in ogni modo per rafforzare l’area baltica, notoriamente la più russofoba d’Europa, a scapito di quella mediterranea (tanto da osteggiare il gasdotto South Stream per potere raddoppiare il gasdotto Nord Stream e diventare così l’unico Paese europeo in cui possa arrivare il gas russo). D’altro canto, non è certo un segreto che Berlino non ne vuole nemmeno sapere di una “visione geopolitica” europea, proprio come non ne vuole sapere di unico debito pubblico europeo (presupposto essenziale per una unione politica europea). Non a caso, perfino per quanto concerne l’accordo sul nucleare iraniano la Germania ha voluto ad ogni costo distinguere nettamente la sua posizione non solo da quella della Francia ma da quella della stessa UE. Ed è anche noto che la Germania vorrebbe, per sé non certo per l’UE, un posto tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Pare lecito dunque affermare che il neoatlantsimo di Trump o, meglio, l’inizio di una fase geopolitica multipolare ha messo in luce la miopia politico-strategica della Germania che in questi anni ha buttato al vento l’occasione per diventare davvero egemone in Europa. Vale a dire che la Germania pare incapace di distinguere tra mero dominio (o supremazia) ed egemonia (nel senso forte del termine, ossia “gramsciano”), mentre la storia dell’Europa prova che nessuna potenza europea è in grado di “dominare” l’Europa (e si badi che senza il rafforzamento dell’area mediterranea non è possibile neppure creare uno spazio geopolitico “eurasiatico”, sia pure multipolare e in sé differenziato), mentre i conflitti o, se si preferisce, la “competizione” tra i vari Paesi europei non può che avvantaggiare una potenza non europea, ovvero gli Stati Uniti. Le conseguenze del fallimento politico-strategico della Germania (che sarebbe il terzo nel giro di un secolo!) potrebbero quindi avere conseguenze disastrose anche per gli altri Paesi europei. 

Ciononostante, bisogna vedere anche l’altro lato della medaglia, dato che, se il declino relativo degli Stati Uniti sul piano geopolitico ha già portato alla formazione di nuovi centri di potenza sia a livello mondiale (Russia e Cina) che a livello regionale (India, Israele Turchia, Iran, ecc.), la crisi del sistema neoliberale occidentale ha portato alla nascita di forze politiche “populiste” (giacché il “populismo” non è che un effetto della crisi di un sistema politico che non sa risolvere i problemi che esso stesso genera), che hanno già messo forti radici in America e in Europa, benché non si possano definire, a differenza della Russia  e della Cina che sono centri di potenza anti-egemonici, delle forze politiche “anti-egemoniche”. In altri termini, si è in presenza di una fase di transizione egemonica, che è appena cominciata e che, anche se nessuno sa come finirà, probabilmente sarà di lunga durata e contrassegnata da aspri conflitti e perfino da nuove forme di guerra.  

In definitiva, si può ritenere che anche la questione tedesca sia solo un aspetto di una questione ben più grande, ossia quella della civiltà europea, che verosimilmente si deciderà in questa fase di transizione egemonica. Non si deve ignorare, infatti, che geo-politica non è sinonimo di politica estera o di relazioni internazionali ma che in primo luogo designa il fatto che l’uomo non può che “abitare politicamente la terra”, ragion per cui non vi è transizione egemonica che non sia contraddistinta dalla nascita di nuovi “paradigmi” culturali e dalla scomparsa di altri. Del resto, che la crisi geopolitica dell’Europa sia anche una crisi della civiltà europea è ormai sotto gli occhi di chiunque, ad eccezione di coloro che non vogliono vedere o che pensano che i problemi si possano risolvere negando la realtà.

giovedì 1 agosto 2019

UNA PRECISAZIONE


Avere scritto due articoli su Evola (pubblicati sul sito della Fondazione Julius Evola), peraltro scritti per un "uditorio" che era composto da giovani che volevano "smarcarsi" da una certa "destra", ma erano interessati a comprendere il pensiero di Evola, non ha nulla a che fare con la cosiddetta "Tradizione", ma solo con la necessità di conoscere e capire (non  a caso su Evola hanno scritto anche Franco Volpi, Massimo Donà, Marguerite Yorcenar, ecc.). Certo oggi li scriverei diversamente, anche perché le mie idee erano e sono assai diverse da quelle di Evola, anzi, per quanto concerne aspetti essenziali sia sotto il profilo filosofico che sotto quello storico e (meta)politico, sono perfino opposte a quelle di Evola (per non parlare di Guénon).
Del resto, basta leggere attentamente anche solo questi due articoli per capirlo. In sostanza (ma il discorso dovrebbe essere assai più articolato di una semplice precisazione) la cosiddetta "Tradizione" non è altro che un rovesciamento dell'idea del Progresso (con la P) che, mediante una paradossale interpretazione letterale del Mito, porta ad ignorare non solo la "serietà" della storia ma che anche la modernità è "conflitto". In definitiva, ben poco si comprende del Politico se non si tiene conto del processo di civilizzazione e dell'aspirazione dell'uomo a liberarsi dalla sopraffazione, dato che i membri di una comunità, in quanto tali, sono “pari” (anche se non pochi individui non sono affatto degni di fare parte di una comunità, perché vi sono non solo dei diritti da difendere ma anche dei doveri da compiere).
 Comunque sia, quando si giudica un autore si deve  leggere tutto quel che ha scritto, senza citare alcune frasi che fuori dal contesto possono assumere un significato del tutto diverso da quello espresso da chi le ha scritte

mercoledì 5 giugno 2019

"LE GUERRE D'ISRAELE E IL NOMOS DELLA TERRA"




INDICE del libro "LE GUERRE D'ISRAELE E IL NOMOS DELLA TERRA" . Il libro per ora si può acquistare solo su LULU http://www.lulu.com/shop/fabio-falchi/le-guerre-disraele-e-il-nomos-della-terra/paperback/product-24133717.html

PREMESSA
Capitolo I
LO YISHUV
Capitolo II
LO YISHUV IN GUERRA
Capitolo III
LA GUERRA DEL 1948
Capitolo IV
DAL 1948 ALLA GUERRA DEL SINAI
Capitolo V
LA GUERRA DEI SEI GIORNI
Capitolo VI
LA GUERRA D’ATTRITO
Capitolo VII
LA GUERRA DEL KIPPUR
Capitolo VIII
IL CONFLITTO CON I PALESTINESI
Capitolo IX
LA GUERRA DEL LIBANO
Capitolo X
L’INTIFADA E LA “PACE FALLITA”
Capitolo XI
GUERRA E TERRORE
Capitolo XII
NON C’È PACE TRA GLI ULIVI
EPILOGO
BIBLIOGRAFIA
CARTINE


martedì 12 febbraio 2019

SOVRANISMO EUROPEISTA O "INTER-NAZIONALISMO" EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI


 “Per un sovranismo europeista”* di Franco Cardini (uno degli intellettuali italiani più lucidi e capaci)  è certo un articolo che merita di essere letto, giacché, oltre ad evidenziare i gravi limiti di un “sovranismo” che rischia di configurarsi come una forma di nazionalismo “incapacitante” nell’attuale fase multipolare**, offre l’occasione per una riflessione critica sulla questione della costruzione di un autentico polo geopolitico europeo. Infatti, pure a Cardini si possono - e si devono - rivolgere diverse critiche. Vediamone brevemente alcune.

1) Cardini (ma non è il solo) pare non tener conto che civiltà e cultura si collocano su un piano distinto (benché non irrelato) da quello geopolitico. Ad esempio, la civiltà e la cultura greca erano imperniate sulle poleis che continuarono a farsi la guerra pure dopo la guerra del Peloponneso, finché le poleis dovettero riconoscere la supremazia del regno macedone.
Insomma, civiltà e cultura (europea) non bastano per dar vita ad un soggetto geopolitico (europeo).

2) Cardini difende un sovranismo europeo, ma nulla dice del debito sovrano dei singoli Stati europei. Dovrebbe allora esserci un unico debito pubblico europeo? E la Germania che non ha voluto nemmeno gli eurobond accetterebbe? Quello che le banche tedesche e francesi hanno fatto alla Grecia non ha nulla da insegnare? Inoltre, è davvero possibile che un generale greco o italiano possa comandare la difesa europea, inclusa la force de frappe? E quale dovrebbe essere la politica estera dell'Europa? In altri termini chi deciderebbe? La Germania vuole un seggio all'Onu (e non ne vuole sapere di un seggio europeo) e la Francia non è certo disposta a rinunciare al suo. Come la mettiamo allora con il sovranismo europeo?
3) Cardini da un lato sostiene che l'Europa dovrebbe smarcarsi dai potentati economici e finanziari, che ritiene dei poteri "transnazionali", dall'altro però pensa che per riuscirvi l'Europa si dovrebbe sganciare dall'America, ossia da uno Stato nazionale. La contraddizione è palese, perché in pratica questo equivale a riconoscere che i potentati economici e finanziari sono e non sono "transnazionali" in quanto di necessità "agganciati" a precisi centri di potenza (geo)politici, ossia in quanto non possono non agire in sinergia con uno Stato nazionale egemone o con più Stati nazionali (anti-egemonici o sub-dominanti), che del resto sono ancora i principali attori geopolitici sulla scacchiera globale. Difatti, solo gli Stati possiedono i mezzi di coercizione (satelliti, missili, aerei, navi da guerra, forze corazzate, servizi, polizia, tribunali, prigioni, ecc.) per "regolare" i rapporti internazionali. D'altronde, è forse possibile spiegare la guerra in Siria o il conflitto israelo-palestinese o lo scontro tra Israele e l'Iran o la questione dell'Ucraina o la guerra dell'Arabia Saudita nello Yemen o il terrorismo islamista e via dicendo "solo" con il potere della finanza o la geoeconomia? Ovviamente no. Qualunque riflessione sulla questione di uno spazio geopolitico europeo e della "sovranità nazionale" quindi dovrebbe perlomeno tener presente che per comprendere la realtà geopolitica occorrono non solo categorie economiche o "ideologiche" ma anche e soprattutto categorie politico-strategiche.

D'altronde è noto che terminata la Seconda guerra mondale gli americani erano disposti ad appoggiare i vari movimenti nazionalisti del Terzo Mondo. Tuttavia dovettero riconoscere che pure i comunisti erano nazionalisti. Come allora giustificare la lotta contro il comunismo? Il problema lo risolsero sostenendo che i comunisti non erano veri nazionalisti.
In realtà, era vero l'opposto. Ho Chi Minh, ad esempio, era comunista ma pure nazionalista dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, per così dire. Il fatto che i vietnamiti comunisti fossero nazionalisti  rappresentava la regola non l'eccezione per quanto concerne le varie lotte di liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.
In questa prospettiva, si dovrebbe allora comprendere che oggi più che di un sovranismo europeista vi sarebbe bisogno di una lotta di liberazione nazionale dei popoli europei, ossia di una "Internazionale" dei popoli europei. In definitiva oggi essere "inter-nazionalisti" significa sia difendere il "senso di appartenenza" che opporsi al capitalismo predatore neoliberale ovvero opporsi tanto all'euro-atlantismo (mascherato da europeismo) degli eurocrati quanto all'imperialismo neoatlantista di Trump e Bannon.
*Vedi https://www.vision-gt.eu/platform-europe/per-un-sovranismo-europeista/?fbclid=IwAR3IuoODDScZH4zjsiWOZQ_P-Z5TEQBngxxQvY9hW4-rkPDEmVocx2lQD6g
** Tuttavia, si deve distinguere tra diverse forme di nazionalismo. Un conto è lo sciovinismo, che genera intolleranza e xenofobia, un altro il patriottismo, ovverosia la difesa del "senso di appartenenza" ad una terra, ad una cultura, ad un popolo. In quest'ultimo caso non si può certo parlare di nazionalismo ottuso, basti pensare alle lotte di liberazione nazionale.

sabato 2 febbraio 2019

LE SFIDE DEL MULTIPOLARISMO


Non è certo una novità che in America vi sia un durissimo scontro ai vertici del potere pubblico soprattutto riguardo alla strategia che la grande potenza d'oltreoceano dovrebbe adottare per far fronte alle sfide del multipolarismo. Nondimeno, in Italia si contano sulla punta delle dita gli “studiosi” di geopolitica che prendono seriamente in considerazione questo scontro nelle loro analisi, tanto che vi è che ritiene che sia solo una messinscena (una sorta di diabolica arma di distrazione di massa inventata dai sionisti!) e che quindi Trump non sia altro che il portavoce del Deep State.
Ha comunque ragione chi afferma che gli Usa non sono più in grado di difendere tutte le loro posizioni sulla scacchiera globale e che in quest’ottica si deve interpretare il ritiro degli Usa sia dalla Siria che dall’Afghanistan (ritiro che, peraltro, oltre a non essere ancora chiaro quando e come avverrà, non equivale affatto ad abbandonare del tutto la regione mediorientale). Il problema è pertanto capire quali siano le principali posizioni che gli Usa intendono difendere.
Ma è proprio su questo argomento che lo scontro in America è asperrimo. Basta confrontare le posizioni di Stephen Walt o John Mearsheimer con quelle di Robert Kagan per rendersene conto. Si tratta cioè di posizioni opposte, che riflettono una “spaccatura” all’interno dello stesso Deep State, benché quest’ultimo sia in buona misura schierato dalla parte di Kagan e quindi dalla parte di coloro che sono ostili a Trump. Infatti, mentre per Walt e Mearsheimer l'America dovrebbe ridurre i suoi impegni all’estero, in particolare in Europa, e rafforzare il suo potere aereonavale per difendere i propri interessi, per la maggior parte degli analisti del Deep State (ossia “legati” al gigantesco complesso politico-economico-militare degli Usa) il nemico numero uno dell’America è sempre la Russia (ma anche la Cina viene ormai considerata una potenza “non benigna”) e quindi i rapporti con gli alleati europei dovrebbero essere non indeboliti bensì rafforzati. Ragion per cui la politica di Trump, nonostante le sue contradizioni, nella misura in cui è più atlantista (ossia si ispira all’imperativo strategico “make America great again”) che euro-atlantista, è ritenuta dalla maggior parte degli analisti americani una “follia geopolitica”.
Comunque sia, ora gli Usa sono impegnati soprattutto su tre fronti: Venezuela, Iran e Russia. Riguardo al Venezuela Trump gioca facile dato che può contare sia sul sostegno del Deep State che su quello di buona parte dei Paesi europei. (Tuttavia, l’Europa ha mostrato ancora una volta di essere solo una sorta di tecnostruttura funzionale agli interessi di alcuni Paesi europei. Certo, il parlamento europeo ha riconosciuto Guaidó come presidente ad interim del Venezuela e l’Ue ha creato pure un “gruppo di contatto” per risolvere la crisi del Venezuela - ma sembra che l’Ue si sia dovuta a limitare a questa mossa diplomatica nei confronti del Paese sudamericano, solo grazie al rifiuto del governo italiano di sostenere Guaidó contro Maduro. Nondimeno la Germania, la Spagna e la Francia avevano già deciso di riconoscere come presidente ad interim del Venezuela Guaidó, nel caso che Maduro non si fosse dimesso entro otto giorni. Un ultimatum che favorisce, anziché una soluzione pacifica della gravissima situazione che si è venuta a creare nel Paese sudamericano non certo solo per colpa di Maduro, chi è invece disposto a scatenare una guerra civile in Venezuela pur di abbattere il governo di Maduro).
Diverso il caso dell’Iran. Il ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano è considerato dalla maggior parte dello stesso Deep State dannoso per l’America, sia perché rende ancora più  difficile stabilizzare la regione medio-orientale a vantaggio degli Usa (che invece dovrebbero concentrarsi su altri fronti, senza complicare ulteriormente il quadro geopolitico di quella regione), sia perché rafforza i rapporti dell’Iran con la Russia e la Cina  (mentre l’America dovrebbe far leva sulle “colombe” iraniane per poter trasformare l’Iran in un attore geopolitico non più ostile per principio agli Usa), sia perché rende ancora più difficili i rapporti tra l’America e i Paesi europei (ritenuti di decisiva importanza per quanto concerne la partita geopolitica che gli Usa devono giocare contro la Russia), tanto che la Germania, la Francia e la Gran Bretagna hanno già dichiarato che aggireranno le sanzioni imposte dalla Casa Bianca all’Iran (chiaramente non perché siano interessate alla pace nel Medio Oriente, ma per difendere i loro interessi; in ogni caso, si tratta di una decisone che, sebbene sotto il profilo geopolitico sia condivisibile, conferma che ciascun Paese europeo agisce badando unicamente ai propri interessi).
È indubbio però che sotto il profilo strategico il rapporto tra l’America e la Russia sia di gran lunga il più rilevante. Ma Trump, che pure pareva disposto a cercare di instaurare delle relazioni con la Russia di Putin basate sulla fiducia reciproca, anche per ragioni di politica interna si è sempre più allineato (o, forse, si è dovuto allineare) sulle posizioni dei falchi “russofobi” del Deep State, al punto che adesso ha dichiarato di essere pronto ad “uscire” dall’accordo con la Russia sugli armamenti nucleari a medio raggio - ossia il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty). E questo proprio allorché nel mondo vi è una nuova corsa al riarmo (benché in Europa ben pochi se ne siano accorti), anche per lo sviluppo di nuovi potenti e sofisticati sistemi d’arma, come i missili ipersonici che possono essere sia convenzionali che nucleari (ma se, ad esempio, vengono lanciati da un sottomarino, non è neppure possibile stabilire se siano convenzionali o no). Naturalmente vi è sempre la possibilità di arrivare ad un nuovo accordo, ma se gli Usa dovessero schierare dei missili nucleari a medio raggio in Europa, inevitabile sarebbe la “contromossa” della Russia. E l’Europa tornerebbe a correre il rischio di diventare un campo di battaglia.

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Va da sé, comunque, che è assai difficile fare previsioni. Ciononostante, si può affermare che la politica americana ha favorito il rafforzamento dell’asse geostrategico russo-cinese (configurandosi quindi lo scenario peggiore proprio per l’America) e ha reso ancora più “precaria” la già difficile situazione dell’Europa, le cui tre principali aree geopolitiche (baltica, danubiana e mediterranea) sono sempre più distanti tra di loro sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello economico, e in cui prevalgono gli interessi della Francia (un Paese però, tutto sommato, dai piedi di argilla, come dimostra pure la rivolta dei gilet gialli, nonostante la sua force de frappe e la sua politica neocolonialista nel continente africano) e soprattutto quelli della Germania (altro che europeismo!), nonché l’egoismo  e l’ottusità geopolitica di non pochi Paesi dell’area baltica e danubiana, mentre i Paesi mediterranei sono deboli e incapaci di far fronte comune per contrastare la “pre-potenza” della Germania (che comunque si sta già imbattendo nei propri limiti).
Si conferma pertanto che il multipolarismo, se da un lato, per la presenza di armamenti nucleari, dovrebbe favorire la cooperazione tra i principali attori geopolitici, dall’altro non può che generare conflitti, sia a livello globale che regionale, che rendono estremamente arduo instaurare un nuovo ordine mondiale che sia davvero stabile. Certamente ciò dipende dal fatto che lo stesso multipolarismo è pure conseguenza della crisi dell’egemonia dell’America, ma non si deve nemmeno ignorare che l’America può ancora disporre di molte preziosi “punti di forza” sulla scacchiera globale: in Estremo Oriente può contare sull’alleanza con il Giappone e con la Corea del Nord, oltre a potere sfruttare la secolare rivalità tra la Cina e il Vietnam; in Medio Oriente vi sono pur sempre Israele e l’Arabia Saudita che garantiscono agli Usa la possibilità di giocare un ruolo di primo piano in quella regione, nonostante i difficili rapporti con la Turchia; l’Europa invece è così debole e divisa che è ancora, nella sostanza, una “appendice geopolitica” della grande potenza d’oltreoceano.
 La crisi dell’egemonia americana quindi equivale solo ad un declino relativo degli Stati Uniti che interessa in vario modo le diverse aree geopolitiche del pianeta, ma che può avere conseguenze disastrose soprattutto per i Paesi europei, dato che in Europa le élite dominanti non solo sono “aggrappate” ad un’idea obsoleta e incapacitante di Occidente ma sono sempre più incapaci di comprendere e a maggior ragione di risolvere i problemi di gran parte degli europei ( se non usando il “manganello” come Macron).
In altri termini, la scelta che i Paesi europei dovrebbero compiere non è tra euro-atlantismo (ossia il “falso europeismo” della Ue) e atlantismo (ossia la politica Trump o di Bannon). Invero, devono scegliere se essere delle semplici “pedine” dell’America (di Trump o dei suoi “nemici”) nella lotta per l’egemonia a livello globale oppure adoperarsi per promuovere una politica per l’Africa su basi nuove e per rafforzare la cooperazione da un lato con la Russia e con la stessa Cina, dall’altro con “tutti” i Paesi del mondo mediterraneo, ovverosia senza cadere né nella trappola dell’“antisionismo primario” né in quella dell’estremismo sionista (e sotto questo aspetto la difesa dell’accordo sul nucleare iraniano, senza però nulla concedere ai “falchi” iraniani che strumentalizzano la stessa causa palestinese per i propri scopi egemonici, è un ottimo “banco di prova”), di modo da poter confrontarsi con le sfide del multipolarismo sia sotto l’aspetto economico che sotto quello geopolitico, mediante una “difesa attiva” dei propri interessi (e una difesa di questo genere implica pure delle precise scelte politico-militari, non solo per contrastare le organizzazioni criminali che gestiscono l’immigrazione irregolare ma soprattutto per sconfiggere il terrorismo islamista, che rappresenta un pericolo serio ma sottovalutato da molti europei).
In questa prospettiva è evidente che la contrapposizione tra “populisti” e neoliberali in Europa non può “corrispondere” a quella che caratterizza lo scontro ai vertici degli Usa, ma è pur vero che quest’ultimo offre la possibilità - perlomeno ai movimenti o partiti “populisti” che sono più critici nei confronti dell’eurocrazia e dell’ideologia neoliberale, nonché più consapevoli dei danni che la “russofobia” può causare all’Europa - di sfruttare le difficoltà e le contraddizioni della politica della grande potenza d’oltreoceano, per smarcarsi non tanto dall’America (il che, peraltro, rebus sic stantibus non è neppure possibile) quanto piuttosto dalla politica di “pre-potenza” dell’America.
In particolare per quel che concerne l’Italia, sarebbe davvero “ingenuo” ritenere che il nostro Paese se fosse il rappresentante del “trumpismo” in Europa diventerebbe il principale alleato europeo dell’America, non solo perché Trump non è stato eletto “presidente a vita” degli Usa, ma perché qualsiasi presidente americano non può non tener conto del cosiddetto “Warfare State”, le cui ambizioni egemoniche sono di carattere globale e non possono certo essere subordinate  alla difesa degli interessi di un Paese come l’Italia, che per il “Warfare State” doltreoceano non può che essere una sorta di avamposto strategico americano nel cuore del Mediterraneo.
In definitiva, se per lItalia è importante non inimicarsi l’America (questo lo possono volere solo quelli che scambiano la geopolitica con l’antiamericanismo da fiera paesana), è ancora più rilevante l’amicizia con la Russia, che certamente è impegnata in prima linea contro il terrorismo islamista (ma senza se e senza ma”, a differenza dellAmerica e di altri Paesi occidentali che non hanno esitato ad appoggiare le bande di terroristi islamisti per abbattere il regime di Assad - e questa è una “differenza”  che conta indipendentemente dal giudizio che si può avere sul regime di Assad). Del resto, le direttrici dello sviluppo dell'Italia non possono che puntare verso Sud e verso Est. Pertanto, è su questo “fronte geopolitico e geo-economico” che l’Italia dovrebbe giocare le sue “buone carte”, a cominciare dalla propria posizione strategica, giacché, proprio in quanto “Paese di frontiera” tra diverse aree geopolitiche e geo-culturali, l’Italia è una “piccola grande potenza”, ossia una piccola potenza in grado di svolgere un ruolo non secondario sulla scacchiera geopolitica mondiale.