sabato 2 febbraio 2019

LE SFIDE DEL MULTIPOLARISMO


Non è certo una novità che in America vi sia un durissimo scontro ai vertici del potere pubblico soprattutto riguardo alla strategia che la grande potenza d'oltreoceano dovrebbe adottare per far fronte alle sfide del multipolarismo. Nondimeno, in Italia si contano sulla punta delle dita gli “studiosi” di geopolitica che prendono seriamente in considerazione questo scontro nelle loro analisi, tanto che vi è che ritiene che sia solo una messinscena (una sorta di diabolica arma di distrazione di massa inventata dai sionisti!) e che quindi Trump non sia altro che il portavoce del Deep State.
Ha comunque ragione chi afferma che gli Usa non sono più in grado di difendere tutte le loro posizioni sulla scacchiera globale e che in quest’ottica si deve interpretare il ritiro degli Usa sia dalla Siria che dall’Afghanistan (ritiro che, peraltro, oltre a non essere ancora chiaro quando e come avverrà, non equivale affatto ad abbandonare del tutto la regione mediorientale). Il problema è pertanto capire quali siano le principali posizioni che gli Usa intendono difendere.
Ma è proprio su questo argomento che lo scontro in America è asperrimo. Basta confrontare le posizioni di Stephen Walt o John Mearsheimer con quelle di Robert Kagan per rendersene conto. Si tratta cioè di posizioni opposte, che riflettono una “spaccatura” all’interno dello stesso Deep State, benché quest’ultimo sia in buona misura schierato dalla parte di Kagan e quindi dalla parte di coloro che sono ostili a Trump. Infatti, mentre per Walt e Mearsheimer l'America dovrebbe ridurre i suoi impegni all’estero, in particolare in Europa, e rafforzare il suo potere aereonavale per difendere i propri interessi, per la maggior parte degli analisti del Deep State (ossia “legati” al gigantesco complesso politico-economico-militare degli Usa) il nemico numero uno dell’America è sempre la Russia (ma anche la Cina viene ormai considerata una potenza “non benigna”) e quindi i rapporti con gli alleati europei dovrebbero essere non indeboliti bensì rafforzati. Ragion per cui la politica di Trump, nonostante le sue contradizioni, nella misura in cui è più atlantista (ossia si ispira all’imperativo strategico “make America great again”) che euro-atlantista, è ritenuta dalla maggior parte degli analisti americani una “follia geopolitica”.
Comunque sia, ora gli Usa sono impegnati soprattutto su tre fronti: Venezuela, Iran e Russia. Riguardo al Venezuela Trump gioca facile dato che può contare sia sul sostegno del Deep State che su quello di buona parte dei Paesi europei. (Tuttavia, l’Europa ha mostrato ancora una volta di essere solo una sorta di tecnostruttura funzionale agli interessi di alcuni Paesi europei. Certo, il parlamento europeo ha riconosciuto Guaidó come presidente ad interim del Venezuela e l’Ue ha creato pure un “gruppo di contatto” per risolvere la crisi del Venezuela - ma sembra che l’Ue si sia dovuta a limitare a questa mossa diplomatica nei confronti del Paese sudamericano, solo grazie al rifiuto del governo italiano di sostenere Guaidó contro Maduro. Nondimeno la Germania, la Spagna e la Francia avevano già deciso di riconoscere come presidente ad interim del Venezuela Guaidó, nel caso che Maduro non si fosse dimesso entro otto giorni. Un ultimatum che favorisce, anziché una soluzione pacifica della gravissima situazione che si è venuta a creare nel Paese sudamericano non certo solo per colpa di Maduro, chi è invece disposto a scatenare una guerra civile in Venezuela pur di abbattere il governo di Maduro).
Diverso il caso dell’Iran. Il ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano è considerato dalla maggior parte dello stesso Deep State dannoso per l’America, sia perché rende ancora più  difficile stabilizzare la regione medio-orientale a vantaggio degli Usa (che invece dovrebbero concentrarsi su altri fronti, senza complicare ulteriormente il quadro geopolitico di quella regione), sia perché rafforza i rapporti dell’Iran con la Russia e la Cina  (mentre l’America dovrebbe far leva sulle “colombe” iraniane per poter trasformare l’Iran in un attore geopolitico non più ostile per principio agli Usa), sia perché rende ancora più difficili i rapporti tra l’America e i Paesi europei (ritenuti di decisiva importanza per quanto concerne la partita geopolitica che gli Usa devono giocare contro la Russia), tanto che la Germania, la Francia e la Gran Bretagna hanno già dichiarato che aggireranno le sanzioni imposte dalla Casa Bianca all’Iran (chiaramente non perché siano interessate alla pace nel Medio Oriente, ma per difendere i loro interessi; in ogni caso, si tratta di una decisone che, sebbene sotto il profilo geopolitico sia condivisibile, conferma che ciascun Paese europeo agisce badando unicamente ai propri interessi).
È indubbio però che sotto il profilo strategico il rapporto tra l’America e la Russia sia di gran lunga il più rilevante. Ma Trump, che pure pareva disposto a cercare di instaurare delle relazioni con la Russia di Putin basate sulla fiducia reciproca, anche per ragioni di politica interna si è sempre più allineato (o, forse, si è dovuto allineare) sulle posizioni dei falchi “russofobi” del Deep State, al punto che adesso ha dichiarato di essere pronto ad “uscire” dall’accordo con la Russia sugli armamenti nucleari a medio raggio - ossia il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty). E questo proprio allorché nel mondo vi è una nuova corsa al riarmo (benché in Europa ben pochi se ne siano accorti), anche per lo sviluppo di nuovi potenti e sofisticati sistemi d’arma, come i missili ipersonici che possono essere sia convenzionali che nucleari (ma se, ad esempio, vengono lanciati da un sottomarino, non è neppure possibile stabilire se siano convenzionali o no). Naturalmente vi è sempre la possibilità di arrivare ad un nuovo accordo, ma se gli Usa dovessero schierare dei missili nucleari a medio raggio in Europa, inevitabile sarebbe la “contromossa” della Russia. E l’Europa tornerebbe a correre il rischio di diventare un campo di battaglia.

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Va da sé, comunque, che è assai difficile fare previsioni. Ciononostante, si può affermare che la politica americana ha favorito il rafforzamento dell’asse geostrategico russo-cinese (configurandosi quindi lo scenario peggiore proprio per l’America) e ha reso ancora più “precaria” la già difficile situazione dell’Europa, le cui tre principali aree geopolitiche (baltica, danubiana e mediterranea) sono sempre più distanti tra di loro sia sotto il profilo (geo)politico che sotto quello economico, e in cui prevalgono gli interessi della Francia (un Paese però, tutto sommato, dai piedi di argilla, come dimostra pure la rivolta dei gilet gialli, nonostante la sua force de frappe e la sua politica neocolonialista nel continente africano) e soprattutto quelli della Germania (altro che europeismo!), nonché l’egoismo  e l’ottusità geopolitica di non pochi Paesi dell’area baltica e danubiana, mentre i Paesi mediterranei sono deboli e incapaci di far fronte comune per contrastare la “pre-potenza” della Germania (che comunque si sta già imbattendo nei propri limiti).
Si conferma pertanto che il multipolarismo, se da un lato, per la presenza di armamenti nucleari, dovrebbe favorire la cooperazione tra i principali attori geopolitici, dall’altro non può che generare conflitti, sia a livello globale che regionale, che rendono estremamente arduo instaurare un nuovo ordine mondiale che sia davvero stabile. Certamente ciò dipende dal fatto che lo stesso multipolarismo è pure conseguenza della crisi dell’egemonia dell’America, ma non si deve nemmeno ignorare che l’America può ancora disporre di molte preziosi “punti di forza” sulla scacchiera globale: in Estremo Oriente può contare sull’alleanza con il Giappone e con la Corea del Nord, oltre a potere sfruttare la secolare rivalità tra la Cina e il Vietnam; in Medio Oriente vi sono pur sempre Israele e l’Arabia Saudita che garantiscono agli Usa la possibilità di giocare un ruolo di primo piano in quella regione, nonostante i difficili rapporti con la Turchia; l’Europa invece è così debole e divisa che è ancora, nella sostanza, una “appendice geopolitica” della grande potenza d’oltreoceano.
 La crisi dell’egemonia americana quindi equivale solo ad un declino relativo degli Stati Uniti che interessa in vario modo le diverse aree geopolitiche del pianeta, ma che può avere conseguenze disastrose soprattutto per i Paesi europei, dato che in Europa le élite dominanti non solo sono “aggrappate” ad un’idea obsoleta e incapacitante di Occidente ma sono sempre più incapaci di comprendere e a maggior ragione di risolvere i problemi di gran parte degli europei ( se non usando il “manganello” come Macron).
In altri termini, la scelta che i Paesi europei dovrebbero compiere non è tra euro-atlantismo (ossia il “falso europeismo” della Ue) e atlantismo (ossia la politica Trump o di Bannon). Invero, devono scegliere se essere delle semplici “pedine” dell’America (di Trump o dei suoi “nemici”) nella lotta per l’egemonia a livello globale oppure adoperarsi per promuovere una politica per l’Africa su basi nuove e per rafforzare la cooperazione da un lato con la Russia e con la stessa Cina, dall’altro con “tutti” i Paesi del mondo mediterraneo, ovverosia senza cadere né nella trappola dell’“antisionismo primario” né in quella dell’estremismo sionista (e sotto questo aspetto la difesa dell’accordo sul nucleare iraniano, senza però nulla concedere ai “falchi” iraniani che strumentalizzano la stessa causa palestinese per i propri scopi egemonici, è un ottimo “banco di prova”), di modo da poter confrontarsi con le sfide del multipolarismo sia sotto l’aspetto economico che sotto quello geopolitico, mediante una “difesa attiva” dei propri interessi (e una difesa di questo genere implica pure delle precise scelte politico-militari, non solo per contrastare le organizzazioni criminali che gestiscono l’immigrazione irregolare ma soprattutto per sconfiggere il terrorismo islamista, che rappresenta un pericolo serio ma sottovalutato da molti europei).
In questa prospettiva è evidente che la contrapposizione tra “populisti” e neoliberali in Europa non può “corrispondere” a quella che caratterizza lo scontro ai vertici degli Usa, ma è pur vero che quest’ultimo offre la possibilità - perlomeno ai movimenti o partiti “populisti” che sono più critici nei confronti dell’eurocrazia e dell’ideologia neoliberale, nonché più consapevoli dei danni che la “russofobia” può causare all’Europa - di sfruttare le difficoltà e le contraddizioni della politica della grande potenza d’oltreoceano, per smarcarsi non tanto dall’America (il che, peraltro, rebus sic stantibus non è neppure possibile) quanto piuttosto dalla politica di “pre-potenza” dell’America.
In particolare per quel che concerne l’Italia, sarebbe davvero “ingenuo” ritenere che il nostro Paese se fosse il rappresentante del “trumpismo” in Europa diventerebbe il principale alleato europeo dell’America, non solo perché Trump non è stato eletto “presidente a vita” degli Usa, ma perché qualsiasi presidente americano non può non tener conto del cosiddetto “Warfare State”, le cui ambizioni egemoniche sono di carattere globale e non possono certo essere subordinate  alla difesa degli interessi di un Paese come l’Italia, che per il “Warfare State” doltreoceano non può che essere una sorta di avamposto strategico americano nel cuore del Mediterraneo.
In definitiva, se per lItalia è importante non inimicarsi l’America (questo lo possono volere solo quelli che scambiano la geopolitica con l’antiamericanismo da fiera paesana), è ancora più rilevante l’amicizia con la Russia, che certamente è impegnata in prima linea contro il terrorismo islamista (ma senza se e senza ma”, a differenza dellAmerica e di altri Paesi occidentali che non hanno esitato ad appoggiare le bande di terroristi islamisti per abbattere il regime di Assad - e questa è una “differenza”  che conta indipendentemente dal giudizio che si può avere sul regime di Assad). Del resto, le direttrici dello sviluppo dell'Italia non possono che puntare verso Sud e verso Est. Pertanto, è su questo “fronte geopolitico e geo-economico” che l’Italia dovrebbe giocare le sue “buone carte”, a cominciare dalla propria posizione strategica, giacché, proprio in quanto “Paese di frontiera” tra diverse aree geopolitiche e geo-culturali, l’Italia è una “piccola grande potenza”, ossia una piccola potenza in grado di svolgere un ruolo non secondario sulla scacchiera geopolitica mondiale.

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