lunedì 21 settembre 2020

BREVE NOTA SUL CONCETTO DI ALIENAZIONE

 In ambito accademico (ma non solo) è diffusa l’idea che il concetto di alienazione sia un “ferro vecchio”, dato che esso rinvierebbe ad un (ormai) insostenibile umanesimo idealistico-filosofico. Di fatto, si sostiene, si è esseri umani perché si è “soggetti” a determinate pratiche sociali (su questo argomento, si veda, ad esempio, Carlo Sini, Inizio, Jaca Book, Milano, 2016). Vale a dire - per usare la nota definizione aristotelica dell’uomo come animale razionale, dotato cioè di logos – che non è possibile che si sia degli animali razionali se non si è già “incastonati” in una serie di pratiche sociali, in particolare quelle del linguaggio. Non c’è quindi nemmeno uno “spazio” puramente individuale, perché è solo in quanto si è “soggetti” a certe pratiche che vi può essere uno “spazio individuale”. 

La stessa nozione di “natura” umana (e di conseguenza anche l’autocoscienza riflessiva, senza la quale la filosofia non sarebbe possibile) è pertanto il "frutto" di una complessa interazione sociale e di pratiche che definiscono il nostro essere-nel-mondo (e quindi pure il nostro rapporto con le “cose” e la “natura”) sempre insieme con gli altri. In altri termini, è la cultura che caratterizza l’agire e l’intelligenza dell’uomo (pensiero riflessivo, scientifico, ecc.) e non c’è nessun “soggetto” che possa contemplare/rappresentare/descrivere il mondo senza al tempo stesso far parte del mondo, benché l’animale dotato di logos non sia nel mondo come un “pesce nell’acqua”. Ne consegue che il concetto di alienazione dipende da una concezione errata o “ingenua” del nostro essere-nel-mondo, poiché presuppone l’esistenza di un “soggetto puro”, ossia già formato prima di ogni pratica sociale o culturale (e quindi di qualsiasi oggettivazione), che potrebbe esprimere liberamente la propria “natura” una volta rimossi quegli ostacoli economici e politici che lo impediscono. 

Tuttavia, questa critica del concetto di alienazione, benché non sia del tutto da respingere, ignora la distinzione fondamentale tra “essere soggetti a delle pratiche” ed “essere oggetto di pratiche”. Ad esempio, anche la relazione tra il padrone e lo schiavo dipendeva da determinate pratiche, nel senso che entrambi erano “soggetti a delle pratiche”, ma mentre il padrone era anche e soprattutto il “soggetto di pratiche”, ed era perciò pure libero di agire politicamente in quanto libero dal bisogno, lo schiavo era pressoché soltanto “oggetto di pratiche”, in specie proprio quelle del padrone. Era sì un animale dotato di logos, non diversamente dal padrone, ma “praticamente” non lo era perché non era riconosciuto come tale. Era cioè solo un animale - come un mulo, un bue, un cavallo, ecc. – ossia era, di fatto, un mero ente intramondano, “utilizzabile” dal padrone (si noti che - sotto il profilo della realtà sociale, s’intende – si tratta di una vera e propria contraddizione, anziché di una semplice opposizione reale; lo schiavo, difatti, è un essere umano, ossia un animale razionale, ma in quanto schiavo è solo un animale, ossia non è un essere umano, e quindi è e non è un essere umano)*. Al tempo stesso però lo schiavo non era solo uno strumento, dacché nessuno strumento (nemmeno una bestia) può essere uno schiavo. Solo un essere umano può essere uno schiavo (un uomo non uomo).

Il rapporto tra dominanti e dominati invece si presenta in forma differente allorché, secondo Marx, con il modo di produzione capitalistico caratterizzato dall’impiego di macchine si attua il passaggio dalla sottomissione (o sussunzione) formale del lavoro al capitale ad una sottomissione reale del lavoro al capitale. In questo caso sia i dominati che i dominanti (e pure i subdominanti: ceti medi, funzionari del capitale, ecc.) appaiono liberi, ossia non meri “oggetti di pratiche”, mentre in realtà lo sono solo formalmente, poiché sono tutti soprattutto “oggetto di pratiche” ovvero sottomessi al dominio della merce (la loro soggettività, cioè la loro capacità di “agire praticamente”, è dunque ridotta al minimo). Perciò Marx può scrivere: “…l'operaio si eleva al di sopra del capitalista fin dal principio, perché quest'ultimo è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, mentre l'operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo  sente come un processo di riduzione in schiavitù" (Karl Marx, Il Capitale, libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze, 1969, pp. 20 s.).

Non a caso si sostiene (giustamente) che i capitalisti e perfino coloro che si possono considerare gli strateghi del capitale (si pensi, per fare un esempio chiaro a tutti, al “famigerato” Soros) sono comunque solo degli interpreti (magari geniali, ma sempre solo tali) del sistema (di potere) capitalistico, dato che necessariamente devono conoscere e applicare correttamente le "regole del gioco” ovvero quelle del sistema (del potere) capitalistico, altrimenti anche loro “vengono spazzati via” dal sistema. Insomma, è il “gioco” che conta assai più dei “giocatori”.

Di fondamentale importanza è quindi ancora il concetto di alienazione (più problematico almeno sotto certi aspetti, il concetto di dialettica per le sue implicazioni di carattere “metafisico” - ma al riguardo si veda Hans Georg Gadamer, La dialettica di Hegel, Marietti, Genova, 1996) che non necessariamente rimanda ad un umanesimo idealistico-filosofico o ad una nozione “ingenua” del “soggetto”, bensì alla differenza tra valore d’uso e valore di scambio e di conseguenza ad una possibile liberazione (anche se forse solo parziale, come riteneva Claudio Napoleoni, anziché totale) dal “dominio della merce”, purché questa differenza venga compresa non solamente sotto il profilo economico, ma soprattutto sotto il profilo antropologico e politico. In definitiva, benché si debba ammettere che si è sempre “soggetti a determinate pratiche”, quello che conta sono le pratiche a cui si è “soggetti” e come e perché si è “soggetti a certe pratiche”. In sostanza, ritenere anacronistico il concetto di alienazione significa rinunciare ad una critica “determinata” e coerente, e non affatto “incapacitante”, della società di mercato neoliberale.

* Si badi che se il contenuto della contraddizione non può esistere (è “niente” ossia un non essente) il contraddirsi invece è “reale” tanto quanto il non contraddirsi. La contraddizione di cui qui si parla (lo schiavo è e non è un uomo) è un contraddirsi. Vale a dire che la società schiavistica si basa su/consiste in questo contraddirsi - che è un “agire sociale” contraddittorio, benché non sia immediatamente evidente che sia tale (non lo era, infatti, in una società schiavistica) - in quanto tratta appunto un uomo come uno schiavo. In questo senso, non si viola neppure il principio di non contraddizione così come viene formulato da Aristotele (sulla distinzione tra contraddirsi e contenuto del contraddirsi - la contraddizione - essenziali sono E. Severino, Gli abitatori del tempo, Rizzoli, Milano, 2009, e Id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005).