Come afferma Carlo Formenti, in un lunga e densa recensione del libro di Wolfgang Streeck “Come finirà il capitalismo?”,* “nemmeno la catena di fallimenti cui [il capitalismo] è andato incontro possono indurre il sistema [capitalistico] ad autoriformarsi e a cambiare rotta”, ragion per cui per cui, secondo Streeck, “si cercheranno modi sempre nuovi per sfruttare la natura, estendere e intensificare l’orario di lavoro e incoraggiare ciò che il gergo chiama ‘finanza creativa’, in uno sforzo disperato per mantenere alti i profitti”.
Molte, del resto, sono le sfide che il capitalismo non può risolvere, incluse quella di una crescita infinita in un mondo finito e di un multipolarismo che mette in discussione la presenza di un unico centro egemonico capitalistico.
Di fatto, il sistema capitalistico o, meglio, liberal-capitalistico può solo cercare di guadagnare tempo, non potendo risolvere i problemi che esso stesso genera. Attualmente quindi non si è in presenza di una “normale crisi” dell’apparato capitalistico, che si possa cioè risolvere con una distruzione creatrice, come accaduto nel passato, tanto che pure con il cosiddetto “Great Reset”, in definitiva, si mira soprattutto a guadagnare tempo. La stessa pandemia, del resto, ha dimostrato quanto sia fragile e incoerente il sistema liberal-capitalistico.
Non stupisce allora che secondo Streeck “la fine del capitalismo [possa] essere immaginata come una morte sopraggiunta per innumerevoli ferite o per una molteplicità di infermità, ognuna delle quali sarà tanto più incurabile quanto più tutte richiederanno cure contemporaneamente”. Insomma, il sistema rischia di collassare in quanto non può gestire le sue contraddizioni interne.
Tuttavia, sebbene esistano le condizioni sociali, economiche e perfino ambientali per un “mutamento di sistema”, non pare esserci nessuna alternativa realistica al sistema capitalistico, che di conseguenza sempre più si configura come una gabbia di acciaio da cui non si può evadere o addirittura come una prigione senza muri da cui ben pochi prigionieri desiderano evadere. Mancano dunque le condizioni politico-culturali perché sia possibile un “mutamento di sistema.
Né è realistico immaginare che la classe capitalistica accetti di incastonare di nuovo il mercato in un ampio ventaglio di istituzioni politiche e culturali, ovverosia favorisca una politica che si opponga alla mercificazione di ogni ambito vitale di modo da allargare il più possibile la differenza tra società e modo di produzione (di merci e servizi).
A giudizio di Streeck, perciò, il declino del sistema liberal-capitalistico è inevitabile ma prima di esalare l’ultimo respiro il capitalismo “resterà sospeso nel limbo, morto o sul punto di morire per overdose di sé stesso, ma ancora molto presente, poiché nessuno avrà il potere di spostare il suo corpo in decomposizione dalla strada”.
D'altronde, perfino la condizione di incertezza e precarietà prodotta dalle “forze di mercato” viene glorificata - in specie dalla middle class cosmopolita e dai media mainstream, il cui potere di manipolazione delle masse è ormai evidente a chiunque – come il trionfo della libertà individuale, e al tempo stesso rende sempre più difficile un’azione collettiva capace di contrastare con successo una politica che tutela soprattutto gli interessi del grande capitale e in particolare di quello finanziario.
Nota, comunque, Formenti che l’analisi di Streeck, sebbene abbia l'indubbio merito di non essere economicistica, pecca di “eurocentrismo”, in quanto non tiene conto di altre realtà, come il socialismo di mercato con caratteristiche cinesi o il socialismo dell’America Latina, che pure si differenziano nettamente dal sistema liberal-capitalistico occidentale.
Nondimeno anche Formenti, che pure ritiene che sia senza fondamento la tesi del crollo del capitalismo sostenuta da Streeck, conclude affermando: “Il capitalismo continuerà a sopravvivere, cercando e trovando scappatoie, ancorché precarie e temporanee, finché non matureranno uno o più soggetti sociali e politici in grado di dargli il colpo di grazia. Se ciò non dovesse succedere in tempi relativamente brevi, non andremo incontro a nessun interregno, bensì alla peggior barbarie”
Difficile sì non condividere la conclusione di Formenti, ma la “questione cruciale”, sotto il profilo politico, non è appunto quella della mancanza di un soggetto politico in grado di rappresentare un’alternativa valida e realistica al sistema liberal-capitalistico? La diagnosi, benché corretta, non è la terapia. Ed è proprio quest’ultima che manca. In altri termini, manca una teoria politica (ma anche geopolitica!) della crisi del liberal-capitalismo capace di ridefinire la funzione politica dello Stato in un’ottica socialista. In questo senso l’alternativa socialismo o barbarie non designa altro che il problema da risolvere, non certo la sua soluzione, anche se si può concedere che avere compreso qual è la causa del male che si deve curare prova comunque che la "storia non è finita", vale a dire che non necessariamente ci si deve rassegnare al trionfo della barbarie.
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