mercoledì 16 giugno 2021

POSTILLA A "GEO-POLITICAMENTE ABITA L’UOMO"*

 Molti anni fa, esattamente nel 1986 (in occasione di “Firenze capitale europea della cultura”), ebbi la possibilità di rivolgere alcune domande al filosofo Emmanuel Lévinas.

La prima domanda riguardava il problema del linguaggio e del logos in Derrida. Lévinas volle subito precisare che la sua concezione del logos era nettamente diversa da quella di Derrida. A tale proposito, egli affermò che riteneva invece che fosse possibile e necessaria una “transustanziazione del logos”. Assai diverso era , del resto,  anche il modo in cui Lévinas interpretava la filosofia di Husserl. (Si badi che Derrida, che pure conosceva assai bene il pensiero di Husserl, pare “cancellare” la differenza tra ritenzione e rammemorazione, che pure è essenziale nella filosofia di Husserl - si tratta, del resto, di una critica che diversi studiosi di Husserl hanno rivolto a Derrida; vedi, ad esempio, M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma- Bari 2005).

A Lévinas comunque interessava soprattutto la questione del Mitsein in Heidegger, giacché egli riteneva che proprio il modo in cui Heidegger aveva trattato la questione del Mitsein e in generale la questione dell’Altro fosse l’aspetto più “pericoloso” della filosofia di Heidegger. In Essere e tempo cioè, secondo Lévinas, non si trova alcun “autentico” riferimento all’“altro uomo” ma solo alla folla anonima ed eterodiretta, ossia solo ad un “uomo senza volto”, e la questione della “intersoggettività” è solo quella del Man, del Si “inautentico” (si dice, si fa, si pensa, ecc.).

In effetti, è difficile negare che questa “lacuna” non solo sia presente nel pensiero di Heidegger ma che possa spiegare, sia pure in parte, sia l’adesione di Heidegger al nazismo sia il suo sostanziale “silenzio” riguardo al rapporto tra l’Etica e il Politico anche dopo la Seconda guerra mondiale. 

Com’è noto, negli anni Trenta del secolo scorso Heidegger ebbe anche a polemizzare con Carl Schmitt per quanto concerne l’essenza del Politico. Per Heidegger la contrapposizione tra amico e nemico è sì importante ma non “essenziale” od “originaria”. Il Politico cioè deve essere compreso in primo luogo alla luce dell’appartenenza ad una comunità, appartenenza che sola permette di “riconoscere” l’altro come amico o come nemico. La strada che si deve percorrere allora è quella che dal problema del Politico “risale”, sulla base dell’etimologia greca, fino alla questione della polis. Scrive perciò Heidegger:

“Cosa significa polis? Status significa stato, status rei publicae = stato della cosa pubblica (nell’accezione moderna, comparsa per prima nell’italiano stato). Questo stato non ha assolutamente niente a che vedere con la polis. Polis non è nemmeno la comunità della politeia. Cosa sia polis lo apprendiamo già da Omero, Odissea, libro VI, verso 9 e sgg. ‘e di mura circondò la polis, fabbricò case, e fece templi ai numi e divise le terre’.

Polis è quindi il centro autentico dell’impero dell’esistenza. Questo centro è propriamente il tempio e il mercato, dove l’assemblea della politeia ha luogo. La polis è l’autentico e determinante centro storico di un popolo, di una razza, di un clan; ciò intorno al quale la vita si svolge; il centro al quale tutto si riferisce, la cui protezione come autoaffermazione è importante.

L’essenziale dell’esistenza è l’autoaffermazione. Muraglia, casa, terra, dei. E a partire da ciò che bisogna cogliere l’essenza del politico” (vedi E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, L’Asino d’Oro, Roma 2012, p. 238).

Il problema dell’altro quindi non è affatto ignorato, anzi concerne l’essenza stessa del Politico (del resto, già nel paragrafo 37 di Essere e tempo si può leggere: “Unter der Maske des Füreinander spielt ein Gegeneinander”, ossia “sotto la maschera dell’essere-l’uno-per-l’Altro, domina l’essere-l’uno-contro-l’Altro” – vedi M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976). Ciò che ora è essenziale però è l’appartenenza ad un popolo, ad un clan, ad una “razza” e soprattutto l’autoaffermazione di un popolo, di un clan, di una “razza”.

In altri termini, se nella nota frase di Terenzio homo sum humani nihil alienum puto lo “straniero” o l’“estraneo” (che tale può essere pure chi appartiene alla nostra comunità) è prima di tutto - ancor prima cioè che lo si possa ritenere amico o nemico - un “altro uomo”, ossia hospes non è necessariamente hostis (la radice di questi due termini, non a caso, è la medesima), nel pensiero di Heidegger l’abitare (politicamente) la terra sembra implicare l’identificazione di hospes e hostis, dato che lo “straniero” o l’“estraneo” è comunque un nemico, in quanto “indebolisce” o addirittura minaccia di annientare la radice terranea di un popolo, di un clan o di una “razza”. 

Si capisce allora anche l’antisemitismo cosiddetto “metafisico” di Heidegger (che è comunque una forma di antisemitismo, di cui, ovviamente, non vi può essere alcuna giustificazione), dato che ciò che il filosofo tedesco definisce come desertificazione sarebbe una “figura dell’ebraismo [...] sia perché il deserto è il luogo simbolo del popolo ebraico, sia perché la desertificazione è l’impossibilità di essere in rapporto con l’inizio, è quello sradicamento che, mentre rischia di diventare planetario, è in grado di ‘annientare l’indistruttibile’, di erodere e minare ciò da cui può sorgere la luce di un altro inizio” (vedi D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri”, Bollati-Boringhieri, Torino 2014, p. 127).

Certo per Heidegger, e soprattutto per il cosiddetto “secondo Heidegger”, il problema fondamentale è l’oblio (dell’oblio) dell’Essere e il progressivo imporsi del pensiero calcolante, ovverosia l’assoggettamento della natura e dell’intera umanità ad una “logica di dominio”. Ancora prima dunque dell’abitare politicamente la terra, per Heidegger “rileva” la questione dell’abitare la terra. Occorrerebbe quindi pensare il Politico medesimo in una prospettiva non più condizionata dalla “logica di dominio” (e questo invece sarebbe stato il più grave errore del nazismo). 

Tuttavia, ciò che intende Heidegger per “dominazione” è sempre connesso con la questione del pensiero calcolante e dello sradicamento e quindi con il problema dell’Altro sotto il profilo sia politico che etico. Nondimeno, anche dopo la Seconda guerra mondiale il pensiero di Heidegger pare svilupparsi ancora secondo la “traiettoria” delineata nei suoi scritti degli anni Trenta e perfino nei suoi famigerati Quaderni neri, di modo che si potrebbe ritenere che egli si limiti ad una critica della “organizzazione totale del mondo”, dato che anche nei Quaderni neri si parla di Machenschaft, di “macchin(izz)azione” universale. 

D’altronde, nell’intervista rilasciata a “Der Spiegel” il 23 settembre 1967, ma pubblicata dopo la morte di Heidegger, il filosofo tedesco afferma: “Io non vedo la posizione dell’uomo nel mondo della tecnica planetaria come una sventura inestricabile e inevitabile, anzi: vedo proprio il compito del pensiero nel dare mano, nei propri limiti, affinché l’uomo riesca innanzitutto proprio a conquistare un rapporto sufficiente con la tecnica. Il nazionalsocialismo andava bensì in questa direzione; ma questa gente era troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero, per ottenere un effettivo esplicito rapporto con ciò che oggi accade e da tre secoli è in cammino” (vedi M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, Guanda, Parma 1987, pp. 158-159).

Perché il nazismo andasse “in questa direzione” e che cosa effettivamente significhi “andare in questa direzione” Heidegger però non lo ha mai chiarito. Di per sé questo certamente non giustifica una interpretazione della filosofia di Heidegger come quella di Faye, ma è lecito chiedersi se l’adesione di Heidegger al nazismo non sia dipesa innanzi tutto proprio dal modo in cui il filosofo tedesco tratta la questione dell’oblio (dell’oblio) dell’Essere e forse pure da quel che egli scrive a proposito dell’Evento e di un “nuovo inizio”. 

Insomma, la statura intellettuale di Heidegger è “fuori discussione” (con buona pace di Faye e di coloro che condividono la sua interpretazione della filosofia di Heidegger), nonostante che il linguaggio dell’ultimo Heidegger - sempre più “allusivo” e “rarefatto” - non sia affatto facile da “decifrare”,** e nonostante la sua sostanziale “sfiducia” nella democrazia (infatti, anche nell’intervista rilasciata a “Der Spiegel” Heidegger afferma: “È per me oggi un problema decisivo come si possa attribuire un sistema politico – e quale – all’età della tecnica. A questa domanda non so dare alcuna risposta. Non sono convinto che sia la democrazia” (ivi, pp. 143-144). 

Nondimeno, non si dovrebbe neppure ignorare l'importanza del rapporto tra la filosofia di Heidegger e il nazismo se (e nella misura in cui) concerne l'essenza stessa del pensiero di Heidegger.  Vale a dire che, a giudizio di chi scrive, non si può ignorare la critica che Lévinas rivolge ad Heidegger, indipendentemente dal modo in cui il filosofo di Altrimenti che essere tratta la questione dell’Essere e dell’Altro. In definitiva, ammesso che la filosofia di Heidegger sia comunque una filosofia della prassi come afferma Vattimo (vedi G. Vattimo, Essere e dintorni, La nave di Teseo, Milano 2018) ci si dovrebbe chiedere se l'adesione (sia pure, per così dire, “critica”) di Heidegger al nazismo, anziché “un colossale autofraintendimento” (come sostiene Vattimo), sia stata, sia pure solo in un certo senso, una conseguenza, non facile da evitare, della “ontologia ermeneutica” del filosofo tedesco. 

*  Vedi F. Falchi, Geo-politicamente abita l’uomo, Anteo, Cavriago (RE) 2018.

** Si deve riconoscere che probabilmente ciò dipende dal tentativo di Heidegger di elaborare un pensiero diverso da quello della metafisica o dell'ontologia occidentale, ossia il particolare modo di esprimersi dell'“ultimo Heidegger” non è senza relazione con ciò che Heidegger definisce come poesia pensante (denkende Dichtung) e pensiero poetante (dichtendes Denken). Comunque sia, sebbene in Geo-politicamente abita l'uomo ci si chieda se si può davvero rinunciare del tutto all’ontologia dello Stagirita per la comprensione del mondo quotidiano, si dovrebbero tenere presenti anche altri modi di pensare (si veda, ad esempio, F. Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli, Milano 2017).



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