Il ritorno in Italia delle spoglie di Vittorio Emanuele III ha scatenato polemiche roventi che sono una ulteriore conferma che nel nostro Paese non vi è (né con ogni probabilità vi potrà mai essere) una “memoria condivisa” né una “memoria accettata”, benché il nome di Vittorio Emanuele III sia inscindibilmente connesso con un’epoca che dovrebbe essere “consegnata” definitivamente alla storia. Invero, Vittorio Emanuele III fu il re che dopo Caporetto non “perse la testa” ma pure il re che poi “aprì le porte” al fascismo. Fu però soprattutto il re che l’8 settembre del 1943, facendo dipendere le sorti dell’Italia dalla “salvezza” della monarchia, di fatto “tradì” (pur non avendone l’intenzione) non certo i tedeschi ma il suo stesso Paese. Un comportamento che non lo si può davvero comprendere se si continua ad interpretare la storia secondo prospettive politiche e ideologiche sì diverse e perfino opposte, ma che condividono quello “spirito di fazione” che è segno di scarsa “intelligenza politica”, come il grande “Segretario della Repubblica fiorentina” ben sapeva, e che invece continua ad “avvelenare” la vita politica e sociale del nostro Paese.
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Com’è noto, il 10 luglio del 1943 gli
angloamericani invasero la Sicilia causando il crollo definitivo dell’esercito
italiano, le cui migliori divisioni erano state distrutte in Russia e in Africa
settentrionale. Lo Stato maggiore italiano allora fece pressioni su Mussolini
perché facesse presente ai tedeschi che l’Italia non poteva più continuare a
combattere contro gli angloamericani. Ma il duce nell’incontro che ebbe con
Hitler a Feltre il 18 luglio evitò di affrontare la questione dell’uscita
dell’Italia dalla guerra, come invece la disastrosa situazione militare del
Paese imponeva. Mussolini era consapevole, del resto, che il regime fascista
non poteva non crollare senza l’aiuto tedesco. Fu allora chiaro ai vertici
militari italiani e allo stesso re che se si voleva salvare l’Italia, occorreva
mettere fine sia al regime fascista che alla alleanza con i tedeschi, ai quali
degli italiani non importava nulla dato che da tempo “vedevano” l’Italia solo
in funzione della sicurezza del III Reich. Fondamentale per Berlino era che
l’aviazione angloamericana non potesse usare gli aeroporti della penisola
italiana nella campagna aerea contro la Germania, che proprio allora stava per
entrare in una fase decisiva. Difatti, i tedeschi nel maggio del 1943 avevano
già preparato un piano, denominato “Alarico”, che prevedeva l’occupazione
dell’Italia settentrionale, nel caso di un “voltafaccia” degli Italiani (ad
agosto il piano venne denominato “Asse” e prevedeva l’occupazione della
penisola italiana).
D’altronde, per la stragrande maggioranza
degli italiani era ormai palese che il fascismo aveva condotto il Paese alla
rovina e che i tedeschi di fatto non erano più degli alleati ma degli
“occupanti”. Si giunse così alla caduta del regime e all’arresto di Mussolini
(il partito fascista si squagliò come neve al sole, tanto che nessun italiano
pareva essere mai stato fascista). Il maresciallo Badoglio fu nominato
presidente del Consiglio, mentre si iniziarono delle complesse trattative con
gli angloamericani, che ovviamente non è possibile prendere in esame in questa
sede, ma che per il modo in cui vennero condotte rimangono - come ha ben
chiarito Elena Aga Rossi nel suo celebre libro Una nazione allo sbando (Il Mulino, Bologna 2006) che è la migliore ricostruzione degli eventi che portarono al crollo dello Stato l'8 settembre 1943 - tra le pagine
più vergognose della storia del nostro Paese, benché si debba pure riconoscere
che la richiesta da parte degli angloamericani di una resa incondizionata non
agevolasse il già difficile compito degli italiani.
Ma anche tenendo conto di queste
difficoltà, nonché del comportamento tutt’altro che “limpido” degli angloamericani
nel corso delle trattative per giungere all’armistizio che fu firmato a
Cassibile (il 3 settembre ma venne reso noto solo cinque giorni dopo) è
indubbio che l’8 settembre la classe dirigente italiana pensò prima di tutto a
salvare sé stessa anziché l’Italia. Eppure, nella zona di Roma si era
concentrato il fior fiore dell’esercito italiano, ossia c'erano circa 120.000 uomini in grado
di combattere, con 120 carri e 257 semoventi efficienti, cui si sarebbero
dovuti aggiungere i paracadutisti della 82ª divisione aviotrasportata statunitense,
con 100 cannoni controcarro e 16 carri (questa operazione fu però annullata dal
Comando americano allorché fu informato che gli italiani non erano in grado di proteggere gli aeroporti presso Roma), mentre vi erano solo
circa 25.000 soldati tedeschi, con 95 carri e 54 semoventi. Per di più
l’esercito tedesco doveva disarmare l’intero esercito italiano e al tempo
stesso combattere contro gli angloamericani, che il 9 settembre sbarcarono a
Salerno (per le forze italiane e tedesche presenti nella zona di Roma, nonché sul previsto impiego dei paracadutisti americani, vedi Francesco Mattesini, 8
settembre. Il dramma della flotta
italiana, “Società di storia militare”, 13/9/2007).
In sostanza, è ovvio che il Comando
supremo italiano dovesse dare ordini precisi ed inequivocabili alle forze
armate italiane e dirigere la difesa di Roma. Invece con il re e Badoglio
(colto di sorpresa, dato che pensava che l’armistizio sarebbe entrato in vigore
il 12 settembre) se la svignò pure il Comando supremo, venendo così meno quella
continuità dello Stato che la fuga
del re a Brindisi doveva assicurare. Nondimeno, alcuni storici sostengono che
si trattò di “trasferimento” non di fuga, termine quest’ultimo che secondo loro
userebbero solo i fascisti (in realtà, come chiunque dovrebbe sapere, i
fascisti accusano il re e Badoglio non perché fuggirono a Brindisi ma perché, a
loro avviso, avrebbero tradito i tedeschi). Insomma, “fascisti” sarebbero pure
storici e studiosi angloamericani nonché coloro che si ostinano a chiamare le
“cose” con il loro nome. Gli è che in Italia ha prevalso l’antifascismo dei
cialtroni e dei furbi, ossia quell’antifascismo dell’8 settembre e che è
“figlio della stessa madre” del fascismo, non certo l’antifascismo serio e
intelligente di un Mario Bergamo, di chi cioè non ha bisogno di giustificare
l’ingiustificabile allo scopo di difendere i propri privilegi e di nascondere
le “vergogne” di una classe dirigente che ha portato di nuovo il Paese
sull’orlo dello sfacelo.
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Naturalmente non si può affermare che fu
solo Vittorio Emanuele III responsabile di quello che allora accadde, ma il re,
in qualità di Comandante supremo delle forze armate italiane, poteva sì mettersi in salvo, ma avrebbe comunque
avuto il dovere di fare tutto quel che era necessario fare per la difesa del
Paese. Invece si è perfino ipotizzato che vi fosse un accordo tra il feldmaresciallo Kesserling
(che allora comandava le forze tedesche nell'Italia centro-meridionale, mentre nell'Italia centro-settentrionale vi era il gruppo di armate B del feldmaresciallo Rommel; il confine tra i due Comandi era la linea "Pisa-Arezzo-Ancona") e il Comando italiano, di modo che
Vittorio Emanuele III insieme con Badoglio potesse mettersi in salvo, senza che
l’esercito italiano opponesse resistenza alle truppe tedesche. Si tratta di
un’ipotesi presa in considerazione dalla stessa Aga Rossi e che spiegherebbe
alcuni fatti altrimenti incomprensibili, tra cui il ritiro del corpo
motocorazzato del generale Carboni verso Tivoli. Probabilmente, se accordo ci
fu, si trattò solo di un accordo “tacito” dato che, se l’accordo non fosse stato
tale, troppi militari, italiani e tedeschi, ne avrebbero dovuto essere
informati. In ogni caso, la flotta italiana, bene o male, riuscì a trasferirsi a
Malta, ma per la maggior parte dei soldati italiani l’8 settembre 1943 fu
l’inizio di un dramma che avrebbe poi coinvolto l’intero Paese. Ad esempio,
solo nei Balcani vi erano oltre 600.000 soldati italiani che dovettero decidere
da soli che fare. Molti si arresero ai tedeschi, alcuni si unirono a questi
ultimi, altri però decisero di combattere contro i tedeschi. Particolarmente
significative sono le vicende della divisione Acqui (stanziata a Cefalonia e Corfù) che cercò di resistere ai tedeschi
ma, non ricevendo alcun aiuto dagli angloamericani, fu costretta alla resa dopo
breve ma aspra lotta (in specie a Corfù). In Iugoslavia invece le truppe
italiane riuscirono a costituire la divisione Garibaldi che combatté, in condizioni terribili, sino alla fine
della guerra, da non confondere con il battaglione Garibaldi (inquadrato poi con il Matteotti nella brigata d'assalto Italia) che avrebbe partecipato alla liberazione di Belgrado, meritandosi gli elogi degli iugoslavi (sulle vicende dei soldati italiani nei Balcani durante la IIGM si veda l'eccellente opera di E. Aga Rossi, M. T. Giusti, Una guerra a parte, Il Mulino, Bologna 2011).
Sembra lecito quindi ritenere che pure la
difesa di Roma non fosse destinata a fallire tragicamente. Comunque sia, a
prescindere dalla questione se la difesa di Roma potesse avere successo a causa
della grave “demoralizzazione” delle forze armate italiane, una resistenza ben
“organizzata” contro i tedeschi a Roma era non solo possibile ma necessaria. Avrebbe
evitato forse perfino la stessa guerra civile ma soprattutto avrebbe posto le
“premesse” per un rapporto su basi pressoché paritarie con gli angloamericani
nel dopoguerra. Questi ultimi invece, dopo il disastro dell’8 settembre,
preferirono impiegare un Corpo di spedizione francese (che si batté
bene ma si sarebbe reso pure responsabile delle tristemente note “marocchinate”),
piuttosto che dar vita, sin dalla fine del 1943, ad un forte “Corpo di
liberazione” italiano, affinché contribuisse alla sconfitta delle
armate tedesche in Italia (i soldati italiani furono impiegati soprattutto come
"lavoratori" e solo nel 1945 furono costituiti dei gruppi di combattimento italiani,
equivalenti ciascuno ad una piccola divisione). D’altro canto, nemmeno la guerra
partigiana mutò i “rapporti di forza” a favore dell’Italia, che invece dopo la fine della guerra sarebbe stata trattata (nella Conferenza di Parigi) come
un Paese sconfitto.
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La monarchia italiana dunque “si smarcò”
dal fascismo solo quando le sorti della guerra volsero al peggio. Non si oppose
al fascismo né in occasione della guerra di Etiopia, né a causa delle leggi
razziali, né allorché l’Italia entrò in guerra al fianco del III Reich, né
quando finì la cosiddetta “guerra parallela” (nella primavera del 1941), che
vide l’Italia diventare una sorta di “protettorato militare” del III Reich, né ebbe nulla da obiettare contro la guerra all'Unione Sovietica o alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti. E
quando, nell’estate del 1943, si trattò di “afferrare il toro per le corna”
antepose il proprio “interesse particolare” a quello dell’intera nazione. Tuttavia,
non solo le conseguenze di tale comportamento furono disastrose per l’Italia durante
la guerra ma il costo di quella “tragica storia” il nostro Paese non ha ancora
finito di pagarlo. E la questione che conta è proprio questa, assai più del giudizio che si può avere riguardo al rapporto tra la monarchia e il fascismo. Il re Vittorio Emanuele III può quindi pure “riposare in
pace” in terra d’Italia, perché ben altri sono oggi i problemi che deve
risolvere il nostro Paese.
In definitiva, gli italiani nella Seconda
guerra mondiale dovettero “pagare” sia le scelte errate compiute durante il
fascismo che il comportamento vile e irresponsabile dei vertici politici e
militari, così come oggi “pagano” la scelte “antinazionali” della propria
classe dirigente, il che però probabilmente non accadrebbe se a Roma nel
settembre del 1943 le cose fossero andate diversamente. In questa prospettiva,
la storia come “memoria accettata” non significa dunque dimenticare bensì
ricordare sine ira et studio, pur
sapendo che la storia, in un certo senso, è sempre “storia contemporanea”.
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