Uno dei meriti
indiscutibili dello studioso austriaco Joseph Schumpeter è quello di
aver compreso il ruolo centrale della figura dell'imprenditore in
un'economia capitalistica. Favorendo l'innovazione tecnologica, il
mutamento dell'organizzazione della struttura produttiva e la
diffusione di nuovi prodotti l'imprenditore promuove quella
“distruzione creatrice” senza la quale la società di mercato
sarebbe destinata a collassare. Ciononostante, secondo Schumpeter, lo
stesso sviluppo del capitalismo, non avrebbe potuto non comportare,
oltre ad una sempre maggiore ostilità nei confronti del “mercato”
da parte dell'intellighenzia, la dissoluzione del legame sociale e al
tempo stesso l'affermazione di una forma mentis burocratica -
naturalmente contraria al mutamento sociale – , dacché per
Schumpeter era inevitabile che i “capitani d'industria” venissero
sostituiti da “tecnocrati” e burocrati che avrebbero soffocato
l'iniziativa privata. (1)
Tuttavia, sotto questo
aspetto, la storia non ha certo dato ragione allo studioso austriaco
e il capitalismo, anche se oggi non gode di ottima salute,
difficilmente si può ritenere sia sul punto di essere sconfitto dal
socialismo. In effetti, gran parte dell'intellighenzia occidentale,
una volta liquidati i valori della borghesia, si è mostrata
tutt'altro che refrattaria all'ideologia della merce (ideologia che
articola ormai la visione del mondo di qualsiasi strato sociale e
che, mistificando l'idea stessa di libertà, riesce ad occultare gli
effetti negativi della dissoluzione del legame sociale), tanto da
fare l'apologia della società di mercato anche nelle sue forme più
aberranti e ripugnanti. Inoltre, la rivoluzione dei manager, benché
non abbia impedito la burocratizzazione del sistema sociale e la
nascita di gigantesche tecnostrutture, ha saputo garantire
all'economia capitalistica un “dinamismo” sufficiente per vincere
tutte le sfide e le "guerre" del Novecento, compresa quella
contro il "socialismo reale".
D'altronde, è indubbio
che il concetto di “distruzione creatrice” sia essenziale per
capire la storia (geo)politica del Novecento, nonché la stessa fase
(geo)politica che contraddistingue il nostro presente storico, poiché
si può facilmente osservare che in quanto esso può significare non
solo innovazione tecnologica e produttiva, ma anche e soprattutto
innovazione strategica, non è affatto un concetto che valga
unicamente per spiegare fenomeni socioeconomici, contrariamente a
quanto si potrebbe ritenere limitandosi all'interpretazione della
teoria (economica e sociale) di Schumpeter. Al riguardo, anche
Giuseppe Bedeschi, recensendo l'opera di Schumpeter Passato e
futuro nelle scienze sociali, nota che lo studioso austriaco, che
non era affatto un “nemico” del capitalismo pur prevedendone il
declino, consiste nell'avere sottovalutato sia il ruolo dei
ricercatori sia quello delle piccole imprese. (2) Ma, pur
riconoscendo che si tratta di una critica almeno in parte
condivisibile, è evidente che anche Bedeschi privilegia un'ottica
economicistica che, non prendendo in esame i conflitti
(geo)strategici, rende incomprensibile la storia del Novecento. Per
rendersene conto, basta tener presente che la Grande Depressione
della prima metà del secolo scorso terminò solo con la Seconda
guerra mondiale (e analogo discorso si potrebbe fare, mutatis
mutandis, per quanto concerne la relazione tra la Grande
Depressione di fine Ottocento e la Grande Guerra). Ovverosia con una
immensa (e terribile) "distruzione creatrice", che di fatto
fu una rivoluzione geopolitica che condusse al dominio degli Usa sul
Vecchio Continente e alla contrapposizione tra la (nuova)
talassocrazia d'Oltreoceano e la (nuova) potenza tellurica del
"Continente Eurasiatico", l'Unione Sovietica.
A tale proposito, si deve
ricordare (anche a costo di ripetersi) che la Seconda guerra mondiale
generò pure una rivoluzione (geo)economica e tecnologica. Dal punto
vista (geo)economico, se la guerra fu una catastrofe per tutti i
Paesi belligeranti, per gli Usa (e quindi per la potenza
capitalistica dominante) invece fu un business eccezionale. Mentre
l'Unione Sovietica (unica potenza , insieme con gli Usa, a potersi
considerare veramente vincitrice) aveva subito colossali danni di
guerra, che furono stimati a 128 miliardi di dollari, stando ai
prezzi prebellici, tanto che nel 1945 il reddito nazionale dell'Urss
era del 15-20% inferiore rispetto a quello del 1940, negli Stati
Uniti dal 1941 al 1945 nacquero oltre 500.000 nuove aziende ed alla
fine della guerra c’erano 18,7 milioni di occupati in più rispetto
al 1939. Se il Pil dli Usa, che nel 1939 era poco meno di 100
miliardi di dollari, superava i 200 miliardi di dollari, i redditi
degli americani sotto 1.000 dollari diminuirono dal 24% (1941) al
5,6% (1944) e quelli fra 3 e 4.000 dollari passarono dall11% al
21,5%, sicché non sorprende che i consumi complessivi degli
americani aumentarono da 70 a circa 120 miliardi di dollari (caso
unico tra i belligeranti) Ed è noto che a Bretton Woods (agosto
1944) si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale, liquidando il
“blocco della sterlina”, che prima della guerra controllava un
terzo del commercio mondiale. In sostanza, gli Usa erano diventati
una “superpotenza” politica, militare ed economica e poterono
quindi ristrutturare l’economia capitalistica mondiale in funzione
dei propri interessi, senza correre il rischio di vedere annullati i
“guadagni” ottenuti durante la guerra (e grazie alla guerra). (3)
D'altra parte, la
battaglia dell'Atlantico, la (quasi totalmente sconosciuta dai "non
esperti") guerra aerea contro Germania e la "guerra dei
codici" fecero compiere, nel giro di qualche anno, un balzo
prodigioso alla tecnoscienza: non solo aerei e missili, ma apparati
elettronici, radar, calcolatori ed una miriade di nuove macchine e
nuovi congegni sofisticati cambiarono radicalmente l'organizzazione
produttiva - e quindi sociale - dell'Occidente. Fu però la capacità
di "combinare" i diversi fattori, tecnologici ed economici,
secondo un disegno geopolitico coerente e di "ampio respiro"
ad assicurare agli Usa una posizione predominante. Ne è prova lo
stesso fatto che, allorquando lo squilibrio tra impegni strategici e
risorse disponibili minacciava di far perdere agli Stati Uniti il
confronto con l'Unione Sovietica - tanto che a giudizio di non pochi
intellettuali la "pressione" endogena (contestazione e
crisi economica - la cosiddetta "stagflazione") e quella
esogena (guerra del Vietnam) potevano innescare un processo che
avrebbe portato al crollo del capitalismo (da qui l'espressione
"capitalismo maturo" - da intendersi "maturo per la
rivoluzione") -, fu proprio la nuova strategia di Nixon e
Kissinger a rilanciare il "modello americano": non solo
"sganciando" il dollaro dal gold standard e
"agganciandolo" al petrolio, per rimediare ad un deficit
della bilancia commerciale che si sapeva essere non meramente
"congiunturale"; ma specialmente mediante una applicazione
spregiudicata della logica del divide et impera, che portò sì
gli Usa a gettare la spugna in Vietnam (sebbene Nixon avesse promesso
che l'aviazione Usa avrebbe impedito al Vietnam del Nord di
sconfiggere "in campo aperto" il Vietnam del Sud), ma pure
a un avvicinamento tra Washington e Pechino in funzione
antisovietica, dividendo in tal modo il "campo nemico" ed
evitando che si venisse a costituire un blocco eurasiatico, in grado
di sfruttare le gravissime difficoltà in cui gli Usa si trovavano
per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale.
E fu questo approccio
geopolitico a "sostenere" sia la ristrutturazione del
Warfare State sia il turbocapitalismo americano, all'epoca di
Reagan, e a permettere agli Usa (e ai centri di potere dipendenti, in
diversa misura, dal potere degli Usa) di trarre il massimo profitto
dalle innovazioni tecnologiche in ogni settore della vita politica,
sociale, economica e culturale dei Paesi occidentali. E non solo
occidentali, in quanto si trattò di un mutamento non estraneo allo
stesso crollo dell'Urss, non fosse altro perché rese ancor più
problematico porre rimedio alle debolezze strutturali dell'Urss e dei
Paesi dell'Europa orientale (immobilismo, burocratizzazione,
fragilità dell'industria leggera ed eccessiva espansione
dell'industria pesante, problemi derivanti dalle "aspettative
crescenti" del ceto medio e dalle differenti nazionalità e così
via). E non si può mettere in discussione nemmeno che, scomparsa
l'Unione Sovietica, sia stato l'unipolarismo americano a "guidare"
sia il processo di globalizzazione sia lo stesso sistema finanziario
internazionale (con tutto quello che ciò implica sul piano sociale e
politico), fino a quando si è giunti al “terremoto” del 2008 -
logica conseguenza, in un certo senso, del fatto che la conquista
dell'Heartland si è dimostrata essere al di là delle
possibilità dell'America e dei suoi alleati, (4)
In questa prospettiva, è
particolarmente significativo che anche un teorico come Gianfranco La
Grassa, che analizza il rapporto tra economia e politica alla luce
del conflitto strategico che contraddistingue il sistema
capitalistico nelle sue molteplici configurazioni, osservi che
«privilegiare l’aspetto
finanziario rispetto all’industriale è comunque una scelta
strategica, non dipende dall’intrinseca “bontà di comando” del
denaro [...] Dopo il crack borsistico del ’29, le prime misure
furono di fatto finanziarie. La crisi divenne terribile e nel ’31-’32
si fece la fame, la disoccupazione raggiunse oltre un terzo della
forza lavoro, il reddito reale crollò. Il New Deal (che
comunque attenuò ma non risolse la crisi, superata solo con la
guerra mondiale) non fu semplice operazione finanziaria. Si stampò
moneta al fine di metterla in circolazione tramite la spesa pubblica
(in deficit di bilancio). Ma questa manovra partiva dal presupposto
della presenza di imprese industriali chiuse e di mano d’opera
disoccupata, fenomeni giudicati effetto della carenza di domanda».(5)
Inoltre, già negli anni Novanta La Grassa sosteneva che «il
periodo attuale – e il nostro paese è paradigmatico al riguardo –
vede gli apparati finanziari, cioè degli interessi afferenti alle
loro funzioni e ruoli, più interessati alla globale circolazione di
merci e denaro e ad una considerevole redistribuzione del reddito
verso l’alto, con la conseguente distruzione, o drastico
ridimensionamento, del Welfare State», e di conseguenza «la
richiesta, tipica non solo dell’Italia, di governi “tecnici”
non deve ingannare nessuno; si tratta semplicemente di tecnici
finanziari [...] non certo di dirigenti interessati, in senso
schumpeteriano (corsivo nostro), all’innovazione, alla
creatività ecc.».(6) In definitiva, secondo La Grassa, il fattore
finanziario, in quanto tale, conta poco, qualora non vi sia una vera
strategia di crescita dell’economia reale; crescita però che non è
possibile se ne mancano i fattori o se questi sono “depressi”
dall’asservimento di un Paese all’economia di un sistema sociale
e (soprattutto) politico predominante.
Se questo però vale per
un Paese, come l'Italia, "dominato" dai centri di potere
atlantisti, è anche vero che il fallimento del modello unipolare
statunitense ha generato un "contraccolpo geopolitico" di
cui è pressoché impossibile prevedere quali saranno gli effetti, ma
che non sembra potersi definire come una situazione internazionale
caratterizzata da una "distruzione creatrice" tale da
consentire agli Usa di costruire un nuovo ordine mondiale. Si è
piuttosto in presenza, come più volte rilevato, di una sorta di
“geopolitica del caos” che ostacola la formazione di un autentico
multipolarismo, allo scopo di perpetuare l'egemonia americana (e, in
generale, dei "circoli atlantisti"), sia pure a costo di
una continua destabilizzazione tanto sotto il profilo (geo)politico
quanto sotto il profilo sociale ed economico. Decisivo allora è
mettere in evidenza che, dato che la "distruzione creatrice"
- che in primo luogo (come si è cercato di mostrare) si deve
intendere come innovazione strategica - è un tratto costitutivo del
conflitto geopolitico, è quest'ultimo che sempre più condiziona il
conflitto sociale e economico. Vale a dire che il conflitto sociale
ed economico non può non essere "sovradeterminato" dalla
geopolitica (nel senso che esso fa parte di una totalità di rapporti
e di contraddizioni di carattere geopolitico che ne qualificano i
modi e le variazioni), la quale, lungi dall'essere soltanto il
terreno su cui si confrontano diverse "volontà di potenza",
in realtà struttura lo "spazio sociale e politico" anche
in funzione di diverse Weltanschauungen e di diversi
"pro-getti" sociali e modi di "essere-nel-mondo".
E' innegabile allora, se
la nostra riflessione (si badi, solo riflessione, non certo analisi
storica di fenomeni così complessi da richiedere ben altro spazio e
ben altre competenze) è corretta, che oggi la "contrapposizione
principale", cioè la contrapposizione che attualmente
conferisce "senso e orientamento" al conflitto strategico e
che dovrebbe essere a fondamento dell'innovazione strategica, sia
quella tra eurasiatismo e atlantismo. Il che poi altro non è che una
particolare espressione di quella opposizione fra Terra e Mare che il
processo di occidentalizzazione mostra di non essere in grado di
cancellare o superare, benché si debba riconoscere che la
“geopolitica del caos” non pare "destinata" a dar vita
ad un nuovo Nomos, né ad originare un nuova guerra mondiale
(ma si dovrà anche concedere che “non necessariamente” non
significa né impossibile né improbabile). Comunque sia, non è
affatto sicuro nemmeno che, ove si verificasse una autentica
"distruzione creatrice", quest'ultima porterà ad una
definitiva occidentalizzazione del pianeta, posto che ritenere che
l'innovazione strategica sia soltanto una caratteristica della
società di mercato o della cultura “occidentale” significhi che
non ci si è liberati da una ideologia economicistica, cioè dai
pregiudizi tipici dell'homo oeconomicus
Note
(1) Si veda Joseph A.
Schumpeter, Il capitalismo può sopravvivere? La distruzione
creatrice e il futuro dell'economia globale, ETAS, Milano, 2010.
(2) Giuseppe Bedeschi, Il
rivoluzionario più audace è l'imprenditore, «Corriere
della Sera», 7 marzo
2011, p. 32.
(3) Per questi dati vedi
http://www.eurasia-rivista.org/seconda-guerra-mondiale-geopolitica-e-terra-bruciata/6507/
.
(4) Sulla questione dello
squilibrio tra risorse economiche e potenza politico-militare come
causa del declino relativo degli Usa, sempre utile, anche se in parte
datato, Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze,
Garzanti, Milano, 1989.
(5) Si veda
http://www.conflittiestrategie.it/2012/04/16/agenti-strategici-e-miopia-degli-economisti/
(6) Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve, Oltre la gabbia di acciaio, Vangelista, Milano, 1994, specialmente pp. 103 e ss.
(6) Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve, Oltre la gabbia di acciaio, Vangelista, Milano, 1994, specialmente pp. 103 e ss.
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