sabato 10 ottobre 2020

QUALE SOCIALISMO?

L'affermazione secondo cui non si dovrebbe più usare il termine socialismo per designare una alternativa al (neo)liberalismo -  in quanto ormai il socialismo designerebbe solo una ideologia fallita o una esperienza storica fallimentare -, benché in definitiva sia viziata anch'essa da pregiudizi ideologici, merita di essere presa in considerazione.

Certo, non è una questione facile, che si possa trattare in un articolo, ma qualche breve considerazione al riguardo la si può fare.

Prima di tutto, si deve tener presente che con il termine socialismo ci si riferisce a diverse e perfino opposte concezioni ideologiche e a diverse esperienze storiche. Basti pensare alla differenza tra la socialdemocrazia scandinava e il socialismo reale o sovietico (inteso peraltro come una fase storica intermedia tra quella capitalistica e quella comunista), caratterizzato da un partito che aveva il controllo totale degli apparati dello Stato e della stessa economia. 

D'altronde, dal socialismo reale e dalla socialdemocrazia scandinava si differenzia nettamente il cosiddetto "socialismo di mercato" che non solo non è scomparso, ma non si può nemmeno ritenere fallimentare sotto il profilo economico.

In questo caso, l'uso del termine socialismo non è un "esercizio di nostalgia", anche se per molti, marxisti e non, non si tratterebbe affatto di socialismo, ma semplicemente di una diversa e perfino più aggressiva forma di capitalismo. E qui il discorso si complica perché ci si dovrebbe chiedere che si intende per capitalismo e addirittura se capitalismo sia sinonimo di modo di produzione capitalistico. 

Tuttavia, è chiaro che se si considera la ricchezza prodotta da un sistema economico come un prodotto sociale ossia della società nel suo complesso, ed è allo Stato - o addirittura al partito che controlla gli apparati dello Stato come in Cina - che spetta la direzione politico-strategica (anche) della economia, allora la presenza di un settore economico regolato dal mercato non basta per ritenere il "socialismo di mercato" sinonimo di società di mercato.

Essenziale in questo caso, nonostante che vi siano sempre subordinazione  dell'uomo alla macchina nel processo produttivo (che notoriamente Marx definisce sottomissione reale del lavoro al capitale) e prevalenza del lavoro salariato (il che peraltro valeva pure per una economia pianificata, senza un settore economico regolato dal mercato come quella sovietica dopo la fine della NEP), è che una buona parte del sovrappiù sia "restituito" (in quanto appunto prodotto sociale) dallo Stato alla società sotto forma di valori d'uso (sanità, istruzione, sicurezza, opere pubbliche, difesa del territorio, ecc.). 

Ovviamente, se questa parte del sovrappiù in realtà finisse soprattutto nelle mani di una "nomenklatura" allora non avrebbe più senso parlare di socialismo di mercato.

Il "punto" da capire comunque è che in questo secolo non è più possibile pensare che il socialismo sia la pura e semplice abolizione del mercato e di ogni forma di antagonismo sociale. In questo senso, il socialismo sarebbe solo uno sterile "esercizio di nostalgia" che ignora le dure repliche della storia. 

Ciononostante, la storia del Novecento ha anche insegnato o dovrebbe avere insegnato che non di "solo pane vive l'uomo", benché la questione economica sia fondamentale - ed è invece questo che in generale ignorano, per motivi ideologici, coloro che criticano il (neo)liberalismo ma al tempo stesso di socialismo non ne vogliono neppure sentire parlare, condannandosi in pratica a subire il (neo)liberalismo, giacché non ci si può smarcare dal (neo)liberalismo senza una diversa forma di razionalità economica, imperniata sul primato della ragione pubblica  e del valore d'uso.

La stessa crisi del socialismo reale dipese, difatti, da fattori non solo economici ma anche e soprattutto politici, culturali e perfino antropologici.

Sotto questo profilo, intendere il socialismo come una forma di socialismo (di mercato) comunitario, anche se discutibile, può comunque essere utile per evitare di ripetere gli errori e gli orrori del secolo scorso.

In definitiva, se per socialismo si intende la liberazione dalla oppressione economica e sociale allora la questione socialista non si può certo ritenere una questione anacronistica, anzi oggi è ancora più attuale di quanto lo fosse nel secolo scorso , benché il modo in cui ci si possa liberare dalla oppressione economica e sociale non sia affatto un problema facile da risolvere.

Comunque sia, anche se le parole sono importanti, è la "cosa stessa" che conta e che si deve ben comprendere, tanto più allorché si tratta di compiere un percorso di pensiero (e non solo di pensiero) che è ancora tutto da "tracciare".














LA SFIDA DEL VIRUS

 Mi pare inutile polemizzare con chi sostiene che il virus è una truffa, che si tratti di una cospirazione internazionale o addirittura con chi pensa che sia una macchinazione del governo giallo-rosa, come se in molti Paesi, assai diversi tra di loro, non si fossero adottate o si stessero adottando severe misure anti-contagio.

Tuttavia, è lecito domandarsi se i cosiddetti "poteri forti" abbiano davvero a cuore la salute di persone anziane debilitate. La risposta ovviamente è no. E allora perché sono favorevoli alla adozione di misure che apparentemente li danneggerebbero?

A questa domanda si può rispondere in diversi modi.

Ad esempio si può affermare che nessun sistema di potere può lasciare correre a briglia sciolta un virus che potrebbe infettare strutture e apparati chiave come il sistema sanitario, la catena alimentare e le forze dell’ordine. Un “caso” come quello della regione Lombardia, ma su più vasta scala, e che sfuggisse al controllo, potrebbe innescare reazioni incontrollate pure da parte di chi adesso considera il virus una truffa. 

Lasciar correre il virus a briglia sciolta quindi potrebbe significare dover sostenere dei costi assai maggiori dei benefici.

Ma si può ritenere che la vera ragione, quella cioè che più conta, sia un’altra, come avevo già cercato di chiarire in un breve post su FB (che metto qui sotto)***.

La comparsa del virus Sars-CoV-2 è in un certo senso analoga ad una sfida della tecnoscienza. È cioè “qualcosa” di imprevedibile ma al tempo stesso un’occasione per attuare una trasformazione sociale che era già in corso prima della pandemia, che adesso si configura come una distruzione creatrice, una crisi che il capitalismo deve mettere in forma ovvero saper gestire a suo vantaggio.

In questo senso è vero che vi è una strumentalizzazione del virus e pure che vi è lotta tra “vecchio" capitalismo (che ad esempio in Italia a febbraio si era opposto, per motivi facilmente comprensibili, al “lockdown” a Bergamo) e “nuovo" capitalismo (Amazon, Microsoft ecc., per intendersi), che invece ha tutto l’interesse a sfruttare il virus per imporre un mutamento dei rapporti sociali ed economici imperniato sulla green economy, il digitale, lo smart working, ecc.

Il punto essenziale da capire è che il capitalismo non “nega i fenomeni”, ma impone ai fenomeni la propria “legge”. Risolvere le crisi, a proprio vantaggio naturalmente, non “negarli”, è la “vera forza” del capitalismo. Nessun trucco quindi. (Chi pensa questo è sotto certi aspetti simile a chi pensa che il capitalismo si fondi su complotti e trucchi. In realtà la classe capitalistica acquista la forza lavoro al prezzo di mercato, solo che la forza lavoro trasformata in merce, rende assai più di quanto costa. Inoltre, il lavoratore è libero di venderla ma, se non la vende a prezzo di mercato, muore di fame. La sua libertà è cioè solo formale e quindi contano i reali rapporti di potere che consentono di trattare la forza lavoro come una merce, sia pure molto particolare. Ma di trucchi non ve ne sono). 

La crisi è certo pure un rischio per l'apparato capitalistico, ma un rischio che l’apparato capitalistico deve necessariamente correre, in quanto funziona solo se “mira” ad una illimitata crescita della propria potenza. La lotta pertanto si svolge su due fronti: da un lato vi è la lotta tra “vecchio” e “nuovo” capitalismo, dall’altro quella tra salario e profitto o, meglio, onde evitare di sostenere una concezione meramente economicistica, tra chi ha interesse a difendere il primato della ragione pubblica e del valore d’uso e chi ha interesse a difendere il primato del mercato e del valore di scambio. Insomma sotto il profilo teorico anche la crisi generata dal virus è una “partita aperta” (interessante al riguardo sarebbe prendere in considerazione il modo in cui la Cina ha saputo gestire questa crisi).

Tuttavia, è lecito ritenere che  il “nuovo” capitalismo stia vincendo questa difficile “partita”, anche grazie alla fasulla immagine del capitalismo di chi ciancia di complotti, dittatura sanitaria e via dicendo.


***Da parecchi mesi, ossia almeno dal mese dello scorso marzo, i media danno eccezionale rilievo all'emergenza sanitaria causata dal virus Sars-CoV-2. In pratica il/la Covid-19 da allora "copre" quasi tutto il resto. 

In particolare, concentrando l'attenzione soprattutto sul numero dei "casi positivi", dei decessi per Covid-19 e sulle "misure di contenimento" del contagio, si "perdono di vista" gli enormi problemi di carattere economico e sociale connessi alla emergenza sanitaria, nonché il fatto che in alcuni Paesi, tra cui certo l'Italia, il problema del virus ha portato alla luce i "guasti" del sistema sanitario, di quello scolastico e in generale di ogni servizio pubblico, causati da decenni di privatizzazioni e di subordinazione della funzione pubblica al "mercato". 

Quest'opera di "manipolazione" e "semplificazione" della vicenda del/la Covid-19 è, tuttavia, favorita anche dal cosiddetto "complottismo", dato che secondo i "complottisti", la vicenda del/la Covid-19 sarebbe, in sostanza, una macchinazione dei poteri "transnazionali" (ossia un grande complotto dei “potenti”) per arrivare, tramite l'adozione di "misure di contenimento" del contagio ("lockdown", mascherina, distanziamento personale - erroneamente definito sociale - quarantena), ad una forma di totale controllo sociale e politico.

La stessa strumentalizzazione del virus sotto il profilo economico e sociale, non viene quindi presa in considerazione se non in relazione al problema della mascherina e del distanziamento personale, considerati strumenti "diabolici" per ridurre le persone a "sudditi obbedienti". 

In pratica, i "complottisti" (e ve ne sono di varie specie) seguono proprio il "sentiero" tracciato dai media, ovverosia per così dire, "vanno a rimorchio" di quei media che pure accusano di essere parte costitutiva del grande complotto dei “potenti”.

Non si parte allora dalla “crisi” generata da una emergenza sanitaria "reale" per spiegare la strumentalizzazione di quest’ultima, ma si fa dipendere la stessa emergenza sanitaria dalle "misure di contenimento" del contagio, il cui scopo sarebbe appunto creare una “crisi” che servirebbe ai "potenti" per ridefinire l'intera struttura economica e sociale, in modo da tale da acquisire un controllo totale e definitivo dei rapporti sociali e politici tra le varie classi sociali.

Di fatto, le "narrazioni complottiste" (perché ve ne sono diverse) presuppongono, più o meno implicitamente, che prima del/la Covid-19 la nostra società fosse davvero "libera e aperta", al punto che fosse diffusa una "coscienza politica" tale da costituire una seria minaccia per i gruppi dominanti, che quindi avrebbero tutto l'interesse ad impedire che si torni alla "normalità".

Si “ignora” così che già prima del/la Covid-19 il capitalismo stava per fare un altro “salto qualitativo” (giacché il “salto qualitativo” ossia la “distruzione creatrice” caratterizza l’intera storia del capitalismo) tramite la “rivoluzione” green e il digitale e che quindi è ovvio che stia sfruttando anche il/la Covid-19 in questo senso.

Vale a dire che si “ignora” che il capitalismo è caratterizzato anche dalla lotta stessa tra i gruppi dominanti, non solo da quella tra dominanti (e subdominanti: ceto medio-alto, ecc.) e dominati, e che tale lotta raggiunge la sua acme proprio allorché il capitalismo si appresta a compiere una nuova distruzione creatrice, non per scelta ma per necessità, non potendo “ignorare” le sfide della tecnoscienza ma dovendo saper rispondere a tali sfide evitando, per così dire, di uccidere la “gallina dalle uova d’oro”. Sotto questo aspetto non meraviglia che il/la Covid-19 si configuri in modo simile ad una sfida della tecnoscienza, che nessuno cioè poteva prevedere, e che per il capitalismo sia una occasione per realizzare una nuova distruzione creatrice, secondo la prospettiva “politico-strategica” che esisteva anche prima che ci fosse il problema del/la Covid-19.

La “crisi” dunque è essenziale al capitalismo in quanto è occasione per incrementare la propria potenza. La macchina capitalistica, difatti, non può sopravvivere se non come illimitata volontà di potenza (la crescita illimitata e il progressivo superamento di ogni limite sono notoriamente la caratteristica essenziale delle varie forme di capitalismo). Ciononostante, non è affatto scontato che vi sia un solo modo per risolvere una “crisi” ossia quello “imposto” dal capitalismo o, meglio, dalla frazione vincente della classe capitalistica (e qui entra in gioco il Politico, o se si preferisce, entrano in gioco gli strateghi del capitale). 

Ogni autentica “crisi” significa pertanto anche un rischio per il capitalismo, sebbene lo debba correre necessariamente. Né fa eccezione la “crisi” causata dal/la Covid-19. Anch’essa potrebbe portare a scelte ben diverse da quelle imposte da alcuni gruppi dominanti, ossia a ridefinire il ruolo dello Stato rispetto al “mercato” per (ri)affermare il primato della funzione pubblica, al riconoscimento della necessità di tutelare il legame comunitario e il bene comune non più secondo una concezione meramente economicistica dei rapporti sociali, alla rivalutazione del valore d’uso rispetto al valore di scambio e perfino ad un diverso rapporto tra economia e territorio (e quindi ad un diverso modo di concepire la stessa "green economy", non più cioè in base ad un’ottica contraddistinta dalla crescita illimitata e dalla ricerca del massimo profitto possibile). 

Ma è proprio sotto questo profilo che si comprende come sia i media che i "complottisti” favoriscano di fatto gli strateghi del capitale, i media in quanto presentano le  “decisioni” degli strateghi del capitale come inevitabili (quasi che l’agire capitalistico fosse determinato da leggi di natura), e i “complottisti” in quanto “ignorano” la complessità politico-strategica del sistema capitalistico (presentato invece come un sorta di Grande Fratello che tutto “vede e prevede”), basandosi su un’idea “ingenua” di libertà che non è diversa da quella che caratterizza l’ideologia dominante, secondo cui è lo Stato o, meglio, il primato della ragione pubblica il “nemico” che si dovrebbe combattere.







domenica 4 ottobre 2020

RIFLESSIONE "A VOLO D'UCCELLO" SULLA QUESTIONE DELLA DEMOCRAZIA

 Nella nostra epoca non ha molto senso la "tradizionale" critica della democrazia ossia, per intendersi, come quella di Platone. L'irruzione delle masse nella storia ha cambiato radicalmente, per così dire i "termini della equazione politica" che contraddistinguevano il mondo premoderno e quindi il senso stesso della democrazia, di modo che sotto il profilo politico e sociale non è più possibile prescindere dal ruolo del "demos". Non a caso, la stessa democrazia liberale è o, meglio, era ben diversa da quella ateniese o da altre forme di democrazia diretta. Il problema pertanto allorché si pone la questione della democrazia è quale sia o possa essere nella nostra epoca il ruolo politico e sociale del "demos". 

Nella sostanza, la democrazia liberale si basava sulla lotta politica tra partiti di massa, radicati nel territorio e capaci di rappresentare, più o meno bene, gli interessi delle diverse classi sociali. Il "demos" era quindi sì oggetto di pratiche politiche e sociali ma in una certa misura anche soggetto di queste pratiche, in relazione alle quali si poneva quindi il problema della distinzione tra democrazia formale e sostanziale, intesa quest'ultima come partecipazione del "demos" e in particolare dei suoi rappresentanti (sindacati, partiti, ecc.) anche e soprattutto alla gestione delle diverse attività economiche e sociali, di modo che fosse possibile costruire una società postcapitalistica.

Diverso il discorso per quanto concerne il socialismo reale e le democrazie popolari, nelle quali vi era in pratica un unico partito che mediante il controllo di tutti gli apparati dello Stato gestiva l'intera vita politica, sociale ed economica di un Paese, in quanto si riteneva che il partito rappresentasse gli interessi dell'intero "demos". In altri termini, l'abolizione della classe capitalistica doveva garantire che non vi fosse più una lotta di classe che impedisse di definire in modo "razionale" (ovvero sulla base della dottrina marxista-leninista) l'interesse dell'intera collettività. In questo senso, si pensava che non vi fosse più una sostanziale differenza tra il partito e il "demos" dato che il partito non era altro, per così dire, che la "ragione del demos" al potere.  

Ma anche nei regimi fascisti il "demos" non era escluso a priori dalla vita politica, benché non si trattasse di partecipazione delle masse alla vita politica bensì di mobilitazione delle masse in vista di una politica di potenza perseguita da un gruppo dirigente che si arrogava il diritto di rappresentare l'interesse nazionale e quindi di essere l'unico soggetto politico che potesse rappresentare il "demos". Il "demos" cioè era solo oggetto di pratiche politiche e sociali decise da "pochi". 

Il consenso del “demos” a queste pratiche era pertanto necessario benché fosse pure meramente "passivo". La mobilitazione delle masse era cioè necessaria per una politica di potenza che, tuttavia, esigeva che la lotta di classe scomparisse per lasciare il posto ad una collaborazione con la classe capitalistica. Vale a dire che l'alleanza tra fascismo e classe capitalistica nazionale prevedeva che il "demos" fosse solo un utile e "docile" strumento della politica di potenza perseguita dal regime.

Scomparsi dopo la Seconda guerra mondiale i regimi fascisti e alla fine dello scorso secolo il socialismo reale nonché le varie forme di democrazia popolare dei Paesi dell'Europa Orientale, pareva che "in campo" fosse rimasta  solo la democrazia liberale, ad eccezione di alcune forme di dittatura militare e di alcuni regimi comunisti, considerati comunque realtà marginali o "residui" di un passato che non poteva ormai rappresentare alcunché di "valido" né sotto il profilo politico né sotto il profilo socio-economico. 

La storia però non era finita e nel giro di pochi decenni la questione della democrazia si è riproposta, sia pure in forme assai diverse da quelle che hanno contraddistinto la lotta politica e sociale nel secolo scorso.

La democrazia liberale, con la scomparsa dei partiti di massa radicati nel territorio e il "trionfo" delle politiche neoliberiste od ordoliberiste, di fatto ha lasciato il posto ad un sistema politico oligarchico neoliberale, in cui il "demos" è diventato di nuovo solo oggetto di pratiche politiche e sociali decise da "pochi" ossia dalla classe capitalistica che può contare sulla manipolazione delle coscienze - cioè del "demos" - da parte del Circo Mediatico. 

Il pluralismo politico si è "ridotto" quindi ad una competizione elettorale tra gruppi di interesse e comitati di affari, ovverosia, oltre alla  libertà di parola consentita in quella sorta di Bar Internazionale dello Sport che è (perlomeno in buona misura) Internet, è solo quello politicamente corretto (in pratica il pluralismo politico si è pressoché "ridotto" alle zuffe tra guitti di vario genere - "complottisti" inclusi" - che si esibiscono nel Circo Mediatico mentre ciascun gruppo di interesse cerca di imporre la propria volontà e i propri "valori" agli altri spacciandoli per diritti universali). Le eccezioni vi sono ma confermano la regola.

Tuttavia, pure il socialismo, che era "dato per morto", è resuscitato a nuova vita. A parte il cosiddetto "socialismo dell'America Latina", che alla prova dei fatti si è dimostrato assai più debole e "confuso" di quanto molti orfani del socialismo del XX secolo immaginassero (benché non si possa considerare un fallimento e la sua storia non sia ancora terminata), la vera novità è il socialismo di mercato con caratteristiche cinesi.

Anche in questo caso il partito si configura come la "ragione del demos" al potere  e quindi continua a detenere il controllo degli apparati dello Stato, ma il pluralismo economico garantisce non solo una efficienza in grado di competere con successo con il sistema neoliberale ma una articolazione sociale assai più complessa e differenziata di quella del socialismo reale e delle varie democrazie popolari. Peraltro, la mancanza di pluralismo politico, ossia di concorrenza tra diversi partiti , non esclude la presenza di un notevole e anche assai aspro dibattito politico all'interno del partito stesso nonché la presenza di diversi gruppi di interesse in lotta tra di loro. 

Nel complesso, anche se la questione del rapporto tra individuo e comunità viene "declinato" secondo forme culturali diverse da quelle che contraddistinguono la cultura europeo-occidentale, il controllo sociale esercitato del partito mediante gli apparati di coercizione e di persuasione dello Stato, permette non solo di tutelare e rafforzare una preziosa coesione sociale, come ha dimostrato pure la gestione della emergenza sanitaria causata dal virus Sars-CoV-2, ma consente pure la presenza di una iniziativa privata significativa anche sotto il profilo sociale politico-culturale, benché sempre in funzione del bene comune ovvero dell'interesse del "demos".

In questo contesto, la questione dei diritti civili per quanto concerne la Cina si può porre in (almeno) due modi diversi, ovverosia si può porre tenendo presente la differenza tra la cultura europeo-occidentale rispetto a quella cinese oppure in modo strumentale ovvero meramente ideologico (nel senso negativo del termine), dato che nei confronti del socialismo di mercato con caratteristiche cinesi non valgono più i luoghi comuni sulla inefficienza del socialismo né si può accusare l'attuale "sistema" socialista di mercato cinese di "affamare il proprio popolo".

Inutile comunque dire quale sia il modo di porre la questione dei diritti civili e del pluralismo per quanto riguarda il socialismo di mercato con caratteristiche cinesi - e perfino per quanto concerne un possibile socialismo di mercato con caratteristiche europee – che attualmente prevale in Occidente.


giovedì 1 ottobre 2020

BREVE NOTA SUL SOCIALISMO DI MERCATO

 È indubbio che la "formula politica" socialismo di mercato non piaccia non solo ai neoliberali ma pure a coloro che non riescono a liberarsi dai dogmi della ideologia marxista-leninista, per i quali ovviamente l'unico modo possibile per "superare" il capitalismo consisterebbe in un processo politico economico che mirasse alla estinzione della funzione politica dello Stato, all'abolizione del lavoro salariato e all'autogoverno dei produttori. In altri termini, costoro ragionano come se ancora ci fossero le carrozze e gli opifici, e la storia in pratica fosse come un treno che si muove necessariamente lungo un percorso immodificabile, nonostante i numerosi e perfino tragici fallimenti di un socialismo concepito in questa maniera nel secolo scorso.

Nondimeno, socialismo di mercato non è semplicemente sinonimo di economia mista, come alcuni ritengono. Non a caso il socialismo di mercato cinese viene più correttamente definito economia di mercato ad orientamento socialista con caratteristiche cinesi. In questa definizione rileva sia la questione dell’orientamento socialista dell’economia di mercato che quella delle caratteristiche cinesi. 

In sostanza, sotto il profilo economico è fondamentale la concezione secondo cui la ricchezza è un prodotto sociale e che quindi appartenga alla collettività. Vale a dire che all’autorità centrale spetta il compito della direzione strategica dell’economia e quindi il compito dei dirigenti politici consiste anche nel “restituire” il sovrappiù (in quanto prodotto sociale) alla collettività, sotto forma di opere pubbliche, servizi sociali, sanità, istruzione, sicurezza ecc. In questo contesto, pertanto l’arricchimento dei singoli individui e l’iniziativa privata sono permessi purché siano socialmente utili e non siano in contrasto con le scelte strategiche, politiche ed economiche, dell’autorità centrale.

Tuttavia, essenziale è anche e soprattutto comprendere che si tratta di un socialismo di mercato con caratteristiche cinesi ovverosia che si devono perseguire fini che non siano in contraddizione con la cultura cinese, considerata determinante anche per quanto concerne l’organizzazione politica e sociale (si pensi ad esempio al ruolo dell’etica confuciana, essenziale anche per quanto concerne il delicato problema del rapporto tra individuo e comunità). Valori e principi identitari, usi, costumi e “differenze” tipiche di una certa civiltà e cultura vengono quindi considerati fattori decisivi sotto l’aspetto della coesione sociale e antropologico, e tanto più rilevanti in quanto necessari per evitare che lo stile di vita promosso da una economia di mercato favorisca la dissoluzione del legame sociale, senza il quale non avrebbe nemmeno senso parlare di socialismo. 

Sotto questo aspetto, è netta la differenza rispetto al modo in cui generalmente si definiva il socialismo nello scorso secolo (ma non si deve dimenticare che la questione del patriottismo svolse un ruolo non marginale anche nella storia del “socialismo reale”), benché si tratti pur sempre del modo in cui si deve concepire il socialismo in questa fase storica, né venga abbandonata l’idea che l’internazionalismo è comunque necessario onde evitare una “deriva nazionalistica” e che di conseguenza non si debba rinunciare ad una cooperazione a livello internazionale, basata su principi del tutto diversi da quelli che contraddistinguono il capitalismo predatore occidentale. (Esemplare al riguardo è la politica economica cinese in Africa, che, come riconoscono anche alcuni ricercatori della Johns Hopkins University, ha comunque favorito la crescita e lo sviluppo di diversi Paesi africani, a differenza di quanto sostiene la “narrazione” neoliberale della “penetrazione cinese” in Africa).

In ogni caso, è errata e “fuorviante” la definizione del socialismo di mercato come una forma di nazional-capitalismo, sebbene questa definizione serva per nascondere o sminuire i successi del “modello socialista cinese”, giacché è innegabile che il socialismo di mercato cinese (e analogo discorso si dovrebbe fare per quello vietnamita) si stia dimostrando efficiente sotto il profilo economico e sociale (come dimostra pure la gestione dell’emergenza sanitaria ed economica causata dal virus Sars-CoV-2), anche più del sistema capitalistico neoliberale. 

Ovviamente molte critiche concernono la questione dei diritti individuali. Si trascura però che il rapporto tra individuo e comunità è appunto concepito sulla base della particolare culturale cinese, ossia che il socialismo di mercato cinese non è un “prodotto di esportazione” proprio in quanto di fondamentale importanza sono le caratteristiche cinesi di tale socialismo (il che peraltro esclude la possibilità che il socialismo di mercato cinese si configuri come una nuova forma di “imperialismo culturale”). In questo senso il socialismo di mercato è una “formula politica” aperta a diverse interpretazioni politico-culturali e sociali, e quindi compatibile anche con una interpretazione politico-culturale e sociale che tenga conto del modo di concepire il rapporto tra individuo e comunità secondo le caratteristiche della cultura e della civiltà europea, e perfino della storia e della cultura che caratterizzano ciascun Paese europeo, dato che notoriamente ogni Paese europeo si differenzia anche dagli altri Paesi europei.

Indipendentemente dunque da quale potrà essere il “futuro” del socialismo di mercato cinese o di quello vietnamita, non è azzardato affermare che il socialismo di mercato rappresenta una alternativa “realistica” (e con ogni probabilità l’unica alternativa “realistica”) all’attuale sistema capitalistico neoliberale, sia sotto il profilo economico che sotto il profilo politico-culturale e sociale, in quanto in grado di rimediare anche alle molteplici e sempre più gravi patologie che contraddistinguono l’attuale civiltà occidentale neoliberale.



lunedì 21 settembre 2020

BREVE NOTA SUL CONCETTO DI ALIENAZIONE

 In ambito accademico (ma non solo) è diffusa l’idea che il concetto di alienazione sia un “ferro vecchio”, dato che esso rinvierebbe ad un (ormai) insostenibile umanesimo idealistico-filosofico. Di fatto, si sostiene, si è esseri umani perché si è “soggetti” a determinate pratiche sociali (su questo argomento, si veda, ad esempio, Carlo Sini, Inizio, Jaca Book, Milano, 2016). Vale a dire - per usare la nota definizione aristotelica dell’uomo come animale razionale, dotato cioè di logos – che non è possibile che si sia degli animali razionali se non si è già “incastonati” in una serie di pratiche sociali, in particolare quelle del linguaggio. Non c’è quindi nemmeno uno “spazio” puramente individuale, perché è solo in quanto si è “soggetti” a certe pratiche che vi può essere uno “spazio individuale”. 

La stessa nozione di “natura” umana (e di conseguenza anche l’autocoscienza riflessiva, senza la quale la filosofia non sarebbe possibile) è pertanto il "frutto" di una complessa interazione sociale e di pratiche che definiscono il nostro essere-nel-mondo (e quindi pure il nostro rapporto con le “cose” e la “natura”) sempre insieme con gli altri. In altri termini, è la cultura che caratterizza l’agire e l’intelligenza dell’uomo (pensiero riflessivo, scientifico, ecc.) e non c’è nessun “soggetto” che possa contemplare/rappresentare/descrivere il mondo senza al tempo stesso far parte del mondo, benché l’animale dotato di logos non sia nel mondo come un “pesce nell’acqua”. Ne consegue che il concetto di alienazione dipende da una concezione errata o “ingenua” del nostro essere-nel-mondo, poiché presuppone l’esistenza di un “soggetto puro”, ossia già formato prima di ogni pratica sociale o culturale (e quindi di qualsiasi oggettivazione), che potrebbe esprimere liberamente la propria “natura” una volta rimossi quegli ostacoli economici e politici che lo impediscono. 

Tuttavia, questa critica del concetto di alienazione, benché non sia del tutto da respingere, ignora la distinzione fondamentale tra “essere soggetti a delle pratiche” ed “essere oggetto di pratiche”. Ad esempio, anche la relazione tra il padrone e lo schiavo dipendeva da determinate pratiche, nel senso che entrambi erano “soggetti a delle pratiche”, ma mentre il padrone era anche e soprattutto il “soggetto di pratiche”, ed era perciò pure libero di agire politicamente in quanto libero dal bisogno, lo schiavo era pressoché soltanto “oggetto di pratiche”, in specie proprio quelle del padrone. Era sì un animale dotato di logos, non diversamente dal padrone, ma “praticamente” non lo era perché non era riconosciuto come tale. Era cioè solo un animale - come un mulo, un bue, un cavallo, ecc. – ossia era, di fatto, un mero ente intramondano, “utilizzabile” dal padrone (si noti che - sotto il profilo della realtà sociale, s’intende – si tratta di una vera e propria contraddizione, anziché di una semplice opposizione reale; lo schiavo, difatti, è un essere umano, ossia un animale razionale, ma in quanto schiavo è solo un animale, ossia non è un essere umano, e quindi è e non è un essere umano)*. Al tempo stesso però lo schiavo non era solo uno strumento, dacché nessuno strumento (nemmeno una bestia) può essere uno schiavo. Solo un essere umano può essere uno schiavo (un uomo non uomo).

Il rapporto tra dominanti e dominati invece si presenta in forma differente allorché, secondo Marx, con il modo di produzione capitalistico caratterizzato dall’impiego di macchine si attua il passaggio dalla sottomissione (o sussunzione) formale del lavoro al capitale ad una sottomissione reale del lavoro al capitale. In questo caso sia i dominati che i dominanti (e pure i subdominanti: ceti medi, funzionari del capitale, ecc.) appaiono liberi, ossia non meri “oggetti di pratiche”, mentre in realtà lo sono solo formalmente, poiché sono tutti soprattutto “oggetto di pratiche” ovvero sottomessi al dominio della merce (la loro soggettività, cioè la loro capacità di “agire praticamente”, è dunque ridotta al minimo). Perciò Marx può scrivere: “…l'operaio si eleva al di sopra del capitalista fin dal principio, perché quest'ultimo è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, mentre l'operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo  sente come un processo di riduzione in schiavitù" (Karl Marx, Il Capitale, libro I, capitolo VI inedito, La Nuova Italia, Firenze, 1969, pp. 20 s.).

Non a caso si sostiene (giustamente) che i capitalisti e perfino coloro che si possono considerare gli strateghi del capitale (si pensi, per fare un esempio chiaro a tutti, al “famigerato” Soros) sono comunque solo degli interpreti (magari geniali, ma sempre solo tali) del sistema (di potere) capitalistico, dato che necessariamente devono conoscere e applicare correttamente le "regole del gioco” ovvero quelle del sistema (del potere) capitalistico, altrimenti anche loro “vengono spazzati via” dal sistema. Insomma, è il “gioco” che conta assai più dei “giocatori”.

Di fondamentale importanza è quindi ancora il concetto di alienazione (più problematico almeno sotto certi aspetti, il concetto di dialettica per le sue implicazioni di carattere “metafisico” - ma al riguardo si veda Hans Georg Gadamer, La dialettica di Hegel, Marietti, Genova, 1996) che non necessariamente rimanda ad un umanesimo idealistico-filosofico o ad una nozione “ingenua” del “soggetto”, bensì alla differenza tra valore d’uso e valore di scambio e di conseguenza ad una possibile liberazione (anche se forse solo parziale, come riteneva Claudio Napoleoni, anziché totale) dal “dominio della merce”, purché questa differenza venga compresa non solamente sotto il profilo economico, ma soprattutto sotto il profilo antropologico e politico. In definitiva, benché si debba ammettere che si è sempre “soggetti a determinate pratiche”, quello che conta sono le pratiche a cui si è “soggetti” e come e perché si è “soggetti a certe pratiche”. In sostanza, ritenere anacronistico il concetto di alienazione significa rinunciare ad una critica “determinata” e coerente, e non affatto “incapacitante”, della società di mercato neoliberale.

* Si badi che se il contenuto della contraddizione non può esistere (è “niente” ossia un non essente) il contraddirsi invece è “reale” tanto quanto il non contraddirsi. La contraddizione di cui qui si parla (lo schiavo è e non è un uomo) è un contraddirsi. Vale a dire che la società schiavistica si basa su/consiste in questo contraddirsi - che è un “agire sociale” contraddittorio, benché non sia immediatamente evidente che sia tale (non lo era, infatti, in una società schiavistica) - in quanto tratta appunto un uomo come uno schiavo. In questo senso, non si viola neppure il principio di non contraddizione così come viene formulato da Aristotele (sulla distinzione tra contraddirsi e contenuto del contraddirsi - la contraddizione - essenziali sono E. Severino, Gli abitatori del tempo, Rizzoli, Milano, 2009, e Id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005).







lunedì 6 luglio 2020

BREVE NOTA SULLA QUESTIONE SOCIALISTA (E LA GUERRA IBRIDA)

Torno brevemente sulla questione del socialismo, per quei quattro gatti che sono interessati a tale questione.
Posto che il nome "socialismo" conta poco, perché conta assai più il significato del significante, non vi è chi non veda, sempre che voglia tenere gli occhi aperti, che il neoliberalismo si configura vieppiù come una forma di nichilismo estremo e al tempo stesso come un effetto della cosiddetta "mercificazione universale".
In questo senso, nichilismo è la perdita di tutti i valori tranne uno: il valore di scambio o, meglio, di quel valore d'uso che consiste nel valore di scambio, ossia il denaro. Ma il denaro è anche e soprattutto un mezzo di comunicazione e uno strumento di potere.
Ed è in quanto tale che il denaro diventa "predominante". In altri termini, senza egemonia corazzata di coercizione e senza egemonia culturale non c'è alcun predominio del denaro (è significativo infatti che in epoca pre-moderna ovvero nelle società pre-capitalistiche non fosse il mercante ma il "principe" o il sacerdote a comandare, cioè chi deteneva il controllo dei principali mezzi di coercizione e di persuasione).
Non è quindi tanto la ricerca del massimo profitto che caratterizza la società occidentale neocapitalista, quanto la lotta per il potere e l'incremento illimitato della volontà di potenza dei gruppi dominanti. Lo stesso profitto allora, almeno per i gruppi dominanti, è ricercato in vista della supremazia (globale), non viceversa.
Quello che conta cioè non è il mercato in quanto tale bensì (per usare le parole di F. Braudel) il livello "sopra" il mercato, che di fatto "regola" la società di mercato (non sono pertanto i tecnici a detenere le leve del comando, ma gli "strateghi del grande capitale").
Ne consegue che lo stesso sistema sociale ed economico viene ad essere sempre meno indipendente dal "livello" geopolitico e geoeconomico, ovverosia i centri di potenza che strutturano l'ordine mondiale strutturano sempre più anche l'ordine politico, sociale ed economico dei singoli Paesi.
(Sotto questo aspetto, ha pure senso parlare di scambio ineguale e, con I. Wallerstein, di un "sistema-mondo" diviso tra centro, semiperiferia e periferia, che non necessariamente però corrispondono a determinate aree geografiche, dato che in una stessa zona geografica - ad esempio, l'Europa - si possono trovare queste differenze, e anzi più passa il tempo più queste differenze diventano rilevanti in una stessa zona geografica).
La società di mercato dunque si caratterizza per il fatto che i potentati economici e finanziari, cioè la classe capitalistica, detiene il controllo dei principali mezzi di persuasione e di coercizione. Vale a dire che la classe capitalistica solo in quanto diventa Stato può diventare la classe predominante (perciò scrive Braudel, in La dinamica del capitalismo, "Il capitalismo può trionfare solo quando si identifica con lo Stato, quando è lo Stato").
In questo contesto, il socialismo non può allora che significare il primato della funzione sociale e politica dell'economia ossia della ragione pubblica. Un primato che non si può conseguire se non mediante una lotta politica che si svolga al tempo stesso sul piano culturale e su quello (geo)politico, dato che appunto si deve combattere contro l'egemonia culturale e corazzata di coercizione dei gruppi dominanti.
Non a caso ovunque dei movimenti socialisti siano andati al potere (in Russia, in Cina, in Vietnam, a Cuba, ecc.) hanno condiviso una sorta di "etica militare" (che, com'è ovvio, non ha nulla a che fare con il militarismo, proprio come il patriottismo è del tutto diverso dal nazionalismo).
Nulla quindi di più distante dal socialismo di una concezione pacifista o delle varie forme di "buonismo neoborghese" (chiaramente il problema di come si siano comportati i movimenti socialisti una volta andati al potere è un'altra questione, benché non sia affatto casuale che sia stata proprio una concezione meramente economicistica a portare il cosiddetto "socialismo reale" ad un fallimento rovinoso).
D'altronde, l'obiezione è scontata: non solo in Occidente non è possibile conquistare il potere con le armi, ma non vi è nessuna classe sociale potenzialmente rivoluzionaria, l'operaio massa è scomparso, i contadini sono un'infima minoranza e perfino la forma partito è radicalmente mutata al punto che del "principe" di cui parlava Gramsci non vi è più traccia.
Tutto vero.
Tuttavia, pure questa obiezione "pecca" di economicismo e presuppone che siano ancora valide categorie politico-strategiche che sono ormai del tutto obsolete. Si ignora cioè che la lotta contro la classe capitalistica non si combatte solo sul terreno dello scontro tra salari e profitti, e soprattutto che la guerra ormai non si combatte solo con le armi da fuoco, tanto è vero che è una forma di guerra ibrida che di fatto articola la lotta (geo)politica e sociale.
Perfino il nichilismo neoliberale, del resto, è un'arma a doppio taglio, che sta minando alle fondamenta non solo il sistema neoliberale ma la civiltà europeo-occidentale. Si tratta però di un un processo di autodistruzione che dovrebbe non essere contrastato evitando che cada ciò che sembra ormai destinato a cadere, come invece vorrebbero i conservatori liberali, ma "interpretato" secondo una prospettiva di "nichilismo attivo", tale cioè da considerare lo stesso "passato" come una fonte inesauribile di senso, al fine di creare una nuova "tavola di valori".
Il concetto stesso di guerra ibrida, peraltro, esige non solo che si impieghino nuove categorie politico-strategiche ma nuove forme di prassi, che possono essere condotte da una sorta di "rete" di piccoli gruppi, disciplinati e ben organizzati, capaci di sfruttare gli squilibri e le contraddizioni che la società di mercato neoliberale non può non generare. Certo il "sistema" riesce comunque a "gestire" la sua crisi, ma solo perché al tempo stesso genera la convinzione che sia una gabbia di acciaio da cui è impossibile uscire (e basterebbe pensare al "modello cinese" per rendersi conto che si tratta di una immagine fasulla della realtà), mentre sono proprio questi squilibri e queste contraddizioni - che concernono tutti gli ambiti vitali: economico, sociale, culturale, ecologico, politico e geopolitico - a configurarsi come il terreno su cui può nascere una alternativa (socialista e comunitaria) alla società di mercato neoliberale.

mercoledì 10 giugno 2020



https://www.anteoedizioni.eu/anteoedizioni/la-strada-della-vita-di-fabio-falchi/

Questo libro ha un duplice scopo: da un lato si propone di raccontare in modo obiettivo la storia del conflitto russo-tedesco nel 1941-45, inquadrandolo nella cornice storica dell'Unione Sovietica (prima e dopo la Seconda guerra mondiale) e mostrando che fu comunque l'Unione Sovietica a fare la parte del leone nella lotta contro la Germania nazista; dall'altro, si propone di comprendere la questione del socialismo alla luce sia del significato politico della Grande Guerra Patriottica, in cui decisiva fu l'alleanza tra lo Stato e il Popolo sovietico, sia del fatto che il "socialismo reale", per così dire, vinse la guerra ma perse la pace.
Errata corrige: a pag. 40 si legga 'nuova politica economica', anziché 'nuova economia politica'.

INDICE
PREMESSA                                                                                        

Capitolo I
LA RUSSIA ZARISTA PRIMA DELLA GRANDE GUERRA           

Capitolo II
LA RUSSIA E LA GRANDE GUERRA                                             

Capitolo III
LA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA E LA GUERRA CIVILE          

Capitolo IV
TERRORE E PROGRESSO                                                             

Capitolo V
I NAZISTI ALL’ASSALTO DELL’EUROPA                                    

Capitolo VI
OPERAZIONE BARBAROSSA                                                        

Capitolo VII
BRACCIO DI FERRO                                                                    

Capitolo VIII
STALINGRADO                                                                             

Capitolo IX
LA GUERRA DIETRO IL FRONTE                                              

Capitolo X
FUORI DAL TUNNEL                                                                  

Capitolo XI
L’AFFONDO                                                                                  


Capitolo XII
FINALE DI PARTITA                                                                    

Capitolo XIII
DALLE STELLE ALLE STALLE                                                   

Capitolo XIV
LA GRANDE GUERRA PATRIOTTICA
E LA QUESTIONE SOCIALISTA                                                  

CARTINE                                                                                       

BIBLIOGRAFIA