sabato 13 marzo 2021

IL GOLEM E LA “FALLACIA” ECONOMICISTICA E TECNOCRATICA

Sembra che oggi ciò che veramente conta siano la Tecnica e l’Economico. Informatica, robotica, biotecnologia da un lato e dall’altro finanza, produzione di merci e geoeconomia, in pratica determinerebbero la politica, le relazioni sociali, il lavoro, il sistema educativo e gli stessi “affari militari”. In un certo senso, la Tecnica e l’Economico sarebbero la struttura che determina tutto il resto, ossia la sovrastruttura politica, sociale (famiglia inclusa) e culturale. Eppure, si tratta di una concezione che, sebbene possa apparire come una “sana” forma di “realismo” di chi non ha la testa tra le nuvole, equivale di fatto ad una immagine fasulla del mondo.

Orbene, non c’è dubbio che, ad esempio, nel campo militare la tecnologia svolga un ruolo essenziale. Sistemi d’arma sempre più sofisticati, robotica, cyberwar, satelliti, droni ecc. hanno cambiato il volto della guerra. Ma di quale guerra? In effetti, è innegabile che in una guerra tra grandi potenze (per essere chiari, in una guerra come potrebbe essere quella tra gli Stati Uniti e la Russia o la Cina) le “nuove macchine” sarebbero decisive. Tuttavia, è anche vero che in una guerra tra grandi potenze sarebbe ben difficile evitare che venissero usate delle armi termonucleari. E allora a ben poco servirebbero le “nuove macchine”.

Certo, si deve anche riconoscere che quel che conta per una grande potenza è “non perdere il passo con la tecnologia”, per non correre il rischio di subire un primo colpo nucleare senza avere la possibilità di replicare. E si può pure concedere che questa “competizione” sia una guerra che si combatte tutti i giorni senza “esclusione di colpi”. Del resto, anche le altre potenze, ossia quelle regionali, non possono permettersi di “perdere il passo con la tecnologia”, perché solo se si dispone di un sistema di difesa tecnologicamente avanzato è possibile non andare incontro a spiacevoli sorprese. Sotto questo aspetto la cosiddetta “shadow war” tra Israele e l’Iran è più che significativa. Ma c’è anche l’altra faccia medaglia da considerare, ossia le altre specie di guerra, in particolare le rivoluzioni colorate e i conflitti per il controllo del territorio di un Paese, che pongono problemi del tutto diversi da quelli dei conflitti aerei o (aero)navali, in cui è scontato che la tecnologia giochi il ruolo fondamentale.

Per quanto concerne le rivoluzioni colorate, che possono anche sfociare in una vera guerra, è evidente che contano soprattutto l’intelligence e la capacità di comprendere i problemi delle diverse componenti di una società, e quindi decisiva è una “destabilizzazione” di un Paese, che richiede però una lunga preparazione di carattere politico-culturale e sociale nonché l’impiego di mezzi e risorse di vario genere (media compresi naturalmente). In ogni caso, i fattori economici o geoeconomici raramente sono le cause di una rivoluzione colorata. Assai più rilevanti sono la lotta per l’egemonia politico-culturale (il cosiddetto “soft power”) e la conquista di nuove aeree di influenza, soprattutto a scapito dei propri nemici. Ovviamente, tanto maggiore è l’area di influenza di una potenza (grande o no che sia) tanto maggiori sono anche i vantaggi economici che ne possono derivare.

Analogo discorso si può fare per i conflitti che hanno lo scopo di controllare il territorio di un Paese o di sottrarre ai propri nemici il controllo del territorio di un Paese. Gli esempi certo non mancano, basti pensare ai conflitti in corso in Libia e in Siria, ma anche all’intervento militare americano in Iraq e in Afghanistan. In tutti questi conflitti, la tecnologia pur essendo importante (si pensi ai droni che possono pure compiere missioni di combattimento) svolge un ruolo non marginale ma secondario rispetto ai “tradizionali” combattimenti tra forze di terra. 

In particolare, il fallimento politico-militare americano in Iraq (ma pure in Afghanistan, dove la coalizione a guida statunitense controlla - ma nemmeno del tutto - solo parti del territorio) conferma quel che già, almeno sotto certi aspetti, aveva dimostrato la guerra del Vietnam, vale a dire che ha dimostrato quali sono i limiti della “potenza tecnologica” in ambito militare. La tecnologia cioè è sì essenziale per distruggere l’apparato industriale e le principali infrastrutture di un Paese nemico o per distruggere un esercito nemico in “campo aperto”, ma si è rivelata di scarsa utilità o addirittura “controproducente” per acquisire un effettivo controllo del territorio nemico. 

Il territorio, infatti, lungi dall’essere solo uno spazio geografico è uno spazio sociale caratterizzato dalla storia (inclusa quella che Braudel definiva di “lunga durata”) e dalla cultura di chi lo abita (al riguardo è anche significativa la notevole “resistenza” (sotto il profilo militare, si intende) che Hezbollah - nella guerra Libano del 2006 e anche durante l’occupazione israeliana del Libano negli anni precedenti -, ha saputo opporre all’esercito israeliano, che pure è non solo un esercito potente ma assai bene addestrato e motivato). I fattori sociali e culturali, in questi casi, possono rivelarsi determinanti anche sotto il profilo militare, tanto più che le società occidentali difficilmente possono permettersi di subire gravi perdite e sono sempre meno in grado di disporre di fucilieri motivati e capaci di affrontare anche una semplice missione di combattimento senza il supporto di una enorme potenza di fuoco, che in certi contesti (come i conflitti urbani o in cui siano presenti anche “amici”) non può essere impiegata senza che lo scopo politico e lo scopo militare divergano (come già accadde nella guerra del Vietnam) con conseguenze disastrose. 

D’altra parte, è noto che l’interazione tra fattori politico-culturali e fattori economici e tecnologici può produrre una serie di effetti imprevedibili, tali da cambiare del tutto anche le stesse ragioni politiche che possono avere causato un conflitto o un intervento militare. Quindi, è lecito ritenere che se perfino in ambito militare la tecnologia non può non “imbattersi nei suoi limiti”, a maggior ragione questo valga per quanto riguarda la relazione tra il progresso tecnologico e il sistema sociale nel suo complesso. 

In definitiva, l’idea che ogni problema si possa risolvere mediante un calcolo economico basato sulle cosiddette “leggi del mercato ” e sull’innovazione tecnologica, non è altro che una “fallacia” economicistica e tecnocratica, che, portando ad ignorare che l’essere umano dipende per la propria sopravvivenza da una complessa interazione istituzionalizzata con l’ambiente circostante e con gli altri uomini, trasforma lo stesso apparato tecnico-produttivo in una “megamacchina” che, anziché essere posta al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni sociali, rischia di diventare una sorta di Golem di cui nessuno potrà avere un effettivo controllo.



domenica 7 marzo 2021

IL POLITICO, LA TECNICA E LA NUOVA DISTRUZIONE CREATRICE

 Allorché si parla di Great Reset di solito ci si riferisce sia alla quarta rivoluzione industriale che alla gestione capitalistica di questa rivoluzione, senza distinguere l’una dall’altra. 

Tuttavia, se la prima è pressoché inevitabile, la seconda è solo la logica conseguenza della egemonia  politica e culturale della classe capitalistica, che da alcuni decenni conduce con successo una lotta di classe dall’alto, con il consenso - perlopiù passivo - dei ceti sociali medi e subalterni.

In effetti, la classe capitalistica era già riuscita a gestire politicamente la terza rivoluzione industriale in modo del tutto nuovo rispetto al passato. 

Una rivoluzione industriale, difatti, equivale ad una distruzione creatrice. Ed è appunto la capacità di gestire con successo una distruzione creatrice - ovverosia la capacità di “mettere in forma” non solo economica e sociale ma politico-culturale le innovazioni della tecnoscienza - una caratteristica essenziale del capitalismo. 

Ragion per cui, in un certo senso il capitalismo è sempre anche una distruzione creatrice, benché vi siano delle fasi in cui non solo aspetti marginali o “periferici” dell’apparato tecnico-produttivo sono soggetti ad una radicale trasformazione, che comunque può riguardare anche l’organizzazione stessa di questo apparato, come ad esempio si verificò con la cosiddetta “rivoluzione manageriale” in America nella prima metà del secolo scorso (si potrebbe così affermare, facendo un paragone con l’epistemologia di Thomas Kuhn, che la storia del capitalismo è contraddistinta da periodi “normali” e da fasi rivoluzionarie).

Per capire la novità che si ebbe con la terza rivoluzione industriale, si deve allora considerare che, in generale, un sistema capitalistico è contraddistinto dalla concorrenza e da un saggio di profitto che tende ad essere lo stesso in tutti settori.* Questa fase corrisponde a ciò che Schumpeter definisce stato stazionario (S1) in cui il “reddito” è assorbito dal salario e dalle rendite, anche se l’innovazione tecnologica adottata dalle imprese porta ad una nuova configurazione favorita in specie dalla concorrenza tra imprese più avanzate e quelle più arretrate.

In questa nuova configurazione (S2) il salario è grosso modo un salario di sussistenza mentre il prodotto netto, frutto delle innovazioni, è assorbito dal profitto. Al tempo stesso questi mutamenti causano “squilibri” economici e sociali che generano non solo uno spostamento di capitale verso i settori con un alto saggio di profitto ma anche aspri conflitti di classe il cui scopo consiste nell’aumentare la quota del salario rispetto a quella del profitto.

In pratica, le lotte sociali e le trasformazioni dell’apparato tecnico-produttivo generate dalla concorrenza portano nuovamente al livellamento del saggio di profitto, finché si raggiunge una configurazione non diversa da quella dello stato stazionario (S3=S1). 

Con la fine del ciclo S1-S2-S3 si creano però anche le condizioni per una nuova distruzione creatrice, dato che l’apparato tecnico-produttivo capitalistico non può che tendere ad incrementare la propria potenza, senza riconoscere alcun limite, se non quello determinato di volta in volta dallo sviluppo della tecnoscienza. 

In pratica, questo significa che l’apparato capitalistico si deve sviluppare secondo regole immanenti ovvero senza bisogno di riferirsi ad una sfera sociale, il che equivale ad un sistema economico che si configura come una produzione di merci a mezzo di merci (che, com’è noto, è il titolo di un’opera di Sraffa) e che quindi produce esso stesso i bisogni sociali. In altri termini, in un sistema capitalistico è il valore di scambio che condiziona o determina il valore d’uso, non viceversa.

Nondimeno, solo con la terza rivoluzione industriale, che ha coinciso con la progressiva riduzione del Welfare, si è dimostrato che il passaggio dalla fase S2 alla fase S3 può non essere contraddistinto dalle conquiste del movimento operaio, ma solo dalla concorrenza tra imprese nuove e vecchie e da una lotta di classe condotta con successo dalla stessa classe capitalistica, al punto da subordinare l’intera società alle “ragioni” del mercato capitalistico.

In questo senso, la quarta rivoluzione industriale non differisce dalla terza, ma è solo un ulteriore incremento del dominio del grande capitale sull’intera società. La differenza allora consiste soprattutto nel fatto che con la quarta rivoluzione industriale (che è appena cominciata) è evidente che in realtà il sistema capitalistico non si sviluppa soltanto sulla base di regole immanenti ma grazie al ruolo decisivo del Politico (e in particolare dello Stato) che definisce la forma politico-culturale che caratterizza la nuova distruzione creatrice (“orientando” di conseguenza anche la stessa ricerca scientifica), e che al tempo stesso garantisce l’incremento di potere del grande capitale.

Da un lato, quindi, il mercato capitalistico si mostra del tutto indipendente dalla sfera dei bisogni sociali, dall’altro però questa indipendenza è possibile solo grazie all’agire politico-strategico della classe capitalistica che si attua in particolare tramite il controllo degli apparati dello Stato e specialmente di quello dello Stato capitalistico egemone. 

Si deve comunque sempre tenere presente che il dominio della classe capitalistica si configura (per usare il lessico gramsciano) non solo come una egemonia corazzata di coercizione ma anche come una egemonia culturale (che si attua mediante il controllo del sistema educativo - pubblico e privato - e dei principali mezzi di comunicazione), al fine di formare un “tipo umano” perfettamente integrato nel sistema capitalistico.

In quest’ottica, è chiaro che il capitalismo “si riproduca” in primo luogo proprio nella sfera politico-culturale piuttosto che in quella economica, in quanto, al contrario di quel che comunemente si ritiene, l’Economico non è altro che un “Politico mistificato”, non ovviamente nel senso che la sovrastruttura politico-culturale determini la struttura economica, bensì nel senso che gli stessi vertici della struttura economica agiscono in sinergia con i vertici del potere pubblico per “mettere in forma” politico-culturale il rapporto tra la Tecnica e l’Economico. 

Si forma così l’idea che sia la Tecnica stessa a “guidare” il sistema capitalistico. Certo, la Tecnica non è neutrale ma è “cieca”. E non solo è “cieca” rispetto alla sua funzione economica e politica ma rispetto alla sua stessa “essenza”. Nulla dice né può dire di sé la Tecnica, perché l’essenza della Tecnica, come ha insegnato Heidegger, non è la Tecnica, bensì una “volontà di potenza illimitata”, che come tale non ha nulla a che fare con la Tecnica bensì con il Politico. Difatti, è solo il Politico che può creare le condizioni perché il “soggetto sociale” o, se si preferisce, il lavoratore sia intellettuale che manuale, si riduca ad essere uno strumento dell’apparato tecnico-produttivo, ossia uno strumento del suo strumento. 

Ed è questo capovolgimento del soggetto in mero oggetto di pratiche politiche ed economiche decise dagli strateghi del grande capitale (benché essi stessi siano solo interpreti delle “ferree regole” del sistema capitalistico) che, presentandosi come “naturale”, come un dato immodificabile, impedisce di comprendere che la produzione di merci a mezzo di merci non può che essere una produzione sociale.** In questo senso è l’intera società che produce la ricchezza e che rende possibile la valorizzazione del capitale. D’altronde, la merce, come ha dimostrato Marx, non può che essere espressione dell’unità contraddittoria di valore d’uso e valore di scambio. 

Vale a dire che la “potenza” del lavoro (e in particolare proprio quello tecnico-scientifico!), in quanto è e non può non essere “lavoro sociale”, è “in potenza” la negazione stessa del capitalismo. Ma, appunto, è solo “in potenza” la negazione del sistema capitalistico. Non vi è cioè sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo che in quanto tale (ossia secondo una concezione deterministica) possa condurre al superamento della società capitalistica. La miseria dell’economicismo dunque è per così dire già “iscritta” nello stesso rapporto tra la Tecnica e l’Economico che non può che essere di natura politico-culturale.

In sostanza, è grazie alla Tecnica (e ad un rapporto più “agile” ovvero più “libero” e meno “vincolante” con essa) che sarebbe possibile allargare la differenza tra l’apparato tecnico-produttivo e la sfera sociale (come auspicava Claudio Napoleoni), liberando l’uomo dalla “necessità” di lavorare per vivere,*** ma è anche grazie ad un determinato rapporto politico-culturale tra la Tecnica e l’Economico (e quindi al “limes”, istituito dal Politico, che nessuna “prassi” politico-culturale deve varcare) che questa liberazione non è possibile.


*Per le considerazioni che seguono si veda Claudio Napoleoni, Sraffa e la storia dell’economia politica, in Id., Il discorso dell’economia politica, Boringhieri, Torino, 2019.

** Al riguardo si vedano le considerazioni di Massimo Cacciari in La lezione di Claudio Napoleoni (https://www.pandorarivista.it/articoli/la-lezione-di-claudio-napoleoni-un-contributo-di-massimo-cacciari/).

*** Il reddito di base, da riconoscere ad ogni individuo senza contropartite lavorative (si veda Philippe Van Parijs, Yannick Vanderborght, Il reddito di base, il Mulino, Bologna, 2017), sembra andare nella direzione di una “liberazione dal lavoro”, ma se non è parte di una “prassi” politico-culturale “orientata” secondo un diverso modo di abitare la terra (e la stessa geopolitica significa in primo luogo abitare politicamente la terra), rischia solo di trasformare le masse o le “moltitudini” in una “plebe stracciona”. Allargare la differenza tra l’apparato tecnico-produttivo e la sfera sociale, infatti, non è possibile senza mettere l’apparato tecnico-produttivo al servizio della società e di una “autentica” libera individualità. Comunque sia, è il modo in cui l’uomo si “rapporta” al mondo (natura inclusa), e quindi anche agli altri e a sé stesso, che può ancora offrire la “chiave strategica” per “superare” l'attuale società neocapitalistica. 



martedì 2 marzo 2021

QUALE DEMOCRAZIA E QUALE MERITOCRAZIA?

Che la democrazia rappresentativa ormai sia solo una finzione, ossia una sceneggiata per il "popolo", non dovrebbe essere difficile ammetterlo se si è intellettualmente onesti. Ragion per cui assume un significato di rilievo proprio il "caso Italia". 

I partiti, del resto, da qualche decennio, sono soltanto dei comitati d’affari, composti in buona parte da demagoghi, portaborse, faccendieri, arrivisti senza scrupoli, "mafiosi", lestofanti, intrallazzatori e via dicendo. Nulla di strano allora che pure il "popolo" ritenga necessario che al governo vi siano dei "competenti" scelti in base a criteri meritocratici e quindi non necessariamente eletti dal popolo (anche se è possibile sempre affidare ai "politici" il ruolo di comparse o le funzioni del "front office").  

Qui però c'è l'"inghippo" (per i neoliberisti, si intende), perché il fenomeno dipende dalla scala che si sceglie, non viceversa, ovverosia la valutazione dei meriti varia a seconda delle misure e delle proporzioni che si scelgono. E in alcuni Paesi vi sono misure e proporzioni assai diverse da quelle che valgono in Italia, tranne per quanto concerne alcuni settori particolari in cui conta solo saper eseguire un programma deciso da altri (ad esempio, per decidere se e dove costruire un ponte non occorre essere capaci di costruirlo e chi è capace di costruirlo non necessariamente è in grado di decidere se sia necessario costruirlo e dove si debba costruirlo). 

Anche in questi Paesi quindi conta il merito, ma non necessariamente il merito che conta in Italia o in altri Paesi occidentali. 

In Cina, in particolare, il sistema politico praticamente si articola su tre livelli: una base democratica, con ampia partecipazione popolare; un livello intermedio, cui si accede solo se si è dimostrato di avere certi requisiti; un livello alto, accuratamente selezionato, cui compete la direzione politico-strategica del Paese. In sostanza, si tratta di una sorta di "cursus honorum" che premia soprattutto chi dimostra di avere intelligenza politico-strategica, senso dello Stato e capacità di tutelare il bene comune. 

In Cina, scrive Daniel Bell, «il principale ideale politico – condiviso da funzionari di governo, riformatori, intellettuali e persone in genere – è quello che io definisco meritocrazia democratica verticale, intendendo una democrazia ai livelli inferiori di governo e un sistema politico che diventa progressivamente più meritocratico ai livelli più alti» (Daniel Bell, "Il modello Cina"). I membri della classe dirigente, sia a livello locale o reginale che a livello nazionale, però sono scelti tra i membri del partito, non della classe capitalistica. In questo senso, sono le istituzioni politiche che comandano e che stabiliscono la strategia di sviluppo che "tecnici" e capitalisti devono rispettare. 

Si tratta quindi di un sistema politico che nelle sue linee generali (dato che presenta caratteristiche che dipendono dalla cultura e dalla civiltà cinese, come evidenzia lo stesso Daniel Bell) si configura come un “sistema socialista di mercato” che sa difendere l'interesse collettivo, sia sotto il profilo politico-culturale che sotto quello economico e sociale. 

Al di là dunque del fatto che il "modello cinese" non può essere esportato proprio perché affonda le sue radici nella storia plurisecolare della Cina (certo assai diversa da quella dell'Europa, di modo che un socialismo di mercato europeo sarebbe differente da quello cinese), pare lecito affermare che la "differenza politica" che oggi conta davvero è quella tra il partito (unico) dei "competenti" al servizio del grande capitale e il partito dei "migliori" al servizio dell'interesse collettivo (e sono i “migliori” nel senso che sanno meglio difendere l’interesse collettivo). 

Nel primo caso c'è bisogno del “front office”, della "claque" e del circo mediatico - ossia della mera "rappresentazione" di una democrazia che di fatto si configura sempre più come una dittatura oligarchica -, nel secondo caso c'è invece bisogno soprattutto di una forte democrazia di base. In altri termini nel primo caso viene prima il mercato e poi la società, mentre nel secondo caso viene prima la società e poi il mercato. Vale a dire che nel secondo caso cambia la scala e dunque cambia anche quel che si intende per democrazia e meritocrazia. 

giovedì 21 gennaio 2021

CENTO ANNI FA

 Che la storia del PCI abbia segnato la storia del nostro Paese (e non solo) non lo si può certo negare, anche se è una storia finita con la fine del “socialismo reale”. Una storia fallimentare? Certamente no. Non solo quella del PCI ma pure quella del “socialismo reale” (basterebbe pensare alla Seconda guerra mondiale per rispondere di no). Tuttavia, è innegabile che un ciclo storico alla fine del secolo scorso si sia definitivamente chiuso. Come? Con una sconfitta. Non una battaglia perduta ma una guerra perduta (e qualcuno potrebbe pure parlare di vittorie perdute). Una guerra comunque che ha messo fine anche alla sinistra, ormai solo una “variante” del neoliberalismo, ossia ridotta ad essere una espressione del capitalismo internazionale e (sedicente) “cosmopolita”, così come la destra populista è espressione del capitalismo nazionale penalizzato dalla cosiddetta “globalizzazione”. 

“Oltre” il comunismo, pertanto, ci sarebbe solo il “nulla”, tranne il neoliberalismo, ovvero l’ideologia “mortifera” del capitalismo predatore? Eppure anche questo “nulla” non proviene dal “nulla”, ma appunto da una storia. E che storia! È un “nulla” che non si lascia facilmente liquidare come “non senso”. È sì una “aporia”, ma intesa non come “via senza uscita”, bensì come un luogo in cui non vi è una “uscita”, ossia uno “spazio aperto” come il deserto. Del resto, pure il deserto si può attraversare, benché occorra sapersi “orientare”.

Ma per sapere in quale direzione si deve andare, si deve pure sapere da dove si proviene. Ci si dovrebbe quindi chiedere: perché il comunismo è stato sconfitto? Domanda cui in parte molti hanno già risposto, anche se non sempre in modo convincente. Comunque sia, si è risposto solo in parte: la questione dell’ideologia, quella dell’economia, il problema del pluralismo, il mutamento sociale generato dalla terza rivoluzione industriale, la controffensiva neoliberale, la globalizzazione…Nondimeno, vi è anche altro, ossia l’antropologia, e in particolare l’antropologia politica. Ecco, è sotto questo aspetto, a giudizio di chi scrive, che il comunismo ha patito la sua sconfitta peggiore.

Questione difficile quella della antropologia politica, ma essenziale, perché non la si può risolvere con l’economicismo, e non perché l’economia non sia importante, anzi proprio perché lo è. Non è forse Marx ad avere dimostrato l’unità contraddittoria della merce, in quanto unità di valore d’uso e valore di scambio? E non è forse questa unità contraddittoria possibile solo in virtù del fatto che il lavoro o, meglio, il lavoratore (perché non c’è lavoro – predicato - senza lavoratore – soggetto) è e non è una merce? Come sarebbe lecito allora affermare che l’oggettivazione può essere un autentico processo di soggettivazione, ossia una oggettivazione non più alienante, senza prima interrogarsi sulla questione del soggetto, ovvero su quel particolare soggetto che è l’essere umano in quanto è insieme con altri esseri umani, e quindi di necessità è un animale politico? 

Certo, conta pure il sostantivo (animale) non solo l’aggettivo (politico). Eccome se conta! Ma proprio per questo occorre precisare che non si tratta solo di politica o di antropologia, bensì di antropologia politica. Il Politico, dunque, come questione fondamentale. Ma non in quanto mero esercizio del potere, bensì come ciò che “dà forma” all’abitare, all’essere nel mondo insieme con gli altri, e quindi alla stessa economia nella misura in cui è necessaria per soddisfare i bisogni sociali, che, tuttavia, non sono solo quelli “prodotti/indotti” dall’apparato tecnico-produttivo. In termini più chiari, anche se più “semplici”, vale a dire che c’è sempre il problema di un essere umano “a più dimensioni”, e quindi pure del conflitto - che non dipende solo dalla struttura economica della società proprio perché affonda le sue radici nella stessa struttura antropologica - che il Politico deve sapere “mettere in forma”. 

Ed è sotto questo aspetto, assai più che sotto altri aspetti, che il comunismo si è mostrato “perdente”, illudendosi di potere generare o addirittura di avere già generato l’uomo nuovo. Non perché la natura umana sia una essenza astorica e immutabile, ma proprio perché è “materia” suscettibile di assumere molteplici “forme”, anche e soprattutto nello stesso tempo. E non è mai una “materia pura” ma una “materia” che ha una storia. Insomma è una “materia viva”, capace di “interagire” con qualunque “forma” possa assumere. È cioè un “individuo sociale” che già di per sé esige che il Politico non sia mero esercizio di potere. 

Questo il “paradosso” del comunismo, perché non è un mistero che la nozione di individuo sociale sia, per così dire, il “pilastro portante” del comunismo. Ma allora è proprio questo paradosso o, meglio, questa contraddizione che dimostra che la storia del comunismo non solo non è stata fallimentare, ma può ancora indicare (non fosse altro “in negativo”, ma si tratterrebbe di un giudizio assai riduttivo, dato che non si possono ignorare le "ragioni" del comunismo) quale sia la direzione in cui si deve procedere, sempre che non ci si accontenti di scambiare una oggettivazione alienante (che si manifesta ormai anche come un paradossale sfruttamento di sé stessi) per un processo di autentica emancipazione e liberazione.




venerdì 18 dicembre 2020

SOCIALISMO DI MERCATO VS LIBERAL-CAPITALISMO


In Cina, contrariamente a quanto si pensa, c'è una forte democrazia di base, ossia una notevole partecipazione del popolo agli affari pubblici di piccole comunità (si veda al riguardo l'interessante libro di Daniel A. Bell, The China Model: Political Meritocracy and the Limits of Democracy, Princeton, 2015). 

La formazione e la selezione dei dirigenti politici a livello intermedio e soprattutto a livello più alto avviene tramite una sorta di cursus honorum che dura diversi anni. 

La distinzione tra dirigenti statali e politici in pratica è minima o inesistente (del resto qualcosa di simile caratterizzava pure l'economia mista della Prima Repubblica italiana).

Fondamentale, difatti, è il ruolo dal Partito-Stato (anche se il partito comunista non è l'unico partito) che peraltro non è affatto un "blocco monolitico", tanto che c'è un notevole dibattitto all'interno dello stesso partito comunista che garantisce un certo pluralismo. Allo Stato spetta quindi la direzione politico-strategica dell'economia di modo che una parte del surplus ritorni alla società sotto forma di opere pubbliche, sanità, istruzione, sicurezza, ecc. Pertanto, lo scopo del Partito è  realizzare una certa forma di socializzazione dell'economia, più che delle forze produttive, tramite gli apparati dello Stato. 

Vale a dire che la ricchezza generata dallo stesso mercato deve essere usata per tutelare il bene comune e difendere l'interesse collettivo. Il mercato è quindi incastonato in un complesso ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche e sociali (si tratta cioè di una società con mercato, non di mercato).

Ovviamente, la Cina "fa parte di questo mondo" e quindi deve tener conto sia della valorizzazione del capitale che della competizione a livello mondiale (non solo economica!). 

 In pratica, si accetta che vi sia antagonismo sociale ma la classe capitalistica è comunque soggetta al controllo dello Stato. È questa la sfida (non certo facile) che i dirigenti cinesi devono vincere ogni giorno con tutti i problemi (e gli errori) che ciò può comportare (corruzione inclusa).

Vi sono quindi cooperative, aziende private e aziende statali. Tuttavia, i dirigenti cinesi hanno deciso che in ogni azienda vi siano dei commissari politici il cui compito è appunto garantire che le aziende private (grandi o piccole) si muovano, per così dire, "lungo il percorso" tracciato dal Partito-Stato.

In sostanza, la differenza rispetto all'attuale sistema liberal-capitalistico non potrebbe essere più netta. 

Il grande capitale mira, infatti, ad avere il reale controllo dello Stato di modo che le ragioni del capitale siano sempre superiori a quelle del lavoro. In altri termini non è lo Stato che controlla la classe capitalistica bensì è la classe capitalistica che controlla lo Stato. Inoltre, si deve tener presente che la classe capitalistica non è un "soggetto unitario", in quanto com'è noto i capitalisti (grandi e piccoli) devono necessariamente competere tra di loro (il "gioco" conta assai più dei "giocatori" ovverosia il capitalismo è, in un certo senso, una forma di darwinismo sociale).  

Non vi è quindi una direzione politico-strategica dell'economia. I potentati economici e finanziari hanno ciascuno la propria strategia e i propri interessi da difendere. 

In definitiva, non vi è alcun primato della "ragione pubblica", ma solo l'uso degli apparati dello Stato (compresi quelli di coercizione ed educativi) per imporre la volontà delle diverse parti della classe capitalistica (che appunto sono anche in lotta tra di loro) all'intera collettività.

Di notevole importanza comunque è pure che il "sistema sociale" cinese è non solo un socialismo di mercato ma un socialismo di mercato con caratteristiche cinesi, ovverosia è un "sistema sociale" che affonda le sue radici nella cultura e nella  civiltà cinese. Il che evidenzia l’importanza dell'aspetto comunitario e nazionalpopolare del socialismo di mercato. Non si può dunque "esportare" né "imitare" il “sistema sociale” cinese. Casomai ci si dovrebbe chiedere come potrebbe essere un socialismo di mercato con caratteristiche europee o italiane. Ma questo è un altro problema.








mercoledì 9 dicembre 2020

CAPITALISMO E DEMOCRAZIA

La definizione  degli Stati occidentali come Stati democratici è sempre stata discutibile, dacché una democrazia o è sociale o non è. Eppure, nel cosiddetto 'trentennio glorioso' della seconda metà del secolo scorso, definire gli Stati occidentali liberal-democratici non era scorretto.

 Ad esempio, durante la Prima Repubblica italiana i partiti erano radicati nel territorio e rappresentavano veramente, insieme ad altre organizzazioni come i sindacati, gli interessi anche dei ceti sociali subalterni, tanto che nella Prima Repubblica, caratterizzata da una economia mista che vedeva lo Stato svolgere un ruolo di primo piano anche sotto il profilo economico, non mancavano neppure degli 'elementi' di socialismo. 

Tutto però è cambiato negli ultimi trent'anni. 

Ormai gli Stati occidentali presentano, tutt'al più, alcuni 'elementi' di democrazia formale. I partiti in pratica sono diventati dei comitati d'affari di una borghesia compradora e lo stesso Stato diritto è, per così dire, una 'finzione scarsamente produttiva'. Difatti, il potere esecutivo è sempre più anche un potere legislativo  e a sua volta il potere esecutivo è sempre più un potere che impone decisioni prese da potentati economici e finanziari o da organizzazioni capitalistiche internazionali non soggette ad alcun reale controllo democratico. 

D'altronde, il potere giudiziario è sempre più 'politicizzato' e comunque, nel migliore dei casi, è un potere che gode solo di una relativa autonomia (di fatto è un potere 'intrecciato', sia pure in vari modi e in diversa misura, con il potere economico e il potere politico. Del resto, pure il 'quarto potere', ossia quello dei media, è controllato dai gruppi dominanti. 

Si deve pertanto prendere atto che l'attuale  regime neoliberale in pratica non si distingue da una dittatura di mercato 'politicamente corretta', caratterizzata cioè da tratti marcatamente totalitari sotto il profilo politico-culturale.

Peraltro, anche lo scontro tra neoliberali di sinistra (i cosiddetti 'liberal-progressisti') e neoliberali di destra (i cosiddetti 'liberal-populisti' o 'liberal-sovranisti') avviene nello spazio politico e sociale di una società di mercato che come tale non è messa in discussione, in quanto si tratta di uno scontro tra chi rappresenta gli interessi del grande capitale internazionale più avanzato sotto il profilo tecnologico, e chi rappresenta gli interessi del capitalismo nazionale, ossia soprattutto del medio e piccolo capitale.  

Tuttavia, proprio la vicenda del Covid, in quanto si inserisce in un contesto geopolitico caratterizzato dalla ascesa di un nuovo centro di potenza anti-egemonico come la Cina che si differenzia nettamente anche sotto il profilo politico-sociale dagli Stati Uniti cioè dalla potenza egemonica occidentale, ha dimostrato non solo che l'attuale  sistema liberal-capitalistico è incapace di risolvere i problemi che esso stesso genera, ma che solo lo Stato può tutelare il bene comune (salute di tutti compresa) e privilegiare l'interesse collettivo rispetto a degli interessi meramente settoriali (ovvero agli interessi della classe capitalistica, internazionale o nazionale che sia). 

D'altra parte, è evidente a chiunque che trent'anni di neoliberalismo hanno inciso così profondamente sulla realtà sociale e culturale dei Paesi occidentali da rendere, se non impossibile, estremamente difficile che si formi un 'soggetto collettivo' che abbia come scopo la trasformazione della funzione politica dello Stato in senso socialista o (cambiando il nome ma non la 'cosa') in senso 'post-capitalistico'.

In sostanza, dato che le stesse masse popolari sono sempre più eterodirette non solo sotto l'aspetto economico ma anche sotto quello politico-culturale, è pressoché impossibile opporsi con successo ai gruppi dominanti e subdominanti (che pure sono in lotta tra di loro) senza la capacità di contrastare l'egemonia culturale della classe capitalistica (che di fatto è  l'egemonia culturale della sinistra liberal-progressista in quanto quest'ultima non è altro che lo 'strumento' politico-culturale di cui si avvale il grande capitale internazionale per celare una dittatura di mercato  dietro le forme di un neoliberalismo 'pseudo-democratico').

 In questo senso, è lecito affermare che sono proprio il disordine mentale, l'anti-intellettualismo e l'individualismo economico e sociale che contraddistinguono il nazional-populismo ad impedire che quella che alcuni definiscono una nuova ribellione delle masse contro le élite dominanti, si possa  configurare come una 'nuova forza' politica e sociale capace di porre gli apparati dello Stato e lo stesso mercato al servizio dell'intera collettività.



domenica 22 novembre 2020

NOTA SULLA "TENTAZIONE" NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

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Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea. 

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende - l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato - tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale - come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943. 

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari - che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista - si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista. 

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

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In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”. 

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo - che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre "in chiave" antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. - privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” - inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” - sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali "intrecci" – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano. 

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista. 

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”. 

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia. 

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali. 

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo. 

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c'è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt'al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso "agire comunicativo" al servizio dei cosiddetti "diritti individuali" - che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell'intera collettività). 

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Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking”, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale. 

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all'attuale società di mercato neoliberale.