giovedì 21 gennaio 2021

CENTO ANNI FA

 Che la storia del PCI abbia segnato la storia del nostro Paese (e non solo) non lo si può certo negare, anche se è una storia finita con la fine del “socialismo reale”. Una storia fallimentare? Certamente no. Non solo quella del PCI ma pure quella del “socialismo reale” (basterebbe pensare alla Seconda guerra mondiale per rispondere di no). Tuttavia, è innegabile che un ciclo storico alla fine del secolo scorso si sia definitivamente chiuso. Come? Con una sconfitta. Non una battaglia perduta ma una guerra perduta (e qualcuno potrebbe pure parlare di vittorie perdute). Una guerra comunque che ha messo fine anche alla sinistra, ormai solo una “variante” del neoliberalismo, ossia ridotta ad essere una espressione del capitalismo internazionale e (sedicente) “cosmopolita”, così come la destra populista è espressione del capitalismo nazionale penalizzato dalla cosiddetta “globalizzazione”. 

“Oltre” il comunismo, pertanto, ci sarebbe solo il “nulla”, tranne il neoliberalismo, ovvero l’ideologia “mortifera” del capitalismo predatore? Eppure anche questo “nulla” non proviene dal “nulla”, ma appunto da una storia. E che storia! È un “nulla” che non si lascia facilmente liquidare come “non senso”. È sì una “aporia”, ma intesa non come “via senza uscita”, bensì come un luogo in cui non vi è una “uscita”, ossia uno “spazio aperto” come il deserto. Del resto, pure il deserto si può attraversare, benché occorra sapersi “orientare”.

Ma per sapere in quale direzione si deve andare, si deve pure sapere da dove si proviene. Ci si dovrebbe quindi chiedere: perché il comunismo è stato sconfitto? Domanda cui in parte molti hanno già risposto, anche se non sempre in modo convincente. Comunque sia, si è risposto solo in parte: la questione dell’ideologia, quella dell’economia, il problema del pluralismo, il mutamento sociale generato dalla terza rivoluzione industriale, la controffensiva neoliberale, la globalizzazione…Nondimeno, vi è anche altro, ossia l’antropologia, e in particolare l’antropologia politica. Ecco, è sotto questo aspetto, a giudizio di chi scrive, che il comunismo ha patito la sua sconfitta peggiore.

Questione difficile quella della antropologia politica, ma essenziale, perché non la si può risolvere con l’economicismo, e non perché l’economia non sia importante, anzi proprio perché lo è. Non è forse Marx ad avere dimostrato l’unità contraddittoria della merce, in quanto unità di valore d’uso e valore di scambio? E non è forse questa unità contraddittoria possibile solo in virtù del fatto che il lavoro o, meglio, il lavoratore (perché non c’è lavoro – predicato - senza lavoratore – soggetto) è e non è una merce? Come sarebbe lecito allora affermare che l’oggettivazione può essere un autentico processo di soggettivazione, ossia una oggettivazione non più alienante, senza prima interrogarsi sulla questione del soggetto, ovvero su quel particolare soggetto che è l’essere umano in quanto è insieme con altri esseri umani, e quindi di necessità è un animale politico? 

Certo, conta pure il sostantivo (animale) non solo l’aggettivo (politico). Eccome se conta! Ma proprio per questo occorre precisare che non si tratta solo di politica o di antropologia, bensì di antropologia politica. Il Politico, dunque, come questione fondamentale. Ma non in quanto mero esercizio del potere, bensì come ciò che “dà forma” all’abitare, all’essere nel mondo insieme con gli altri, e quindi alla stessa economia nella misura in cui è necessaria per soddisfare i bisogni sociali, che, tuttavia, non sono solo quelli “prodotti/indotti” dall’apparato tecnico-produttivo. In termini più chiari, anche se più “semplici”, vale a dire che c’è sempre il problema di un essere umano “a più dimensioni”, e quindi pure del conflitto - che non dipende solo dalla struttura economica della società proprio perché affonda le sue radici nella stessa struttura antropologica - che il Politico deve sapere “mettere in forma”. 

Ed è sotto questo aspetto, assai più che sotto altri aspetti, che il comunismo si è mostrato “perdente”, illudendosi di potere generare o addirittura di avere già generato l’uomo nuovo. Non perché la natura umana sia una essenza astorica e immutabile, ma proprio perché è “materia” suscettibile di assumere molteplici “forme”, anche e soprattutto nello stesso tempo. E non è mai una “materia pura” ma una “materia” che ha una storia. Insomma è una “materia viva”, capace di “interagire” con qualunque “forma” possa assumere. È cioè un “individuo sociale” che già di per sé esige che il Politico non sia mero esercizio di potere. 

Questo il “paradosso” del comunismo, perché non è un mistero che la nozione di individuo sociale sia, per così dire, il “pilastro portante” del comunismo. Ma allora è proprio questo paradosso o, meglio, questa contraddizione che dimostra che la storia del comunismo non solo non è stata fallimentare, ma può ancora indicare (non fosse altro “in negativo”, ma si tratterrebbe di un giudizio assai riduttivo, dato che non si possono ignorare le "ragioni" del comunismo) quale sia la direzione in cui si deve procedere, sempre che non ci si accontenti di scambiare una oggettivazione alienante (che si manifesta ormai anche come un paradossale sfruttamento di sé stessi) per un processo di autentica emancipazione e liberazione.




venerdì 18 dicembre 2020

SOCIALISMO DI MERCATO VS LIBERAL-CAPITALISMO


In Cina, contrariamente a quanto si pensa, c'è una forte democrazia di base, ossia una notevole partecipazione del popolo agli affari pubblici di piccole comunità (si veda al riguardo l'interessante libro di Daniel A. Bell, The China Model: Political Meritocracy and the Limits of Democracy, Princeton, 2015). 

La formazione e la selezione dei dirigenti politici a livello intermedio e soprattutto a livello più alto avviene tramite una sorta di cursus honorum che dura diversi anni. 

La distinzione tra dirigenti statali e politici in pratica è minima o inesistente (del resto qualcosa di simile caratterizzava pure l'economia mista della Prima Repubblica italiana).

Fondamentale, difatti, è il ruolo dal Partito-Stato (anche se il partito comunista non è l'unico partito) che peraltro non è affatto un "blocco monolitico", tanto che c'è un notevole dibattitto all'interno dello stesso partito comunista che garantisce un certo pluralismo. Allo Stato spetta quindi la direzione politico-strategica dell'economia di modo che una parte del surplus ritorni alla società sotto forma di opere pubbliche, sanità, istruzione, sicurezza, ecc. Pertanto, lo scopo del Partito è  realizzare una certa forma di socializzazione dell'economia, più che delle forze produttive, tramite gli apparati dello Stato. 

Vale a dire che la ricchezza generata dallo stesso mercato deve essere usata per tutelare il bene comune e difendere l'interesse collettivo. Il mercato è quindi incastonato in un complesso ventaglio di istituzioni politiche, giuridiche e sociali (si tratta cioè di una società con mercato, non di mercato).

Ovviamente, la Cina "fa parte di questo mondo" e quindi deve tener conto sia della valorizzazione del capitale che della competizione a livello mondiale (non solo economica!). 

 In pratica, si accetta che vi sia antagonismo sociale ma la classe capitalistica è comunque soggetta al controllo dello Stato. È questa la sfida (non certo facile) che i dirigenti cinesi devono vincere ogni giorno con tutti i problemi (e gli errori) che ciò può comportare (corruzione inclusa).

Vi sono quindi cooperative, aziende private e aziende statali. Tuttavia, i dirigenti cinesi hanno deciso che in ogni azienda vi siano dei commissari politici il cui compito è appunto garantire che le aziende private (grandi o piccole) si muovano, per così dire, "lungo il percorso" tracciato dal Partito-Stato.

In sostanza, la differenza rispetto all'attuale sistema liberal-capitalistico non potrebbe essere più netta. 

Il grande capitale mira, infatti, ad avere il reale controllo dello Stato di modo che le ragioni del capitale siano sempre superiori a quelle del lavoro. In altri termini non è lo Stato che controlla la classe capitalistica bensì è la classe capitalistica che controlla lo Stato. Inoltre, si deve tener presente che la classe capitalistica non è un "soggetto unitario", in quanto com'è noto i capitalisti (grandi e piccoli) devono necessariamente competere tra di loro (il "gioco" conta assai più dei "giocatori" ovverosia il capitalismo è, in un certo senso, una forma di darwinismo sociale).  

Non vi è quindi una direzione politico-strategica dell'economia. I potentati economici e finanziari hanno ciascuno la propria strategia e i propri interessi da difendere. 

In definitiva, non vi è alcun primato della "ragione pubblica", ma solo l'uso degli apparati dello Stato (compresi quelli di coercizione ed educativi) per imporre la volontà delle diverse parti della classe capitalistica (che appunto sono anche in lotta tra di loro) all'intera collettività.

Di notevole importanza comunque è pure che il "sistema sociale" cinese è non solo un socialismo di mercato ma un socialismo di mercato con caratteristiche cinesi, ovverosia è un "sistema sociale" che affonda le sue radici nella cultura e nella  civiltà cinese. Il che evidenzia l’importanza dell'aspetto comunitario e nazionalpopolare del socialismo di mercato. Non si può dunque "esportare" né "imitare" il “sistema sociale” cinese. Casomai ci si dovrebbe chiedere come potrebbe essere un socialismo di mercato con caratteristiche europee o italiane. Ma questo è un altro problema.








mercoledì 9 dicembre 2020

CAPITALISMO E DEMOCRAZIA

La definizione  degli Stati occidentali come Stati democratici è sempre stata discutibile, dacché una democrazia o è sociale o non è. Eppure, nel cosiddetto 'trentennio glorioso' della seconda metà del secolo scorso, definire gli Stati occidentali liberal-democratici non era scorretto.

 Ad esempio, durante la Prima Repubblica italiana i partiti erano radicati nel territorio e rappresentavano veramente, insieme ad altre organizzazioni come i sindacati, gli interessi anche dei ceti sociali subalterni, tanto che nella Prima Repubblica, caratterizzata da una economia mista che vedeva lo Stato svolgere un ruolo di primo piano anche sotto il profilo economico, non mancavano neppure degli 'elementi' di socialismo. 

Tutto però è cambiato negli ultimi trent'anni. 

Ormai gli Stati occidentali presentano, tutt'al più, alcuni 'elementi' di democrazia formale. I partiti in pratica sono diventati dei comitati d'affari di una borghesia compradora e lo stesso Stato diritto è, per così dire, una 'finzione scarsamente produttiva'. Difatti, il potere esecutivo è sempre più anche un potere legislativo  e a sua volta il potere esecutivo è sempre più un potere che impone decisioni prese da potentati economici e finanziari o da organizzazioni capitalistiche internazionali non soggette ad alcun reale controllo democratico. 

D'altronde, il potere giudiziario è sempre più 'politicizzato' e comunque, nel migliore dei casi, è un potere che gode solo di una relativa autonomia (di fatto è un potere 'intrecciato', sia pure in vari modi e in diversa misura, con il potere economico e il potere politico. Del resto, pure il 'quarto potere', ossia quello dei media, è controllato dai gruppi dominanti. 

Si deve pertanto prendere atto che l'attuale  regime neoliberale in pratica non si distingue da una dittatura di mercato 'politicamente corretta', caratterizzata cioè da tratti marcatamente totalitari sotto il profilo politico-culturale.

Peraltro, anche lo scontro tra neoliberali di sinistra (i cosiddetti 'liberal-progressisti') e neoliberali di destra (i cosiddetti 'liberal-populisti' o 'liberal-sovranisti') avviene nello spazio politico e sociale di una società di mercato che come tale non è messa in discussione, in quanto si tratta di uno scontro tra chi rappresenta gli interessi del grande capitale internazionale più avanzato sotto il profilo tecnologico, e chi rappresenta gli interessi del capitalismo nazionale, ossia soprattutto del medio e piccolo capitale.  

Tuttavia, proprio la vicenda del Covid, in quanto si inserisce in un contesto geopolitico caratterizzato dalla ascesa di un nuovo centro di potenza anti-egemonico come la Cina che si differenzia nettamente anche sotto il profilo politico-sociale dagli Stati Uniti cioè dalla potenza egemonica occidentale, ha dimostrato non solo che l'attuale  sistema liberal-capitalistico è incapace di risolvere i problemi che esso stesso genera, ma che solo lo Stato può tutelare il bene comune (salute di tutti compresa) e privilegiare l'interesse collettivo rispetto a degli interessi meramente settoriali (ovvero agli interessi della classe capitalistica, internazionale o nazionale che sia). 

D'altra parte, è evidente a chiunque che trent'anni di neoliberalismo hanno inciso così profondamente sulla realtà sociale e culturale dei Paesi occidentali da rendere, se non impossibile, estremamente difficile che si formi un 'soggetto collettivo' che abbia come scopo la trasformazione della funzione politica dello Stato in senso socialista o (cambiando il nome ma non la 'cosa') in senso 'post-capitalistico'.

In sostanza, dato che le stesse masse popolari sono sempre più eterodirette non solo sotto l'aspetto economico ma anche sotto quello politico-culturale, è pressoché impossibile opporsi con successo ai gruppi dominanti e subdominanti (che pure sono in lotta tra di loro) senza la capacità di contrastare l'egemonia culturale della classe capitalistica (che di fatto è  l'egemonia culturale della sinistra liberal-progressista in quanto quest'ultima non è altro che lo 'strumento' politico-culturale di cui si avvale il grande capitale internazionale per celare una dittatura di mercato  dietro le forme di un neoliberalismo 'pseudo-democratico').

 In questo senso, è lecito affermare che sono proprio il disordine mentale, l'anti-intellettualismo e l'individualismo economico e sociale che contraddistinguono il nazional-populismo ad impedire che quella che alcuni definiscono una nuova ribellione delle masse contro le élite dominanti, si possa  configurare come una 'nuova forza' politica e sociale capace di porre gli apparati dello Stato e lo stesso mercato al servizio dell'intera collettività.



domenica 22 novembre 2020

NOTA SULLA "TENTAZIONE" NAZIONAL-POPULISTA ALLA LUCE DELLA QUESTIONE (NEO)FASCISTA E DELLA TRASFORMAZIONE IN SENSO ANTISOCIALISTA DELLA SINISTRA EUROPEO-OCCIDENTALE

Non è facile trattare in una semplice nota un argomento come quello che concerne il problema del fascismo e del neofascismo nell’attuale fase storica, contraddistinta da una crisi che non è solo economica ma concerne i fondamenti stessi della civiltà europeo-occidentale. Mi limito quindi ad alcune “sintetiche” (forse, secondo alcuni, anche troppo “sintetiche”) considerazioni di carattere generale. Ritengo comunque necessario, per evitare “spiacevoli equivoci”, precisare che si deve sempre distinguere tra le persone che si definiscono o vengono definite fasciste e neofasciste e, rispettivamente, il fascismo e il neofascismo (e lo stesso vale naturalmente per i nazional-populisti rispetto al nazional-populismo, per i “liberal” rispetto alla sinistra neoliberale, ecc.).

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Il fascismo nella sua fase iniziale (il “sansepolcrismo”, per capirsi) si presentò come una mescolanza, peraltro assai confusa, di elementi social-rivoluzionari e nazionalismo, in un contesto storico sociale completamente diverso da quello che c’era prima della Grande Guerra. Infatti, l’Italia, benché fosse tra i Paesi vincitori, era uscita dalla guerra con le “ossa rotte” sotto il profilo economico, ma al tempo stesso nutriva ambizioni di grande potenza (la “vittoria mutilata”, ecc.). Inoltre, la rivoluzione russa aveva cambiato l’intero quadro geopolitico e ideologico, diffondendo la paura del “pericolo rosso” tra le file della borghesia europea. 

Tuttavia, nelle elezioni politiche del 1919 a Milano il fascismo cosiddetto “rivoluzionario” venne nettamente sconfitto e la stessa “impresa di Fiume”, contraddistinta anch’essa da aspetti social-rivoluzionari e sciovinisti, terminò con un sanguinoso fallimento nel dicembre 1920. Il fascismo comunque riuscì a sopravvivere e a rafforzarsi, grazie soprattutto al sostegno da parte del capitalismo agrario (e poi pure del capitale industriale), ossia diventando il “manganello” della borghesia contro i socialisti e i comunisti.

Nel 1921 entrò quindi a far parte dei Blocchi nazionali (una coalizione di destra) conquistando comunque solo 35 seggi (i Bocchi nazionali ne conquistarono in tutto 105, mentre i socialisti ne conquistarono 123 e i comunisti 15). Nondimeno, nel 1921-22 si moltiplicarono le violenze dello squadrismo fascista, appoggiato anche dagli apparati di coercizione dello Stato, contro i quali, come dimostrarono i fatti di Sarzana del luglio 1921, ben poco poteva fare lo squadrismo fascista. La stessa marcia di Roma, difatti, sarebbe miseramente fallita se l’esercito avesse avuto ordine di impedirla (anche se non è assolutamente certo che l’esercito avrebbe obbedito ciecamente a quest’odine; ma i carabinieri avrebbero certo obbedito, e per sconfiggere lo squadrismo fascista i carabinieri sarebbero stati più che sufficienti, se – s’intende - l’esercito non si fosse schierato con i fascisti).

Il fascismo quindi non conquistò il potere ma si alleò con il potere (a differenza del nazismo, anche se lo stesso nazismo, ispirandosi al fascismo, sfruttò le “debolezze” della repubblica di Weimar, inclusa la mancanza di un forte apparato di coercizione statale, a causa delle limitazioni imposte alla Germania dal trattato di Versailles; ma se durante il regime fascista le camicie nere giuravano fedeltà al re, durante il regime nazista le SS e la Wehrmacht non giuravano fedeltà al Kaiser ma solo ad Hitler).

Il regime fascista comunque non fu certo un regime social-rivoluzionario (lo stesso Stato corporativo fu nella sostanza un fallimento, tranne per il grande capitale), nonostante il “dirigismo” (una scelta giusta e, in un certo senso anche inevitabile) degli anni Trenta (una politica economica che avrebbe però dato i suoi migliori frutti nel dopoguerra). Difatti, nonostante la relativa modernizzazione attuata negli Trenta (sia pure in un quadro di “irreggimentazione” delle masse), il regime fascista non ebbe nemmeno il totale controllo degli apparati dello Stato - tranne una fascistizzazione superficiale, che in pratica era frutto del “matrimonio di convenienza” del fascismo con la monarchia e il grande capitale - come avrebbero dimostrato la disastrosa impreparazione bellica e la ancora più disastrosa e perfino criminale impreparazione (geo)politica e strategica che portarono il Paese sull’orlo della catastrofe già nella primavera del 1941(evitata solo per l’intervento in Africa Settentrionale dei tedeschi) e poi al totale sfacelo all’inizio del 1943. 

“Scaricato” dalla monarchia e dal grande capitale (che però pensavano a salvare sé stessi più che a salvare il Paese mettendo fine ad una ignominiosa alleanza che aveva ridotto il nostro Paese a semplice strumento della politica di potenza nazista), il fascismo si dissolse di colpo nell’estate del 1943, e solo per l’incredibile viltà e/o irresponsabile negligenza dei vertici politici e militari - che non diressero, com’era loro preciso dovere, la battaglia di Roma contro i tedeschi, ma lasciarono senza ordini l’esercito, tradendo così l’intero Paese non certo la Germania nazista - si crearono le condizioni per una guerra civile, in cui “riemersero” pure alcuni aspetti del cosiddetto “fascismo movimento” ma in un contesto “segnato” irrimediabilmente dalla alleanza con i tedeschi  e dalle stragi nazi-fasciste, nonché dai fallimenti del “fascismo regime”, di modo che, al di là delle intenzioni di alcuni fascisti, la repubblica sociale tutto poteva essere fuorché una repubblica socialista. 

Il vero patriottismo fu dunque quello della Resistenza (scelte diverse si possono comprendere tenendo conto solo del contesto storico, dacché non sono giustificabili sotto il profilo politico), che seppe scrivere delle pagine di storia di alto valore politico e morale, anche se non riuscì ad evitare che il nostro Paese venisse trattato come un Paese sconfitto (un “trattamento” che ha “pesato” non poco nella storia della I Repubblica e di cui ancora oggi l’Italia paga le conseguenze).

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In sostanza, il fascismo “morì” nell’estate del 1943, e la repubblica sociale fu solo, per così dire, una “appendice storica” di un movimento e di un regime politicamente e storicamente “defunti”. 

Lo stesso neofascismo quindi è un fenomeno nettamente distinto dal fascismo e comprende aspetti così diversi – una caratteristica comunque dello stesso fascismo - che lo fanno apparire come un fenomeno storico e politico tutt’altro che “unitario”. Comprende “nostalgici” ma pure filonazisti, antisemiti e filo-sionisti, atlantisti e anti-atlantisti, e via dicendo. Peraltro, si dovrebbe pure distinguere tra “semplici nostalgici” e la cosiddetta “destra sociale” più attenta a “valorizzare” gli elementi social-rivoluzionari (ma sempre "in chiave" antisocialista) presenti nel “fascismo movimento” che non la politica del regime fascista. (Un discorso diverso vale per coloro che identificano nel nichilismo il nemico da combattere, e, quindi – basandosi soprattutto sulla storia comparata delle religioni, le opere di Jünger, ecc. - privilegiano un approccio di tipo esistenziale al Politico. Ma in questo caso non si tratta di neofascismo, bensì di una forma di “anarchismo di destra” - inteso come una  sorta di “via esistenziale” anti-nichilista, contrassegnata da una particolare concezione della “trascendenza” - sempre che non si “intrecci” – e non mancano numerosi esempi di tali "intrecci" – con posizioni neofasciste o addirittura esplicitamente filo-naziste).

Ma, oltre al fatto di “richiamarsi” a questo o quell’aspetto del regime fascista o nazista, ciò che accomuna le diverse forme di neofascismo è l’odio per il socialismo e il comunismo nonché l’esaltazione di qualità cosiddette “virili” (compresa la concezione secondo cui l’uso della forza è “positivo” in quanto tale), che si accompagna non raramente ad un disprezzo per la “ragione” (nel senso di “logon didonai”) che può giungere a negare l’identità sostanziale del genere umano. 

Di conseguenza anche il volontarismo e l’irrazionalismo sono tratti costitutivi delle varie formazioni neofasciste, benché si debba tener presente che c’è pure un neofascismo più “moderato” (perlopiù atlantista e filosionista), che non è ostile alla democrazia liberale nella misura in cui sia radicalmente antisocialista e anticomunista. Insomma, l’anticomunismo (incluso, al di là di certi “equivoci lessicali”, l’antisocialismo) sembra essere il tratto distintivo delle varie forme di neofascismo e questo “minimo comune denominatore” ((si badi, necessario ma non sufficiente per definire il neofascismo) ha reso (e rende) possibile pure l’alleanza tra il neofascismo e il liberalismo più marcatamente anticomunista e antisocialista. 

Ovviamente, si deve sempre tener conto dei diversi contesti storici. Si pensi ad esempio all’America Latina ovverosia al cosiddetto “fascismo di mercato”, agli “squadroni parafascisti”, ecc. In Europa e soprattutto in Italia, “patria del fascismo”, il neofascismo si è manifestato e non poteva che manifestarsi in forma diversa. In particolare in Italia, oltre ai “nostalgici” (presenti una volta soprattutto nel Movimento sociale italiano) c’è stato un neofascismo ben più “aggressivo”, che si ispirava più al nazismo che al fascismo, e che oltre a scontrarsi nelle piazze e nelle scuole con le varie formazioni comuniste negli anni di piombo, è stato “usato” in chiave anticomunista da centri di potere atlantisti per attuare la “strategia della tensione”, compiere atti terroristici, ecc. (una strumentalizzazione indubbiamente favorita dalle caratteristiche del neofascismo, ossia dal culto della forza e dall’odio per il comunismo oltre, che, almeno in certi casi, da una forma di nazionalismo estremista).

D’altra parte, pure il neofascismo ha “mutato pelle” per così dire, con la scomparsa dell’Unione Sovietica, la fine della I Repubblica e la nascita del “berlusconismo”. Da un lato il neofascismo “moderato” si è riciclato in forma nazional-liberale mirando a rappresentare i “valori” della cosiddetta “maggioranza silenziosa” (media e piccola borghesia) secondo gli schemi concettuali “semplicistici” del berlusconismo. Dall’altro, terminato lo scontro con il comunismo a livello mondiale, i vari gruppetti neofascisti sono diventati sempre più “marginali” e politicamente “insignificanti”. 

Del resto, il neofascismo, in tutte le sue forme, in Italia (ma pure in Europa) non può che essere “politicamente parassitario”, non avendo un progetto politico che possa essere condiviso dalla maggioranza degli italiani (e degli europei). Deve quindi necessariamente “appoggiarsi” a qualche formazione liberal-democratica o indossare le “vesti liberal-democratiche” per potere contare sul piano politico.

La crisi del sistema neoliberale, soprattutto a partire dal 2007-08, ha però nuovamente cambiato il quadro politico non solo in Europa ma pure in America, facendo crescere su entrambe le sponde dell’Atlantico una forma particolarmente “aggressiva” di populismo di destra, che, per semplicità, si può definire nazional-populismo. Si è cioè venuta a formare una situazione che offre anche ai gruppetti neofascisti l’opportunità di stabilire nuove alleanze con formazioni politiche nazional-populiste (in cui sono presenti ancora dei “semplici nostalgici”), giacché il nazional-populismo si configura come un estremismo di centro, contraddistinto da un radicale antistatalismo, da anti-intellettualismo e da antisocialismo, nonché, perlomeno in alcuni casi, da una certa xenofobia. 

Peraltro, il nazional-populismo trae vantaggio pure dalla progressiva “involuzione” politico-culturale della sinistra, che in buona misura si è trasformata nella “guardia bianca” del grande capitale, rinunciando a rappresentare non solo gli interessi dei ceti sociali subalterni ma pure della piccola e di parte della media borghesia, ossia di ceti sociali penalizzati da una globalizzazione che favorisce soprattutto il grande capitale “transnazionale” o “cosmopolita”.

In questo senso l’accusa generica di fascismo nei confronti dei nazional-populisti può favorire paradossalmente solo i neofascisti e lo stesso nazional-populismo. L’ideologia “politicamente corretta” della sinistra neoliberale porta difatti a formulare dei paragoni e dei giudizi privi di ogni fondamento, che non solo non spiegano le ragioni della nascita e della diffusione del nazional-populismo, ossia del malcontento popolare a causa dei danni causati dall’attuale sistema neoliberista, ma al tempo stesso spingono la piccola borghesia e perfino buona parte dei ceti sociali subalterni ancor più verso le posizioni del nazional-populisti in quanto, in pratica, il nazional-populismo è rimasto l’unico soggetto politico a rappresentare gli interessi di questi ceti sociali. 

Il fatto che il nazional-populismo proponga una “terapia” che è se non peggio altrettanto perniciosa del male che dovrebbe curare, dovrebbe invece far comprendere che solo non ignorando le ragioni del malcontento popolare e rappresentando gli interessi dei ceti sociali medio-bassi e subalterni secondo una prospettiva che riconosca il primato della funzione pubblica, e di conseguenza riconosca allo Stato il ruolo di mettere il mercato al servizio della collettività, è possibile sconfiggere il nazional-populismo e al tempo stesso relegare in un ruolo” marginale” e politicamente “insignificante” lo stesso neofascismo.

Cercare quindi di combattere il nazional-populismo senza “accorgersi” del pericolo che rappresenta la sinistra neoliberale equivale a farsi soffocare dal “boa neoliberale” per sfuggire alla “tigre” o, se si preferisce, al “gatto selvatico” nazional-populista. Del resto, se si dovesse usare il termine fascista allo stesso modo dei “liberal”, non sarebbe difficile definire pure questi ultimi “liberal-fascisti”, dato che controllano quasi tutti i gangli vitali dello Stato e della società civile (industria culturale, media, sistema educativo, ecc.), di modo da reprimere ogni forma di “dissenso”. Il neocapitalismo “a guida culturale gauchista” è una realtà che non lascia ormai spazio (politico-culturale) a nessun’altra “voce”. Certo vi è pur sempre la “rete”, ma com’è noto, “in rete” vi è tutto e il contrario di tutto, di modo che è sempre più difficile distinguere tra (la poca) informazione e (la molta) disinformazione.

Di fatto, la sinistra neoliberale (ma anche in questo caso si deve ricordare che non tutte le persone che si definiscono ancora di sinistra si identificano con le posizioni della sinistra neoliberale) non è l’erede della sinistra storica né, a maggior ragione, della Resistenza. Anch’essa ha “mutato pelle” con la fine della I Repubblica (e invero il mutamento era già cominciato alla fine degli anni Settanta) e ormai, dopo tre decenni (un periodo quindi più lungo dello stesso ventennio fascista), può non vedere che il “re è nudo” solo chi non vuole vederlo. 

D’altronde, se l’irrazionalismo è tratto distintivo del nazional-populismo, la razionalità meramente strumentale che caratterizza la sinistra neoliberale è anch’essa “negazione” di quella idea di “polis” come spazio sociale e politico della ragione che la civiltà europea ha ereditato dalla cultura greca. Una razionalità al servizio del grande capitale, e che si configura quindi come strumento di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla natura (c'è differenza tra dominio e controllo), è una razionalità “dimidiata” che alimenta essa stessa le peggiori forme di irrazionalismo e di alienazione (la sinistra europea, difatti, tranne alcune importanti eccezioni, cerca, tutt'al più, di porre la tecnologia sociale e lo stesso "agire comunicativo" al servizio dei cosiddetti "diritti individuali" - che concernono soprattutto determinati gruppi di pressione -, a scapito dei diritti sociali ed economici, nonché del benessere morale e materiale dell'intera collettività). 

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Non è quindi questione di scelta tra nazional-populismo e sinistra neoliberale. Entrambi sono parte dello stesso sistema neoliberale, anche se la sinistra neoliberale occupa i “piani alti”, e l’alternativa non può certo essere quella di “invertire le posizioni” o addirittura di cercare riparo nei “bassifondi” del sistema neoliberale. Occorre piuttosto avere il coraggio civile e intellettuale di “staccare la spina”, ossia di compiere una sorta di “delinking”, in un’ottica che sappia ridefinire la concezione socialista tenendo conto del quadro geopolitico mondiale. 

La lotta per l’egemonia a livello mondiale, infatti, nella misura in cui si configura come uno scontro tra la potenza (ancora) egemone (ovvero gli Stati Uniti) e un centro di potenza anti-egemonico (la Cina) caratterizzato da una società “con” mercato anziché “di” mercato (e che ripropone quindi la questione della pianificazione, sia pure in un’ottica diversa da quella che contraddistinse il “socialismo reale”), acquista un significato politico che non si può ignorare, nemmeno alla luce della sconfitta del “socialismo reale” e della stessa fine della socialdemocrazia. In questo senso, “staccare la spina” non equivale a muoversi nel “vuoto”, ma piuttosto significa che si deve agire in una fase storica che proprio perché è estremamente “fluida” lascia ancora spazio per costruire una valida e realistica alternativa all'attuale società di mercato neoliberale.

sabato 31 ottobre 2020

PENSARE "DIALETTICAMENTE" L'EMERGENZA SANITARIA ED ECONOMICA

Non è raro leggere anche in rete articoli in cui si sostiene che occorre pensare "dialetticamente" se si vuole capire la realtà sociale e in particolare che questo modo di pensare è necessario anche per capire gli aspetti economici e sociali di questa emergenza sanitaria.

Che pensare "dialetticamente" la realtà sociale sia necessario, chi scrive non lo mette in dubbio, ma occorre anche precisare che cosa significa pensare "dialetticamente", tanto più che qui ci si riferisce proprio al significato di dialettica che contraddistingue il pensiero di Hegel. (Ovviamente, non è possibile in un breve articolo approfondire una questione così complessa e controversa, ma è forse possibile  chiarire perlomeno i suoi tratti essenziali, non fosse altro che per "intendersi" meglio su tale questione).

Si deve allora subito precisare che non è questione di negare la validità del principio di non contraddizione, come talora si afferma basandosi su alcuni passi delle opere del filosofo tedesco, che in effetti sembrano confermare questa interpretazione (e di paralogismi nelle opere di Hegel è indubbio che ve ne siano). 

Ma il pensiero di Hegel è ben diverso, e basterebbe ricordare - e al riguardo Hegel è chiarissimo - che secondo Hegel la contraddizione si deve "togliere". L'esempio migliore per comprendere che cosa allora intende Hegel è quello della relazione tra il positivo (A) e il negativo non A). È il principio di identità il "bersaglio" della critica hegeliana, ossia "il positivo (A) è il positivo (A)" e "il negativo (non A) è il negativo (non A)". Gli opposti "astrattamente" pensati, ossia isolati e separati l'uno dall'altro - e questo è il modo di procedere dell'intelletto (Verstand), la cui "potenza" di analisi, peraltro, Hegel non mette mai in discussione come tale - è inevitabile che portino ad una contraddizione, ossia ad uno scetticismo radicale  - che ha però il merito di "mettere in movimento" il pensiero -, in quanto il positivo, così separato dal negativo, non può che "non essere" il negativo, e quindi non può che essere esso stesso negativo; e lo stesso vale per il negativo che non può che "essere" ciò che "è" opposto al positivo. 

Sicché, ciò che è positivo è negativo e ciò che è negativo è positivo. E questa è ovviamente una contraddizione. Il senso essenziale dello scetticismo radicale consiste quindi nel mostrare che il principio di identità, secondo cui una determinazione (A) è sé stessa in quanto "isolata" ossia in quanto è separata dalla sua negazione (non A), si contraddice necessariamente.

Ma si tratta solo di un "momento", sia pure essenziale, che contraddistingue il movimento del pensiero, poiché la ragione (Vernunft) consiste appunto nel mostrare l'unità degli opposti, ossia che il positivo è il negativo del negativo (non quindi il "semplice" negativo), ossia A non è/è non non A. La dialettica hegeliana perviene dunque a dimostrare il significato "autentico" del principio di non contraddizione, non certo la sua "semplice" negazione. In altri termini, solo la relazione tra gli opposti ovvero l’unità degli opposti, che mostra che essi non sono separati e soltanto in quanto non lo sono possono essere sé stessi, significa il "vero".

Non si tratta, pertanto, di un ritorno al primo "momento" del movimento del pensiero (A è A), dacché questo "momento" è compreso adesso come parte di una totalità (A non è/è non non A), che mostra che il "senso" delle singole determinazioni non è altro che il "senso" delle singole parti di cui l'intero si compone. Il "senso" dell'intero è quindi ciò che si deve comprendere - ossia si deve pensare "dialetticamente" - per comprendere il "senso" delle singole parti di cui l'intero si compone.

Tuttavia, il "senso" dell'intero è tale solo se si "com-prende" l'intero processo (il movimento di pensiero) che porta a riconoscere che il positivo è il negativo del negativo, ragion per cui la contraddizione è sì tolta ma non annientata. Difatti, se così non fosse, cioè se la contraddizione fosse "semplicemente" soppressa, allora varrebbe di nuovo la "logica" dell'intelletto, non della ragione. 

Vale a dire, ad esempio, che non ha "senso" separare il risultato cui si perviene tramite una dimostrazione matematica dal procedimento che lo dimostra. E soprattutto non ha "senso" pensare la realtà sociale come se fosse composta di parti irrelate ovverosia isolate le une dalle altre. Il fatto che siano distinte è appunto possibile solo in quanto non sono separate le une dalle altre, ossia perché sono "parti di un tutto".

Una volta chiariti (benché, per così dire, “a volo d’uccello”) i lineamenti fondamentali della “dialettica”, ci si può allora chiedere che ne consegue per quel che concerne la questione degli aspetti economici e sociali di questa emergenza sanitaria.

L’opposizione in questo caso è quella tra la tutela della salute della comunità e la tutela del benessere economico della comunità. Pensare “dialetticamente” questa opposizione significa allora non separare gli opposti l’uno dall’altro, ma pensarli alla luce dell’intero che mostra il nesso necessario che li unisce e di conseguenza che non è possibile difendere la salute della comunità senza difendere il benessere economico della comunità (e viceversa). 

La relazione che distinguendoli li unisce o che li unisce distinguendoli non può dunque che essere - non pare difficile capirlo – la stessa comunità, ovverosia è il bene comune che si tratta di difendere, sia difendendo la salute della comunità sia difendendo il benessere economico della comunità.

La tutela della salute della comunità e la tutela del benessere economico della comunità hanno dunque “senso” perché è il bene comune che deve essere difeso. Se si escludono a vicenda ciò dipende allora dal fatto che il sistema economico attuale è incompatibile con la difesa del bene comune, indipendentemente cioè dalla questione della emergenza sanitaria. È proprio in quanto l’attuale sistema economico prescinde dalla difesa del bene comune che adesso la difesa della salute della comunità può apparire incompatibile con la difesa del benessere economico della comunità (e viceversa). L’emergenza sanitaria ha cioè evidenziato ciò che esisteva già prima della pandemia ovvero che il sistema economico non era (e non è) strutturato “in vista” del bene comune, ma solo “in vista” del vantaggio di una parte della comunità a danno delle altre. 

Questo è quindi il “vero” problema da risolvere.






sabato 10 ottobre 2020

QUALE SOCIALISMO?

L'affermazione secondo cui non si dovrebbe più usare il termine socialismo per designare una alternativa al (neo)liberalismo -  in quanto ormai il socialismo designerebbe solo una ideologia fallita o una esperienza storica fallimentare -, benché in definitiva sia viziata anch'essa da pregiudizi ideologici, merita di essere presa in considerazione.

Certo, non è una questione facile, che si possa trattare in un articolo, ma qualche breve considerazione al riguardo la si può fare.

Prima di tutto, si deve tener presente che con il termine socialismo ci si riferisce a diverse e perfino opposte concezioni ideologiche e a diverse esperienze storiche. Basti pensare alla differenza tra la socialdemocrazia scandinava e il socialismo reale o sovietico (inteso peraltro come una fase storica intermedia tra quella capitalistica e quella comunista), caratterizzato da un partito che aveva il controllo totale degli apparati dello Stato e della stessa economia. 

D'altronde, dal socialismo reale e dalla socialdemocrazia scandinava si differenzia nettamente il cosiddetto "socialismo di mercato" che non solo non è scomparso, ma non si può nemmeno ritenere fallimentare sotto il profilo economico.

In questo caso, l'uso del termine socialismo non è un "esercizio di nostalgia", anche se per molti, marxisti e non, non si tratterebbe affatto di socialismo, ma semplicemente di una diversa e perfino più aggressiva forma di capitalismo. E qui il discorso si complica perché ci si dovrebbe chiedere che si intende per capitalismo e addirittura se capitalismo sia sinonimo di modo di produzione capitalistico. 

Tuttavia, è chiaro che se si considera la ricchezza prodotta da un sistema economico come un prodotto sociale ossia della società nel suo complesso, ed è allo Stato - o addirittura al partito che controlla gli apparati dello Stato come in Cina - che spetta la direzione politico-strategica (anche) della economia, allora la presenza di un settore economico regolato dal mercato non basta per ritenere il "socialismo di mercato" sinonimo di società di mercato.

Essenziale in questo caso, nonostante che vi siano sempre subordinazione  dell'uomo alla macchina nel processo produttivo (che notoriamente Marx definisce sottomissione reale del lavoro al capitale) e prevalenza del lavoro salariato (il che peraltro valeva pure per una economia pianificata, senza un settore economico regolato dal mercato come quella sovietica dopo la fine della NEP), è che una buona parte del sovrappiù sia "restituito" (in quanto appunto prodotto sociale) dallo Stato alla società sotto forma di valori d'uso (sanità, istruzione, sicurezza, opere pubbliche, difesa del territorio, ecc.). 

Ovviamente, se questa parte del sovrappiù in realtà finisse soprattutto nelle mani di una "nomenklatura" allora non avrebbe più senso parlare di socialismo di mercato.

Il "punto" da capire comunque è che in questo secolo non è più possibile pensare che il socialismo sia la pura e semplice abolizione del mercato e di ogni forma di antagonismo sociale. In questo senso, il socialismo sarebbe solo uno sterile "esercizio di nostalgia" che ignora le dure repliche della storia. 

Ciononostante, la storia del Novecento ha anche insegnato o dovrebbe avere insegnato che non di "solo pane vive l'uomo", benché la questione economica sia fondamentale - ed è invece questo che in generale ignorano, per motivi ideologici, coloro che criticano il (neo)liberalismo ma al tempo stesso di socialismo non ne vogliono neppure sentire parlare, condannandosi in pratica a subire il (neo)liberalismo, giacché non ci si può smarcare dal (neo)liberalismo senza una diversa forma di razionalità economica, imperniata sul primato della ragione pubblica  e del valore d'uso.

La stessa crisi del socialismo reale dipese, difatti, da fattori non solo economici ma anche e soprattutto politici, culturali e perfino antropologici.

Sotto questo profilo, intendere il socialismo come una forma di socialismo (di mercato) comunitario, anche se discutibile, può comunque essere utile per evitare di ripetere gli errori e gli orrori del secolo scorso.

In definitiva, se per socialismo si intende la liberazione dalla oppressione economica e sociale allora la questione socialista non si può certo ritenere una questione anacronistica, anzi oggi è ancora più attuale di quanto lo fosse nel secolo scorso , benché il modo in cui ci si possa liberare dalla oppressione economica e sociale non sia affatto un problema facile da risolvere.

Comunque sia, anche se le parole sono importanti, è la "cosa stessa" che conta e che si deve ben comprendere, tanto più allorché si tratta di compiere un percorso di pensiero (e non solo di pensiero) che è ancora tutto da "tracciare".














LA SFIDA DEL VIRUS

 Mi pare inutile polemizzare con chi sostiene che il virus è una truffa, che si tratti di una cospirazione internazionale o addirittura con chi pensa che sia una macchinazione del governo giallo-rosa, come se in molti Paesi, assai diversi tra di loro, non si fossero adottate o si stessero adottando severe misure anti-contagio.

Tuttavia, è lecito domandarsi se i cosiddetti "poteri forti" abbiano davvero a cuore la salute di persone anziane debilitate. La risposta ovviamente è no. E allora perché sono favorevoli alla adozione di misure che apparentemente li danneggerebbero?

A questa domanda si può rispondere in diversi modi.

Ad esempio si può affermare che nessun sistema di potere può lasciare correre a briglia sciolta un virus che potrebbe infettare strutture e apparati chiave come il sistema sanitario, la catena alimentare e le forze dell’ordine. Un “caso” come quello della regione Lombardia, ma su più vasta scala, e che sfuggisse al controllo, potrebbe innescare reazioni incontrollate pure da parte di chi adesso considera il virus una truffa. 

Lasciar correre il virus a briglia sciolta quindi potrebbe significare dover sostenere dei costi assai maggiori dei benefici.

Ma si può ritenere che la vera ragione, quella cioè che più conta, sia un’altra, come avevo già cercato di chiarire in un breve post su FB (che metto qui sotto)***.

La comparsa del virus Sars-CoV-2 è in un certo senso analoga ad una sfida della tecnoscienza. È cioè “qualcosa” di imprevedibile ma al tempo stesso un’occasione per attuare una trasformazione sociale che era già in corso prima della pandemia, che adesso si configura come una distruzione creatrice, una crisi che il capitalismo deve mettere in forma ovvero saper gestire a suo vantaggio.

In questo senso è vero che vi è una strumentalizzazione del virus e pure che vi è lotta tra “vecchio" capitalismo (che ad esempio in Italia a febbraio si era opposto, per motivi facilmente comprensibili, al “lockdown” a Bergamo) e “nuovo" capitalismo (Amazon, Microsoft ecc., per intendersi), che invece ha tutto l’interesse a sfruttare il virus per imporre un mutamento dei rapporti sociali ed economici imperniato sulla green economy, il digitale, lo smart working, ecc.

Il punto essenziale da capire è che il capitalismo non “nega i fenomeni”, ma impone ai fenomeni la propria “legge”. Risolvere le crisi, a proprio vantaggio naturalmente, non “negarli”, è la “vera forza” del capitalismo. Nessun trucco quindi. (Chi pensa questo è sotto certi aspetti simile a chi pensa che il capitalismo si fondi su complotti e trucchi. In realtà la classe capitalistica acquista la forza lavoro al prezzo di mercato, solo che la forza lavoro trasformata in merce, rende assai più di quanto costa. Inoltre, il lavoratore è libero di venderla ma, se non la vende a prezzo di mercato, muore di fame. La sua libertà è cioè solo formale e quindi contano i reali rapporti di potere che consentono di trattare la forza lavoro come una merce, sia pure molto particolare. Ma di trucchi non ve ne sono). 

La crisi è certo pure un rischio per l'apparato capitalistico, ma un rischio che l’apparato capitalistico deve necessariamente correre, in quanto funziona solo se “mira” ad una illimitata crescita della propria potenza. La lotta pertanto si svolge su due fronti: da un lato vi è la lotta tra “vecchio” e “nuovo” capitalismo, dall’altro quella tra salario e profitto o, meglio, onde evitare di sostenere una concezione meramente economicistica, tra chi ha interesse a difendere il primato della ragione pubblica e del valore d’uso e chi ha interesse a difendere il primato del mercato e del valore di scambio. Insomma sotto il profilo teorico anche la crisi generata dal virus è una “partita aperta” (interessante al riguardo sarebbe prendere in considerazione il modo in cui la Cina ha saputo gestire questa crisi).

Tuttavia, è lecito ritenere che  il “nuovo” capitalismo stia vincendo questa difficile “partita”, anche grazie alla fasulla immagine del capitalismo di chi ciancia di complotti, dittatura sanitaria e via dicendo.


***Da parecchi mesi, ossia almeno dal mese dello scorso marzo, i media danno eccezionale rilievo all'emergenza sanitaria causata dal virus Sars-CoV-2. In pratica il/la Covid-19 da allora "copre" quasi tutto il resto. 

In particolare, concentrando l'attenzione soprattutto sul numero dei "casi positivi", dei decessi per Covid-19 e sulle "misure di contenimento" del contagio, si "perdono di vista" gli enormi problemi di carattere economico e sociale connessi alla emergenza sanitaria, nonché il fatto che in alcuni Paesi, tra cui certo l'Italia, il problema del virus ha portato alla luce i "guasti" del sistema sanitario, di quello scolastico e in generale di ogni servizio pubblico, causati da decenni di privatizzazioni e di subordinazione della funzione pubblica al "mercato". 

Quest'opera di "manipolazione" e "semplificazione" della vicenda del/la Covid-19 è, tuttavia, favorita anche dal cosiddetto "complottismo", dato che secondo i "complottisti", la vicenda del/la Covid-19 sarebbe, in sostanza, una macchinazione dei poteri "transnazionali" (ossia un grande complotto dei “potenti”) per arrivare, tramite l'adozione di "misure di contenimento" del contagio ("lockdown", mascherina, distanziamento personale - erroneamente definito sociale - quarantena), ad una forma di totale controllo sociale e politico.

La stessa strumentalizzazione del virus sotto il profilo economico e sociale, non viene quindi presa in considerazione se non in relazione al problema della mascherina e del distanziamento personale, considerati strumenti "diabolici" per ridurre le persone a "sudditi obbedienti". 

In pratica, i "complottisti" (e ve ne sono di varie specie) seguono proprio il "sentiero" tracciato dai media, ovverosia per così dire, "vanno a rimorchio" di quei media che pure accusano di essere parte costitutiva del grande complotto dei “potenti”.

Non si parte allora dalla “crisi” generata da una emergenza sanitaria "reale" per spiegare la strumentalizzazione di quest’ultima, ma si fa dipendere la stessa emergenza sanitaria dalle "misure di contenimento" del contagio, il cui scopo sarebbe appunto creare una “crisi” che servirebbe ai "potenti" per ridefinire l'intera struttura economica e sociale, in modo da tale da acquisire un controllo totale e definitivo dei rapporti sociali e politici tra le varie classi sociali.

Di fatto, le "narrazioni complottiste" (perché ve ne sono diverse) presuppongono, più o meno implicitamente, che prima del/la Covid-19 la nostra società fosse davvero "libera e aperta", al punto che fosse diffusa una "coscienza politica" tale da costituire una seria minaccia per i gruppi dominanti, che quindi avrebbero tutto l'interesse ad impedire che si torni alla "normalità".

Si “ignora” così che già prima del/la Covid-19 il capitalismo stava per fare un altro “salto qualitativo” (giacché il “salto qualitativo” ossia la “distruzione creatrice” caratterizza l’intera storia del capitalismo) tramite la “rivoluzione” green e il digitale e che quindi è ovvio che stia sfruttando anche il/la Covid-19 in questo senso.

Vale a dire che si “ignora” che il capitalismo è caratterizzato anche dalla lotta stessa tra i gruppi dominanti, non solo da quella tra dominanti (e subdominanti: ceto medio-alto, ecc.) e dominati, e che tale lotta raggiunge la sua acme proprio allorché il capitalismo si appresta a compiere una nuova distruzione creatrice, non per scelta ma per necessità, non potendo “ignorare” le sfide della tecnoscienza ma dovendo saper rispondere a tali sfide evitando, per così dire, di uccidere la “gallina dalle uova d’oro”. Sotto questo aspetto non meraviglia che il/la Covid-19 si configuri in modo simile ad una sfida della tecnoscienza, che nessuno cioè poteva prevedere, e che per il capitalismo sia una occasione per realizzare una nuova distruzione creatrice, secondo la prospettiva “politico-strategica” che esisteva anche prima che ci fosse il problema del/la Covid-19.

La “crisi” dunque è essenziale al capitalismo in quanto è occasione per incrementare la propria potenza. La macchina capitalistica, difatti, non può sopravvivere se non come illimitata volontà di potenza (la crescita illimitata e il progressivo superamento di ogni limite sono notoriamente la caratteristica essenziale delle varie forme di capitalismo). Ciononostante, non è affatto scontato che vi sia un solo modo per risolvere una “crisi” ossia quello “imposto” dal capitalismo o, meglio, dalla frazione vincente della classe capitalistica (e qui entra in gioco il Politico, o se si preferisce, entrano in gioco gli strateghi del capitale). 

Ogni autentica “crisi” significa pertanto anche un rischio per il capitalismo, sebbene lo debba correre necessariamente. Né fa eccezione la “crisi” causata dal/la Covid-19. Anch’essa potrebbe portare a scelte ben diverse da quelle imposte da alcuni gruppi dominanti, ossia a ridefinire il ruolo dello Stato rispetto al “mercato” per (ri)affermare il primato della funzione pubblica, al riconoscimento della necessità di tutelare il legame comunitario e il bene comune non più secondo una concezione meramente economicistica dei rapporti sociali, alla rivalutazione del valore d’uso rispetto al valore di scambio e perfino ad un diverso rapporto tra economia e territorio (e quindi ad un diverso modo di concepire la stessa "green economy", non più cioè in base ad un’ottica contraddistinta dalla crescita illimitata e dalla ricerca del massimo profitto possibile). 

Ma è proprio sotto questo profilo che si comprende come sia i media che i "complottisti” favoriscano di fatto gli strateghi del capitale, i media in quanto presentano le  “decisioni” degli strateghi del capitale come inevitabili (quasi che l’agire capitalistico fosse determinato da leggi di natura), e i “complottisti” in quanto “ignorano” la complessità politico-strategica del sistema capitalistico (presentato invece come un sorta di Grande Fratello che tutto “vede e prevede”), basandosi su un’idea “ingenua” di libertà che non è diversa da quella che caratterizza l’ideologia dominante, secondo cui è lo Stato o, meglio, il primato della ragione pubblica il “nemico” che si dovrebbe combattere.