lunedì 4 luglio 2011

POTERE E DISINFORMAZIONE

Secondo il sociologo tedesco Niklas Luhmann il consenso, in particolare per quanto concerne l’attuale società di mercato, dipende quasi esclusivamente da ciò che egli definisce “latenza funzionale”, vale a dire che le possibilità non selezionate dal sistema, a differenza di quelle “prestrutturate”, tra le quali si può effettuare una ulteriore scelta (si tratta di un procedimento che permette di ridurre la complessità e la contingenza del sistema, nonché di renderlo più stabile, e che Luhmann denomina come “doppia selettività”), non sono conosciute e/o non vengono esplicitamente tematizzate dalla stragrande maggioranza dei cittadini. L’ordine istituzionale non si fonda cioè sul consenso effettivamente esistente, ma sulla sopravvalutazione del consenso effettivo e soprattutto sul fatto che tale sopravvalutazione riesca ad avere successo. Ciò è possibile «quando quasi tutti presuppongono che quasi tutti siano d’accordo; e forse persino allora quando quasi tutti presuppongono che quasi tutti presuppongano che quasi tutti siano d’accordo» (1). Basandosi sul presupposto metodologico che la società si evolva secondo uno schema sistemico-cibernetico, Luhmann concepisce la realtà sociale come un intreccio di relazioni che strutturano un “gioco” sempre più complesso e aperto a possibilità infinite. Perciò il potere non può essere considerato come una quantità fissa, indipendente dalle contingenti situazioni sociali (come invece ritiene il pensiero liberale, che condivide la celebre affermazione del filosofo inglese Locke, secondo cui «nobody can transfer to another more power than he has himself»), ma come un mezzo di comunicazione, mediante il quale il sistema isola un “frammento” del possibile, per costituire un insieme di strutture la cui funzione principale consiste nell’orientare e semplificare il comportamento dei membri del sistema. Essenziale è quindi che si possano tener sotto controllo tutti quegli eventi, interni o esterni al sistema medesimo, che potrebbero determinare una crisi di tipo strutturale: «Attraverso la generalizzazione delle aspettative di comportamento viene facilitata la concreta sintonizzazione del comportamento sociale di più persone in quanto è già prefissato in maniera tipica ciò che ci si può aspettare e quale comportamento farebbe saltare i confini del sistema. La scelta preliminare di ciò che nel sistema è possibile va operata sul piano delle aspettative non sul piano di comportamenti immediati, perché solo in questo modo è possibile trascendere la situazione concreta effettuando una anticipazione nei confronti del futuro» (2). Il sistema quindi funziona grazie ad una preselezione delle possibilità (gli input), potendo così prevedere l’agire sociale (l’output) e generando non solo l’illusione che sia possibile effettuare determinate scelte e che non sia possibile farne altre, ma anche l’illusione di vivere in un sistema il più possibile libero e “aperto”. Inoltre, ogni tentativo di delegittimare l’ordine istituzionale non ha alcuna possibilità di successo, poiché il dissenso politico non può che esprimersi tramite le procedure che legittimano il sistema (come le elezioni e i dibattiti parlamentari). Ciò significa che le procedure di formazione della volontà politica servono in primo luogo ad “isolare” i soggetti politici, per staccarli dal contesto della vita sociale ed economica, di modo che si produca una «disponibilità generalizzata ad accettare, entro certi limiti di tolleranza, decisioni il cui contenuto sia ancora indeterminato» (3). Osserva Danilo Zolo: «Una volta accettato il proprio ruolo entro la procedura formalizzata, il contributo comunicativo del singolo cittadino alla formazione della decisone finale viene stilizzato come comportamento scelto liberamente e viene nello stesso tempo sottoposto alle esigenze del procedimento mediante l’eliminazione delle possibilità che non possono essere recepite dalla decisone. Ne consegue che dopo aver compiuto la loro autorappresentazione nel procedimento, i cittadini non hanno più alcuna chance di mobilitare per la propria causa una solidarietà politica di terzi, qualunque sia l’esito finale del procedimento. [...] In altre parole il procedimento svolge la funzione di isolare e circoscrivere i temi e gli attori del conflitto sociale prima della decisione e della eventuale applicazione della forza fisica, in modo che il dissenziente resti neutralizzato politicamente» (4). D’altronde, le aspettative di comportamento vengono generalizzate tramite la normazione, di modo che possano resistere alla delusione: «Mentre semplici aspettative fattuali si regolano secondo le possibilità di realizzazione percepite, e vengono respinte e trasformate quando non si verifica ciò che è oggetto di aspettativa, la qualità normativa di una aspettativa permette di tener fermo ad essa anche quando venga delusa» (5). Sicché, per Luhmann, se la sanzione è una forma di canalizzazione della delusione – che presenta il vantaggio, nel caso di insuccesso, di essere ripetuta e rafforzata – il diritto è, in sostanza, una facilitazione che «consiste nella disponibilità di tracciati di aspettative congruentemente generalizzati, cioè di indifferenza altamente innocua verso altre possibilità, la quale riduce notevolmente il rischio dell’aspettare controfattuale» (6). Si comprende allora perché il sociologo tedesco può ritenere che il monopolio dell’uso legittimo della forza, benché necessario, non sia fondamentale per capire che cosa sia il potere (Luhmann sostiene esplicitamente che il sistema ricorre all’uso della forza come “extrema ratio” e che ogni volta che ciò accade si è in presenza di uno “scacco del sistema”), dato che ben più importanti per il funzionamento del sistema sono quei procedimenti che permettono di prendere decisioni collettivamente vincolanti che, assorbendo incertezza ed eliminando alternative, «trasformano la indeterminata complessità di tutte le possibilità in una problematica determinata, afferrabile» (7). Attraverso tali meccanismi si può avere la ragionevole certezza che prevalga ciò che il sistema seleziona e si accresce la capacità di autoregolazione del sistema, in quanto si può sottrarre l’esperienza al rischio di una problematizzazione consapevole. Ne deriva che, se il sistema si sviluppa secondo la logica probabilistica dell’indeterminazione (che prescinde da ogni riferimento a filosofie o teorie di tipo organicistico o teleologico) non può non “occultare” la realtà che non è in grado di elaborare, ossia non può non considerare come “realtà” solo quella parte del possibile che è in grado di “codificare” e di conseguenza rimuovere/reprimere ogni altra “realtà”.

Si può pertanto ritenere – pur considerando che si sono presi in considerazione solo alcuni tratti, sia pure fondamentali, del “funzionalismo sistemico” di Luhmann, il cui impianto teorico, tra l’altro, è estremamente complesso e sofisticato, benché lo si possa criticare sia sotto il profilo epistemologico (per l’approccio di tipo sistemico-cibernetico) sia perché difficilmente può spiegare il mutamento sociale – che la teoria sociologica di Luhmann abbia il merito di far comprendere meglio come il “sistema” capitalistico di tipo occidentale possa evitare una crisi di legittimazione mediante l’impiego di una precisa strategia: l’istituzionalizzazione del conflitto politico e sociale, che equivale alla trasformazione/riduzione del “politico” a “pubblica amministrazione”, la manipolazione dell’informazione e la rimozione/repressione di quella sfera della realtà che si suole, alquanto genericamente, definire come sfera dei bisogni e che denota tutte quelle dimensioni dell’esperienza che il sistema deve necessariamente “ignorare” o eliminare brutalmente per poter svilupparsi secondo “regole immanenti”. Del resto, questa “tecnologia sociale”, che, come si è detto, Luhmann giustifica in quanto concepisce il potere come un mezzo di comunicazione che si articola tramite la “procedura” della doppia selettività, sembra particolarmente utile per capire il “sistema italiano”. Altrimenti non si saprebbe spiegare come, negli ultimi vent’anni, sia stato possibile accettare, senza rilevanti conflitti sociali o politici, la svendita al capitale privato (in particolare straniero) delle aziende pubbliche strategiche (8), il passaggio dalla società cosiddetta delle “aspettative crescenti” ad una società sempre più contraddistinta dall’allargamento della “forbice” tra i ceti più abbienti e quelli meno abbienti (9), l’idea che si debba  smantellare gran parte dello Stato sociale per superare la crisi economica, la “privatizzazione” dei profitti e la “socializzazione” delle perdite, la diffusione del lavoro precario, il dilagare della corruzione in tutti gli apparati dello Stato e della amministrazione pubblica, la trasformazione di giunte comunali, provinciali e regionali in comitati d’affari, la subordinazione della scuola e dell’Università a logiche aziendali e la mercificazione di ogni mondo vitale e di ogni ambito culturale. Inoltre, ancora più sorprendente è l’apatia e l’indifferenza dell’opinione pubblica italiana (ed europea) riguardo alla politica internazionale, nonostante che si siano moltiplicate le aggressioni militari degli Usa contro Stati sovrani (Serbia, Afghanistan, Iraq) e la Nato sia diventata uno strumento della politica di potenza americana. Il fatto poi che la classe dirigente italiana si sia venduta al Leviatano americano e si mostri succube della lobby sionista, al punto di giustificare ogni crimine commesso da Israele e di accusare di “antisemitismo” ogni “voce stonata”, pare che interessi assai poco o venga considerato addirittura positivamente, non solo dal “popolo della destra” ma anche e soprattutto dal “popolo della sinistra”. E’ evidente quindi che non è sufficiente il tradimento dei “chierici” né quello dei politici per spiegare una tale “involuzione” (che invece si vorrebbe giustificare come “modernizzazione necessaria”) della società italiana in un arco di tempo così breve. Decisiva appare piuttosto la capacità del sistema di manipolare l’informazione e di “alterare”, in base a “criteri di mercato”, anche la funzione di istituzioni il cui compito dovrebbe essere principalmente quello di “educare” e di “insegnare” a problematizzare la propria esperienza avendo consapevolezza di chi si è e perché si è diventati ciò che si è. Non v’è dubbio infatti che la cultura delle “tre i” (informatica, inglese e impresa), di “derivazione” angloamericana, si sia rivelata anche uno strumento formidabile per mantenere il più alto grado possibile di “latenza” e di gran lunga più funzionale al sistema capitalistico di tipo occidentale di qualsiasi altra “cultura”, in particolare di quella di un Paese come l’Italia che ha una storia millenaria, ben diversa da quella dei Paesi di lingua inglese.  D’altra parte, se è vero che dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda guerra mondiale una certa americanizzazione dei “costumi” del popolo italiano era inevitabile, soltanto dopo la crisi delle “ideologie”, negli anni Ottanta/Novanta del secolo appena trascorso, si è assistito ad una progressiva “corruzione” ed americanizzazione della società italiana; cioè ad una vera e propria colonizzazione culturale, che non a caso “è andata di pari passo” con una colonizzazione economica e politica che ha trasformato l’Italia in un “territorio” in cui si combattono “bande mercenarie” al servizio dello “straniero”.

Cionondimeno, si sbaglierebbe se si pensasse che il sistema sia “invulnerabile”, non solo perché è lecito ritenere che la “sfera dei bisogni” non sia comprimibile oltre una certa misura e che le aspettative di carattere sociale, politico ed economico, non possano essere continuamente deluse; ma anche perché l’indifferenza dell’apparato burocratico e di quello tecnico-produttivo riguardo agli interessi dei cittadini presuppone una riserva di fiducia nei confronti del processo decisionale (e della sua imparzialità ed efficienza) che non può essere illimitata. Inoltre, il sistema non è in grado di “neutralizzare” completamente gli effetti negativi e le “disfunzioni” derivanti dal contrasto tra la necessità di un intervento dell’amministrazione pubblica per organizzare e regolare la vita sociale, sostenere attività economiche, fornire prestazioni assistenziali, tutelare “diritti acquisiti” o riconoscere i “diritti” di “nuovi soggetti sociali” e l’esigenza di difendere il mercato, ossia soprattutto la concentrazione della ricchezza “nelle mani” di pochi, con l’adozione di politiche economiche di tipo liberista. Si deve pure tener presente che il continuo sviluppo e potenziamento del sistema capitalistico rende la manipolazione dell’opinione pubblica sempre più difficile, o comunque richiede che venga prodotta una “quantità di disinformazione” sempre maggiore, ricorrendo sempre più spesso all’inganno e alla menzogna. Il che implica che tra lo “sfondo” non tematizzato di senso, presente in ogni società umana come sapere pre-riflessivo (e che forma il “con-senso di base”), e il sapere “riflessivo” vi è non solo una differenza di grado, per quanto grande possa essere, ma una vera e propria soluzione di continuità, tanto da rendere l’autorappresentazione del sistema sempre meno “credibile”. Si pensi, ad esempio, alle guerre umanitarie, alle aggressioni “preventive”, alla diffusione su “scala planetaria” di comportamenti criminali, alla mancanza di etica pubblica, alla dissoluzione di ogni legame sociale, al peggioramento costante della qualità della vita, al degrado ambientale, alla demonizzazione e criminalizzazione di qualsiasi modo di pensare diverso da quello considerato “politicamente corretto” e all’uso improprio e strumentale di termini quali “antisemitismo”, “fascismo” e “comunismo”.

Tuttavia – anche ammesso che si sia notevolmente abbassato il livello di consenso “implicito” su cui il sistema può contare e che quindi non sia affatto certo che l’autorappresentazione del sistema costituisca un orizzonte di senso condiviso “aproblematicamente” – più rilevante ai fini della soppressione di ogni forma di dissenso è forse il fatto che la quasi totalità delle relazioni sociali e personali sono ormai mediate dal denaro (anch’esso un mezzo di comunicazione, secondo Luhmann). Il “potere” del denaro, in Occidente, pare essere infatti assai più efficace dell’esercizio del potere positivo nel prevenire fenomeni sociali e politici “devianti” rispetto alle “logiche” del sistema, dato che un movimento realmente “alternativo” – e in Italia lo sarebbe solo un movimento che, in nome dell’interesse nazionale e della “naturale vocazione mediterranea” del nostro Paese, si opponesse alla visione geostrategica della talassocrazia americana, contrastando apertamente la politica della attuale classe dirigente, senza distinzione tra “destra” e “sinistra” – non avrebbe certo l’appoggio dei potentati economici, che detengono il controllo di quei (pochi) mezzi di comunicazione di massa che effettivamente “orientano” l’opinione pubblica o addirittura “fanno opinione pubblica”. Perfino la stessa “emarginazione” di ogni “azione culturale” che non si uniformi alla “linea politica” del cosiddetto “pensiero unico” dipende più dalla impossibilità di disporre delle risorse economiche necessarie per non essere “sconfitti” a priori dalla “libera concorrenza” – che può contare sul sostegno, niente affatto disinteressato, del grande capitale privato – che non dall’ “azione repressiva” della pubblica amministrazione e degli apparati coercitivi dello Stato. Ed è forse per questo motivo che, in Italia e non solo in Italia, si cerca di fare pressione affinché siano rafforzati i meccanismi “tradizionali” della repressione del dissenso (cioè la richiesta di norme o provvedimenti che penalizzino la libertà di pensiero e di espressione – da non confondere con la libertà degli “uffici stampa” del sistema – con la scusa di difendere la “democrazia ” e i cosiddetti “valori occidentali”), perché tanto più si restringe lo “spazio pubblico”, tanto più è probabile che il sistema possa mantenere alta la soglia del “non sapere sul mondo”. Ovvero un “non sapere” che richiama alla memoria quel che Martin Heidegger, nel suo capolavoro “Essere e tempo” designa come il mondo del “Man”, del “Si” (“si dice, “si pensa”, “si fa”), che contraddistingue l’esistenza inautentica, anonima e impersonale, e che in una società in cui le relazioni tra le persone e le cose valgono molto più delle relazioni tra le persone equivale alla peggior forma di alienazione possibile.

Fabio Falchi

NOTE

1) N.Luhmann, “Rechtssoziologie”, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg, 1972, p.71; in relazione al tema trattato in questo articolo si vedano D. Zolo, “Complessità, potere, democrazia”, in N.Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979, pp.IX- XXX e R.De Giorgi, “Scienza del diritto e legittimazione”,.De Donato, Bari, 1979, pp.203-249. Si noti che i riferimenti alle opere di Luhmann sono tratti da questo saggio di De Giorgi.

2) N.Luhmann, “Soziologie als Theorie sozialer Systeme, in “Soziologische Aufklärung”, vol.I, Westdeutscher Verlag, Opladen, 1974, p.121.

3) N.Luhmann, “Legitimation durch Verfahren”, Luchterhand, Darmstad und Neuwied, 1975, p.28.

4) D. Zolo, op. cit., p.XXI.

5) N. Luhmann, “Funktionen und Folgen formaler Organisation”, Duncker und Humblot, Berlin, 1976, p.56.

6) N.Luhmann, “Rechtssoziologie”, op. cit., p.100.

7) Ibidem, p.140.

8) Si veda A. Braccio, “Italia in vendita. Vent’anni di privatizzazioni in una relazione della Corte dei Conti”, http://www.cpeurasia.eu/312/italia-in-vendita-%E2%80%93-vent%E2%80%99anni-di-privatizzazioni-in-una-relazione-della-corte-dei-conti

9) Si veda F. Roberti, “Corrado Gini e dintorni”, http://www.cpeurasia.eu/1031/corrado-gini-e-dintorni

mercoledì 29 giugno 2011

DEMOCRAZIA OCCIDENTALE E GEOPOLITICA

 In un recente articolo, “Il tramonto della democrazia nell’era della globalizzazione”, (1) Danilo Zolo ha ben evidenziato come al giorno d’oggi la parola democrazia, pur venendo usata in contesti retorici per connotare la (presunta) superiorità dell’ideologia occidentale, non denoti alcuna realtà politica e non abbia più nulla a che fare con le istituzioni politiche dell’antica Atene. Ormai, secondo Zolo, nessuno può più credere che «i partiti politici siano realmente delle organizzazioni “rappresentative” che trasmettono fedelmente ai vertici del potere statale le esigenze e le aspettative degli elettori», dato che è innegabile che i partiti investano «il loro potere e il loro denaro entro circuiti finanziari informali e spesso occulti, attraverso i quali essi distribuiscono risorse finanziarie, vantaggi e privilegi» e che siano del tutto funzionali all’egemonia «di alcune élites economico-politiche al servizio di intoccabili interessi privati», sì che è impossibile condividere la tesi secondo cui le democrazie occidentali si basano su un autentico consenso politico. Si assiste invece alla manipolazione della cosiddetta “opinione pubblica”, grazie soprattutto ai mass media e alla comunicazione pubblicitaria che diffondono «in tutto il mondo messaggi simbolici fortemente suggestivi che esaltano la ricchezza, il consumo, lo spettacolo, la competizione, il successo». Del resto, è noto che il sociologo del diritto Niklas Luhmann, (2) come ricorda giustamente Zolo, ha (di)mostrato che il meccanismo mediante il quale si “pro-duce” il consenso in una moderna democrazia liberale è una finzione istituzionale, benché sia essenziale per il funzionamento del sistema sociale, «una formula rituale di giustificazione ideologica della politica, non certo la ricerca di un consenso effettivo, fondato sulle [...] convinzioni dei cittadini». Vale a dire che la sua vera funzione consiste nel «neutralizzare e rendere puramente formale il ruolo degli elettori, consentendo loro di esprimere la propria volontà soltanto con un “sì” o con un “no” nei confronti di alternative molto generiche e ridotte di numero». Di fatto, osserva Zolo, «la grande maggioranza dei cittadini non “sceglie” e non “elegge”, ma ignora, tace e obbedisce» e i rappresentanti del popolo altro non sono che «dei burocrati e dei managers che “rappresentano” gli elettori soltanto nel senso che fanno qualcosa al loro posto, qualcosa che i singoli elettori non hanno la competenza, le risorse finanziarie o la possibilità di fare». Si spiegano così la crisi del Welfare, la privatizzazione dell’incertezza, l’abbandono delle politiche di sostegno del diritto al lavoro, la rinuncia a finanziare programmi per il miglioramento delle condizioni dei ceti sociali più deboli ed il fatto che si sia passati «da una concezione della sicurezza come riconoscimento dell’identità delle persone e della loro partecipazione alla vita sociale ad una concezione della sicurezza intesa come difesa poliziesca degli individui da possibili atti di aggressione e come repressione e punizione della devianza» (al riguardo, si tenga conto che dal 1980 ad oggi negli Stati Uniti la popolazione penitenziaria si è più che triplicata, raggiungendo nel 2007 la cifra di oltre 2.300.000 detenuti). Pertanto, non stupisce che Zolo giunga ad affermare che le democrazie occidentali sono «regimi orientati alla pura efficienza economico-politica, al benessere delle classi dominanti e alla discriminazione dei cittadini non abbienti». Data poi l’enorme complessità che caratterizza il sistema sociale occidentale, nonché la difficoltà, per la maggior parte dei cittadini, di comprendere come funzionano le tecnostrutture (nazionali e non) o di acquisire le necessarie competenze non solo per prendere le decisioni “giuste”, ma anche per giudicare quali decisioni siano “giuste” e quali decisioni non lo siano, è comprensibile che Zolo alla domanda “che cosa fare?” risponda che non può negare di essere pessimista. Ciononostante, egli pensa che si dovrebbe «tentare di salvare alcuni valori e alcuni diritti umani che oggi sono fra i più calpestati». Il che può sembrare abbastanza scontato e perfino opinabile, se si considera che proprio la difesa dei “diritti umani” è un veicolo specifico dell’imperialismo americano (che pure Zolo, anche in questo articolo, non esita a criticare). Si deve però aggiungere che Zolo precisa: «anzitutto i diritti sociali», che notoriamente non sono particolarmente apprezzati dai difensori del mercato e che non sono certamente i “diritti” che gli americani vogliono, o meglio “possono” esportare nel mondo. Comunque sia, pare assai più condivisibile, quanto Zolo sostiene nella sua conclusione, vale a dire che«contro l’utopia cosmopolita à la Bauman o à la Habermas, [...] l’autonomia individuale non esclude ma anzi implica il senso di appartenenza a un particolare gruppo sociale e culturale. Non c’è autonomia e libertà senza radici nella particolarità di un territorio, senza identificazione intellettuale, sentimentale ed emotiva con una storia, una cultura, una lingua, un destino comune». In questa prospettiva, l’affermazione che «solo chi dispone di solide radici identitarie riconosce l’identità altrui, rispetta la differenza, cerca il dialogo con gli altri, rifugge da ogni fondamentalismo e dogmatismo», non pare un luogo comune, ma una considerazione necessaria per “de-ideologizzare” e demistificare la questione della democrazia liberale e perfino quella dei “diritti umani”.

Nondimeno, si deve anche notare che questa conclusione non sembra del tutto coerente con le premesse dell’analisi di Zolo, il quale pare non avvedersi non solo che il declino dell’unipolarismo americano è condizione indispensabile per poter valorizzare le proprie radici identitarie ma anche tale declino è l’effetto di un mutamento degli equilibri geopolitici che si è venuto a determinare grazie ad una reazione “positiva” a quel processo di sradicamento e di dissoluzione di ogni senso di appartenenza diverso da quello “occidentale” (ovvero angloamericano) che Zolo, definisce, alquanto genericamente, come processo di globalizzazione. Infatti, Zolo da un lato osserva che vi è una «nuova classe capitalistica transnazionale che domina i processi di globalizzazione dall’alto delle torri di cristallo di metropoli come New York, Washington, Londra, Francoforte, Nuova Delhi, Shanghai»; dall’altro sostiene che «le corporations transnazionali che hanno il monopolio dell’emittenza televisiva sono in maggioranza insediate negli Stati Uniti [ma allora sono veramente transnazionali?] e sono tutte appartenenti all’OCSE: fra queste Aol-Time-Warner, Disney, Bertelsmann, Viacom, Tele-Communications Incorporated, News Corporation, Sony, Fox» e si augura che vi sia «una riforma delle istituzioni internazionali che includa anzitutto le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, che fra l’altro sono tutte insediate nel continente americano senza alcuna ragione»(3). E’ ovvio però che, se ci si limita, come Zolo, a rilevare che «il potere politico ed economico si è concentrato nelle mani di poche superpotenze e il diritto internazionale è ormai subordinato alla loro volontà assoluta» e ad affermare che «la sovranità politica degli Stati nazionali si è molto indebolita», sia incomprensibile la ragione per la quale la maggior parte delle corporations e istituzioni come l’FMI o la Banca mondiale hanno le loro sedi negli Usa. E non comprendendo la relazione tra la globalizzazione e la politica di potenza americana, in particolare dopo la caduta del Muro di Berlino, ci si lascia sfuggire che la capacità di alcuni Stati nazionali (si pensi ad esempio a Paesi come la Cina, la Russia, l’India, la Turchia, l’Iran, il Brasile e il Venezuela,) di opporsi alla politica di potenza americana modifica, con ogni probabilità, il senso stesso della cosiddetta globalizzazione. A nostro giudizio, si dovrebbe invece prendere in considerazione l’aspetto geopolitico della globalizzazione ed il conflitto tra potenze che ha messo in crisi la strategia “globalizzatrice” statunitense – in quanto ben difficilmente si può dubitare che a globalizzare sia stata e sia ancora soprattutto l’America – se si vuole capire il passaggio da una fase unipolare ad una multipolare, che costringe(rà) gli Stati Uniti a cambiare la propria strategia (sebbene si debba notare che gli Usa paiono costretti, per il loro modello di sviluppo, sempre più imperniato sul Warfare State, a non “fare alcun passo indietro”, e a persistere nel loro tentativo di dominare l’Eurasia) e che offrirebbe (il condizionale è, purtroppo, d’obbligo!) anche a Paesi dell’Europa continentale l’opportunità di un nuovo “orientamento” geostrategico, per tutelare e rafforzare i propri interessi e la propria propria sovranità, da cui non può non dipendere anche la difesa dei “diritti sociali”. D’altronde, non è difficile immaginare che fino a quando l’Europa non si libererà dei “liberatori”, non solo gli europei dovranno anteporre gli interessi d’oltreoceano ai propri interessi (con conseguenze che già appaiono drammatiche per non pochi Paesi, Italia compresa), ma si indeboliranno sempre più le radici identitarie dell’homo europaeus, affatto diverso dall’homo occidentalis, (4) che fonda la propria identità non sul senso di appartenenza ad una determinata “terra” e sul riconoscimento reciproco, ma sull’annientamento della stessa idea di “con-fine”. E non è forse proprio questa “dismisura” che ispira la strategia della superpotenza americana e che domina l’immaginazione collettiva, generando «un conformismo profondo [...] che influenza i ritmi di vita, le scelte di valore e le propensioni politiche della grande maggioranza dei cittadini», anche in un Paese di antiche tradizioni e cultura come l’Italia? D’altra parte, se dovesse parere poco “realistico” cercare di smarcarsi dalla politica di potenza del Leviatano, ci si dovrebbe ricordare della “lezione politica” dei palestinesi che resistono da anni alla “pre-potenza” sionista, unicamente grazie alla loro determinazione, al loro spirito di abnegazione e al fatto che conservano una relazione organica con la loro terra, tanto è vero che, se dovessero considerare solo i reali rapporti di forza, non potrebbero fare altro che cedere le armi e rassegnarsi alla sconfitta. Né queste considerazioni debbono ritenersi non avere relazione alcuna con la questione della “democrazia”, ché anzi provano che le critiche da “sinistra” (com’è ancora, in definitiva, quella di Zolo) al sistema politico liberal-democratico, sebbene possano essere preziose, rischiano di apparire come un sorta di “elaborazione del lutto” (per la scomparsa del “soggetto rivoluzionario”) e di impedire o ritardare la costruzione di una “mappa teorica” (5) per poter “com-prendere” i rapidi e profondi cambiamenti sociali e geopolitici che caratterizzano il nostro tempo (una “mappa” che dovrebbe essere essa stessa “in divenire”, per così dire, benché ciò non significhi affatto lasciarsi “trasportare dalla corrente”, dato che una “buona mappa”, nonostante debba essere costantemente aggiornata e possa essere disegnata impiegando “scale” e metodi diversi, indica sempre i punti cardinali necessari per orientarsi). Inoltre, la consapevolezza dell’importanza del conflitto geopolitico che contraddistingue la fase multipolare appena iniziatasi, getta anche una nuova luce sulla esigenza di ridefinire il ruolo politico e strategico dei singoli Stati nazionali, per contrastare le aberrazioni di una società di mercato “a stelle e strisce”, che tende a mercificare tanto le relazioni che formano la sfera pubblica quanto quelle che costituiscono i diversi mondi vitali delle singole persone, “diritti umani” compresi (senza dimenticare che questi ultimi sono “incastrati” in un complesso ventaglio di istituzioni giuridiche, economiche, sociali e culturali e non possono che essere “interpretati” in molteplici modi, anche se non necessariamente si escludono a vicenda). E il fatto che in “Occidente” non vi sia alcun “soggetto sociale rivoluzionario” (ma ci può essere un “soggetto sociale” che sia, in quanto sociale e non politico, rivoluzionario?) e che la stragrande maggioranza dei cittadini sia totalmente esclusa dalla vita politica della comunità nazionale cui appartiene, dovrebbe portare a porsi il problema della “forma” dello Stato liberal-democratico. Uno Stato cioè che – come ammette, in definitiva, lo stesso Zolo, il quale, anche se non lo cita, sembra far proprie le critiche di Carl Schmitt alla ideologia liberal-democratica – tradisce sia il principio di identità che quello di rappresentanza: il primo, poiché priva il popolo di sovranità reale, trasferendola ad un’oligarchia; il secondo, in quanto tutela interessi di parte e non rappresenta più l’unita dello Stato, né agisce più secondo un’idea di “bene comune”. Una critica della democrazia “formale” quindi che dovrebbe saldarsi con un progetto di “liberazione” dei popoli europei dal dominio americano, non per difendere un nazionalismo ottuso ed anacronistico, ma per poter costruire uno “spazio geopolitico”, insieme con altri popoli dell’Eurasia, uniti da un comune destino e dalla necessità di stringere alleanze per difendersi dal “nemico comune”. Certo, ciò non sembra possibile senza una élite in grado di far valere l’interesse nazionale”, non solo sullo scacchiere internazionale (Unione europea inclusa, tenendo presente – anche ammesso che l’Unione europea possa diventare realmente indipendente dagli Usa – il ruolo niente affatto marginale che in ambito europeo riescono in ogni caso a svolgere Stati “forti” come la Francia e la Germania), ma anche sul “piano interno”, di modo da promuovere le attività strategiche per lo sviluppo del Paese e da garantire che gli interessi settoriali siano al servizio dell’intera comunità, concependo la vita economica e sociale come cooperazione e costruzione collettiva, secondo il principio di responsabilità, senza lasciarsi fuorviare dalla polemica sullo statalismo, poiché tanto più uno Stato è efficiente tanto maggiore è l’autonomia che può concedere, a patto che non si confonda la concezione olistica della società con il totalitarismo. Naturalmente, qualora vi fosse un movimento politico che cercasse di realizzare un siffatto progetto di “liberazione” nazionale e si adoperasse per una trasformazione radicale dell’attuale sistema sociale e politico, è indubbio che sarebbe fortemente criticato tanto da “destra” quanto da “sinistra”. Una volta però che si sia ammesso che la democrazia occidentale è non solo una finzione, ma una finzione che favorisce fenomeni “regressivi” e addirittura profondamente lesivi della dignità umana, e che senza la salvaguardia del proprio “ethos” (e si badi che “ethos” designa in primo luogo non comportamenti soggettivi bensì l’ “abitare”, l’essere parte di una comunità, cioè la radice cui si appartiene, con tutto ciò che ne consegue) non vi è né autentica autonomia né autentica libertà, ha ben poco senso continuare a condividere i presupposti, politici e culturali, dell’ideologia occidentale (quasi che non si dovesse più rischiare di “errare” nuovamente, dopo le terribili esperienze del Novecento). Occorrerebbe dunque una cultura politica nuova, ossia tale da formare classi dirigenti nazionali che dessero ai popoli europei la possibilità di essere non masse di consumatori, bensì autentici “soggetti politici”. Per questo motivo, ancor più dell’apatia delle masse, è la mancanza di una classe dirigente degna di questo nome – capace di agire con cognizione di causa e consapevole che, in un certo senso, più pericolose del Leviatano statunitense sono le “quinte colonne”, soprattutto quelle formate da coloro che lavorano per il “re di Prussia” senza saperlo – che dovrebbe preoccupare, anche perché il “ritardo” della vecchia Europa e dell’Italia in particolare non dipende (solo) dal fatto che il processo di globalizzazione appare essere assai meno rapido che in altre zone del pianeta, ma anche dal fatto che non si sa o non si vuole “governare” il mutamento sociale (ovverosia la stessa globalizzazione). E’ lecito allora concludere che, se il merito di Zolo – che pur muove da premesse diverse o persino opposte rispetto a quelle di Luhmann o di Schmitt (il che rende ancor più significativa la sua analisi) – è quello di aver riconosciuto che vi è una relazione non accidentale tra l’ “involuzione” delle società occidentali e il progressivo sradicamento dei “legami sociali ed identitari” che sono a fondamento della vita di un popolo, si deve constatare che anch’egli – proprio come la maggior parte di coloro che, sia pure a diverso titolo, si richiamano alla problematica comunitaria – tende ad ignorare la rilevanza della “dimensione geopolitica” per comprendere il ruolo essenziale dello Stato e del Politico nell’elaborare una “strategia di potenza” adeguata a contrastare l’imperialismo americano, sia sotto il profilo economico-sociale, sia sotto il profilo politico-culturale. Si potrebbe però obiettare che gli Stati europei e la stessa Unione europea, così come sono strutturati, sono “macchine tecno-burocratiche”, più adatte a servire gli interessi dei potentati economici, che hanno il loro “cuore” oltreoceano, e a reprimere il bisogno di autonomia delle diverse identità locali, che articolano le singole comunità nazionali, che non a tutelare un orizzonte di senso intersoggettivamente condiviso e a promuovere lo sviluppo e il benessere dei popoli europei. Tuttavia, non pare essere un’obiezione decisiva, poiché è proprio questo che mostra la necessità, a nostro avviso, di una nuova configurazione geopolitica e, di conseguenza, anche di una nuova concezione dello Stato e del Politico, non per cancellare la storia del secolo passato, ma per interpretarla secondo le esigenze del nostro tempo, se è vero che la storia è sempre storia “contemporanea” e che ogni comprensione si attua a partire dai problemi che si devono risolvere e dalle sfide a cui non ci si può sottrarre.



NOTE

1) Vedi http://www.juragentium.unifi.it/it/surveys/wlgo/tramonto.htm

2) Al riguardo, si possono trovare alcune indicazioni bibliografiche nel mio articolo “Potere e disinformazione” (vedi http://www.cpeurasia.eu/1088/potere-e-disinformazione ).

3) Vedi http://www.juragentium.unifi.it/it/surveys/wlgo/populism.htm .

4) Ho cercato di motivare questa fondamentale differenza in “Homo europaeus”, “Eurasia”, 2/2010, pp.11-23.

5) Che l’impianto teorico, per comprendere l’attuale fase geopolitica e i mutamenti sociali e politici che vi sono connessi, lo si debba concepire come una “mappa” è sostenuto con vigore intellettuale da Gianfranco la Grassa. Una “mappa” che dovrebbe essere essa stessa “in divenire”, per così dire, benché ciò non significhi affatto lasciarsi “trasportare dalla corrente”, dato che una “buona mappa”, nonostante debba essere costantemente aggiornata e possa essere disegnata impiegando “scale” e metodi diversi, indica sempre i punti cardinali necessari per orientarsi.

http://www.cpeurasia.eu/1328/democrazia-occidentale-e-geopolitica

venerdì 29 aprile 2011

QUALE LIBERAZIONE?

Mai dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Italia ha conosciuto crisi più grave: crisi sociale, economica, morale e soprattutto politica, nel senso forte del termine. Aver cercato di cambiare classe dirigente per via giudiziaria, ignorando la reale composizione sociale del Paese e i mutamenti geopolitici derivanti dalla scomparsa dell’Unione Sovietica, ha impedito all’Italia di maturare, nel corso di questi ultimi due decenni, una cultura politica tale da permettere al Paese di liberarsi definitivamente di un passato che, comunque la si pensi, non può essere più in grado di fungere da fondamento della vita politica e sociale della nazione. Non si tratta di mettere in questione la memoria storica ma appunto di considerarla per quello che è, ossia “memoria”, e di comprendere che se non può forse essere “condivisa”, deve purtuttavia essere accettata o meglio, per usare un lessico tipicamente hegeliano, “tolta e conservata”. Invece la strumentalizzazione ideologica del passato, ha contribuito in modo determinante a rafforzare una società di mercato che non è che un “sottosistema” della potenza occidentale predominante, l’America, che da decenni occupa militarmente (e non solo militarmente) l’Italia. Ed è questo il vero problema del nostro Paese, che ha condotto alla degenerazione del sistema politico, trasformandolo in un campo di battaglia tra organizzazioni affaristico-criminali, i cui membri non esitano, pur di guadagnarsi i favori del padrone d’oltreoceano e di far dimenticare il loro passato di comunisti o di neofascisti, a fare scempio sia del patrimonio pubblico sia di quel minimo di sovranità nazionale che ancora rimane. Tanto che si è giunti a condannare ogni critica di “questo sistema”, in nome di una democrazia che si vuole liberale e che altro non è che un metodo di istituzionalizzazione del conflitto, affinché nessuno possa cambiare le regole del gioco, su cui si basa il potere del denaro e del grande capitale internazionale. Un potere che è l’altra faccia della medaglia dell’Occidente, vale dire degli Usa e dell’oligarchia atlantista che governa “Eurolandia”. Sicché, fino a quando si continuerà ad interpretare la lotta politica e sociale dell’attuale fase storica con categorie ideologiche del passato, è inevitabile che, nel caso si sia in buonafede, si reciti la parte degli idioti politicamente e socialmente utili. Mentre chi è in malafede, ossia i rinnegati e i voltagabbana di ogni colore e di ogni specie, da un pezzo sono la “guardia bianca” dei cosiddetti “poteri forti”, al fine di garantire che vengano attuate e rispettate le direttive delle “forze occidentali”.

Pertanto, anziché celebrare acriticamente il cosiddetto “giorno della liberazione” – in realtà della vittoria degli angloamericani contro l’esercito tedesco nella campagna d’Italia, dato il ruolo del tutto marginale, sotto il profilo politico e militare, sia dei fascisti che dei partigiani o dei badogliani – si dovrebbe considerare che la “guerra civile italiana”, per quanto tragica possa essere stata, appartiene ad una fase politica che era già superata dagli eventi che decidevano il corso della storia negli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale. (Una guerra che, per comprenderla, si deve giudicare, principalmente, con categorie politiche, non con categorie morali o “pseudomorali”, come quelle fatte valere nel processo Norimberga, consapevoli che la barbarie è l’inevitabile conseguenza della guerra totale più che la causa di essa; causa che è invece da ricercarsi piuttosto nei processi di trasformazione e modernizzazione che hanno modificato dapprima i fondamenti della civiltà europea e poi quelli di qualsiasi altra civiltà; senza per questo che si debbano giustificare le stragi o le sofferenze dei civili o negare le responsabilità dei singoli contendenti in una guerra nella quale – è opportuno rammentarlo – perirono circa cinquanta milioni di essere umani, in buona parte civili). Infatti, con l’ingresso degli Usa nella Seconda guerra mondiale, la guerra aveva di fatto cambiato radicalmente “senso”: non più guerra “imperialistica“ tra Paesi europei, come era stata fino al giugno del 1941, né guerra “ideologica”, come era diventata allorché la Germania stracciò il patto di non aggressione con l’Urss, per impadronirsi delle risorse petrolifere russe e costringere la Gran Bretagna a gettare la spugna, ma guerra contro l’Asse (in particolare contro la Germania), allo scopo di stabilire su basi nuove lo scontro tra “socialismo reale” e capitalismo, o, secondo un punto di vista geostrategico, tra la grande potenza eurasiatica e la talassocrazia americana (per tale periodizzazione della Seconda guerra mondiale e per ciò che ne è derivato per i popoli europei, si veda il fondamentale saggio di Costanzo Preve, “La quarta guerra mondiale”, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma, 2008). D’altronde, dopo la follia geopolitica e militare dell’Operazione Barbarossa difficilmente si sarebbe potuti tornare indietro, nonostante le “aperture”, almeno fino alla primavera del 1943, di Stalin e dello stesso Mussolini, ma non di Hitler, ormai prigioniero di quel darwinismo sociale e di quell’estremismo nazionalista che si sarebbero rivelati essere tra le maggiori cause della decadenza dell’Europa, consentendo, tra l’altro, agli Usa di mettere saldamente le tende nel Vecchio Continente. Ciò che era cambiato era “l’equilibrio geopolitico mondiale”, che vedeva tramontare l’impero britannico, insieme a quello della Francia, e iniziarsi il periodo della decolonizzazione e della contrapposizione tra Usa e Urss, che soprattutto in Europa si configurò come conflitto tra lavoro e capitale, sia pure con tutti gli opportuni distinguo, celando il fatto che l’Europa occidentale (e in particolare l’Italia), anche se si registrava un notevole miglioramento delle condizioni materiali delle classi sociali meno abbienti, non era stato affatto “liberata” dagli angloamericani, ma era diventata una “provincia americana”. In questa situazione, l’ideologia fascista, non poteva che mutarsi in neo-fascismo, vale a dire che doveva, per sopravvivere, cancellare progressivamente ogni connotazione “rivoluzionaria” e difendere l’atlantismo, il sionismo, la cosiddetta ”razza bianca”, i valori dell’Occidente, la civiltà (giudaico)cristiana, ed altre simili “amenità”. Mentre i tratti “socialisti”del fascismo (in una certa misura, perlomeno come “fattori di modernizzazione”, presenti perfino nel “fascismo regime”, che pure fu, nella sostanza, un regime autoritario, fondato sul “compromesso” tra Mussolini e la “vecchia” classe dirigente, sì che i militari, carabinieri compresi, giuravano fedeltà al re, mentre la milizia tutto era tranne un’organizzazione militare efficiente; il che non si può certo trascurare se si vuol capire ciò che accadde in Italia nell’estate del 1943, sebbene non “assolva” né Mussolini né il regime per quanto concerne la disfatta militare) non potevano certo essere più pensati in opposizione al “socialismo”, dopo il fallimento non solo del regime, ma dell’ideologia imperialista e nazionalista, che indubbiamente aveva contraddistinto anche lo stesso movimento fascista. Quindi, indipendentemente dall’azione di coloro che non ritenevano nemmeno di essere di destra e che avrebbero cercato (vanamente) di correggere l’orientamento del neofascismo in senso anticapitalista e antiatlantista, facendo leva sia su quella “mistica del lavoro” che da Giovanni Gentile a Ugo Spirito aveva caratterizzato in profondità una certa concezione di “sinistra” del fascismo, sia sul “sansepolcrismo” e sul “fascismo rosso”, non v’è dubbio che, se veramente ci si voleva battere per gli ideali di un “socialismo antimaterialista”, sebbene distinto dal comunismo, ma non per questo anticomunista “a priori”, la soluzione di continuità con il passato – “regime” e “movimento”, per intendersi – si imponeva. (Una “rottura” però che, per molti giovani, che pure non potevano non criticare la “civilizzazione del mercante”, era resa ancor più difficile dal fatto che la “destra spirituale”, pur impegnandosi in una “rifondazione metapolitica” dell’umanità europea, per porre rimedio alle patologie della “civiltà occidentale”, condannava non solo il liberalismo ma ogni forma di “socialismo” e difendeva forme politiche ormai del tutto anacronistiche, sì da configurarsi, sotto il profilo politico, più come un “rifiuto antistorico” della modernità, che non come una “rivolta contro il mondo moderno”). Del tutto logico allora che il neofascismo si riducesse (tranne appunto eccezioni, anche se certamente significative), proprio perché tale, a rappresentare una variante “autoritaria” dell’atlantismo o comunque a sostenere posizioni meramente “nostalgiche”, con esiti il più delle volte grotteschi, fornendo un alibi a quell’antifascismo senza fascismo, che, dopo aver preparato la strada alla trasformazione del partito comunista italiano in una forza politica al servizio del sistema che avrebbe dovuto combattere, è degenerato al punto da diventare strumento di oppressione e di propaganda dell’imperialismo americano e del sionismo, nonché la classica foglia di fico per coprire le vergogne peggiori di un ceto politico ed intellettuale mercenario, corrotto e corruttore. (E si badi che lo scopo di questo articolo non è di esprimere un giudizio, positivo o negativo, sul fascismo o sulla componente “sociale e rivoluzionaria” del fascismo, bensì quello di mostrare che il fascismo terminò, se non nel 1943, nel 1945, e che non si sa o non si vuole distinguere tra fascismo e neofascismo, a causa di disonestà intellettuale e/o di pregiudizi ideologici radicati, che non solo non permettono di comprendere adeguatamente la storia politica del secondo dopoguerra, e soprattutto quella degli ultimi decenni, ma autorizzano gli americani e i loro “complici”, dato che avrebbero debellato il “male assoluto” – nazionalsocialismo, fascismo e comunismo – , a compiere ogni nefandezza possibile, ad aggredire qualsiasi Paese che non voglia farsi “occidentalizzare” e a criminalizzare chiunque si opponga all’americanismo ed al sionismo).


D’altra parte, se sia il fascismo che il comunismo volevano “oltrepassare” la società di mercato e di necessità la sua forma politica, cioè la democrazia liberale (un problema ignorato dalla socialdemocrazia, che si illudeva di mutare la struttura sociale senza mutare né la forma politica dello Stato né la cultura delle “masse”), prendere atto del loro fallimento non significa affatto né ritenere che fossero movimenti politici simili, né che il “socialismo” appartenga ormai al museo degli errori e degli orrori della storia, ammesso che lo si possa intendere in chiave “identitaria” e “comunitaria”, ossia che significhi una concezione olistica della società, antitetica rispetto all’individualismo della società capitalistica e incentrata su una “prassi politica” volta alla difesa del bene comune. Al riguardo, ha recentemente affermato Alexsandr Dugin (si veda http://rivistastrategos.wordpress.com/2011/03/22/intervista-aleksandr-dugin-profeta-di-russia/ ) che «l’alternativa al liberalismo la si deve cercare non nel passato ma nel futuro», anche se si deve «recepire […] il carattere olistico del socialismo» e che non si deve sottovalutare l’importanza del comunismo in quanto «nega il liberalismo e richiama il combattimento contro il capitalismo». Tuttavia, il pensatore russo giustamente non solo precisa che «materialismo, progressismo e ateismo sono irrilevanti e bisogna abbandonarli», ma pure che neocomunismo e neofascismo, oltre ad essere ideologie obsolete, nonostante il prefisso “neo”, «vengono sfruttati dal nemico», giacché i veri nemici dell’Europa sono gli Usa e l’atlantismo, vale a dire «l’universalismo, il tecnicismo, l’economicismo», mentre i veri amici dell’Europa sono la giustizia sociale e la tradizione, ovvero «le radici culturali europee e le loro origini [nonché] il continentalismo, il pluralismo dei valori, la multipolarità». Peraltro, egli ritiene che, oltre al movimento eurasiatista, si debba prendere in seria considerazione il “comunitarismo” di Alain de Benoist; giudizio che non si può non condividere, ché de Benoist è sicuramente uno dei critici più acuti dell’individualismo e del liberalismo, anche se si deve tener pure conto dell’interpretazione del comunitarismo difesa da Costanzo Preve, la cui biografia politica è assai diversa da quella di de Benoist, ma che da tempo (e non si deve dimenticare che Preve seppe confrontarsi con intelligenza anche con Carlo Terracciano) va elaborando una filosofia politica che contribuisce in misura essenziale, al di là delle diverse “curvature prospettiche”, ad arricchire e ad ampliare il medesimo “universo del discorso” del pensatore francese. L’accento sembra cadere pertanto sulla mancanza di un movimento politico in grado di valorizzare sia una “trascendenza sociale” sia una “trascendenza esistenziale e spirituale”, e che riconosca il valore della lotta di liberazione dei popoli (si pensi al popolo palestinese, ad esempio), ma senza lasciarsi sedurre né dalle “sirene” del cosmopolitismo, né da quelle del “relativismo assoluto” e veda invece nelle “differenti identità” il modo concreto in cui si articola la “forma uomo”, intesa non come astratto e vuoto universale logico, bensì come principio di “autoformazione”, tanto del singolo individuo quanto di una determinata comunità, nella molteplicità delle sue manifestazioni, ovverosia l’uomo come animale sociale, politico e culturale.

Ciononostante, non si può fare a meno di prendere in esame l’imperialismo americano e le sfide geopolitiche se si vuole comprendere il “senso” della lotta politica nel nostro tempo. Anzi, uno degli insegnamenti da trarre dalla storia del Novecento è quello che “comunitarismo”, “trascendenza sociale” e termini o sintagmi analoghi rischiano di essere “concetti vuoti”, senza i “contenuti politici e sociali” che di volta in volta si originano dalla resistenza che si riesce ad opporre alla talassocrazia americana (ed alla ideologia liberale/liberista). Ed è ormai la strategia che “misura” la distanza (possibile) dall’atlantismo che deve essere a fondamento anche della lotta sociale e della stessa teoria del politico, come dimostrano anche gli scritti del teorico “postmarxista” Gianfranco la Grassa, che ritiene inevitabile una ridefinizione della critica marxiana del capitalismo e della teoria leninista della rivoluzione, non perché siano prive di fondamento, ma perché, una volta riconosciuto che non vi sono leggi storiche in base a cui si possa sostenere che il capitalismo è destinato a lasciare il posto ad una società socialista, solo una analisi “disincantata”, ovvero non dogmatica e in continua “evoluzione concettuale”, della strategia della potenza capitalista predominante e del conflitto tra potenze può “mediare” tra il discorso filosofico sul politico – che ovviamente è non solo “legittimo”, ma necessario – e la “prassi politica”. Un’analisi lucida e realista che ha anche il merito di sollevare, direttamente e indirettamente, sia la questione del ruolo del politico (e in generale quello delle élites) come fattore di sviluppo, di trasformazione sociale e di rinnovamento culturale, sia quella della relazione tra “Stato e potenza” nell’epoca della cosiddetta “globalizzazione”. Sotto questo punto di vista, è certo lecito affermare che il conflitto sociale è “sovradeterminato” dal conflitto (geo)politico – nel senso che è il secondo che struttura il sistema sociale, di modo che una critica meramente “ideologica” e/o economicistica della società di mercato, non può non essere del tutto fuorviante – e che le nozioni stesse di “comunità” e di “giustizia sociale” le si deve articolare secondo una prospettiva (geo)politica che sappia contrapporsi al “mondialismo”, favorendo il più possibile la formazione di un mondo realmente multipolare (“poli-centrico”). Si tratta cioè di privilegiare una visione politica del mondo che non sia né incapacitante né mistificante, se è vero che in politica (e con ogni probabilità non solo in politica) si sa chi si è, soltanto se si sa dove si va, lasciando che i morti seppelliscano i morti, dacché il passato è, in primo luogo, la terra su cui si deve camminare, benché il cammino, come dice il poeta spagnolo Antonio Machado, lo si possa fare solo camminando: «Caminante non hay camino, el camino se hace caminando». Decisivo perciò per i popoli europei (e per quello italiano in particolare) sarebbe liberarsi dai “liberatori”, per riguadagnare quella libertà di azione, senza la quale qualsiasi altra libertà non è che la libertà vigilata dei sudditi del “mercato occidentale”.

mercoledì 10 marzo 2010

IL MALE ATLANTISTA


E' noto che il filosofo tedesco Carl Schmitt, interpretando la famosa tesi di von Clausewitz secondo cui la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, ritiene che la politica sia, in un certo senso, la continuazione della guerra con altri mezzi. Categorie decisive per comprendere il Politico sarebbero pertanto due: amico o nemico. Una visione del Politico certamente realistica, che forse ha il difetto di fondarsi, in parte, su una antropologia tutt'altro che convincente come quella di Hobbes, poiché Schmitt condivide l'idea del filosofo inglese secondo cui "auctoritas non veritas facit legem". Il che implica che "auctoritas" sia contrapposta, e non solo distinta, da "veritas"; ossia un'idea che pare trascurare il nesso tra "cosmo" ("veritas") ed agire rettamente orientato ("auctoritas", diversa dalla mera potenza, dalla "potestas" che è la facoltà di imporre la propria volontà mediante la legge), che rende ragione del fatto che Roma (della cui efficienza politica e militare nessuno può seriamente dubitare) fosse sempre attenta a seguire una linea politica conforme alla propria "tradizione" ed a ciò che, ad esempio, gli stoici (non a caso, perlopiù, difensori della concezione imperiale romana) consideravano l'ordine divino del mondo.
Ciononostante, la dicotomia amico vs nemico ha il pregio di farci comprendere sia la dimensione conflittuale che di necessità contraddistingue il Politico, sia che lo Stato è essenzialmente un "campo di forze", il cui equilibrio dipende in ultima analisi dalla capacità di una classe dirigente di usare "misure e proporzioni" largamente condivise e (senza che sia esclusa la possibilità di un ricambio dei membri della élite, né di una partecipazione del popolo alla gestione degli affari pubblici, secondo forme e gradi differenziati) tali da impedire, da un lato, il formarsi tra i "governati" di gruppi così forti da poter mutare l'equilibrio (inteso come la "forma attuale" dello Stato) a loro favore; e, dall'altro, che questo equilibrio venga mutato da entità politiche "esterne", che possono essere Stati, ma anche potentati economici. Anzi, oggi pare siano proprio questi ultimi, con tutte le loro "diramazioni" (fondazioni, think tanks etc.) ad esercitare la maggiore pressione sui singoli Stati nazionali , in modo da determinarne o condizionarne gravemente la politica. Sì che la funzione dei partiti sembra essere quella di non consentire, proprio con il meccanismo delle elezioni "democratiche", ai governati di partecipare effettivamente alla vita politica ed economica del proprio Paese e, riguardo ai popoli europei, in particolare, di prendere coscienza dell'alienazione allo "straniero" della propria "sovranità". Tuttavia, è impossibile trascurare il ruolo fondamenatle che l'America, in quanto Stato, svolge non solo in Occidente ma su scala planetaria , nonostante la crisi del modello unipolare che gli americani hanno cercato di realizzare dopo il crollo dell'Urss (con il pressoché totale e servile consenso dell'Europa). Una crisi dovuta soprattutto all'emergere di nuove potenze quali la Cina e l'India, alla "nuova" Russia di Putin e alla resistenza coraggiosa di altri Paesi, come, ad esempio, l'Iran e il Venezuela (e adesso, per fortuna, anche la Turchia di Erdogan).
E' essenziale quindi comprendere il rapporto tra i "poteri forti" e la politica statunitense, essendo evidente che, comunque sia, vi è ancora necessità di un apparato statale (per motivi militari, ma anche socali, giuridici, di cultura politica, di comunicazione etc.) per occupare "posizioni dominanti" sul piano politico ed economico a livello mondiale. Senza un "potere statale forte", che avalli, sostenga, promuova l'azione dei "privati", nessun "potere forte" sarebbe possibile. Se ciò spiega la lotta tra le varie e più potenti lobbies per assicurarsi il controllo della macchina statale americana, non pregiudica però in alcun modo, piuttosto la rafforza, la "logica di sistema" che caratterizza tanto la politica interna (governo/lobbies vs popolo/cittadini) quanto la politica estera (Usa/lobbies vs altri Paesi, divisi in "amici o nemici"), sia pure con tutti i doverosi distinguo. E' alla luce di questo schema che si può capire, a mio avviso, la rilevanza della lobby ebraica internazionale (si badi, "non" gli ebrei in generale, altrimenti si confonde il tutto con la parte, con conseguenze deleterie, facilmente immaginabili) e la "copertura" quasi assoluta di cui gode ormai Israele, che si può perfino permettere di ricattare gli Usa; tanto che non è esagerato affermare che talvolta "la coda può muovere il cane". Certo gli Usa non sono un'appendice di Israele, né vi è una sola lobby che conti in America. Ma la lobby ebraica, grazie alle sue "ramificazioni multinazionali", è di fatto l'unica che può garantire l'unità di azione a "livello sistemico" dell'imperialismo economico americano e del "mercato globale" (che altro non sono che due facce della stessa medaglia), vuoi perché "attiva"nei gangli vitali di ogni Paese occidentale , vuoi perché è riuscita ad ottenere una vera e propria egemonia culturale, che consente all'atlantismo di presentarsi come la sola espressione dell'humanitas, come unico veicolo di civiltà contro ogni forma di barbarie, nonché come vero erede della cultura europea. Una egemonia culturale che si è imposta facilmente in Europa dopo la definitiva sconfitta del comunismo, considerato anch'esso, come il nazismo, il fascismo ed ora pure l'islamismo, il nemico del genere umano, il "male".
Il fatto è che troppo spesso i crtiici dell'imperialismo americano tendono a sottovalutare gli aspetti propriamente culturali, per concentrarsi esclusivamente su quelli economici e/o politici. Ed è invece questa egemonia culturale, estremamente articolata e "pervasiva", che può "legittimare" la subalternità delle classi dirigenti europee alle direttive atlantiste agli occhi delle masse e perfino agli occhi degli "scettici". In questi ultimi decenni si è addirittura assistito alla nascita di una sorta di nuova "religione", superiore a tutte le altre, la cosiddetta "religio holocaustica", fondata sull'assoluto divieto di studiare anche la persecuzione degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale secondo una metotologia scientifica . Chi infrange questo divieto o perfino chi si limita a criticarlo pubblicamente rischia il carcere (in Germania, Austria e Svizzera) oppure, se vive in Francia, una sanzione economica, ma viene comunque sempre "messo al bando"( si viene espulsi dall'Università, licenziati, messi alla gogna, denigrati dai mass media senza avere la possibilità di difendersi etc.). Una "religio" che ha i suoi dogmi, i suoi riti, i suoi sacerdoti, i suoi zelanti servitori e i suoi, più o meno in malafede, fedeli. E che è l'altra faccia dell'atlantismo: simul stabunt simul cadent.
Infatti, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo la si può "rappresentare" come la lotta tra il bene e il male, tra la Grande Israele e gli Imperi del male o gli Stati canaglia, solo se la si interpreta mediante uno schema a priori, che fornisca la "regola" per "ordinare e sistemare" gli eventi, in modo da invalidare ogni critica al "sistema" in quanto tale. Democrazia liberale di tipo angloamericano, liberismo, "culto" del mercato, "fede" nella tecno-scienza, diritti universali "ricalcati "su quelli made in Usa, american way of living devono essere esportati in tutto il mondo anche con la forza, non perché si ha la possibilità di farlo, ma perché è "giusto" farlo e se non vi è ancora la capacità di farlo ovunque, ci se ne dovrebbe rammaricare. Insomma, il "sistema" non funziona o non funziona "bene" senza il consenso delle masse (poco importa che sia un consenso passivo). Perciò occorrono "persuasori" (ma non "occulti", sebbene ci siano, ovviamente, anche questi ) e "cultura" che persuada, che "formi" (si pensi alla scuola , all'Università ed ai mass media) ed in-formi, che orienti e che (questa sì!) soprattutto "occulti". Il vero potere lo si detiene quando si può fare a meno di usare il bastone (che pur si deve avere e meglio se è un "grosso bastone"). Per questo motivo è necessaria l'egemonia culturale. Anche se, o meglio proprio perché non è la nostra "cultura", ma la "cultura" del mercante occidentale, del suo denaro e delle sue banche che ci viene imposta, in quanto il giudeo-cristianesimo sarebbe la "radice"dell'Europa (tesi che è ben differente dal riconoscere che il cristianesimo - nelle sue molteplici e contraddittorie "voci" - è stato la lingua spirituale - "sincretistica", per così dire - dell'Europa durante il Medioevo). Da ciò, tra l'altro, consegue che la civiltà classica, greca e romana, non la si debba "vedere" se non attraverso il prisma del giudeo-cristianesimo e che vi sia netta separazione ed opposizione tra Oriente (la "Terra") e Occidente (il "Mare"). Si vuole così ignorare non solo che Occidente è una parola che da (relativamente ) poco tempo designa la civiltà europea, ma che l'Europa è la "Terra di Mezzo", la "congiunzione fra Terra e Mare". Una congiunzione, una "e", che invece ci indica , contrariamente a quanto ritengono gli atlantisti, da dove proveniamo e dove dovremmo far ritorno, "risalendo" al nostro autentico "inizio", ora che il "Mare" minaccia di sommergerci.
Nulla di più "incapacitante" allora di una critica del capitalismo che prescinda dai "fattori culturali" o che, fraintendendo radicalmente il "senso" del legame sociale, li intenda come "semplice" sovrastruttura della struttura economica. Il capitalismo è un "ismo", un modo di agire e pensare che "fa si-stema", in cui, appunto, "tutto si tiene". Ma si "tiene" secondo la logica dello "sradicamento", della negazione delle "differenze", per veicolare l'ideologia della "merce", dell'equivalenza universale delle "cose" e delle persone ( la "cosificazione" o mercificazione che dir si voglia), dell'astrazione quantitativa che dissolve ogni "esperienza"del tempo qualitativo, non lineare ed uniforme, e dello spazio gerarchicamente orientato. Il che spiega perché tanto più emerge la consapevolezza che la "secolarizzazione" del giudaismo (di cui lo stesso sionismo è un effetto) e del cristianesimo, al di là di ogni considerazione sugli aspetti "sapienziali e tradizionali" certamente presenti in entrambe le religioni, è a fondamento della modernità, vale a dire delle condizioni sociali e culturali per la nascita del capitalismo, nel senso stretto del termine, tanto più diventa evidente il ruolo preponderante, sotto qualsisi profilo, della "forma mentis" dell'homo oeconomicus ed il progressivo adeguarsi della cultura occidentale agli "schemi concettuali" propri del "mercante errante", senza "oikos" ed "abitatore" del tempo.
Se vi è dunque la necessità di decifrare, di volta in volta, l'azione delle lobbies atlantitste (non necessariamente americane) per smascherare i reali obiettivi della politica degli Usa, mostrandone le mistificazioni e le "incongruenze" sempre più gravi (al punto che si impiegano termini per denotare realtà esattamente opposte rispetto a quelle che dovrebbero denotare), vi è ancor più la necessità di una battaglia culturale, un "Kulturkampf", per non ripetere l'errore di privilegiare un'analisi di tipo socio-economica (ripeto, a scanso di equivoci, indubbiamente necessaria), che non può cogliere la specificità dell' "anima capitalistica", il suo carattere proteiforme, che le consente di rimanere sé medesima mutando continuamente "maschera". Una "lacuna" che, in qualche modo, è causa o, se si preferisce, una delle cause della crisi fallimentare del comunismo e del "collasso" delle politiche di stampo socialdemocratico, dal momento che non soltanto ha impedito una comprensione dei "presupposti culturali" del capitalismo, che non fosse basata su una "ingenua " e sovente "volgare" concezione progressista, ma ha addirittura favorito l'affermarsi della "cultura" dell'homo oeconomicus, che è la "conditio sine qua non" del capitalismo occidentale (sotto questo aspetto, di gran lunga più coerente dei suoi "nemici"; per usare un "linguaggio schietto", il peggiore difetto della sinistra si potrebbe designare così: volere l'arancio ma non le arance!).
Vero è che si deve pure tener conto che occidentalizzazione ed atlantismo non sono necessariamente sinonimi, ma è innegabile che attualmente siano i circoli atlantisti che perseguono il disegno di occidentalizzare l'intero pianeta, annientando "identità", lingue, costumi e qualunque complessa "iconografia" - altro termine caro a Schmitt - che non sia quella (israelo)angloamericana. Si tratta di un processo di livellamento e massificazione che può essere contrastato solo dal sorgere di un nuovo equilibrio mondiale policentrico, premessa anche per costruire un'alternativa, "razionale" e credibile, ad ogni forma di occidentalizzazione. Purtuttavia, è lecito pensare che, fino a quando l'Europa non saprà orientare il proprio "asse" geo-politico e geo-filosofico in senso eurasiatista, difficilmente l'atlantismo conoscerà una crisi irreversibile: l'illimitato "Wille zur Macht" dell'Occidente può, come il "Mare", arretrare temporaneamente, per poi ritornare con ancor maggiore forza e impeto. Non dovrebbe destare meraviglia dunque che il sistema capitalistico occidentale più "si occulta" ed "occulta" e più, brandendo la spada vendicatrice del "dio" veterotestamentario per far trionfare il "bene" sulla Terra, lasci venire allo scoperto la sua volontà di potenza. E' questo non il segno accidentale della sua "sostanza", bensì il segno più chiaro della sua vera "natura".