domenica 7 marzo 2021

IL POLITICO, LA TECNICA E LA NUOVA DISTRUZIONE CREATRICE

 Allorché si parla di Great Reset di solito ci si riferisce sia alla quarta rivoluzione industriale che alla gestione capitalistica di questa rivoluzione, senza distinguere l’una dall’altra. 

Tuttavia, se la prima è pressoché inevitabile, la seconda è solo la logica conseguenza della egemonia  politica e culturale della classe capitalistica, che da alcuni decenni conduce con successo una lotta di classe dall’alto, con il consenso - perlopiù passivo - dei ceti sociali medi e subalterni.

In effetti, la classe capitalistica era già riuscita a gestire politicamente la terza rivoluzione industriale in modo del tutto nuovo rispetto al passato. 

Una rivoluzione industriale, difatti, equivale ad una distruzione creatrice. Ed è appunto la capacità di gestire con successo una distruzione creatrice - ovverosia la capacità di “mettere in forma” non solo economica e sociale ma politico-culturale le innovazioni della tecnoscienza - una caratteristica essenziale del capitalismo. 

Ragion per cui, in un certo senso il capitalismo è sempre anche una distruzione creatrice, benché vi siano delle fasi in cui non solo aspetti marginali o “periferici” dell’apparato tecnico-produttivo sono soggetti ad una radicale trasformazione, che comunque può riguardare anche l’organizzazione stessa di questo apparato, come ad esempio si verificò con la cosiddetta “rivoluzione manageriale” in America nella prima metà del secolo scorso (si potrebbe così affermare, facendo un paragone con l’epistemologia di Thomas Kuhn, che la storia del capitalismo è contraddistinta da periodi “normali” e da fasi rivoluzionarie).

Per capire la novità che si ebbe con la terza rivoluzione industriale, si deve allora considerare che, in generale, un sistema capitalistico è contraddistinto dalla concorrenza e da un saggio di profitto che tende ad essere lo stesso in tutti settori.* Questa fase corrisponde a ciò che Schumpeter definisce stato stazionario (S1) in cui il “reddito” è assorbito dal salario e dalle rendite, anche se l’innovazione tecnologica adottata dalle imprese porta ad una nuova configurazione favorita in specie dalla concorrenza tra imprese più avanzate e quelle più arretrate.

In questa nuova configurazione (S2) il salario è grosso modo un salario di sussistenza mentre il prodotto netto, frutto delle innovazioni, è assorbito dal profitto. Al tempo stesso questi mutamenti causano “squilibri” economici e sociali che generano non solo uno spostamento di capitale verso i settori con un alto saggio di profitto ma anche aspri conflitti di classe il cui scopo consiste nell’aumentare la quota del salario rispetto a quella del profitto.

In pratica, le lotte sociali e le trasformazioni dell’apparato tecnico-produttivo generate dalla concorrenza portano nuovamente al livellamento del saggio di profitto, finché si raggiunge una configurazione non diversa da quella dello stato stazionario (S3=S1). 

Con la fine del ciclo S1-S2-S3 si creano però anche le condizioni per una nuova distruzione creatrice, dato che l’apparato tecnico-produttivo capitalistico non può che tendere ad incrementare la propria potenza, senza riconoscere alcun limite, se non quello determinato di volta in volta dallo sviluppo della tecnoscienza. 

In pratica, questo significa che l’apparato capitalistico si deve sviluppare secondo regole immanenti ovvero senza bisogno di riferirsi ad una sfera sociale, il che equivale ad un sistema economico che si configura come una produzione di merci a mezzo di merci (che, com’è noto, è il titolo di un’opera di Sraffa) e che quindi produce esso stesso i bisogni sociali. In altri termini, in un sistema capitalistico è il valore di scambio che condiziona o determina il valore d’uso, non viceversa.

Nondimeno, solo con la terza rivoluzione industriale, che ha coinciso con la progressiva riduzione del Welfare, si è dimostrato che il passaggio dalla fase S2 alla fase S3 può non essere contraddistinto dalle conquiste del movimento operaio, ma solo dalla concorrenza tra imprese nuove e vecchie e da una lotta di classe condotta con successo dalla stessa classe capitalistica, al punto da subordinare l’intera società alle “ragioni” del mercato capitalistico.

In questo senso, la quarta rivoluzione industriale non differisce dalla terza, ma è solo un ulteriore incremento del dominio del grande capitale sull’intera società. La differenza allora consiste soprattutto nel fatto che con la quarta rivoluzione industriale (che è appena cominciata) è evidente che in realtà il sistema capitalistico non si sviluppa soltanto sulla base di regole immanenti ma grazie al ruolo decisivo del Politico (e in particolare dello Stato) che definisce la forma politico-culturale che caratterizza la nuova distruzione creatrice (“orientando” di conseguenza anche la stessa ricerca scientifica), e che al tempo stesso garantisce l’incremento di potere del grande capitale.

Da un lato, quindi, il mercato capitalistico si mostra del tutto indipendente dalla sfera dei bisogni sociali, dall’altro però questa indipendenza è possibile solo grazie all’agire politico-strategico della classe capitalistica che si attua in particolare tramite il controllo degli apparati dello Stato e specialmente di quello dello Stato capitalistico egemone. 

Si deve comunque sempre tenere presente che il dominio della classe capitalistica si configura (per usare il lessico gramsciano) non solo come una egemonia corazzata di coercizione ma anche come una egemonia culturale (che si attua mediante il controllo del sistema educativo - pubblico e privato - e dei principali mezzi di comunicazione), al fine di formare un “tipo umano” perfettamente integrato nel sistema capitalistico.

In quest’ottica, è chiaro che il capitalismo “si riproduca” in primo luogo proprio nella sfera politico-culturale piuttosto che in quella economica, in quanto, al contrario di quel che comunemente si ritiene, l’Economico non è altro che un “Politico mistificato”, non ovviamente nel senso che la sovrastruttura politico-culturale determini la struttura economica, bensì nel senso che gli stessi vertici della struttura economica agiscono in sinergia con i vertici del potere pubblico per “mettere in forma” politico-culturale il rapporto tra la Tecnica e l’Economico. 

Si forma così l’idea che sia la Tecnica stessa a “guidare” il sistema capitalistico. Certo, la Tecnica non è neutrale ma è “cieca”. E non solo è “cieca” rispetto alla sua funzione economica e politica ma rispetto alla sua stessa “essenza”. Nulla dice né può dire di sé la Tecnica, perché l’essenza della Tecnica, come ha insegnato Heidegger, non è la Tecnica, bensì una “volontà di potenza illimitata”, che come tale non ha nulla a che fare con la Tecnica bensì con il Politico. Difatti, è solo il Politico che può creare le condizioni perché il “soggetto sociale” o, se si preferisce, il lavoratore sia intellettuale che manuale, si riduca ad essere uno strumento dell’apparato tecnico-produttivo, ossia uno strumento del suo strumento. 

Ed è questo capovolgimento del soggetto in mero oggetto di pratiche politiche ed economiche decise dagli strateghi del grande capitale (benché essi stessi siano solo interpreti delle “ferree regole” del sistema capitalistico) che, presentandosi come “naturale”, come un dato immodificabile, impedisce di comprendere che la produzione di merci a mezzo di merci non può che essere una produzione sociale.** In questo senso è l’intera società che produce la ricchezza e che rende possibile la valorizzazione del capitale. D’altronde, la merce, come ha dimostrato Marx, non può che essere espressione dell’unità contraddittoria di valore d’uso e valore di scambio. 

Vale a dire che la “potenza” del lavoro (e in particolare proprio quello tecnico-scientifico!), in quanto è e non può non essere “lavoro sociale”, è “in potenza” la negazione stessa del capitalismo. Ma, appunto, è solo “in potenza” la negazione del sistema capitalistico. Non vi è cioè sviluppo dell’apparato tecnico-produttivo che in quanto tale (ossia secondo una concezione deterministica) possa condurre al superamento della società capitalistica. La miseria dell’economicismo dunque è per così dire già “iscritta” nello stesso rapporto tra la Tecnica e l’Economico che non può che essere di natura politico-culturale.

In sostanza, è grazie alla Tecnica (e ad un rapporto più “agile” ovvero più “libero” e meno “vincolante” con essa) che sarebbe possibile allargare la differenza tra l’apparato tecnico-produttivo e la sfera sociale (come auspicava Claudio Napoleoni), liberando l’uomo dalla “necessità” di lavorare per vivere,*** ma è anche grazie ad un determinato rapporto politico-culturale tra la Tecnica e l’Economico (e quindi al “limes”, istituito dal Politico, che nessuna “prassi” politico-culturale deve varcare) che questa liberazione non è possibile.


*Per le considerazioni che seguono si veda Claudio Napoleoni, Sraffa e la storia dell’economia politica, in Id., Il discorso dell’economia politica, Boringhieri, Torino, 2019.

** Al riguardo si vedano le considerazioni di Massimo Cacciari in La lezione di Claudio Napoleoni (https://www.pandorarivista.it/articoli/la-lezione-di-claudio-napoleoni-un-contributo-di-massimo-cacciari/).

*** Il reddito di base, da riconoscere ad ogni individuo senza contropartite lavorative (si veda Philippe Van Parijs, Yannick Vanderborght, Il reddito di base, il Mulino, Bologna, 2017), sembra andare nella direzione di una “liberazione dal lavoro”, ma se non è parte di una “prassi” politico-culturale “orientata” secondo un diverso modo di abitare la terra (e la stessa geopolitica significa in primo luogo abitare politicamente la terra), rischia solo di trasformare le masse o le “moltitudini” in una “plebe stracciona”. Allargare la differenza tra l’apparato tecnico-produttivo e la sfera sociale, infatti, non è possibile senza mettere l’apparato tecnico-produttivo al servizio della società e di una “autentica” libera individualità. Comunque sia, è il modo in cui l’uomo si “rapporta” al mondo (natura inclusa), e quindi anche agli altri e a sé stesso, che può ancora offrire la “chiave strategica” per “superare” l'attuale società neocapitalistica. 



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