lunedì 27 agosto 2012

INTERVISTA A FABIO FALCHI, REDATTORE DI "EURASIA"

Intervista a cura di N. Speranskaja e A. Bovdunov (Movimento Evrazija, Mosca)


D.- Qual è la tua visione del mondo di oggi e dell’attuale sistema globale? Lo reputi giusto? Se sì, perché? Altrimenti, come pensi che dovrebbe trasformarsi? Si sta già trasformando?

R.- Per rispondere a questa domanda, si deve tener conto che secondo Carl Schmitt lo spazio “vuoto”, neutro ed in-definito che segna l’inizio della talassocrazia inglese viene ad essere sostituito nel XX secolo dal nuovo spazio “globale” di-segnato dai moderni mezzi di comunicazione di massa e di trasporto. L’ hybris talassocratica degli inglesi cioè sfocerebbe nella conquista dell’aequor infinito dell’aria. Una concatenazione logica collegherebbe questi diversi momenti. E la potenza che li avrebbe compresi e fatti propri è la potenza egemone della nostra età: gli Stati Uniti. Ma in quanto espressione più coerente della illimitata volontà di potenza che caratterizza una talassocrazia, si tratta di una potenza che si fonda e non può non fondarsi sullo sradicamento di ogni altro ethos: perfetto “rovesciamento” dell’idea di “limite”, di “giusta misura”, che è a fondamento della Grecità e di conseguenza della civiltà europea. Una volontà di potenza che, scomparsa l’Unione Sovietica (che fungeva da katechon, poiché in qualche modo, “tratteneva” e impediva il dilagare del “negativo”) ha mostrato il suo vero volto, cercando di assoggettare tempi, luoghi e popoli “diversi”. E tuttavia, il furor dell’homo occidentalis, proprio perché si converte necessariamente nella distruzione di ogni prossimità, non può non incontrare la resistenza di chi non è disposto a svellere le proprie radici in cambio di una illusoria ed effimera libertà. Anche la potentissima macchina mediatica di Hollywood, sotto questo profilo, incontra (per fortuna) ostacoli insuperabili. Si spiega allora perché il “modello unipolare” neo-atlantista, a soli venti anni dalla caduta del muro di Berlino, è con ogni probabilità già fallito. Ciò significa che allo spazio omogeneo-totalitario della globalizzazione made in Usa, del “rizoma” perfettamente integrato nel mercato globale, che “fonda” la propria identità sulla negazione di ogni altra identità e di ogni altra differenza, è ancora possibile – e necessario se non ci si vuole “annullare” nella massa globalizzata ed eterodiretta dei “consumatori” – contrapporre tanto il “dia-logo” basato sul riconoscimento reciproco delle “differenti identità”, quanto il prendersi cura delle proprie radici.

D.- Cosa pensi delle idee di globalizzazione (ad esempio, un “mondo con governo unico”) o di una capacità di governo mondiale? È possibile o auspicabile?

R.- L’idea di un governo mondiale, oltre ad essere detestabile in sé, si basa sulla convinzione che il Politico e quindi il conflitto non siano il “destino” dell’uomo. Il che è manifestamente falso. Oggi invece si è presenza di nuovi attori geopolitici – i Brics, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, l’Unione Eurasiatica e naturalmente la stessa Unione Europea – che, se non hanno sostituito gli Stati nazione, certo sono la prova che questi ultimi sono ormai troppo piccoli per confrontarsi con le sfide del XXI secolo. Si conferma quindi la validità della Grossraumteorie sostenuta da Schmitt, secondo cui «tra l’unità del mondo, per ora utopica, e l’èra, passata, delle precedenti dimensioni spaziali si intercala per qualche tempo lo stadio della formazione dei grandi spazi» (L’unità del mondo e altri saggi). Il che, peraltro, induce Schmitt a valorizzare significativamente l’iconografia ( differenti immagini e concezioni del mondo scaturite da differenti religioni e tradizioni) delle diverse entità poltitico-geografiche.

D.- È possibile un ordine multipolare? Come potrebbe delinearsi un mondo multipolare ai giorni d’oggi? Sarebbe preferibile a un mondo unipolare o bipolare? Se sì, perché?

R.- E’ alla fine degli anni Ottanta che atlantismo e sionismo si sono venuti a configurare come pilastri cardine del nuovo modello unipolare americano, allo scopo di imporre, su scala planetaria, la logica del “turbocapitalismo” e di impedire a nuovi “soggetti politici” di poter cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio. Oggi ci troviamo invece in un situazione contrassegnata dal fallimento dell’unipolarismo, ma senza che vi sia ancora un autentico multipolarismo. Ciononostante, è innegabile che, rispetto a due decenni fa, il ruolo degli Usa sia nettamente cambiato: la superpotenza protesa verso il dominio dell’Eurasia e quindi dell’intero pianeta, mostra di avere una base economica insufficiente per “sostenere” il gigantesco Warfare State che permette agli Usa di svolgere il ruolo di gendarme mondiale e poter così non solo continuare a finanziare il proprio debito con capitali stranieri, ma anche evitare che la “tendenza multipolare” che si va profilando sullo scacchiere globale possa mettere in discussione l’egemonia americana. Al riguardo, però occorre precisare che non si conosce nessuna legge della storia in base a cui si possa affermare che la talassocrazia americana sia sul punto di collassare. E’ invece lecito affermare che, con ogni probabilità, l’iniziativa strategica rimarrà saldamente nelle mani degli Usa, fino a quando non vi sarà un blocco di alleanze tale da interdire agli Stati Uniti l’accesso alle direttrici geostrategiche che consentono di dominare l’Eurasia.

D. Cosa descrive un “polo” nella teoria delle relazioni internazionali? Come colleghi il concetto di “polo” con altri concetti strutturali dell’analisi delle relazioni internazionali come “Stato sovrano” o “Impero” o “Civiltà”? La sovranità, intesa come concetto, è oggi messa in discussione dalla globalizzazione e dall’idea di governo mondiale? La Teoria delle Civiltà è un valido strumento nello studio delle relazioni internazionali?

R.- Di fatto, se in questi ultimi anni si è confermata l’ipotesi schmittiana della formazione di “grandi spazi”, intermedi tra lo Stato mondiale e i singoli Paesi, si è anche assistito, oltre alla “rinascita” della Russia dopo gli anni bui dell’era Eltsin, al consolidamento ed al rafforzamento di Stati nazione quali, ad esempio, la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia ed il Brasile; ossia ad un fenomeno storico che pare problematico definire “semplicemente” come una “specie di occidentalizzazione”. Ché sarebbe una definizione – al di là della relazione tra modernizzazione e “occidentalizzazione” e di quella tra modernità e postmodernità, o, in altre parole, al di là dei problemi concernenti l’essenza di quel che si intende per “Occidente” – certo assai poco convincente sotto l’aspetto politico; e non solo politico, giacché ciascuna di queste “resistenze” nei confronti del mercato globale è anche il “pro-dotto” di un determinato “sub-stratum culturale” che, nonostante le molteplici fratture che contrassegnano ogni tradizione, continua a condizionare la lotta politica e sociale. Del resto, la stessa “krisis europea”, in quanto è essenzialmente un fenomeno politico e culturale, non si è affatto risolta con la fine del socialismo (“reale” o no che fosse), come attesta il ripetersi, benché in modi diversi, del conflitto tra le esigenze di una “ragione pubblica” – interprete di “iconografie identitarie”, di legami comunitari e di molteplici mondi vitali e quindi in grado articolare un determinato “polo geopolitico – e gli interessi del “mondo occidentale”. Gli interessi cioè di un aberrante Wille zur Macht, che deve contrastare l’azione di quelle “energie storiche” che, sebbene siano latenti (perciò non immediatamente riconoscibili e tali da alimentare differenti e perfino “contraddittori” percorsi politici e culturali), costituiscono ancora un orizzonte di senso possibile, nettamente opposto rispetto al “caos organizzato” (la “geopolitica del caos” appunto) che “in-forma” il sistema di potere “occidentale”.

D. Come vedi il ruolo del tuo Paese in un possibile sistema multipolare?

R.- Se si prende in esame il nostro Paese, è evidente non solo che il degrado istituzionale è giunto al punto di minare le fondamenta stesse dello Stato, ma che i partiti non rappresentano altri interessi se non quelli di alcune lobbies, di cui fanno parte non pochi di coloro che dovrebbero servire lo Stato e che invece non si fanno alcuno scrupolo di porsi al servizio di potentati economici stranieri. Una situazione resa ancor più drammatica dalla crisi del debito pubblico, che ha portato al commissariamento dell’Italia, da parte della Bce e dei cosiddetti “mercati”, che paventano che la crisi dei “debiti sovrani” possa avviare un nuovo corso della politica europea, dato che non v’è dubbio che la soluzione della crisi – intesa come “krisis”, cioè come scelta, “decisione” – consiste nel riconoscere che l’indipendenza del continente europeo dagli Usa è condicio sine qua non di ogni altra autonomia dei popoli europei. In questa prospettiva, il futuro del nostro Paese sembrerebbe già deciso. Nondimeno, com’è noto, si tratta di una crisi che concerne l’intera Europa e che è connessa al declino “relativo” degli Stati Uniti, di cui è parte costitutiva lo stesso sistema finanziario. Pertanto, è logico che l’attrito, l’eterogenesi dei fini, le lotte all’interno del gruppo dominante e tra i subdominanti, le scelte che inevitabilmente l’Europa dovrà fare per evitare di collassare e la necessità di confrontarsi con nuove “realtà geopolitiche” possano “interagire” in modo del tutto imprevedibile con la crisi dell’unipolarismo americano. In ogni caso, se, come giustamente sostiene Aleksandr Dugin, l’alternativa all’atlantismo e al liberalismo si deve cercare non nel passato, qualunque esso sia, bensì nel futuro, allora non è affatto impossibile che quel che oggi pare essere “destinato” alla sconfitta, possa invece capovolgere la situazione a proprio vantaggio. Vale a dire che non è affatto impossibile che si producano delle condizioni che permettano di contrapporre alla “pre-potenza” dell’atlantismo ed ai “mercati sovrani” i diritti e la sovranità delle genti dell’Eurasia. Se così fosse però non sarebbe l’Economico, ma il Politico a “decidere”. Ed è questo forse l’unico motivo per cui, nonostante tutto, vale ancora la pena di continuare a lottare per un’Italia “diversa”, in un prospettiva non solo europea, ma anche e soprattutto eurasiatica.

http://www.eurasia-rivista.org/intervista-a-fabio-falchi-redattore-di-eurasia/15019/



mercoledì 25 aprile 2012

INNOVAZIONE STRATEGICA E CONFLITTO GEOPOLITICO


Uno dei meriti indiscutibili dello studioso austriaco Joseph Schumpeter è quello di aver compreso il ruolo centrale della figura dell'imprenditore in un'economia capitalistica. Favorendo l'innovazione tecnologica, il mutamento dell'organizzazione della struttura produttiva e la diffusione di nuovi prodotti l'imprenditore promuove quella “distruzione creatrice” senza la quale la società di mercato sarebbe destinata a collassare. Ciononostante, secondo Schumpeter, lo stesso sviluppo del capitalismo, non avrebbe potuto non comportare, oltre ad una sempre maggiore ostilità nei confronti del “mercato” da parte dell'intellighenzia, la dissoluzione del legame sociale e al tempo stesso l'affermazione di una forma mentis burocratica - naturalmente contraria al mutamento sociale – , dacché per Schumpeter era inevitabile che i “capitani d'industria” venissero sostituiti da “tecnocrati” e burocrati che avrebbero soffocato l'iniziativa privata. (1)

Tuttavia, sotto questo aspetto, la storia non ha certo dato ragione allo studioso austriaco e il capitalismo, anche se oggi non gode di ottima salute, difficilmente si può ritenere sia sul punto di essere sconfitto dal socialismo. In effetti, gran parte dell'intellighenzia occidentale, una volta liquidati i valori della borghesia, si è mostrata tutt'altro che refrattaria all'ideologia della merce (ideologia che articola ormai la visione del mondo di qualsiasi strato sociale e che, mistificando l'idea stessa di libertà, riesce ad occultare gli effetti negativi della dissoluzione del legame sociale), tanto da fare l'apologia della società di mercato anche nelle sue forme più aberranti e ripugnanti. Inoltre, la rivoluzione dei manager, benché non abbia impedito la burocratizzazione del sistema sociale e la nascita di gigantesche tecnostrutture, ha saputo garantire all'economia capitalistica un “dinamismo” sufficiente per vincere tutte le sfide e le "guerre" del Novecento, compresa quella contro il "socialismo reale".

D'altronde, è indubbio che il concetto di “distruzione creatrice” sia essenziale per capire la storia (geo)politica del Novecento, nonché la stessa fase (geo)politica che contraddistingue il nostro presente storico, poiché si può facilmente osservare che in quanto esso può significare non solo innovazione tecnologica e produttiva, ma anche e soprattutto innovazione strategica, non è affatto un concetto che valga unicamente per spiegare fenomeni socioeconomici, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere limitandosi all'interpretazione della teoria (economica e sociale) di Schumpeter. Al riguardo, anche Giuseppe Bedeschi, recensendo l'opera di Schumpeter Passato e futuro nelle scienze sociali, nota che lo studioso austriaco, che non era affatto un “nemico” del capitalismo pur prevedendone il declino, consiste nell'avere sottovalutato sia il ruolo dei ricercatori sia quello delle piccole imprese. (2) Ma, pur riconoscendo che si tratta di una critica almeno in parte condivisibile, è evidente che anche Bedeschi privilegia un'ottica economicistica che, non prendendo in esame i conflitti (geo)strategici, rende incomprensibile la storia del Novecento. Per rendersene conto, basta tener presente che la Grande Depressione della prima metà del secolo scorso terminò solo con la Seconda guerra mondiale (e analogo discorso si potrebbe fare, mutatis mutandis, per quanto concerne la relazione tra la Grande Depressione di fine Ottocento e la Grande Guerra). Ovverosia con una immensa (e terribile) "distruzione creatrice", che di fatto fu una rivoluzione geopolitica che condusse al dominio degli Usa sul Vecchio Continente e alla contrapposizione tra la (nuova) talassocrazia d'Oltreoceano e la (nuova) potenza tellurica del "Continente Eurasiatico", l'Unione Sovietica.

A tale proposito, si deve ricordare (anche a costo di ripetersi) che la Seconda guerra mondiale generò pure una rivoluzione (geo)economica e tecnologica. Dal punto vista (geo)economico, se la guerra fu una catastrofe per tutti i Paesi belligeranti, per gli Usa (e quindi per la potenza capitalistica dominante) invece fu un business eccezionale. Mentre l'Unione Sovietica (unica potenza , insieme con gli Usa, a potersi considerare veramente vincitrice) aveva subito colossali danni di guerra, che furono stimati a 128 miliardi di dollari, stando ai prezzi prebellici, tanto che nel 1945 il reddito nazionale dell'Urss era del 15-20% inferiore rispetto a quello del 1940, negli Stati Uniti dal 1941 al 1945 nacquero oltre 500.000 nuove aziende ed alla fine della guerra c’erano 18,7 milioni di occupati in più rispetto al 1939. Se il Pil dli Usa, che nel 1939 era poco meno di 100 miliardi di dollari, superava i 200 miliardi di dollari, i redditi degli americani sotto 1.000 dollari diminuirono dal 24% (1941) al 5,6% (1944) e quelli fra 3 e 4.000 dollari passarono dall11% al 21,5%, sicché non sorprende che i consumi complessivi degli americani aumentarono da 70 a circa 120 miliardi di dollari (caso unico tra i belligeranti) Ed è noto che a Bretton Woods (agosto 1944) si gettarono le basi di un nuovo ordine mondiale, liquidando il “blocco della sterlina”, che prima della guerra controllava un terzo del commercio mondiale. In sostanza, gli Usa erano diventati una “superpotenza” politica, militare ed economica e poterono quindi ristrutturare l’economia capitalistica mondiale in funzione dei propri interessi, senza correre il rischio di vedere annullati i “guadagni” ottenuti durante la guerra (e grazie alla guerra). (3)

D'altra parte, la battaglia dell'Atlantico, la (quasi totalmente sconosciuta dai "non esperti") guerra aerea contro Germania e la "guerra dei codici" fecero compiere, nel giro di qualche anno, un balzo prodigioso alla tecnoscienza: non solo aerei e missili, ma apparati elettronici, radar, calcolatori ed una miriade di nuove macchine e nuovi congegni sofisticati cambiarono radicalmente l'organizzazione produttiva - e quindi sociale - dell'Occidente. Fu però la capacità di "combinare" i diversi fattori, tecnologici ed economici, secondo un disegno geopolitico coerente e di "ampio respiro" ad assicurare agli Usa una posizione predominante. Ne è prova lo stesso fatto che, allorquando lo squilibrio tra impegni strategici e risorse disponibili minacciava di far perdere agli Stati Uniti il confronto con l'Unione Sovietica - tanto che a giudizio di non pochi intellettuali la "pressione" endogena (contestazione e crisi economica - la cosiddetta "stagflazione") e quella esogena (guerra del Vietnam) potevano innescare un processo che avrebbe portato al crollo del capitalismo (da qui l'espressione "capitalismo maturo" - da intendersi "maturo per la rivoluzione") -, fu proprio la nuova strategia di Nixon e Kissinger a rilanciare il "modello americano": non solo "sganciando" il dollaro dal gold standard e "agganciandolo" al petrolio, per rimediare ad un deficit della bilancia commerciale che si sapeva essere non meramente "congiunturale"; ma specialmente mediante una applicazione spregiudicata della logica del divide et impera, che portò sì gli Usa a gettare la spugna in Vietnam (sebbene Nixon avesse promesso che l'aviazione Usa avrebbe impedito al Vietnam del Nord di sconfiggere "in campo aperto" il Vietnam del Sud), ma pure a un avvicinamento tra Washington e Pechino in funzione antisovietica, dividendo in tal modo il "campo nemico" ed evitando che si venisse a costituire un blocco eurasiatico, in grado di sfruttare le gravissime difficoltà in cui gli Usa si trovavano per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale.

E fu questo approccio geopolitico a "sostenere" sia la ristrutturazione del Warfare State sia il turbocapitalismo americano, all'epoca di Reagan, e a permettere agli Usa (e ai centri di potere dipendenti, in diversa misura, dal potere degli Usa) di trarre il massimo profitto dalle innovazioni tecnologiche in ogni settore della vita politica, sociale, economica e culturale dei Paesi occidentali. E non solo occidentali, in quanto si trattò di un mutamento non estraneo allo stesso crollo dell'Urss, non fosse altro perché rese ancor più problematico porre rimedio alle debolezze strutturali dell'Urss e dei Paesi dell'Europa orientale (immobilismo, burocratizzazione, fragilità dell'industria leggera ed eccessiva espansione dell'industria pesante, problemi derivanti dalle "aspettative crescenti" del ceto medio e dalle differenti nazionalità e così via). E non si può mettere in discussione nemmeno che, scomparsa l'Unione Sovietica, sia stato l'unipolarismo americano a "guidare" sia il processo di globalizzazione sia lo stesso sistema finanziario internazionale (con tutto quello che ciò implica sul piano sociale e politico), fino a quando si è giunti al “terremoto” del 2008 - logica conseguenza, in un certo senso, del fatto che la conquista dell'Heartland si è dimostrata essere al di là delle possibilità dell'America e dei suoi alleati, (4)

In questa prospettiva, è particolarmente significativo che anche un teorico come Gianfranco La Grassa, che analizza il rapporto tra economia e politica alla luce del conflitto strategico che contraddistingue il sistema capitalistico nelle sue molteplici configurazioni, osservi che «privilegiare l’aspetto finanziario rispetto all’industriale è comunque una scelta strategica, non dipende dall’intrinseca “bontà di comando” del denaro [...] Dopo il crack borsistico del ’29, le prime misure furono di fatto finanziarie. La crisi divenne terribile e nel ’31-’32 si fece la fame, la disoccupazione raggiunse oltre un terzo della forza lavoro, il reddito reale crollò. Il New Deal (che comunque attenuò ma non risolse la crisi, superata solo con la guerra mondiale) non fu semplice operazione finanziaria. Si stampò moneta al fine di metterla in circolazione tramite la spesa pubblica (in deficit di bilancio). Ma questa manovra partiva dal presupposto della presenza di imprese industriali chiuse e di mano d’opera disoccupata, fenomeni giudicati effetto della carenza di domanda».(5) Inoltre, già negli anni Novanta La Grassa sosteneva che «il periodo attuale – e il nostro paese è paradigmatico al riguardo – vede gli apparati finanziari, cioè degli interessi afferenti alle loro funzioni e ruoli, più interessati alla globale circolazione di merci e denaro e ad una considerevole redistribuzione del reddito verso l’alto, con la conseguente distruzione, o drastico ridimensionamento, del Welfare State», e di conseguenza «la richiesta, tipica non solo dell’Italia, di governi “tecnici” non deve ingannare nessuno; si tratta semplicemente di tecnici finanziari [...] non certo di dirigenti interessati, in senso schumpeteriano (corsivo nostro), all’innovazione, alla creatività ecc.».(6) In definitiva, secondo La Grassa, il fattore finanziario, in quanto tale, conta poco, qualora non vi sia una vera strategia di crescita dell’economia reale; crescita però che non è possibile se ne mancano i fattori o se questi sono “depressi” dall’asservimento di un Paese all’economia di un sistema sociale e (soprattutto) politico predominante.

Se questo però vale per un Paese, come l'Italia, "dominato" dai centri di potere atlantisti, è anche vero che il fallimento del modello unipolare statunitense ha generato un "contraccolpo geopolitico" di cui è pressoché impossibile prevedere quali saranno gli effetti, ma che non sembra potersi definire come una situazione internazionale caratterizzata da una "distruzione creatrice" tale da consentire agli Usa di costruire un nuovo ordine mondiale. Si è piuttosto in presenza, come più volte rilevato, di una sorta di “geopolitica del caos” che ostacola la formazione di un autentico multipolarismo, allo scopo di perpetuare l'egemonia americana (e, in generale, dei "circoli atlantisti"), sia pure a costo di una continua destabilizzazione tanto sotto il profilo (geo)politico quanto sotto il profilo sociale ed economico. Decisivo allora è mettere in evidenza che, dato che la "distruzione creatrice" - che in primo luogo (come si è cercato di mostrare) si deve intendere come innovazione strategica - è un tratto costitutivo del conflitto geopolitico, è quest'ultimo che sempre più condiziona il conflitto sociale e economico. Vale a dire che il conflitto sociale ed economico non può non essere "sovradeterminato" dalla geopolitica (nel senso che esso fa parte di una totalità di rapporti e di contraddizioni di carattere geopolitico che ne qualificano i modi e le variazioni), la quale, lungi dall'essere soltanto il terreno su cui si confrontano diverse "volontà di potenza", in realtà struttura lo "spazio sociale e politico" anche in funzione di diverse Weltanschauungen e di diversi "pro-getti" sociali e modi di "essere-nel-mondo".

E' innegabile allora, se la nostra riflessione (si badi, solo riflessione, non certo analisi storica di fenomeni così complessi da richiedere ben altro spazio e ben altre competenze) è corretta, che oggi la "contrapposizione principale", cioè la contrapposizione che attualmente conferisce "senso e orientamento" al conflitto strategico e che dovrebbe essere a fondamento dell'innovazione strategica, sia quella tra eurasiatismo e atlantismo. Il che poi altro non è che una particolare espressione di quella opposizione fra Terra e Mare che il processo di occidentalizzazione mostra di non essere in grado di cancellare o superare, benché si debba riconoscere che la “geopolitica del caos” non pare "destinata" a dar vita ad un nuovo Nomos, né ad originare un nuova guerra mondiale (ma si dovrà anche concedere che “non necessariamente” non significa né impossibile né improbabile). Comunque sia, non è affatto sicuro nemmeno che, ove si verificasse una autentica "distruzione creatrice", quest'ultima porterà ad una definitiva occidentalizzazione del pianeta, posto che ritenere che l'innovazione strategica sia soltanto una caratteristica della società di mercato o della cultura “occidentale” significhi che non ci si è liberati da una ideologia economicistica, cioè dai pregiudizi tipici dell'homo oeconomicus



Note

(1) Si veda Joseph A. Schumpeter, Il capitalismo può sopravvivere? La distruzione creatrice e il futuro dell'economia globale, ETAS, Milano, 2010.
(2) Giuseppe Bedeschi, Il rivoluzionario più audace è l'imprenditore, «Corriere della Sera», 7 marzo 2011, p. 32.
(4) Sulla questione dello squilibrio tra risorse economiche e potenza politico-militare come causa del declino relativo degli Usa, sempre utile, anche se in parte datato, Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.
(5) Si veda http://www.conflittiestrategie.it/2012/04/16/agenti-strategici-e-miopia-degli-economisti/
(6) Gianfranco La Grassa e Costanzo Preve, Oltre la gabbia di acciaio, Vangelista, Milano, 1994, specialmente pp. 103 e ss.  

venerdì 17 febbraio 2012

BREVE NOTA SULLA COSIDDETTA "NEUTRALITA' SCIENTIFICA"





E' indubbio che da Kant in poi la questione dell'oggettività si sia rivelata inseparabile da quella della intersoggettività, nel senso che, una volta riconosciuto che non può essere oggetto di esperienza un mondo totalmente indipendente dal soggetto della conoscenza, "essere oggettivo" non può che significare "essere valido per tutti", cioè conforme ad un metodo. Inevitabile quindi che si sia dovuto prendere coscienza che le singole osservazioni delle scienze empiriche non sono "puri" dati dì esperienza, bensì particolari “asserzioni” e che proprio la questione del “linguaggio” sia stata a fondamento della crisi del neopositivismo logico e della nascita della epistemologia "post-positivistica" (rappresentata soprattutto, ma non solo, da Kuhn, Lakatos e Feyerabend).(1)

Ed è opportuno sottolineare che si tratta di una epistemologia "post-popperiana", in quanto viene messo in discussione il fatto che vi sia una base empirica “neutrale” come criterio di "falsificabilità" delle teorie scientifiche, non essendo possibile considerare il contesto della giustificazione e il linguaggio osservativo indipendenti, rispettivamente, dal contesto della scoperta e dal linguaggio teorico. Da qui, la negazione dell'esistenza di un metodo scientifico universalmente valido (Feyerabend) e il sempre maggiore rilievo, più che alle singole teorie scientifiche, ai programmi di ricerca (Lakatos) oppure ai paradigmi (Kuhn), nonché alle strategie argomentative, per capire le decisioni della comunità scientifica. Ma soprattutto la necessità di una nuova e approfondita riflessione sui problemi dell'olismo (Quine) e su quegli aspetti della scienza contemporanea, come le descrizioni equivalenti e i paradossi della logica matematica, che hanno radicalmente cambiato la visione scientifica del mondo - anzi che sono all'origine delle diverse immagini scientifiche del mondo (Goodman).

Non a caso, uno dei più importanti filosofi della scienza, Hilary Putnam, pur criticando il relativismo e l'incommensurabilità dei paradigmi scientifici, sostiene l'impossibilità gnoseologica del realismo “esterno” (secondo cui la realtà consiste di una precisa totalità di oggetti, è “esterna” rispetto alla mente umana - non dipende cioè in alcun modo dalle categorie impiegate dal soggetto della conoscenza - e di essa vi è solo un'unica descrizione vera), dato che non vi è nessun criterio che permetterebbe di ridurre le diverse visioni/interpretazioni del mondo ad una sola (corretta) visione/interpretazione del mondo. Tanto è vero, osserva Putnam, che se ci si domanda quanti oggetti ci sono, è possibile, dal punto di vista della matematica, rispondere perlomeno in due modi differenti (ed analoghe considerazioni valgono per la definizione del punto e così via), ad ulteriore conferma che non si può paragonare nessuna descrizione della realtà alla realtà in sé, bensì unicamente ad un'altra descrizione della realtà. In definitiva, non si può descrivere il mondo senza descriverlo: « Parlare di “fatti” senza aver specificato in quale linguaggio stiamo parlando è parlare di nulla; la parola “fatto” non ha un uso fissato nella Realtà in Sé più di quanto lo abbiano la parola “esiste” o la parola “oggetto”».(2)

Di conseguenza, è pure del tutto logico che la ricerca epistemologica contemporanea venga a rafforzare quella concezione del rapporto tra intepretandum e intepretans che si suole definire "circolo ermeneutico" (messo chiaramente in luce per la prima volta da Heidegger nel § 32 di Essere e tempo),(3) in quanto la struttura della comprensione si contraddistingue per non poter non muovere da una serie di "pre-giudizi" su cui si fonda la stessa comprensione, di modo che quel che si deve comprendere, in una certa misura, si è già compreso. Ciò però non implica che il "circolo ermeneutico" debba essere ritenuto un circolo vitiosus, poiché, come precisa Heidegger, ritenendolo già indice di quell'apertura linguistica del mondo che contraddistingue la “seconda fase” del suo pensiero, «in esso si nasconde una possibilità positiva del conoscere più originario».(4) Infatti, non si può neanche escludere che «chi cerca di comprendere, [sia] esposto agli errori derivati da pre-supposizioni che non trovano conferma nell'oggetto». Ad esempio, «chi vuol comprendere un testo deve lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all'alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un'obiettiva 'neutralità' [corsivo nostro] né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi».(5)

Del resto, argomenta Apel, «al criterio fornito dal paradigma di Kuhn corrisponde la Lichtung [radura, chiarita] di Heidegger, interpretabile come apertura linguistica del mondo, che libera l'orizzonte di senso entro il quale sono possibili le domande della scienza – e, come ha dimostrato Gadamer, dei giudizi giusti o sbagliati vanno per forza intesi come delle risposte a delle domande, attuali o almeno possibili». Per questo, conclude Apel, «tutti i risultati della scienza occidentale dipendono da orizzonti di senso o orizzonti interrogativi paradigmatici che non si sono potuti aprire ad altre culture, dotate di diverse aperture linguistiche del mondo (ad esempio, gli indiani Hopi del Nuovo Messico)».(6)


Essenziale è allora rendersi conto che si è sempre “radicati" in una certa tradizione, ossia che la nostra realtà dipende da ciò che Gadamer denomina "storia degli effetti" (Wirkungsgeschichte), di modo che non può che essere assurdo pretendere di studiare la storia da una prospettiva “neutrale”, metastorica e metaculturale. A tale proposito, si può ricordare che anche Pareyson (7) sottolinea l'aspetto rivelativo e al tempo stesso plurale della stessa nozione di verità, dato che la formulazione della verità non può che essere mediata dal linguaggio. In particolare, Pareyson non nega l'unicità della verità, ma la paragona a quella di un'opera musicale che rimane la stessa pur non essendo possibile comprenderla se non interpretandola. E ovviamente non vi è la possibilità di paragonare l'interpretazione di un'opera all'opera in sé, sebbene si possa condividere un insieme di regole, metodi, postulati e convinzioni che mostrano che è l'opera ad “orientare” l'interpretazione, sia pure in funzione dei nostri "interessi" (teorici, pratici o emancipativi che siano, in base alla celebre distinzione proposta da Habermas).(8) Il che tra l'altro spiega sia perché ormai tenda a prevalere una concezione strumentalistica della scienza, che, oltre a valorizzare gli aspetti pragmatistici presenti nel pensiero di autori quali Quine e Putnam, giustifica una determinata ontologia secondo il sistema di riferimento scelto e in base agli scopi del sistema medesimo; sia perché la retorica della scienza "pura" sembra aver lasciato posto alla convinzione secondo cui, come sostiene Heidegger, è la scienza moderna a fondarsi sulla tecnica moderna, e non viceversa. 

Naturalmente, i percorsi di ricerca che possono derivare da tale "svolta linguistica" (che qualcuno ha paragonato ad una sorta di nuova rivoluzione copernicana) sono diversi e perfino opposti tra di loro, giacché non può non essere questa stessa “svolta” (questione del relativismo inclusa) oggetto di differenti interpretazioni, ma è innegabile che essa sia un tratto distintivo ed essenziale non solo della filosofia della scienza, ma di ogni branca della filosofia contemporanea, compresa “la filosofia prima”, cioè quella che si occupa di questioni ontologiche e metafisiche. (Si badi che, anche se è evidente che non tutto è interpretazione, pure chi difende la concezione della cosiddetta "metafisica classica", su basi platoniche o "neoplatoniche", aristoteliche o aristotelico-tomiste, ritiene che l'identità intenzionale tra essere e pensiero si renda manifesta grazie al medium spirituale del linguaggio. Una posizione diversa sul linguaggio, nel senso stretto del termine, è invece sostenuta da Colli, per il quale comunque la stessa ragione è "es-pressione" di qualcos'altro, di modo che, in ogni caso, la nostra esperienza del mondo viene a costituirsi e a formarsi  nel "fiume delle interpretazioni").

Perciò, queste nostre considerazioni possono apparire, se si vuole, perfino banali, ovvero luoghi comuni della cultura contemporanea. Tuttavia, non è affatto raro che si tenda a confondere la - più che legittima e necessaria - critica dell'ideologia, intesa come sapere dogmatico e aprioristico, non aperto al confronto, con la difesa di una presunta “neutralità scientifica”, perlopiù in quei settori della conoscenza, che sono di gran lunga meno “strutturati” delle scienze della natura - e sono tali non perché ci si ostini a non impiegare linguaggi matematici (ché in molti testi di astrologia vi è più matematica che nei testi di fisica, ma non per questo l'astrologia viene considerata una scienza), bensì perché è l'oggetto stesso di certe scienze che si presta poco ad essere compreso mediante la matematica. Non necessariamente le scienze umane però sono meno rigorose di quelle della natura, al punto che Heidegger non esita ad affermare che «le presupposizioni del conoscere storiografico trascendono in modo essenziale l'idea di rigore delle scienze esatte. La matematica non è più rigorosa della storiografia, ma semplicemente più ristretta quanto all'ambito dei fondamenti esistenziali per essa rilevanti».(9) In ogni caso, si dovrebbe tenere sempre presente non solo l'oggettività ma anche l'adeguatezza della conoscenza, anche perché, come Gadamer ha più volte affermato, per quel che riguarda le scienze dello spirito non sono tanto le spiegazioni che contano quanto piuttosto la comprensione del nostro orizzonte storico (senza dimenticare che nella realtà storica è l'eccezione, per così dire, ad essere la regola), di modo da poter "cor-rispondere" all'appello che il presente storico ci rivolge in quanto esseri umani.


D'altra parte, che dalla “svolta linguistica”, che caratterizza la filosofia e l'epistemologia contemporanea, consegua un certa forma di relativismo, lo si deve pur concedere. Nondimeno, è significativo che l'ultimo Feyerabend - l'antimetodologo anarchico che i relativisti annoverano tra i loro “campioni” - «sostiene (o almeno scrive come se lo sostenesse) che ha senso parlare di una natura umana comune poiché ogni cultura (o tradizione) è in potenza tutte le altre».(10) Se, però, ciò da un lato pare avvalorare la tesi che le diverse tradizioni esprimono una “sostanza comune” (11) (sicché vi sarebbe la reale possibilità per i popoli di intendersi tra di loro, ciascun popolo potendo interpretare e rinnovare la propria tradizione “dia-logando” e “con-frontandosi” con altri popoli), dall'altro fa comprendere perché la “mondializzazione” sia un processo che rischia di annientare ogni stile di vita che non sia funzionale al sistema di potere occidentale.

Sotto questo profilo, non sembra azzardato ritenere che sia proprio la geopolitica a mostrare meglio di altre discipline come qualunque attività umana non possa prescindere né da un concreto riferimento spazio-temporale né dal “conflitto” delle interpretazioni, e ad evidenziare che la difesa di un punto di vista “neutrale”, in realtà, oggi, equivale a condividere i presupposti di quel pensiero “politicamente corretto”, che non è altro che l'espressione ideologica della società di mercato occidentale. Pertanto, anziché criticare l'ideologia, si finisce col fare l'inconsapevole apologia della peggiore forma di ideologia, se si pensa di evitare di “prendere posizione”; mentre, se si vuol essere veramente “obiettivi”, ciò che rileva è saper "prendere posizione". Vale a dire che conta “come” e “perché” si prende una determinata posizione.



Note

1. Oltre ai testi di questi autori, si vedano, per una comprensione perlomeno dei principali aspetti della ricerca epistemologica contemporanea, Nicola Abbagnano-Giovanni Fornero, Storia della filosofia, Utet, Torino, vol. IV, 1991/1994, Giovanni Fornero-Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2002, Storia della filosofia (diretta da Mario Dal Pra), Piccin Nuova Libraria, Padova, 1998 e Giulio Giorello, Introduzione alla filosofia della scienza, Bompiani, Milano, 1994. Ancora fondamentale è Paul K. Feyerabend-Giulio Giorello, Critica e crescita della conoscenza, Feltrinelli, Milano, 1976. Utili e importanti anche i due libri di Marcello Pera, Popper e la scienza su palafitte, Laterza, Bari,1980 e Scienza e retorica, Laterza, Bari, 1991. Sul neopositivismo logico, si vedano la magistrale ricostruzione storico-filosofica di Francesco Barone, Il neopositivismo logico, Laterza, Bari, 1953 e l'analisi teoretica di Emanuele Severino, Legge e caso, Adelphi, Milano, 1979.
2. Hilary Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano, 1991, p. 51 In relazione a questo tema, di Putnam si veda anche Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano,1998, in specie il cap. 6.
3. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976, § 32, pp. 188-195.
4. Ibidem, p. 195.
5. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano, 1983, pp. 314 e 316.
6. Karl-Otto Apel, Autocritica o autoeliminazione della filosofia?, in Filosofia '91 (a cura di Gianni Vattimo), Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 35.
7. Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano, 1972.
8. Hans Jürgen Habermas, Conoscenza e interesse, in Id., Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza, Bari, 1969, p. 9.
9. Martin Heidegger, op. cit., p 195.
10. Valerio Meattini, Natura umana, scetticismo, valori. Orientamenti, Giuseppe Laterza, Bari, 2009, p. 31. Meattini si riferisce al saggio di Paul.K. Feyerabend, Contro l'ineffabilità culturale, in "Volontà", 2-3, 1994, pp. 97-107.
11. E' interessante notare che anche per Toshihiko Izutsu, impegnato a delineare i contorni di una "metafilosofia", è indispensabile che uno studio comparato sia filologicamente fondato, onde evitare «di ricadere nel difetto positivista di pretendere che possa esistere un "occhio" neutrale [ovvero] che il soggetto indagante sia indifferente, immune, e neutrale rispetto ai problemi interni [agli oggetti assunti a tema dell'indagine]», Giangiorgio Pasqualotto, introduzione a Toshihiko Izutsu, Sufismo e taoismo, Mimesis, Milano, 2010, p. 10.





mercoledì 19 ottobre 2011

INDIPENDENZA DELL'EUROPA, SOVRANITA' NAZIONALE E CRISI GLOBALE

Più volte nei nostri articoli si è evidenziato che la difesa della sovranità di uno Stato è necessaria per opporsi al “mondialismo” dell’oligarchia finanziaria occidentale. Tuttavia, non si dovrebbe equivocare, dacché “necessaria” non significa “sufficiente”. Perciò si è sempre anche sottolineato che la nostra epoca è quella dei “grandi spazi”, in cui i singoli Stati nazionali sono troppo piccoli per potersi opporre al ”mondialismo” del Leviatano, ovvero che è della massima importanza capire che uno Stato europeo dovrebbe esercitare la propria sovranità “nei limiti e nelle forme” di uno “blocco geopolitico continentale”, ammesso che l’Europa non voglia rassegnarsi ad essere una provincia degli Stati Uniti. Del resto, il tratto distintivo dell’America è di essere uno Stato che, in quanto tale, è “de-limitato” da un determinato territorio, ma il cui “raggio d’azione”, politico ed economico, non può non travalicare ogni “con-fine”, dato che è espressione di una volontà di potenza che è la medesima volontà di potenza che “in-forma” l’agire del “turbocapitalismo” occidentale e dell’alta finanza. Sicché, è l’esigenza stessa di combattere un nemico comune, che richiede (e offre l’occasione) di dare vita, su fondamenti geopolitici, storici e culturali, ad un ordinamento istituzionale autenticamente “sovra-nazionale”.
Nondimeno, parrebbe che la questione di una Europa “sovrana” sia una sorta di “circolo vizioso” e che l’Ue, con tutti i suoi difetti, rimanga l’unica soluzione politica possibile, poiché, se da un lato si manifestano la debolezza e la miopia politica di chi non sa definire l’interesse nazionale secondo un ordine geopolitico che sia super partes, dall’altro è la mancanza di un siffatto ordine che favorisce comportamenti politici che tendono a dividere ancora di più non solo i Paesi europei ma addirittura i Paesi del continente eurasiatico. (Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, si pensi, ad esempio, alla Turchia di Erdogan, che ha il merito di prendere posizione contro l’entità sionista, ma che al tempo stesso si adopera contro la Siria di Assad, il quale deve difendersi da una rivolta supportata anche dagli americani e dagli israeliani; oppure all’Iran, che ha appoggiato i “cirenaici” e i tagliagole della Nato contro la “Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista”. E gli esempi, purtroppo, si potrebbero moltiplicare. Si assiste così a scelte che si vorrebbero giustificare come indispensabili per proteggere i propri interessi o per svolgere una politica di potenza regionale, ma che invece sembrano essere conseguenza del fatto che non ci si è ancora resi conto che la complessità del “sistema” internazionale non ammette che vi siano spazi geopolitici “isolati” dai rapporti di potenza che strutturano gli equilibri mondiali e “decidono” il livello e l’area del “confronto”). In realtà, non vi è alcun “circolo vizioso”, dato che è l’Ue medesima che si dovrebbe concepire come un campo di forze in lotta tra di loro, per stabilire quale deve essere il destino dell’Europa, alla luce di quella scelta fondamentale tra amico e nemico che si configura come opposizione tra “terra” e “mare” (per usare il lessico di Carl Schmitt, benché sia inevitabile che i due termini di questa opposizione possano cambiare di significato con il mutare dei tempi). Ed è il fatto che la caratteristica essenziale della talassocrazia americana consista nell’imporre la propria volontà con ogni mezzo a qualunque altro “soggetto politico”, a rendere necessario, per tutelare gli interessi delle differenti “patrie” (nazionali, locali o “ideali”che siano), che le diverse spinte nazionali concorrano alla costruzione di una struttura politica di “livello più alto” rispetto a quello nazionale, alla quale affidare il delicato e vitale compito della difesa dell’indipendenza continentale. Pertanto, una volta che sia riconosciuta l’origine (geo)politica dell’attuale crisi finanziaria – che è certo da mettere anche in relazione con la ridefinizione in chiave liberista del sistema sociale occidentale – non ci si dovrebbe stupire che l’obiettivo che i “mercati” perseguono sia, in primo luogo, quello di impedire che l’Europa possa smarcarsi dal dominio americano, profittando di una situazione internazionale che, con l’emergere di nuove potenze, “indica” nuove corsie geostrategiche e geoeconomiche, che dovrebbero “indirizzare” la politica europea verso Est e verso Sud. Non a caso gli Usa, dopo l’intervento nei Balcani (anche per non permettere alla Germania di svolgere un ‘azione politica autonoma nell’Europa orientale), hanno rivolto la loro attenzione all’area mediterranea, coinvolgendo il più possibile i Paesi europei in una aberrante e criminale politica neocolonialista, e non si fanno nemmeno scrupolo di usare – rischiando di evocare, come l’apprendista stregone, forze che non possono controllare – l’islamismo più radicale (fratellanza musulmana inclusa) per conservare e rafforzare la loro testa di ponte occidentale, tanto più necessaria e preziosa ora che la “sfida globale” riduce i margini di manovra delle “forze occidentali”, lasciando apparire le gravissime “contraddizioni” del gigantesco Warfare State americano. (Al riguardo, non si deve trascurare l’azione delle lobbies sioniste, che, oltre ad essere funzionali alla politica di Israele, sono parte costitutiva dell’oligarchia atlantista, che ha una delle armi più potenti e pericolose proprio nella “cultura” dell’intolleranza, della discriminazione, dell’arroganza, dell’intimidazione e della mistificazione che contraddistingue i circoli sionisti, i quali hanno tutto l’interesse a ricattare l’Europa. E ciò a prescindere dal fatto che Israele non può essere considerato un semplice spettatore degli eventi che stanno cambiando la mappa politica del mondo arabo, benché non sia facile capire quale sia effettivamente il ruolo dell’entità sionista e quale partita si stia giocando tra Washington e Tel Aviv).(1).
E’ affatto logico allora che si tema che la crisi dei “debiti sovrani” possa avviare un nuovo corso della politica europea, dato che non v’è dubbio che la soluzione della crisi – intesa come “krisis”, cioè come scelta, “decisione” – consiste nel riconoscere che l’indipendenza del continente europeo dagli Usa è condicio sine qua non di ogni altra autonomia dei popoli europei. In quest’ottica, la crisi dell’unipolarismo americano e la scelta di puntare sulla geopolitica del caos, per salvaguardare ad ogni costo l’egemonia atlantista, anche contro gli interessi di parte del popolo americano, sono con ogni probabilità alla base della proposta del noto “filantropo” George Soros, secondo cui bisogna delegare alla Bce e al Fesf (Fondo europeo per la stabilità finanziaria) il compito “di riportare la crisi sotto controllo”. (2) Il che è quanto si sostiene pure in una “lettera aperta” – firmata, oltre che dallo stesso Soros, da Emma Marcegaglia e da Massimo D’Alema – in cui si rivolge un appello ai “Parlamenti dei paesi dell’Eurozona affinché riconoscano che l’euro richiede una soluzione europea [dato che] la ricerca di soluzioni a livello nazionale può solo portare alla dissoluzione” (3). Sono parole che però non devono trarre inganno, dacché quello cui si mira, “invertendo” il rapporto tra causa (debolezza politica e strategica ) ed effetto (crisi economica), non è ciò che apparentemente si sostiene, bensì esattamente l’opposto. Lo comprende bene Rino Formica che scrive che “il rinvio sulla debolezza costituzionale (e quindi politica) dell’Europa segue l’antica logica dei due tempi: prima viene l’emergenza e dopo le riforme. Su questo terrreno sono sempre state sconfitte le forze del cambiamento”. (4) A tale proposito, scrive il sociologo Luciano Gallino non solo che “il passo più rischioso cui Sarkozy e Merkel stanno spingendo la Ue consiste nel salvare le banche senza compiere alcun tentativo per avviare una vera riforma del sistema finanziario”, ma pure che “i gruppi finanziari salvati dallo Stato a suon di trilioni di dollari e di euro spesi o impegnati (più di 15 in Usa, almeno 3 nella Ue) sono ora, in termini di attivi in bilancio, grandi il doppio [e ] i primi venti del mondo hanno ciascuno attivi tra 1 e 2 trilioni di dollari, cifre che si collocano, come equivalenza, tra il cinquanta e il cento per cento del Pil dell’Italia. Ci provi, un qualsiasi governo, a opporsi ai voleri di simili colossi”. (5) Anche se si può obiettare a Gallino di non prendere in esame il fatto che si tratta di “colossi” che agiscono secondo una particolare strategia politica (che altro non è se non quella che si suole, correttamente, definire atlantista), non potendo in alcun modo la finanza internazionale fare a meno dell’apparato di “comando e controllo” della potenza capitalistica dominante – egli ha comunque il merito di non mistificare la verità come invece fa Mario Monti (il tecnocrate che ha dichiarato che le misure draconiane adottate dal governo greco provano il successo dell’euro, in base alla logica che, anche se il paziente è morto, l’operazione è perfettamente riuscita), il quale afferma che “in Europa e negli Stati Uniti [...] si identifica proprio nell’Italia il possibile fattore scatenante nell’eurozona di dimensioni non ancora sperimentate e forse non fronteggiabili [mentre] in un’Europa e in un mondo sempre più interdipendenti sarebbe opportuno che quanti hanno dato il loro sostegno a Berlusconi [...] prendessero maggiore consapevolezza della realtà internazionale che rischia di travolgerci, di trasformare l’Italia da Stato fondatore in Stato affondatore dell’Unione europea”. (6) A parte l’assurdità di far dipendere dall’attuale governo italiano (sebbene sia innegabile che anche questo governo abbia “costruito” assai male) il terremoto finanziario che sta facendo vacillare l’intero Occidente, è evidente che, a giudizio di Monti, per non consentire ai “mercati” di attaccare un Paese sovrano – “già oggetto di ‘protettorato’ (tedesco-francese e della Banca centrale europea)” – e di far così affondare addirittura l’Europa, si dovrebbe accettare il diktat della Bce che, come anche Gallino riconosce, altro non è che il diktat dei “mercati” medesimi. E non v’è chi non s’accorga della somiglianza tra la “ricetta” del tecnocrate italiano “targato” Goldman Sachs (come “mister” Draghi) e la proposta del “sostenitore” delle rivoluzione colorate. Non è che vi sia un “complotto” dell’alta finanza contro l’Italia, ma è la realtà stessa che spinge in certe “direzioni”, dato che essa non piove dal cielo, ma è frutto di precise scelte strategiche. Insomma, la “vulnerabilità” dei singoli Stati europei – anche per errori (che nessuno nega) di gestione politica – diviene “strumento” di una strategia complessa, che deve impedire che la “crisi globale”, cioè l’interdipendenza cui si riferisce Monti, possa generare – anche allo scopo di risolvere una situazione economica che si aggrava sempre più – un radicale rinnovamento della politica europea o, in altre parole, quell’alternativa multipolare che metterebbe fine all’egemonia dei “mercati”.
Sono questi dunque i motivi che ci inducono a ritenere che si dovrebbe costruire nel nostro Paese (ma naturalmente non solo nel nostro Paese) un “polo nazionalpopolare”, per una rifondazione dell’Unione europea, senza la quale qualsiasi riforma finanziaria sarà “inutile”, e che rappresenti, anziché i diritti dei cosiddetti “mercati”, i diritti dei popoli europei. Epperò, la solidarietà tra le varie parti non solo del continente europeo, bensì dello stesso continente eurasiatico, consegue anche dalla necessità di difendere la propria “terra”, ovvero le proprie radici, che tanto più sono profonde, tanto più si intrecciano, per cui la loro connessione si dovrebbe considerare come effetto di un processo di integrazione che non annulla le “differenze”, ma anzi le conserva, sia pure in funzione di una sintesi politica e culturale realmente “sovra-nazionale”. Nel Novecento l’Europa ha dovuto pagare un prezzo troppo alto per non aver saputo mediare tra difesa delle “radici identitarie” e giustizia sociale, nel rispetto della persona umana. Ma se è vero che possono affermare di avere appreso le “dure” lezioni del Novecento soltanto coloro che sanno prendere le distanze da chi è disposto (per interesse personale, per conformismo, o per mera “degenerazione ideologica”) ad avallare i crimini dei sionisti o la “barbarie umanitaria” dell’Occidente, allora non dovrebbe essere difficile comprendere perché sia necessaria una forza “nazionalpopolare” e che cosa significhi oggi lottare per l’indipendenza del continente europeo, “saldandolo” alla massa eurasiatica, secondo una concezione antisionista e antiatlantista.

Note
1)Vedi http://aurorasito.wordpress.com/2011/10/14/israele-e-libia-preparare-lafrica-allo-scontro-di-civilta/.
2)Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2011-09-30/soros-salvare-eurozona-tesoro-231508.shtml?uuid=Aa3WM08D&fromSearch.
3)Vedi http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-10-11/appello-leuropa-202250.shtml?uuid=AaeDKBCE.
4) Vedi http://www.ilfoglio.it/soloqui/10743.
5)Vedi http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=40674
6)Vedi Corriere della sera, 16/10/11, p.1.

SOVRANITA' NAZIONALE ED ALTERNATIVA MULTIPOLARE


La nozione di sovranità non è affatto facile da definire, tanto che Alain de Benoist ritiene che non sia distante dalla verità l’affermazione di John Hoffman, secondo cui «la sovranità rappresenta un problema insolubile già da parecchio tempo prima che si volesse associarla ad ogni costo allo Stato». (1) D’altronde, lo stesso de Benoist osserva che di regola tale nozione è usata in due accezioni particolari: «Una definisce la sovranità come il potere pubblico supremo, quello che ha il diritto – e, teoricamente, la capacità – di far prevalere in ultima istanza la sua autorità. L’altra designa il detentore ultimo della legittimità del potere, rinviando allora al fondamento di quella autorità. Quando si parla di sovranità nazionale, definendola in particolar modo come il mezzo dell’indipendenza, cioè della libertà di azione di una data collettività, ci si situa nella prima accezione; quando si parla di sovranità popolare, ci si situa nella seconda». (2)
La questione della sovranità nazionale sembra quindi – sia in quanto “mezzo di indipendenza”, sia in quanto «non è legata né a una particolare forma di governo né a un tipo particolare di organizzazione politica [ma] al contrario, è inerente a qualsiasi forma di esercizio del comando politico», (3) – essere oggi tanto più rilevante per la presenza di organizzazioni in grado di limitare non poco la sfera di azione e la sovranità dei singoli Stati. Ne è una ulteriore conferma il fatto stesso che sono organizzazioni che vengono considerate internazionali o “sovranazionali”, ma che in realtà agiscono come “strumenti” dello Stato predominante, cioè gli Usa, o di “certi altri” Stati (come gli Stati che sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu o gli Stati più “forti” dell’Ue, ossia Germania, Francia e Gran Bretagna, a loro volta dipendenti, in misura più o meno grande, dagli Usa; e analoghe considerazioni valgono non solo per l’Onu o l’Ue, ma, ad esempio, per istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Corte penale internazionale e la Nato).
Posto che è di estrema importanza allora capire che cosa sia lo Stato e quale dovrebbe essere la “forma” dello Stato migliore per contrastare la politica di quei gruppi “tecno-plutocratici” che controllano lo Stato capitalistico dominante – benché, a causa della competizione e della rivalità all’interno del “nucleo” del sistema americano, anch’esso non sia un “monolito” – , è degno di nota che, come scrive Emilio Ricciardi, secondo Gianfranco La Grassa «lo Stato andrebbe concepito come un campo (costituito da correnti) di energia conflittuale permanente che, generatosi dallo scontro nella sfera politica fra gruppi dominanti volti alla reciproca sopraffazione per la supremazia su un’intera formazione sociale, troverebbe poi condensazione e precipitazione in apparati (tra cui, fondamentali, gli apparati della coercizione), istituzioni, corpi vari, i quali, pertanto, costituirebbero l’esito e risultante finali (ma giammai definitivi ed anzi sempre sostanziantisi in un equilibrio instabile, pronto a risolversi in ulteriori e diversi assetti di rapporti di forza) dell’azione combinata ed interazione di e tra siffatte correnti conflittuali. Insomma, lo Stato non come soggetto (tanto meno unitario) ma come processo» (4). Bisognerebbe allora evitare ogni “reificazione” del concetto di Stato, senza perdere di vista «la struttura dei rapporti sociali: sia in generale per quanto concerne l’odierna formazione capitalistica (non omogenea dappertutto, anzi l’esatto contrario) sia con specifico riferimento all’Italia». (5) In definitiva, facendo proprio il lessico epistemologico di Ernst Cassirer, si può sostenere che per La Grassa si dovrebbe considerare lo Stato non come sostanza, bensì come funzione.
Tuttavia, è della massima importanza rilevare che solo se una comunità non è la “semplice” somma delle parti, ma una “totalità” distinta dalle parti che la compongono – senza per questo che si debba sostenere che lo Stato è un “soggetto spirituale”, come lo Stato etico hegeliano – (6) si può effettivamente giustificare che lo Stato – che detiene il monopolio “legittimo” dell’uso della forza – rappresenti un’istanza unitaria e sovrana, “vincolante” per tutti i cittadini, in quanto “ap-partenenti” alla medesima comunità nazionale (e non è perciò casuale che “Stato” designi sia un Paese, una popolazione che occupa un ben definito territorio, sia l’organizzazione politica di una società, o in senso più specifico, l’apparato che consente l’organizzazione politica di una società). Se così non fosse, tra l’altro (ma è osservazione di non poco conto), un individuo potrebbe essere costretto a dare la vita per lo Stato, ma certo non avrebbe alcun “obbligo morale” di farlo, giacché «solamente dal valore superiore del tutto in confronto con quello delle parti può farsi derivare l’obbligo del cittadino di vivere e, se necessario, di morire per il tutto». (7 ) E in guerra è lo Stato a svolgere un ruolo strategico fondamentale, quando tutte le forze produttive e tutte le “risorse umane” del Paese devono concorrere al raggiungimento dell’obiettivo comune. Sicché, la lezione che se ne dovrebbe trarre è che la “coesione” dello Stato non è “data a priori”, ma varia a seconda delle circostanze storiche, poiché una classe dirigente ha, perlomeno in linea di principio, la possibilità di “uni-ficare” l’azione dei molteplici apparati dello Stato, in funzione di un progetto politico condiviso dall’intera comunità.
Sotto questo profilo, le critiche che il comunitarismo rivolge al liberalismo ed all’individualismo, rivalutando l’idea greca, e soprattutto quella aristotelica, dell’ethos comunitario, paiono cogliere nel segno. Nondimeno, anche il comunitarismo , sebbene non sia una corrente di pensiero unitaria, ha il grave limite di sottovalutare il ruolo della sovranità nazionale nel contrastare il “mondialismo”, poiché si lascia sfuggire che il narcisismo identitario delle cosiddette “piccole patrie” (a prescindere dal modo in cui si sono formati gli Stati nazionali e dalla critica di una burocrazia inefficiente) non può non favorire, benché talora in modo inconsapevole, la politica di potenza atlantista. (Si può muovere questa obiezione anche ad Alain de Benoist, cui pure si deve forse la più articolata analisi delle patologie dell’individualismo moderno e della società liberale. Se lo Stato nazionale si è imposto a scapito dei tradizionali legami comunitari, si deve prendere anche in considerazione che le “diverse identità locali” sono ancora presenti come parti di uno Stato nazionale, che pare essere l’unico ostacolo che si frapponga tra l’oligarchia finanziaria “mondialista” e le comunità locali) (8). Si deve però anche ammettere che il tentativo di costruire una autentica entità politica “sovranazionale” non può non essere destinato a fallire (si pensi anche ai danni che derivano da un europeismo grossolano e superficiale, come quello che contraddistingue il nostro Paese), qualora non si capisca (o non si abbia interesse a capire) la necessità di elaborare una strategia geopolitica allo scopo di realizzare un’alternativa multipolare. Si dovrebbe di conseguenza evitare tanto il localismo quanto un ottuso centralismo e rafforzare la sovranità e il potenziale strategico di uno Stato, di modo da poter incastonare l’Economico in una struttura (geo)politica imperniata sui legami identitari e sociali.
Peraltro, la questione della sovranità nazionale, per quegli Stati, come l’Italia, che rischiano di perderla completamente, con conseguenze facilmente immaginabili, deve essere messa in relazione con quella inerente alla “forma” dello Stato, nel senso che la difesa della sovranità nazionale e dell’interesse generale, definito in base a criteri di “appartenenza” (e quindi secondo una concezione del Politico non economicistica, ma fondata su quei principi di giustizia sociale ed equità, senza i quali non vi possono essere né vero consenso né vera coesione sociale) non può non presupporre una”ri-forma” del sistema politico “liberale”. E’ innegabile, infatti, che quest’ultimo sia “veicolo” di quelle “forze mondialiste” che applicano la logica del “divide et impera” non solo a livello internazionale ma anche, e con notevole successo, all’interno di un singolo Paese, facendo leva sullo spirito di fazione, su “quinte colonne” e sulla mancanza di forze politiche “antagoniste”. Un’altra prova che è mera illusione pensare che la riduzione del Politico a pubblica amministrazione – come se un sistema sociale si potesse autoregolare in virtù di meccanismi teleologici, ad un tempo immanenti e metastorici – non sia funzionale alla strategia di determinati “centri di potenza”. Tanto che l’indebolimento della sovranità nazionale, come mostra chiaramente anche la recente storia del nostro Paese, oltre a implicare una gravissima “contrazione” dell’autonomia del Politico, non può non coincidere con la progressiva perdita anche dei diritti sociali e culturali di un popolo.
In particolare, se si prende in esame il nostro Paese, è sempre più manifesto non solo che il degrado istituzionale è giunto al punto di minare le fondamenta stesse dello Stato (il cui ruolo, in primo luogo, dovrebbe consistere nel garantire la convivenza civile mediante l’istituzionalizzazione del conflitto), ma che i partiti non rappresentano altri interessi se non quelli di alcune lobbies, di cui fanno parte non pochi di coloro che dovrebbero servire lo Stato e che invece non si fanno alcuno scrupolo di porsi al servizio di potentati economici stranieri. La lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto scorso al Governo italiano non lascia dubbi al riguardo: indipendentemente da ogni considerazione sull’attuale Governo italiano, il Consiglio direttivo della Bce “propone” (ed è “una proposta che non si può rifiutare”) ai politici italiani di «ritagliare» il nostro Paese in base alle «esigenze specifiche delle aziende» e “consiglia” pure come farlo: con decreto legge e una riforma costituzionale, senza guardare in faccia nessuno, tranne evidentemente gli “amici” della Goldman Sachs e gli “amici degli amici” (9). La democrazia occidentale si rivela “fiction”, mentre infuria la polemica sull’autonomia di Bankitalia, ché ormai quella del Paese la si vuole mettere in liquidazione.
Vero quindi che il re “liberaldemocratico” è nudo, ma, anche dal momento che per i media mainstream è “normale” che il bene comune e la sovranità di un Paese (del nostro Paese, ma certo non solo del nostro) siano “quotati in Borsa” e che siano i “mercati” a decidere ciò che è giusto per una collettività, si è ancora ben lontani dal rendersi pienamente conto che la crisi che attanaglia il “mondo occidentale” (resa ancor più “drammatica” dalla frammentazione sociale e dalla frustrazione delle aspettative dei ceti medi) è prima di tutto effetto di un “mutamento di fase” che penalizza non tanto (e non solo) i Paesi economicamente deboli quanto piuttosto i Paesi che hanno scarsa capacità di “manovra geostrategica”. Afferma perciò, giustamente, Gianfranco La Grassa che «la prima esigenza è quella della formazione in Italia di un polo nazionale [che però] non avrebbe ragione di esistere – nel senso che non avrebbe alcuna incidenza reale – se non fosse dotato degli strumenti tipici di uno stato d’eccezione» e che «esistono stati d’eccezione, in cui occorrono mezzi speciali e d’emergenza per governare i processi e renderli funzionali agli interessi della maggioranza della popolazione abitante in una di quelle zone in cui lo stato d’eccezione si è prodotto». (10) Ora, se non si vogliono ripetere gli errori del passato, è logico che non si possa avere di mira alcuna forma di sciovinismo o di xenofobia (esclusi comunque “a priori” dall’orientamento geopolitico che si vuol difendere), né si ignorino le aberrazioni del totalitarismo (anche se si dovrebbe notare che è proprio della “libera società totalmente amministrata” spogliare l’individuo di ogni “abito” sociale e culturale che non sia quello dell’anonimo e impersonale “si” delle tecnostrutture, sia pubbliche che private). Ma quel che è assolutamente necessario è stabilire «una politica di strategia italiana del tutto autonoma rispetto ad altri potentati stranieri [e controllare] con mezzi ineludibili e pene assai dure di coercizione, che simile politica venga applicata», di modo che la stessa distinzione tra pubblico e privato dipenda dal Politico, giacché «il “pubblico” non è affatto sinonimo di interesse collettivo, generale. Tutto dipende da chi ha le redini politiche e dagli scopi che si propone». (11) Non è allora difficile comprendere che, se si condividono le affermazioni di La Grassa, cade pure la possibile obiezione che quel che vale in guerra non può che valere solo in guerra, dacché lo stato d’eccezione cui si riferisce La Grassa, mostra, come sostiene Carl Schmitt, che vi è sì differenza ma non soluzione di continuità tra la guerra e la “normale” attività politica di uno Stato. In sostanza, quelle condizioni che permettono al Politico di prendere decisioni che impegnano una collettività, ben oltre la concezione liberale dello Stato, non sono solo quelle che valgono in guerra, ma pure, mutatis mutandis, quelle che caratterizzano lo stato d’eccezione.
Epperò non sembra una forzatura ritenere addirittura che sia lo stato d’eccezione ad essere la “regola”, allorquando non è possibile che vi sia un equilibrio (stabile) tra le diverse potenze, dato che una di esse (e la maggiore) persegue un disegno di egemonia globale. D’altra parte, la mediazione politica tra le differenti istanze sociali, nonché l’esigenza di garantire la relativa autonomia dei diversi mondi vitali, non possono non trovare sufficiente “spazio”, qualora l’azione del Politico sia realmente, ad un tempo, nazionale e popolare. Non è allora un problema di (mera) ingegneria costituzionale, ma di formazione di una volontà politica che sappia “ri-definire” ed articolare le istituzioni “democratiche” in vista dell’interesse generale. Inoltre, se da un lato, indubbiamente occorre “dar forma” alla propria “potenza” con mezzi adeguati e perfino “eccezionali”, dall’altro, non si può non tener conto della necessità di “connettere” gli orizzonti spirituali dei differenti popoli (e soprattutto di quelli dell’area mediterranea e dell’Eurasia). Né questo può considerarsi un compito di secondaria importanza (come fosse una sorta di “appendice ideologica” del realismo politico) ai fini di una costruzione culturale di un polo “nazionalpopolare”, avendo presente che questo termine, nella riflessione critica gramsciana, designa quei fenomeni che esprimono valori radicati nella tradizione di un intero popolo, in opposizione al cosmopolitismo e ad un “astratto” (nel senso hegeliano) universalismo. Vale a dire che la valorizzazione delle proprie radici, se non deve essere bolsa retorica, nazionalista o “europeista” che sia, non può essere disgiunta dal riconoscere che difendere l’identità e la dignità degli altri popoli, significa difendere la propria identità e la propria dignità (anche per il semplice fatto che vi è un “nemico comune” da combattere e che i singoli Stati nazionali, tranne eccezioni – quali la Russia o la Cina – , sono troppo piccoli per potersi opporre alla “pre-potenza” del Leviatano). Ed è su questa base che si potrebbe e si dovrebbe costruire un “grande spazio geopolitico”, per porre “termine” alla barbarie “mondialista”.
Pertanto, sebbene sia indubbio che vi è bisogno di aggiornare continuamente la “mappa”, anzi “le mappe” del mondo in cui viviamo, è urgente pure definire e promuovere un saldo ed organico “orientamento culturale” (anche, in un certo senso, “metapolitico”), che sostituisca definitivamente paradigmi ideologici obsoleti, se non si vuole “parlare al vento”, o peggio ancora essere radicalmente fraintesi, oggi che l’industria culturale diffonde una immagine “mistificata” e semplicistica del mondo. Ed a maggior ragione si corre questo rischio quando il sistema educativo “veicola” un sapere che si ritiene debba essere socialmente utile, ma che non pare essere affatto utile a formare degli “uomini completi”. Nell’antica Cina, quando tutto sembrava essere irrimediabilmente destinato a corrompersi, Confucio, non venendo ascoltato dai potenti, decise di ripiegare «su di un piano meno appariscente ma molto più efficace [dedicandosi] all’educazione dei giovani, intesa come preparazione di uomini completi utili al popolo e a sé stessi» (12). Cambiano gli uomini, i luoghi, i tempi e naturalmente le “proporzioni”. Ma l’insegnamento resta. Ed è chiaro. Non si tratta cioè di discutere sulla natura del fuoco, mentre la casa sta bruciando, come dicono i buddhisti, ma di sapere in che direzione si deve andare per mettersi al sicuro. Una prospettiva geopolitica e “geo-filosofica”, del resto, è il necessario “pre-supposto” non solo di un agire strategico consapevole e maturo, ma pure di una “corretta” distinzione tra amico e nemico; una distinzione che è l’essenza stessa, se non dello Stato, del suo fondamento, ovvero del Politico.

Note
1) Vedi http://temis.blog.tiscali.it/2011/01/10/sovranita-federalismo-sussidiarieta-by-de-benoist/ .
2) Ibidem.
3) Ibidem.
4) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/19/brevi-considerazioni-sul-possibile-rapporto-tra-le-presunte-%E2%80%9Cforze-nazionali-italiane%E2%80%9D-ed-il-compito-teorico-pratico-che-ci-siamo-assegnati/ .
5) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/20/fatti-e-riflessioni-i-20-sett-%E2%80%9911/ .
6) Si deve però stigmatizzare la critica volgare, come quella di Popper, della filosfia politica di Hegel, che, al contrario di quel che pensano i liberali “anglofoni” o “anglofili”, non si può considerare come una difesa del totalitarismo; sempre valido, al riguardo, è (a cura di) C. Cesa, Il pensiero politico di Hegel, Laterza, Bari,1979.
7) Così Otto von Gierke, citato in N. Abbagnano e G. Fornero, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino, 1998, p.1043.
8) Assai attento invece a sottolineare l’importanza della sovranità nazionale è il discorso filosofico-politico di Costanzo Preve (di cui vedi anche http://www.eurasia-rivista.org/de-globalizzazione-e-recupero-della-sovranita-nazionale/11354/). Sul comunitarismo e su altri temi trattati in questo scritto ci siamo già espressi in precedenti articoli. In ogni caso, è preferibile peccare di ripetitività, piuttosto che non essere chiari, senza contare che il significato dei concetti cambia a seconda del contesto.
9) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/30/minacce-di-morte/ .
10) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/20/fatti-e-riflessioni-i-20-sett-%E2%80%9911/ .
11) Vedi http://www.conflittiestrategie.it/2011/09/30/che-pena/ .
12) P. Filippani Ronconi, Storia del pensiero cinese, Bollati Boringhieri, Torino, 192, p. 41.
http://www.cpeurasia.eu/1724/sovranita-nazionale-e-alternativa-multipolare

lunedì 5 settembre 2011

TEMPO DI CRISI ED EURASIATISMO

Ogni nostra azione scaturisce da ciò che precede e si intreccia con altre azioni che non dipendono da noi. Non vi è quindi relazione necessaria tra il nostro “pro-getto” e il prodotto del nostro agire. Anche se è inevitabile che vi siano eventi, “fatti”, «la loro successione e i loro esiti costituiscono una rete che trascende costantemente volontà, progetti e attese della soggettività “libera”» (1). D’altronde, è innegabile che vi siano delle decisioni che rendono più o meno probabile un determinato corso di eventi. Ed è pure evidente che vi sono tendenze oggettive e “connessioni di sistema” che favoriscono determinate scelte. Secondo Max Weber «quando l’esclusione ipotetica di alcune componenti causali reca ad un risultato radicalmente diverso da quello del processo reale, si deve concludere che esse hanno un’importanza essenziale nella determinazione delle conseguenze in questione» (2). Talora, vi sono solo due possibilità che si dividono il campo e l’importanza di un evento storico è fondata sulla funzione decisiva che esso può aver esercitato riguardo a queste due possibilità, ma poiché le conseguenze che si ritiene derivino dall’esclusione ipotetica di certe componenti causali sono di varia natura, l’importanza di queste ultime può essere maggiore o minore, a seconda delle circostanze storiche prese in considerazione. Weber riconosce cioè che, sebbene un’azione non consegua necessariamente da una serie causale, una situazione storica è un “campo di possibilità” strutturato in modo tale che difficilmente non può prevalere una decisione in favore di una determinata possibilità.

E’ questo schema concettuale che, per il suo valore euristico (prescindendo dai difficili problemi epistemologici che può implicare), si dovrebbe tener presente, se si vuol comprendere la storia recente dell’Italia, dacché è indubbio che l’attuale debolezza strategica del nostro Paese derivi essenziamente da scelte compiute negli anni Novanta e che consisterono, in particolare, nella (s)vendita della quasi totalità delle nostre principali imprese pubbliche al grande capitale, nazionale ed internazionale, e in una ristrutturazione della Nato e della Ue, che si voleva fossero un baluardo a difesa della libertà e dei diritti politici e sociali dei popoli europei e che invece si sono mutate in strumenti della politica di potenza americana e degli interessi dell’oligarchia atlantista, al di qua e al di là dell’Atlantico. Infatti, è alla fine degli anni Ottanta, allorché giunge a compimento il bipolarismo, che si decide, sostanzialmente, tra due possibilità: da un lato, atlantismo e sionismo come pilastri cardine del nuovo modello unipolare americano, allo scopo di imporre, su scala planetaria, la logica del “turbocapitalismo” e di impedire ad altri “soggetti politici” di poter cambiare le regole del gioco a proprio vantaggio; dall’altro, la rifondazione dell’alleanza tra Europa e Stati Uniti su basi nuove, sia opponendosi al liberismo d’Oltreoceano, assegnando, in modo netto e definito, al Politico il ruolo di “decisore strategico” (tanto in campo sociale quanto in campo economico, tanto a livello nazionale quanto a livello europeo), sia ampliando i margini di azione dei singoli Paesi europei, nell’unica direzione rilevante sotto il profilo geostrategico e geoeconomico, ossia verso Est e l’area mediterranea, di modo da implementare un programma di sviluppo che con il passare del tempo avrebbe probabilmente dato vita ad una Unione europea indipendente dal mondo (anglo)americano, se non addirittura antiatlantista ed antisionista. Certamente un percorso impervio, ma non impossibile, se si considera la reale situazione storica venutasi a creare con la scomparsa dell’Unione Sovietica e di conseguenza pure delle “ragioni” dell’atlantismo non solo sul piano militare, ma anche (e soprattutto) sul piano politico ed economico.

Comunque sia, sarebbe stato relativamente semplice dimostrare come tali “ragioni” fossero del tutto anacronistiche ed addirittura contrarie – se non nel breve periodo, almeno nel medio-lungo termine – agli interessi dei popoli europei, qualora non fossero venute meno, insieme con l’Urss, anche quelle forze politiche” che potevano/dovevano rappresentare ben altre “ragioni”. D’altra parte, se ci si concentra su quanto è accaduto in Italia, si comprende che l’obiettivo principale di forze politiche (in specie dei loro vertici e dei loro quadri) considerate “antagoniste” non poteva non essere quello di “riciclarsi” per continuare a sopravvivere. Al riguardo, non può sorprendere più di tanto nemmeno la trasformazione del Pci – apparentemente repentina, in realtà preparata fin dagli anni Settanta – in “guardia bianca” del capitalismo più arretrato e “reazionario” (gli interessi della Fiat li faceva meglio D’Alema, come ebbe a dichiarare l’Avvocato) e in una “quinta colonna” dell’atlantismo. Ovviamente la complessità del mutamento di fase è innegabile, ma il teatro politico italiano difficilmente poteva rappresentare qualcosa di diverso, giacché i membri della classe politica di allora non vollero o non poterono (sono gli anni di Mani Pulite) sfruttare l’occasione storica per cambiare l’indirizzo (geo)politico del Paese, senza assurde o “irrealistiche” contrapposizioni frontali, ma basandosi proprio sul settore pubblico del nostro sistema produttivo, per guadagnare nuove posizioni strategiche; anche perché il sistema italiano, essendo quasi del tutto privo di autentica sovranità e di capacità decisionale, non avrebbe potuto non svolgere, una volta liquidato definitivamente il “pericolo rosso”, una funzione sempre più marginale e subalterna nei confronti di quella della potenza dominante e dei suoi principali alleati. Del resto, tutta una serie di “accadimenti” (da Mani Pulite al trasformismo dei neofascisti e dei comunisti, dal debito pubblico alla crisi del Welfare, dalla riunificazione della Germania alla dissoluzione dell’Urss ed a quella della Iugoslavia) fece sì che qualunque ostacolo (ché una certa resistenza alcuni politici – tra i più capaci, anche se non con le “mani pulite” – cercarono di farla) si frapponesse alla realizzazione del progetto di ridefinizione politica, economica, monetaria, militare, sociale e culturale del nostro Paese in “chiave atlantista” venisse spazzato via, con il consenso di coloro che avrebbero avuto invece tutta la convenienza a (o il dovere di) contrastarlo. Tanto che ancora oggi si protesta, giustamente, contro i privilegi vergognosi della “casta”, che ha rinunciato a (o è incapace di) governare il mutamento sociale e che rischia di non poter più dirigere alcunché ma di eseguire solo “gli ordini dei mercati”, ma non ci si sa opporre a chi promette di privatizzare gli ultimi residui di sovranità nazionale con la scusa di ridurre il debito pubblico, di eliminare la corruzione e di modernizzare il Paese. Ovvero a chi propone, esattamente come negli anni Novanta, una terapia che si è rivelata essere non solo assai peggiore del male che si doveva curare, ma anche la causa principale, se non l’unica, del declino del Paese e del degrado della vita pubblica.

Ciononostante, sono le differenze rispetto alla situazione di vent’anni fa ad essere ancora più rilevanti delle analogie, ché la scelta decisiva ancora una volta concerne l’essere o il non essere subordinati all’oligarchia atlantista, ma sullo sfondo di una crisi dell’euro – che non è affatto contingente, ma è la crisi di una Ue che è tutto fuorché una “comunità europea” – e in presenza di una sorta di “rovesciamento” del ruolo degli Usa: da superpotenza protesa verso il dominio dell’Eurasia e quindi dell’intero pianeta, a potenza ancora predominante, ma con una base economica troppo fragile per sostenere un gigantesco Warfare State, che pure è (nonostante sia del tutto inadeguato – più per limiti di carattere strutturale che per quelli di singole persone – a risolvere positivamente conflitti di tipo asimmetrico) essenziale perché gli Usa possano svolgere il ruolo di gendarme mondiale, di modo da poter continuare a finanziare il proprio debito con capitali stranieri ed evitare che la “tendenza multipolare” che si va profilando sullo scacchiere globale possa mettere in discussione l’egemonia americana. Tutto ciò però non rende più “indeterminata” l’evoluzione del “campo di possibilità” che riguarda la politica europea e in particolare quella italiana, non solo per i motivi sopraccitati, ma pure per la quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica europea, disposta a tollerare qualsiasi crimine, a patto che lo si compia per difendere i cosiddetti “diritti umani”, anche dopo le innumerevoli soperchierie, razzie, mistificazioni e guerre (nonché stragi) umanitarie delle “forze occidentali”. Nulla insomma sembra “scuotere” la coscienza degli europei, neanche il fallimento delle politiche liberiste che pure incidono sul “corpo vivo” di non pochi di essi; sicché si deve ammettere che atlantismo e sionismo, grazie anche al nuovo corso politico di quella che era la Francia di De Gaulle e al persistere del “nanismo” politico della Germania, possono ancora facilmente condizionare gli equilibri politici e sociali europei.

Tuttavia, non è da escludere che le difficoltà che gli Usa incontrano (e incontreranno) nel rinnovare la propria politica di potenza – tenendo conto anche dello scontro, con ogni probabilità assai più duro di quel che si immagini, tra i diversi “sottogruppi” che compongono l’élite del potere “occidentale” – vengano ad alterare, in modo imprevedibile, i rapporti che sono a fondamento del sistema politico internazionale, tanto da rendere possibile un autentico multipolarismo, che non potrebbe non esercitare, anche indirettamente, una “forte attrazione” perlomeno su parte dell’Europa continentale. In ogni caso, queste “tensioni di struttura”, in quanto espressioni di forze reali che generano e “regolano” i conflitti tra differenti centri di potere, si dovrebbero interpretare senza lasciarsi fuorviare da schemi ideologici del tutto obsoleti, in vista di una diversa configurazione del “campo di possibilità” che caratterizza l’attuale fase storica, anche se sembra già determinato il “senso” da attribuire agli eventi che si ritiene “facciano la storia”. Ci si dovrebbe cioè domandare se la “tracotanza occidentale” non sia il segno di una possibile “inversione di tendenza” per la nota “legge dei contrari” – la “enantiodromia” di cui parla Eraclito, secondo cui ogni cosa sfocia prima o poi nel suo contrario, e della quale forse si dovrebbe tener maggior conto – ma anche se una “strategia del caos” non sia ormai l’unica in grado di “tenere insieme” un “Occidente”, che pare essere più una immagine meramente ideologica del mondo che non una effettiva realtà (geo)politica e culturale, a meno che non designi, in primo luogo, la sfera di influenza della talassocrazia americana. Ed è sotto questo punto di vista che si dovrebbe interpretare pure il sionismo, che ben lungi dal riguardare solo i palestinesi complica enormemente la questione dell’imperialismo statunitense e di una politica europea indipendente da Washington. (Anche per questo motivo la lotta politica tra dominanti non è affatto di poco conto, ché, dopo il fallimento politico e militare in Irak e in Afghanistan, gli Usa, o meglio certi “gruppi d’interesse” americani non possono non cercare di “ri-formare” la strategia israeliana secondo una prospettiva che privilegi un “approccio indiretto”, facendo leva su quei settori del mondo islamico che sono filo-occidentali, senza essere – necessariamente o perlomeno esplicitamente – filo-sionisti; a questo proposito, sono da seguire con la massima attenzione le vicende della variegata galassia dei Fratelli musulmani, nonché della Turchia di Erdogan, per capire se l’Islam potrà evitare una “deriva” atlantista e il fanatismo wahabita ed anti-sciita). Non può essere invece in alcun modo messa in dubbio l’importanza della funzione ideologica del sionismo, che tiene addirittura “sotto schiaffo” la cultura europea, ostacolando qualunque tentativo di smarcarsi dal “mondo occidentale”, facendo gravare sulla coscienza dell’Europa l’immane responsabilità di un passato che non si vuole “oltre-passare”, ovvero si vuole che rimanga “al servizio dello spirito di vendetta” (indipendentemente da ogni considerazione sul revisionismo storico) per giustificare, come gli (intellettuali) ebrei più coraggiosi ed anticonformisti denunciano apertamente, l’aberrante “volontà di potenza” di Israele e delle lobbies sioniste.

Pertanto, anche se si ritiene che la tendenza fondamentale del nostro tempo sia la cosiddetta “occidentalizzazione” del pianeta, l’ “ambiguità ideologica” di tale tendenza è già indicata dalla “ambiguità referenziale” del termine “Occidente”. Tra l’altro, si è anche mostrata priva di fondamento la tesi secondo cui la “globalizzazione” avrebbe portato rapidamente alla scomparsa delle frontiere, facendo retrocedere (tutti) gli Stati nazione ad entità di secondaria importanza, nonché delle guerre, che avrebbero dovuto essere sostituite da operazioni di polizia internazionale del “nuovo ordine mondiale”. Di fatto, se in questi ultimi anni si è confermata l’ipotesi schmittiana della formazione di “grandi spazi”, intermedi tra lo Stato mondiale e i singoli Paesi, si è anche assistito, oltre alla “rinascita” della Russia dopo gli anni bui dell’era Eltsin, al consolidamento ed al rafforzamento di Stati nazione quali, ad esempio, la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia ed il Brasile; ossia ad un fenomeno storico che pare problematico definire “semplicemente” come una “specie di occidentalizzazione”. Ché sarebbe una definizione – al di là della relazione tra modernizzazione e “occidentalizzazione” e di quella tra modernità e postmodernità, o, in altre parole, al di là dei problemi concernenti l’essenza di quel che si intende per “Occidente” – certo assai poco convincente sotto l’aspetto politico; e non solo politico, giacché ciascuna di queste “resistenze” nei confronti del mercato globale è il anche il “pro-dotto” di un determinato “sub-stratum culturale” che, nonostante le molteplici fratture che contrassegnano ogni tradizione, continua a condizionare la lotta politica e sociale. Un “sostrato” che non è affatto assente né in Italia né in Europa, ma che la politica e la stessa intellighenzia europea non sanno più “com-prendere” e che possono solo rimuovere o strumentalizzare (ma che, proprio in quanto “represso”, si manifesta il più delle volte in forme aberranti, dall’islamofobia al narcisismo identitario), per quanto sia particolarmente difficoltoso cancellarlo. In definitiva, dato che è essenzialmente un fenomeno politico e culturale, la “krisis europea” non si è affatto risolta con la fine del socialismo (“reale” o no che fosse), come attesta il ripetersi, benché in modi diversi, del conflitto tra le esigenze di una “ragione pubblica” – interprete di “iconografie identitarie”, di legami comunitari e di molteplici mondi vitali – e gli interessi del “mondo occidentale”, che deve prevenire l’azione di quelle energie storiche che, sebbene siano latenti (perciò non immediatamente riconoscibili e tali da alimentare differenti e perfino “contraddittori” percorsi politici e culturali), costituiscono ancora un orizzonte di senso possibile, nettamente opposto rispetto al “caos organizzato” che “in-forma” il sistema di potere “occidentale”.

Ciò allora significa che non tanto e non solo si dovrebbe badare alla “grammatica politica di superficie” (che pure non è affatto irrilevante), quanto piuttosto alla struttura profonda che la articola, anche se non la determina (ché come ogni “grammatica di superficie” non può che essere “selvaggia”); vale a dire al paradigma in base a cui si prendono le decisioni. Un paradigma però che ha cessato di fornire risposte adeguate ai problemi che esso stesso ha contribuito e contribuisce a creare, anche se solo un ristretto settore della società se ne rende pienamente conto. E’ questa, com’è noto, una situazione analoga a quella che secondo Thomas Kuhn si verifica nella storia della scienza allorché un paradigma scientifico non riesce a spiegare nuove scoperte ed invenzioni. Le numerose anomalie fanno perdere al paradigma il suo carattere di assolutezza e originano una crisi che termina solo quando un altro paradigma sostituisce il precedente. Ed è lo stesso Kuhn a paragonare le rivoluzioni scientifiche alle rivoluzioni politiche: «In una maniera più o meno identica [alle rivoluzioni politiche] le rivoluzioni scientifiche sono introdotte da una sensazione crescente [...] che un paradigma esistente ha cessato di funzionare adeguatamente [...] Sia nello sviluppo sociale che in quello scientifico, la sensazione di cattivo funzionamento che può portare a una crisi è un requisito preliminare di ogni rivoluzione [...] Le rivoluzioni politiche mirano a mutare le istituzioni politiche in forme che sono proibite da quelle stesse istituzioni. Il loro successo richiede perciò l’abbandono parziale di un insieme di istituzioni a favore di altre» (3). Tralasciando il riferimento ad un “soggetto rivoluzionario”, che è assente da un pezzo in Europa, la descrizione della crisi del paradigma dominante coglie invece i tratti salienti del nostro orizzonte storico e ha il merito di mostrare l’impossibilità di un autentico mutamento strutturale senza un “ri-orientamento gestaltico”, che comporta l’introduzione di nuove regole e nuovi metodi, dato che per Kuhn chi «abbraccia un nuovo paradigma assomiglia [...] a colui che inforca occhiali con lenti invertenti. Sebbene abbia di fronte a sé lo stesso insieme di oggetti di prima e sia cosciente di ciò, egli li trova [...] completamente trasformati in parecchi dettagli» (4).

Nondimeno, si deve ammettere che il paradigma “occidentale” ha dimostrato (finora) di essere in grado non di risolvere ma di gestire la “krisis” tramite i media, l’industria culturale, il sistema educativo, il potere del denaro ed il controllo dell’apparato tecnico- produttivo. Peraltro, se si tralasciano gli spezzoni di “ideologie terminali”, le “sintesi” raffazzonate o deliranti, se non criptosioniste e/o criptoatlantiste, è affatto logico – non essendo possibile oggi ignorare che anche la politica interna è di necessità dipendente (e lo sarà ancora di più nel prossimo futuro per ragioni troppo chiare per dover essere spiegate) dai conflitti e dalle strategie geopolitiche – che l’unica alternativa possibile al paradigma ”occidentale” sia l’eurasiatismo, non solo perché è la prospettiva geopolitica “op-posta” rispetto a quella “occidentale”, ma perché, al contrario di quanto si è soliti pensare, difende esplicitamente un multipolarismo globale o, se si preferisce, un policentrismo globale che valorizzi le “differenze”, senza “perdere di vista” la diversa “provenienza storica”. Inoltre, a chi dovesse sostenere che l’eurasiatismo può forse essere significativo per la scienza delle religioni e, in generale, del mondo spirituale, (5) ma che non è “realistico” pensare che sia una “visione geopolitica del mondo” che possa effettivamente “ingranarsi” nella storia europea “qui ed ora”, si potrebbe far notare non solo che vi sono più cose in terra ed in cielo di quante ve ne siano nella testa di chi crede che “reale” sia solo ciò che appare “qui ed ora”, ma pure che sono proprio i “grandi spazi” eurasiatici che sono destinati ad essere dei protagonisti sulla scena internazionale e ai quali “qui ed ora” dovrebbero “ri-volgersi” gli europei, non per negare la propria origine, ma al contrario per ritrovarla «incamminandosi per una strada nuova in quanto alle coordinate storiche [...] lasciandosi alle spalle dilemmi inveterati e paralizzanti» (6). Ed è appunto questa “possibilità storica” che il processo di “occidentalizzazione” dell’Europa non è riuscito (ancora?) a cancellare. Quel che invece può considerarsi un “dato di fatto” è che fin quando l’Europa sarà “saldata” all’Atlantico continuerà ad essere una “nullità politica”. Una scelta che molti europei possono anche condividere, ma le cui conseguenze di carattere economico e sociale non possono che essere quelle che “qui ed ora” attanagliano buona parte di essi. Osserva, giustamente, Gianfranco La Grassa che i “terremoti finanziari” «dipendono dal venire in superficie delle pressioni cui sono sottoposte le varie “falde tettoniche”, in accentuata frizione le une contro le altre», e che «gli sconvolgimenti degli ultimi giorni sono del resto frutto di una crisi che dura da tempo e che non sarà sconfitta a breve; poiché non riguarda la sola economia, e tanto meno la finanza, l’aspetto semplicemente più appariscente e certo “tombale” per la maggioranza dei “poveracci”, bensì assetti dei rapporti di forza che ancora per molto vedranno un conflitto accanito» (6). Un giudizio lucido ed inequivocabile, di un teorico “postmarxista” dei conflitti politici ed economici, a conferma, se ve ne fosse bisogno, sia dell’impossibilità di scindere la funzione economica da quella politica, sia della necessità di comprendere le sfide del nostro tempo alla luce di una concezione geopolitica capace di render ragione della complessità del “campo di possibilità” su cui si fondano le decisioni del Politico, incluse, naturalmente, quelle degli strateghi del grande capitale finanziario.

Note

1) M. Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano, nota 5, p. 122.

2) Vedi P. Rossi, Lo storicismo contemporaneo, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 279.

3) T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, pp. 119-120.

4) Ibidem, p.151.

5) Questione non affatto secondaria, anche perché spesso fraintesa da chi ritiene che il punto debole dell’eurasiatismo consista principalmente nel fatto che Eurasia denoti una tale moltitudine di “cose e persone” che l’espressione “unità spirituale dell’Eurasia” non sarebbe altro che un “flatus vocis” che vorrebbe mettere insieme “cose e persone” che non possono stare insieme. A questo riguardo, Glauco Giuliano scrive che «l’idea di Eurasia, al di là delle determinazioni storico-geografiche, e dei pertinenti progetti conoscitivi, dovrà dunque intendersi come metafora dell’unità spirituale e culturale da ricomporre al termine dell’età cristiana ed in vista dell’oltrepassamento degli esiti di questa», G. Giuliano, Nitartha. Saggi per un pensiero eurasiatico, La Finestra, Lavis (Tn), p. 14 (ma sull’unità spirituale dell’Eurasia in quanto “vox significativa” si vedano anche i numerosi lavori di Claudio Mutti e in specie gli articoli su questo tema pubblicati dalla rivista “Eurasia”).

6) Ibidem, p. 13.

7) G. La Grassa, La mattanza, http://www.worlditaliantalents.com/index.php?option=com_content&view=article&id=1607%3Ala-mattanza-&catid=89%3Aitalia-societa-e-politica-1&Itemid=472

http://www.cpeurasia.eu/